Le piante che non si ammalano La sfida dei Cavalieri delle vigne

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CRONACHE
Martedì 28 Luglio 2015 Corriere della Sera
La buona informazione è cibo per la mente
Il sodalizio Docenti e produttori uniti nella ricerca di viti che resistano
alle malattie, dalla fillossera all’oidio. Grazie alla genetica e alla tecnica
degli incroci, la trasformazione dell’uva regala un prodotto più sano
e più buono. Senza ricorrere a medicine e fitosanitari
VINO
Le piante che non si ammalano
La sfida dei Cavalieri delle vigne
39.700.000
di Luciano Ferraro
Mercato
La produzione di vino
in Italia nel 2014
è stata di 39,7 milioni
di ettolitri, con un calo
del 12% rispetto
al 2013 e del 6% inferiore
alla media 2009-13.
La regione con la maggior
produzione di vini
di qualità è il Veneto,
con 4,2 milioni di ettolitri,
seguita da Piemonte (2,1)
e Toscana (1,7)

Il futuro è
l’evoluzione
genetica
e la buona
scienza può
far superare
le paure
ella biblioteca del Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali della Statale di Milano si radunano i Cavalieri delle Nuove Viti. Sono otto, vengono da università e cantine. Alcuni, come il
professor Attilio Scienza, sono intrepidi della
ricerca, pronti a girare il mondo per un’anfora o
una traccia di Dna che raccontino la storia millenaria del vino. Altri, come Domenico Zonin,
presidente dell’Unione italiana vini, e Marcello
Lunelli di Cantine Ferrari sono misurati imprenditori. È la prima volta che si ritrovano tutti
assieme per definire il fine del loro sodalizio:
creare nuove viti che resistano alle malattie. È
l’inizio di un nuovo capitolo della storia del vino: i capitani dell’industria dei filari finanziano
le università per far crescere piante che inquinano meno e non che producano di più.
Lo scopo di questo sodalizio che esiste solo
nella narrazione giornalistica (tra loro si definiscono più sobriamente «protagonisti dell’innovazione genetica della vite») è ottenere piante
prive di malattie, in modo che le uve trasformate in vino non contengano tracce dei trattamenti usati per evitare guai a volte mortali per la vite, come la peronospora o l’oidio. Con una doppia conseguenza: vino più sano da bere e meno
costoso, grazie alla diminuzione del rischio di
perdita di parte del raccolto e alle minori spese
per spargere zolfo e altre sostanze. Obiettivo
raggiunto. È come se, nel campo del l’olio, si
trovasse una specie di ulivi refrattari alla xilella
che colpisce in Puglia.
Esistono diversi modi per ottenere queste super viti. Alcuni con la tecnica, in uso da secoli,
degli incroci; altri con operazioni genetiche più
complesse.
Attilio Scienza, ordinario di Viticoltura e organizzatore del vertice di Milano, invita a procedere senza timori verso nuove frontiere:
«Qualcuno sostiene che la genetica sia violenza
sulla natura, senza pensare che nell’evoluzione
genetica c’è la nostra evoluzione. Le viti resistenti sono Il futuro».
A che punto siamo? Lo spiega Eugenio Sartori, alla guida dei Vivai cooperativi di Rauscedo,
coop friulana attiva dal 1930, leader mondiale
nella produzione di barbatelle. Sono piccole viti innestate su portainnesti che garantiscono
immunità dalla fillossera, la malattia che fece
strage di viti europee dal 1863 (contro la fillossera il rimedio fu l’incrocio tra le nostre viti e
quelle americane, non intaccate). La coop vende 70 milioni di barbatelle l’anno, è il maggiore
vivaio viticolo al mondo. «Assieme ai lavori di
ibridazione anti fillossera, dal 1965 selezionano
i cloni di molti vitigni — racconta Sartori — .
Ma la forza di questa tecnica si è esaurita, solo
per il Sangiovese ci sono già 130 cloni iscritti al
registro nazionale. Le viti sono migliorate in
questi decenni, però sono rimaste grosso modo
le stesse, mentre si sono evoluti i vettori delle
malattie, funghi e insetti, costringendo a usare
prodotti con nuove molecole, oltre a zolfo e ra-
Con
fitofarmaci
e concimi
nei decenni
abbiamo
indebolito
i vitigni
Potremo
fare una
piattaforma
tecnologica
per lo
scambio di
informazioni
me» (come nelle cure alle persone, con farmaci
nuovi e più potenti contro i virus che evolvono).
Fino a far diventare la viticoltura l’attività agricola con il maggiore uso di fitosanitari.
Da parte di chi vuole bere il vino senza intossicarsi, è cresciuto l’interesse verso un’agricoltura più sostenibile, più «buona, pulita e giusta», secondo la definizione di Carlo Petrini di
Slow food. «Per questo — continua Sartori —
con l’Istituto di Genomica applicata dell’Università di Udine dal 2006 abbiamo iniziato a
studiare varietà di viti resistenti ad altre malattie oltre alla fillossera. In Francia, Germania,
Russia, Serbia lo si sta facendo dal 1870. Ma finora, con gli ibridi ottenuti all’estero e anche in
Italia, il vino non aveva la qualità necessaria. A
Udine siamo riusciti a creare 30 genotipi resistenti a peronospera e oidio (e anche alle gelate, fino a -24 gradi) una decina già pronti,
Fleurtali, Soreli, Julius e alcuni Cabernet, Merlot e Sauvignon. Altri arriveranno presto sul
mercato». Con quali vantaggi? «L’abbattimento dei trattamenti dell’80 per cento, rispettando la tradizione, perché in queste piante i geni
non di Vitis vinifera, quella euroasiatica, non
superano il 4 per cento», spiega Sartori.
