LA VISIONE ORIENTALISTICA «CLASSICA» DELL’INDIA: ORIGINI, CARATTERISTICHE E PERSISTENZA DI UN’IDEOLOGIA EUROCENTRICA di Michelguglielmo Torri* Le origini della visione orientalistica A partire almeno dalla seconda metà del ’700, le realtà diverse da quella occidentale sono state sussunte sotto un’unica categoria – l’«Oriente» – ed analizzate in base ad un ben definito insieme di presupposti ideologici e di strumenti scientifici. Queste conoscenze ed i presupposti ideologici e metodologici che le informano hanno costituito una branca del sapere scientifico nota, in genere, con il termine di «Orientalismo». L’Orientalismo ha prodotto un numero imponente di opere di natura scientifica e ha esercitato un’enorme influenza sia sul modo in cui gli occidentali vedevano - e tuttora vedono - i non occidentali, sia sul modo in cui i non occidentali interpretano e, di conseguenza, costruiscono la propria identità ed il proprio passato1. *L’autore dichiara sotto la propria responsabilità che il presente testo è conforme alla versione edita, pubblicata in Elisabetta Basile e Michelguglielmo Torri (a cura di), Il subcontinente indiano verso il terzo millennio. Tensioni politiche, trasformazioni sociali ed economiche, mutamento culturale, Centro Studi per i popoli extraeuropei Cesare Bonacossa dell’Università di Pavia/Franco Angeli, Milano 2002, pp. 25-47 1 La critica dell’Orientalismo fatta da chi scrive nelle pagine che seguono è stata influenzata da due importanti lavori di Edward W. Said, Orientalism, Vintage Books, New York 1979, e Culture and Imperialism, Vintage Books, New York 1994, nonché dalla critica in chiave marxista del primo dei due lavori citati, contenuta in Aijaz Ahmad, In theory: classes, nations, literatures, Verso, Londra e New York 1992. Tuttavia, l’influenza delle idee di Said e di Ahmad è stata soprattutto quella di aiutare chi scrive a mettere a fuoco ed a comprendere appieno la valenza delle tesi dei world historians della scuola di Chicago. Sono stati, quindi, i lavori di William H. McNeill e Marshall G.S. Hodgson (questi ultimi mediati anche dalle riflessioni di Edmund Burke III) ad avere un ruolo decisivo nella concezione critica dell’Orientalismo di chi scrive. Da questo punto di vista, ha avuto un ruolo decisivo la lettura dei seguenti lavori: William H. McNeill, The Rise of the West. A History of the Human Community, University of Chicago Press, Chicago 1990 (1ª ed. 1963); Marshall G.S. Hodgson, The Venture of Islam. Conscience and History in a World Civilization (3 voll.), The University of Chicago Press, Chicago 1974 [ed edizioni successive]; id. Rethinking World History. Essays on Europe, Islam, and World History (a cura di Edmund Burke III), Cambridge University Press, Cambridge 1993. Si vedano 1 L’Orientalismo occidentale è nato in India nella seconda metà del ’700, e non per caso, dato che l’India nord-orientale è stata – appunto nella seconda metà del ’700 – il primo vasto territorio del continente asiatico ad essere conquistato ed amministrato da europei. L’Orientalismo, quindi, ha storicamente avuto origine come il tentativo di arrivare ad una comprensione non superficiale di parti sempre più vaste del subcontinente indiano, in modo da poterle amministrare – e sfruttare – in maniera efficiente ed economica2. Inizialmente articolato a proposito dell’India, il discorso orientalista è stato poi gradualmente esteso, con le modifiche del caso, alle altre grandi aree geopolitiche e culturali che, nel corso dell’800, passarono sotto il dominio diretto o indiretto dell’Occidente. Il discorso orientalista, quindi, appare sostanzialmente diviso in due parti: un nucleo valido per l’«Oriente» in generale ed una parte specifica, applicabile, a seconda dei casi, all’India, all’«Islam»3, alla Cina, o a qualsiasi altra «civiltà» o cultura non occidentale. Il nucleo generale del discorso orientalista parte dalla divisione del mondo in due parti: Occidente e «Oriente» (dove, sotto l’etichetta «Oriente», vengono raccolte aree geopolitiche e culturali che, fra loro, non hanno in comune più di quanto ognuna di esse abbia con l’Occidente4). Occidente e «Oriente» sono poi definiti in termini fra di anche: Edmund Burke III, Islam and World History: The contribution of Marshall Hodgson, in «Radical History Review, 39, 1987, pp. 117-123, e una recente traduzione in francese di una serie di saggi di Hodgson, cioè: Marshall G.S. Hodgson, L’Islam dans l’histoire mondiale (a cura di Abdesselam Cheddadi), Sindbad/Acte Sud, Arles 1998. 2 L'opera fondamentale su questo argomento è quella di David Kopf, British Orientalism and the Bengal Renaissance. The Dynamics of Indian Modernization, 1773-1835, University of California Press, Berkeley 1969. Si veda anche, dello stesso autore, Hermeneutics versus History, in «Journal of Asian History», 39, 3, maggio 1980, pp. 495-506. Letta in controluce, l'opera di Kopf è, probabilmente, la più chiara e convincente critica fin qui comparsa del carattere ideologico dell'Orientalismo. fin qui comparsa. Un giudizio che rimane valido anche se lo steso Kopf non sempre (si veda in particolare il suo Hermeneutis versus History cit.) sembra rendersi conto delle implicazioni ultime del suo stesso lavoro di ricerca. Oltre ai contributi del Kopf, sono poi di grande interesse per l’analisi del pensiero orientalista a proposito dell’India i saggi raccolti in Carol A. Breckenridge e Peter van der Veer (a cura di), Orientalism and the Postcolonial Predicament, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1993. 3 In questo testo si usa il termine «Islam» [fra virgolette e maiuscolo] per indicare la visione orientalistica della civiltà islamica. Invece, per indicare in modo neutro la civiltà islamica, si userà il termine islàm [senza virgolette, minuscolo e con accento grafico]. 4 Questa è la ragione per cui mettiamo fra virgolette il termine «Oriente», ma non il termine «Occidente». Mentre, infatti, si può legittimamente sostenere che l’Occidente sia caratterizzato da un’unità culturale di fondo, lo stesso è assolutamente falso nel caso dell’«Oriente». Questo, come si è appena detto, è articolato in una serie di civiltà diverse che, in definitiva, sono tanto lontane fra di loro, quanto lo sono dalla civiltà occidentale. Questo, ovviamente, non significa che non vi siano interrelazioni fra queste varie civiltà e fra queste e quella occidentale, significa solo che l’unico comune denominatore che distingua le civiltà orientali, ponendole a parte dalla civiltà occidentale, è quello – in 2 loro antitetici: l’Occidente, come si è già ricordato, è il regno della storia e della razionalità (o, se vogliamo, dell’emergere della razionalità nella storia); l’«Oriente», invece, è un’area senza storia, nel senso che è dominato da tradizioni presenti da tempo immemorabile, tradizioni che poco o nulla hanno a che vedere con la ragione. In altre parole, l’Occidente è il regno della libertà e non è limitato e coartato nel suo sviluppo da una qualche «essenza» profonda (o, se vogliamo, l’«essenza» profonda dell’Occidente è appunto rappresentata dalla sua capacità di cambiare e svilupparsi lungo parametri razionali); viceversa, l’«Oriente» ha un’«essenza» profonda, rappresentata dal fatto che, al posto della razionalità, esiste la tirannide del costume e l’irrazionalità della religione. Naturalmente, più che della divisione del mondo, si tratta della divisione dell’umanità in due parti. Da un lato vi sono gli «Occidentali» razionali e dinamici, impegnati a modificare il mondo in modo da ampliarne gli spazi di libertà e di ricchezza, dall’altro vi sono gli «Orientali», irrazionali o quanto meno a-razionali, stolidamente prigionieri della tradizione, incapaci di ogni dinamismo ma proni ad occasionali, imprevedibili e, soprattutto, irrazionali scoppi di violenza. Scoppi di violenza che si verificano in particolare come reazione nei confronti dell’inarrestabile e benefica marcia civilizzatrice dell’Occidente5. Quella appena riportata nei suoi tratti più generali è una visione dicotomica dell’umanità, perfezionata e completata nel corso dell’800, cioè in un periodo in cui la cultura occidentale stava impregnandosi in profondità di elementi di carattere razzistico6. Quindi, e non a caso, quella orientalistica è una visione intrinsecamente e profondamente razzista, predicata sulla convinzione dell’irrimediabile non perfezionabilità culturale e umana di quella maggioranza della popolazione mondiale che non ha la fortuna di essere di razza bianca. Si tratta di una visione che, nell’800 definitiva taitologico – che esse non sono Occidente. Quindi, parlare dell’«Oriente» come di un’entità con caratteristiche a sé stanti significa già accettare le categorie interpretative dell’Orientalismo. Se mai, si può legittimamente parlare di una serie di Orienti diversi. 