E il vino? «Ottimo livello — assicura l’uomo
dei Vivai — comparabile o superiore al vitigno
parentale. Nelle degustazioni alla cieca non si
distinguono il nuovo vitigno da quello d’origine. I viticoltori del Rio Grande, del Prosecco
bellunese o del Collio Sloveno, zone con piovosità elevate che favoriscono le malattie delle viti, sono stati i primi a interessarsi a questa scoperta. Come le aziende che puntano sulla sostenibilità e quelle vogliono ridurre i trattamenti con fitosanitari perché si trovano a
agisce facendo esprimere geni che esistono.
Stati Uniti e Canada hanno autorizzato questa
procedura su mais e colza definendola non
Ogm. L’Europa invece ritiene che questa mutazione debba essere approvata sottostando alle
norme sugli Ogm, anche se non c’è nulla di
transgenico».
Prendiamo un calice di Cabernet Sauvignon.
Di solito profuma di peperone verde. «Sappiamo — dice Mario Pezzotti, ordinario di Genetica agraria all’Università di Verona — che questo
profumo ci arriva al naso grazie a un gene del vitigno che produce un enzima. Con il genome
editing possiamo disattivare questo gene, uno
su 30 mila: e quello che abbiamo nel bicchiere
resta un Cabernet Sauvignon. Possiamo disattivare il gene di un cattivo aroma. Possiamo trasferire il gene resistente da Vitis Vinifera a Vitis
Vinifera, stessa pianta: questa è la Cisgenetica».
Su come funzionino i geni della vite, dalla formazione degli aromi al processo di maturazione, a Verona sono stati fatti passi avanti notevoli,
li seguono ricercatori di tutto il mondo. «Siamo
i leader in questo campo — dice Pezzotti —. Il
prodotto uva può essere innovato. L’Italia può
guidare questa rivoluzione scientifica».
Ci sono vitigni antichi che resistono naturalmente alle malattie, perché hanno sviluppato gli
anticorpi, utili per nuovi incroci. «Nel Caucaso il
vino ha 6.000 anni di storia — racconta Osvaldo
Failla, ordinario di Agricoltura generale all’Università di Milano — da 10 anni collaboriamo
con Georgia, Armenia, Azerbaigian e Uzbekistan. Abbiamo trovato vitigni adatti per vini
moderni, non troppo alcolici, morbidi, non
tannici, da uve che maturano tardi, superando
gli stress estivi, perfette per il cambiamento cli-
A Verona e in un comune del Trentino
si sperimenta la correzione del Dna:
un intervento di microchirurgia disattiva un
gene che porta malattie: «Ma non sono Ogm»
On line
Alla sezione
Expo di
Corriere.it
le nostre
inchieste,
i video
e le infografiche
dedicate
al tema di Expo
ridosso delle abitazioni».
I primi vitigni resistenti sono già stati autorizzati dal ministero dell’Agricoltura, dopo una
lunga trafila che ha portato al cambiamento dei
nomi (via gli aggettivi come Petit, sostituiti da
nomi generici come Kretos, Rytos, Khantus,
Khorus, Eidos, Volos). Le coltivazioni e le vinificazioni avvengono in Italia, Croazia, Slovenia,
Moldavia. Da novembre inizierà la commercializzazione di queste super viti.
Mentre si stappano le piccole bottiglie campione dei vini sperimentali, all’incontro di Milano si apre l’altro fronte dei Cavalieri delle
Nuove Viti: si trova più a ovest, tra San Michele
all’Adige, in Trentino, e Verona. La tecnica si
chiama genome editing, correzione del genoma. Spiega Claudio Moser della Fondazione
Mach: «Viene modificata la sequenza del genoma della vite. Un intervento di microchirurgia
del Dna per disattivare un gene che favorisce lo
sviluppo di una malattia o per potenziare un gene che la combatte. Sul grano si è già testata
questa tecnica, anche per la vite si sta percorrendo questa via». Parliamo di Ogm? Moser lo
esclude: «In questo caso non ci sono inserimenti di geni estranei come per gli Ogm, qui si
matico. Con fonti di resistenza ai funghi e anche
ad altri organismi patogeni». Dice il patologo
Pier Attilio Bianco, direttore del Centro di ricerca sulla vite e sul vino dell’Università di Milano:
«Le viti reagiscono diversamente alle malattie,
siamo interessati ai casi positivi, a quelle viti
che ce la fanno da sole, è l’Europa a chiederci di
eliminare i trattamenti». Informazioni che si
potranno scambiare, aggiunge il professor Vasco Boatto, ordinario di Politica agraria all’Università di Padova, grazie a una «piattaforma tecnologica per l’innovazione applicata al vino, come si è fatto in Spagna. Uno strumento previsto
dalla normativa comunitaria».
I Cavalieri delle Nuove Viti sono convinti che
«questa buona scienza può far superare le paure verso la genetica». «Ora — dice il professor
Scienza — i vitigni resistenti sono una realtà, è
possibile ottenere vini, indicandoli come Igt,
Indicazione geografica tipica. In passato abbiamo abusato della cultura positivista, più concimi, più fitofarmaci e le piante si sono indebolite. Vorremmo tornare a uno stato di equilibrio,
come dicono anche i cultori della biodinamica,
senza rimedi chimici».
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