5 È una tesi, questa, che continua ad essere riproposta soprattutto per il mondo islamico. Si veda, ad es., Bernard Lewis, The Roots of Muslim Rage. Why so many Muslims deeply resent the West, and why their bitterness will not easily be mollified, in «The Atlantic Monthly», settembre 1990. Ma, mutatis mutandis, le medesime tesi sono state applicate anche ad altre civiltà non occidentali. Per una rivendicazione del dinamismo delle civiltà asiatiche si veda Kishore Mahbubani, Can Asians Think?, Key Porter Books, Toronto 2001. Mahbubani è un nativo di Singapore, la cui famiglia, come rivela il nome, è originaria del Sind. 6 Per il persistente razzismo degli inglesi in India durante il periodo coloniale è sufficiente leggere i libri di memorie da essi lasciatici o i romanzi e le novelle di argomento indiano di autori britannici, da Kipling agli ormai dimenticati autori di letteratura popolare (in proposito si veda, ad es., Allen J. Greenberger, The British Image of India. A Study in the Literature of Imperialism, Oxford University Press, Londra 1969). Per un'analisi del razzismo, spesso nascosto ma sempre presente, che caratterizzò tanta parte della cultura europea dell'800, si veda Said, Culture and Imperialism cit., passim. 3 (anche se non nel ’700) e nella prima metà del ’900, è stata francamente articolata in termini razziali, cioè razzistici7. Dopo, però, la straordinariamente sanguinaria ed orrendamente devastatrice parabola del nazismo, cioè di una dottrina quintessenzialmente razzista, qualsiasi ideologia articolata in termini razzisti è diventata sospetta e ha perso di rispettabilità politica, ideologica e culturale. Da quel momento, il lato razzista della visione orientalistica è stato abbandonato, o quanto meno nascosto, e vi è stato il ritorno ad una spiegazione «culturale». In un certo senso si è trattato di un «ritorno alle origini», dato che, al momento della sua formazione da parte di studiosi inglesi residenti in India, nella seconda metà del ’700, l’Orientalismo era articolato in termini culturali e, più che sulla dicotomia inferiore/superiore, si basava sull’idea di differenza. Inoltre, ancora all’inizio dell’800, quando l’idea della superiorità della cultura europea rispetto a quella indiana (e, più in generale, rispetto a quella «orientale») venne articolata in maniera non ambigua, negli europei che si occupavano di India (sia come studiosi, sia come governanti, sia come governanti e studiosi) rimase forte l’idea che la superiorità dell’Occidente sull’«Oriente» fosse un fatto contingente, rimediabile da parte dell’«Oriente» nel medio termine, grazie a cospicue iniezioni di cultura occidentale e di moralità cristiana (in particolare protestante). Rispetto ad allora, però, il ritorno alla dimensione culturale del discorso orientalista presenta una differenza di fondo. Negli ultimi decenni, infatti, è diventato sempre più influente a livello scientifico, e sempre più diffusa nell’opinione pubblica occidentale, l’idea che la «cultura» sia qualcosa caratterizzato da un’«essenza» profonda, sostanzialmente immutabile. Di conseguenza, chi fa parte di una certa cultura non se ne può liberare ma, al limite, può semplicemente arrivare a realizzare cambiamenti cosmetici che, come tali, sono assolutamente superficiali, necessariamente temporanei e, in ogni caso, non in grado di cambiare l’essenza profonda di quella determinata cultura8. In sostanza, quindi, come ogni osservatore spassionato può facilmente comprendere, il passaggio dal concetto di razza a quello di cultura, realizzato al fine di mantenere una gerarchia fra le varie civiltà e di spiegare l’irrimediabile immutabilità di tale gerarchia, è un’operazione di carattere mimetico. Così come definire i ciechi «non vedenti» non cambia la sostanza della realtà descritta, la spiegazione «culturale» 7 Per una paradigmatica rivendicazione della superiorità razziale dei britannici nei confronti degli indiani si veda quella fatta da sir James Fitzjames Stephen nell'articolo The Foundations of the Government of India, in «Nineteenth Century», ottobre 1883 [ristampato in C. H. Philips (a cura di), The Evolution of India and Pakistan, 1858-1947. Selected Documents, Oxford University Press, Londra 1962, pp. 57-60]. Sir James fu Legal Member del governo dell'India (1869-72) e giudice dell'Alta Corte indiana (1879-91). 8 In proposito si veda l'importante monografia di Aziz Al-Azmeh, Islams and Modernities, Verso, Londra 1996 (1ª ed. 1993), in particolare il prologo, Muslim «Culture» and the European Tribe. 4 dell’Orientalismo, oggi così in voga, non ne cambia la sostanza discriminatoria e razzista. La visione orientalistica dell’India: le tre componenti fondamentali Quelle fin qui descritte sono le caratteristiche generali dell’Orientalismo. Ma, come si è ricordato, accanto a questo nucleo fondamentale, ogni diversa branca dell’Orientalismo ha costruito una precisa visione del suo specifico oggetto di ricerca: l’islàm, l’India, la Cina, il Giappone, e così via. A questo punto è quindi necessario ricapitolare i tratti essenziali della visione orientalistica dell’India. I tratti essenziali di questa visione sono riconducibili all’idea che l’«essenza» della società indiana è data, storicamente, da tre istituzioni sociali fondamentali: il sistema castale, un’economia di sussistenza basata su villaggi autosufficienti e, per finire, l’induismo (come religione e come modo di vita). Si tratta, inoltre, di tre istituzioni fra loro strettamente interconnesse: l’una giustifica e rende possibile le altre. Fra queste, il prius è rappresentato dal sistema delle caste9. Le caste sono gruppi sociali caratterizzati da endogamia e commensalità, disposti secondo un preciso ordine gerarchico, legato a criteri di purezza e di mancanza di purezza. Il principio endogamico fa sì che qualsiasi individuo nasca e viva all’interno di una determinata casta che, a sua volta, ha una precisa collocazione nella scala sociale. L’appartenenza di un individuo ad una determinata casta non può essere mutata; o, per 9 A parte queste tre idee fondamentali ve ne sono altre, che, anche se strategicamente meno importanti, rimangono rilevanti. In particolare vi sono l’idea di «dispotismo orientale» e quella secondo cui, in «Oriente» (almeno in India e nel mondo islamico), non esisteva la proprietà privata della terra. Ma, nel caso dell’India, esistono concezioni assolutamente contrapposte su cosa costituisse il «dispotismo orientale». Secondo alcuni autori si trattava di una sorta di regime totalitario, dove tutti i poteri erano concentrati nelle mani del monarca; ma, secondo altri, si trattava di un regime dove il monarca aveva in realtà un potere scarsissimo, dato che questo era formalmente limitato dal costume e, di fatto, parcellizzato e distribuito fra le varie componenti della classe dirigente. In altre parole, si tratta di visioni mutualmente contraddittorie, il cui unico elemento comune è dato dal giudizio di valore negativo, cioè l’insistenza sul fatto che il «dispotismo orientale», in qualsiasi cosa consistesse, fosse qualcosa di profondamente negativo ed antitetico al progresso (si noti che in Occidente, le monarchie assolute – che di fatto coincidono con una delle due versioni appena ricordate di «dispotismo orientale» – sono invece considerate dalla critica storica come la fase di congiunzione, inevitabile e storicamente benefica, fra il regime feudale e lo stato moderno). Una discussione del problema del «dispotismo orientale» in questa sede è, quindi, sembrata superflua. Chi volesse approfondire il soggetto, può consultare Ronald B. Inden, Imagining India, Indiana University Press, Bloomington 2000 (1ª ed.1990). Sulla questione della proprietà della terra in India si veda, invece, Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Laterza, Bari 2000, spec. pp. 365-70. 5 meglio dire, l’abbandono della propria casta d’appartenenza (o l’espulsione da essa) comporta il passaggio allo status di fuoricasta, cioè la posizione più bassa e più discriminata della società indiana. Ciascuna casta ha un proprio dharma: i suoi membri, cioè, hanno il dovere di seguire una certa attività sociale, tipica appunto di quella determinata casta. D’altra parte, ciascun individuo nasce in una casta pura o impura, alta o bassa, come effetto della legge del karma. Secondo tale legge, le anime individuali passano attraverso una serie potenzialmente infinita di nascite e di morti e la posizione sociale del singolo (cioè la collocazione castale) in ogni successiva rinascita è determinata dal karma positivo o negativo accumulato nelle vite precedenti. A sua volta, il karma è positivo o negativo nella misura in cui, nella vita precedente, si è seguito, correttamente o meno, il proprio dharma (in altre parole, ci si è attenuti ai doveri sociali imposti dall’appartenenza ad un certo gruppo castale). In sostanza, quindi, non solo l’ordinamento sociale è immutabile e la collocazione in esso degli individui prefissata al momento della nascita, ma sia l’ordinamento sociale nel suo complesso, sia il suo funzionamento, sia il ruolo dei singoli individui hanno precise giustificazioni e sanzioni di ordine religioso. A sua volta, questo sistema sociale può essere mantenuto con facilità proprio perché la popolazione è, in misura preponderante, distribuita in villaggi economicamente autosufficienti. Non solo, quindi, l’unità sociale di base – cioè il villaggio – è sufficientemente piccola perché la comunità nel suo complesso possa controllare da vicino il comportamento dei singoli, ma l’infrazione dei costumi castali comporta sanzioni irresistibili. In un contesto dove la collaborazione socio-economica fra i gruppi castali del villaggio è indispensabile alla sopravvivenza dei singoli, infatti, la possibilità di sfidare i costumi sociali prevalenti è di fatto nulla: la struttura sociale, quindi, è in effetti immutabile. L’insieme sociale risultante dall’interrelazione fra sistema castale, induismo e villaggi autosufficienti ha, poi, due caratteristiche di fondo. La prima è che si tratta di un organismo politicamente fragile, data la suddivisione del corpo sociale in caste. Ma, l’altra faccia della stessa medaglia è che, per quanto fragile a livello politico, tale organismo è sostanzialmente immutabile a livello socio-economico. L’India, storicamente, è diventata preda di invasori stranieri; monarchie e imperi si sono succeduti o hanno convissuto in modo convulso, precario e caleidoscopico. Ma si è trattato di processi di mutamento che hanno coinvolto solo gli strati superficiali della società indiana. A livello profondo, cioè a livello delle piccole comunità autosufficienti di villaggio – il cui unico rapporto con il mondo esterno è dato dal pagamento delle imposte richieste dal potere politico – nulla o pochissimo è mutato da tempo immemorabile. O, quanto meno, quei mutamenti che si sono verificati hanno incominciato a manifestarsi in seguito all’impatto della dominazione europea o, addirittura, dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Secondo una bella e fuorviante metafora, la storia indiana, quindi, è simile ad un oceano in tempesta: mentre la 6 superficie (cioè le istituzioni politiche) sono sconvolte dai venti e dai marosi (le invasioni straniere, il succedersi di regni e di imperi), le acque a pochi metri sotto la superficie (cioé la società indiana nel suo complesso) rimangono immote. Si tratta di una visione che comporta un corollario. Questo è che, se la società indiana è sempre uguale a se stessa, è possibile fotografarla e, a qualsiasi epoca risalga la fotografia, essa rimane sostanzialmente identica alla fotografia presa in un’epoca diversa. Di fatto, secondo gli orientalisti, questa fotografia è rappresentata dai Dharma Shastra, un insieme di raccolte di leggi, poste per iscritto nel III e nel IV secolo d.C. Ciò che è mirabile – e che rappresenta la controprova della correttezza della visione orientalistica – è il fatto che, come afferma un illustre antropologo francese, Louis Dumont, qualora si osservi la realtà dei villaggi indiani di oggi (dove, dopo tutto, vive ancora la maggioranza assoluta della popolazione indiana), vi è una chiara corrispondenza fra le pratiche sociali individuate dalla moderna ricerca antropologica e quelle codificate nei testi canonici della tradizione sanscrita10. Come spiegheremo qui di seguito, però, a differenza di ciò che pensano Dumont e coloro che condividono le sue idee, questa corrispondenza non è frutto del permanere attraverso i secoli di una società immutabile, bensì una delle conseguenze di un insieme di politiche messe in atto dallo stato coloniale, soprattutto nel periodo fra la fine del ’700 e la prima metà dell’80011. Al di là della visione orientalistica della storia indiana La visione orientalistica è stata e continua spesso ad essere enormemente influente. Ma, negli ultimi decenni, la ricerca storica, valendosi anche degli apporti di una serie di altre discipline, in particolare dell’archeologia, ha demolito o radicalmente messo in 10 Louis Dumont, Homo hierarchicus. Le système des castes et ses implications, Gallimard, Parigi 1979 (1ª ed. 1966), passim. 11 Su questo problema, oltre a quanto detto qui di seguito, si veda anche Peter van der Veer, The Foreign Hand, in Breckenridge e van der Veer, Orientalism and the Postcolonial Predicament cit., pp. 24-44. Come ricorda il van der Veer, Louis Dumont, ponendo in luce la correlazione esistente fra l’organizzazione dei gruppi castali da lui studiati e quelle caratteristiche sociali che sono descritte come importanti nei testi canonici sanscriti, ha osservato come ciò non potesse avvenire per «pura coincidenza». In tal modo, l’antropologo francese sottintendeva la permanenza di un ordinamento castale sostanzialmente immutato da tempo immemorabile. Ma, sempre il van der Veer sottolinea come la «configurazione sociale indiana degli anni ’50 (del ’900), che [Dumont] descrive come etnografo postcoloniale, non è affatto il prodotto di una semplice coincidenza ma di una specifica ideologia orientalistica [a specific orientalist discourse] all’interno della storia coloniale». E, continua, «mentre Dumont pensa di aver scoperto l’‘India tradizionale’ attraverso il suo lavoro sul campo, egli, in realtà, ha trovato il prodotto della storia coloniale». Ibidem, pp. 27-28. 7 discussione tutti gli elementi fondanti della visione orientalistica12. Qui di seguito circoscriveremo il nostro discorso all’Asia Meridionale, ma molto di quanto diremo è riferibile, mutatis mutandis, agli altri «Orienti», in particolare a quello formato dal mondo islamico (se non altro, per il semplice fatto che mondo islamico e Asia Meridionale sono due insiemi che, in parte, si sovrappongono). In primo luogo, l’idea stessa che è alla base della visione orientalistica dell’India, cioè che la società indiana – almeno fino alla conquista coloniale – sia stata una società immobile, è dimostrabilmente falsa. Allo stesso modo è dimostrabilmente falsa l’idea che questa società immobile fosse basata su un sistema di villaggi autosufficienti. Una serie di fonti – fra cui, per i periodi più antichi, rivestono particolare importanza quelle di tipo archeologico – ha dimostrato che, storicamente, la civiltà indiana, lungi dall’essere caratterizzata dalla presenza pressoché esclusiva di villaggi autosufficienti e dalla virtuale assenza di città (almeno di città che fossero qualcosa di diverso da centri religiosi o sedi di corti), ha visto lo sviluppo, il declino e la ripresa di fiorenti civiltà urbane. Con «civiltà urbana» intendiamo società che, pur essendo preindustriali, erano caratterizzate dalla presenza di un consistente ed esteso tessuto di centri urbani di varia grandezza. Tali centri urbani, lungi dall’essere esclusivamente luoghi di culto o sedi di corti (cioè, di fatto, accampamenti militari permanenti), erano centri di varia grandezza, sede di una serie complessa di attività economiche ed amministrative. Di conseguenza, tali centri urbani erano caratterizzati dalla presenza di demograficamente consistenti e socialmente importanti strati sociali intermedi, impegnati nella gestione di tali attività. A livello economico avevano particolare importanza i commerci. Questi erano non erano solo commerci locali, ma di media distanza (estesi cioè all’hinterland della città, hinterland che, in certi casi, comprendeva parti piuttosto estese del subcontinente13) e di lunga distanza (cioè estesi al di fuori del subcontinente, e non solo nel resto dell’Asia). Un’importanza analoga aveva la produzione di beni destinati ad alimentare tali commerci. Infine vi era la gestione di una serie di pratiche amministrative, volte non solo a drenare il surplus agricolo prodotto nel settore rurale, ma a commercializzarlo, trasformandolo in metallo prezioso. Questo metallo prezioso, La critica della visione orientalistica dell’India, portata avanti nei seguenti paragrafi, può essere considerata come una sinossi delle idee alla base del volume di Michelguglielmo Torri, Storia dell’India cit. Ad esso si rimanda per ulteriori approfondimenti, anche bibliografici. 13 Per un caso particolare, quello della grande città portuale di Surat nella seconda metà del ’700 (ma i dati sono validi per tutto il periodo successivo al collasso del potere moghul nel Deccan, cioè a partire dagli anni ’20 di quel secolo), si rimanda a Michelguglielmo Torri, In the Deep Blue Sea: Surat and its merchant class during the dyarchic era (1759-1800), in «The Indian Economic and Social History Review», Vol. XIX, nn. 3-4, 1982, pp. 267-299; e id., The Hindu Bankers of Surat and their business world in the second half of the 18th century, in «Modern Asian Studies», 25, 2, 1991, pp. 367401. 8 12 oltre ad alimentare il «consumo vistoso» delle classi dirigenti (il cui strato superiore viveva nelle città), era destinato ad alimentare il commercio di media e di lunga distanza e le attività produttive ad esso legate. I commerci di media e di lunga distanza – e la produzione delle merci che andavano ad alimentarli – sembrano essere stati trainati dalla necessità di procurarsi due beni «strategici», non disponibili nel subcontinente. Il primo (cioè quello la cui richiesta risale più indietro nel tempo, essendo ben visibile già in era antica) è il metallo prezioso. Quest’ultimo era necessario per rendere possibile la circolazione monetaria (attestata da fonti sia amministrative, sia archeologiche). Il secondo, la cui richiesta è documentata quanto meno dalla metà del XIII secolo, è rappresentato dai cavalli da guerra. L’importazione di metallo prezioso presupponeva una rete complessa di interscambi economici a livello intercontinentale. Infatti, i metalli preziosi circolanti in India non erano prodotti localmente ma avevano la loro sorgente in aree geografiche al di fuori dell’Asia. Ad esempio, nell’era antica l’oro circolante in India proveniva dall’impero romano; nell’era moderna (cioè a partire dal ’500), gran parte dell’argento circolante in India aveva la sua fonte originaria nelle miniere sudamericane). L’immissione di questi metalli preziosi nel subcontinente presupponeva, ovviamente, un flusso in senso contrario di merci prodotte in India, da scambiare con tali metalli preziosi. Sicuramente a partire dal ’600, accanto all’argento coniato, vi erano, poi, altri strumenti di scambio, usati soprattutto per le attività economiche quotidiane. Questi strumenti includevano un particolare tipo di conchiglia proveniente dalle Maldive, un particolare tipo di mandorla non commestibile proveniente dalla Persia e, soprattutto, monetine di rame, cioè un metallo importato dal Giappone 14. Di nuovo, tutto ciò presuppone non solo una fiorente economia monetaria in India e flussi commerciali che unissero l’India al resto dell’Asia, ma l’esistenza di strati sociali specializzati nella produzione delle merci scambiate con le conchiglie maldive, le mandorle iraniane ed il rame nipponico. Una parte maggioritaria dei beni prodotti in India, destinati non solo al consumo locale ma anche all’esportazione, consisteva in manufatti tessili di cotone o di cotone misto a seta. La produzione di questi manufatti presupponeva un’organizzazione complessa. Questa comprendeva almeno tre tipi di operatori. In primo luogo vi erano i gruppi castali specializzati in una particolare fase della lavorazione complessiva. Poi vi erano piccoli mercanti-prestatori di denaro che commissionavano e raccoglievano le merci, in genere pagando in anticipo le merci richieste. Infine vi erano gruppi ristretti di grandi mercanti e finanziari (che agivano in partnership), che erano coloro che 14 Su questo argomento, rimane di fondamentale importanza il saggio di Frank Perlin, Protoindustrialization and Pre-colonial South Asia, in «Past and Present», 83, febbraio 1983. 9 acquistavano i beni commercializzati dai piccoli mercanti-finanziatori, in certi casi pagando almeno in parte in anticipo le merci richieste. Quest’ultimo gruppo svolgeva anche il ruolo di intermediazione nei confronti dei grandi mercanti impegnati nei commerci di lunga distanza. Ovviamente, in alcuni casi, i grandi intermediari ed i mercanti di lunga distanza erano le stesse persone. Dato che una parte consistente del commercio di lunga distanza si svolgeva via mare, i grandi mercanti erano spesso anche armatori15. Nel complesso, si trattava di strati sociali presenti sia nelle grandi città, sia – nel caso dei piccoli mercanti e degli artigiani - soprattutto in piccoli centri urbani o in villaggi. Questi ultimi, però, erano lungi dall’essere autosufficienti ed isolati; al contrario, non potevano non essere parte di un sistema economico di grandi dimensioni (tali, in effetti, da estendersi oltre i confini del subcontinente). Per quanto riguarda le monte da guerra, queste furono uno degli strumenti fondamentali nel garantire la rapida conquista della Valle Gangetica da parte dei turcoafghani nel periodo a cavallo fra il XII ed il XIII secolo e la conseguente creazione del sultanato di Delhi. A partire dal XIII e dal XIV secolo, anche le monarchie del Deccan e dell’Estremo Sud, ancora indipendenti dal sultanato di Delhi, si resero conto della necessità di dotarsi di una cavalleria adeguata. Il problema era, però, che le monte da guerra allevate in India, per ragioni a quanto pare climatiche, erano di razza inferiore. Era quindi imperativo importare monte adeguate dal Medio Oriente (dove si allevavano i famosi purosangue arabi). Ma importare cavalli da guerra per equipaggiare gli eserciti di una serie di stati (alcuni dei quali, come il sultanato di Delhi o l’impero di Vijayanagara, di grandi dimensioni) comportava l’impegno di un volume di ricchezza veramente considerevole. In ogni caso, era necessario produrre ed esportare una quantità di merci in grado di controbilanciare l’importazione delle monte da guerra. Nelle città, soprattutto in quelle di grandi dimensioni, esistevano strati sociali specializzati nel finanziare tutte le attività sopra descritte. In certi casi questi strati sociali erano formati da persone che, in contemporanea, gestivano attività commerciali; in altri casi da operatori che si erano ormai specializzati in attività finanziare e, per i quali, i rapporti commerciali, se pur venivano ancora gestiti, rivestivano un ruolo del tutto subordinato. Al pari della civiltà occidentale, quella indiana non fu sempre caratterizzata dalla presenza di un fiorente sistema urbano. Alla graduale espansione dell’epoca antica, infatti, fece seguito un processo di contrazione che incominciò già in era tardo-antica (III Questa descrizione è basata, fra l’altro, sull’analisi in profondità, condotta da chi scrive, dei documenti della East India Company relativi alla presidenza di Bombay e all’insediamento di Surat nel periodo dagli anni ’20 del ’700 fino all’anno 1800. Per una discussione del valore di questa documentazione, si rimanda a Michelguglielmo Torri, Surat, its hinterland and its trade, c. 1740-1800: The British documents, in «Moyen Orient et Océan Indien», 10, 1998, pp. 35-56. 10 15 secolo d.C.) e culminò nella prima fase del periodo medievale (VI-X secolo). Con il 1000 o subito dopo, tale processo subì un’inversione che vide il rifiorire della civiltà urbana nel subcontinente indiano, come, del resto, in Europa ed in altre parti del Vecchio Continente. Sappiamo, inoltre, che, fin da periodi molto antichi, le varie aree urbanizzate del mondo civile, in Asia Meridionale ed altrove, erano collegate fra di loro da fiorenti commerci di lunga distanza. In effetti, il parallelismo dello sviluppo urbano in Asia Meridionale ed in Europa (ma anche fra l’Asia Meridionale e altre parti dell’Eurasia) fa pensare all’esistenza di un unico sistema economico che abbracciava un’area che andava dalla Cina all’Europa Occidentale. Questo sistema, come si è appena detto, era caratterizzato dall’esistenza di importanti flussi commerciali di lunga distanza e, a quanto pare, da un processo di scambio di idee filosofico-religiose16. Tutto questo significa, fra le altre cose, che ciò che caratterizzò l’economia di una serie di zone chiave, in Asia Meridionale come altrove, fu la stretta integrazione del settore rurale e di quello urbano e l’inserimento di entrambi i settori in un circuito commerciale che, come si è detto, abbracciava larghe parti del continente antico. In questo contesto, non è che villaggi autosufficienti o quasi non esistessero; essi, però, rappresentavano la parte meno vitale – e, soprattutto, quella meno importante – del sistema economico. Già di per sé questo pone logicamente in dubbio che il sistema castale potesse avere la capacità di controllo, teoricamente possibile in centri piccoli ed isolati, le cui componenti sociali fossero interdipendenti. È bensì vero che le caste avevano una presenza pervasiva nella società indiana, tanto che esse si trovavano non solo fra coloro che appartenevano alla tradizione indù, ma anche fra i musulmani e i cristiani indiani. Ma non è assolutamente vero che la società indiana nella sua realtà storica sia mai stata organizzata secondo i principî gerarchici indicati nei Dharma Shastra, se non, forse, nel periodo gupta (IV-V secolo d.C.). La posizione effettiva delle caste, infatti, era legata alla ricchezza economica ed al potere politico dei loro membri. In altre parole, i brahmani formavano effettivamente il vertice della società solo in quelle zone ed in quei periodi storici in cui, per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con la «purezza» della loro casta, controllavano la politica e/o l’economia a livello locale. Le caste stesse, poi, lungi dall’essere fisse e immutabili, continuarono a modificarsi nel corso della storia, in rapporto all’evoluzione dell’economia e della politica. In altre parole, il manifestarsi di nuove necessità economiche, politiche o militari portava al parallelo sorgere di caste prima inesistenti, che, ora, si specializzavano nelle nuove funzioni richieste dalla società. In parallelo, il 16 Per un approfondimento di queste tesi si rimanda in particolare a McNeill, The Rise of the West cit.; Janet L. Abu-Lughod, Before European Hegemony. The World System A.D. 1250-1350, Oxford University Press, Oxford 1989; André Gunder Frank, ReOrient. Global Economy in the Asian age, University of California Press, Berkeley 1998. Si veda anche Torri, Storia dell’India cit., passim. 11 venir meno di certe necessità sociali (per esempio, la scomparsa dei commerci di lunga distanza all’inizio del Medio Evo indiano) poteva comportare il cambio di funzione di una certa casta (che passava da una professione castale ad un’altra) e, se la nuova funzione era più umile di quella che era stata in passato, lo spostamento verso il basso della posizione dell’intera casta nella gerarchia castale17. Infine, l’endogamia, che avrebbe dovuto essere il criterio fondamentale, caratterizzante l’appartenenza castale, non era sempre rispettata. Quando le circostanze richiedevano una crescita demografica rapida della casta, i matrimoni da parte di un uomo di quella determinata casta con una donna di una casta diversa erano accettati come perfettamente legittimi ed i rampolli dell’unione in questione erano considerati come appartenenti alla casta del padre. A parte questo, vi è un altro elemento che bisogna sottolineare. Questo è che, prima dell’era coloniale, le caste non svolgevano alcuna funzione organizzativa e di controllo né dal punto di vista economico, né da quello politico, ma, al più, dal punto di vista sociale (soprattutto in quanto reti di scambio di partner matrimoniali 18). Si prenda ad esempio il caso delle due grandi caste guerriere per eccellenza: i rajput ed i maratha. Anche se, occasionalmente, tutti i rajput o tutti i maratha unirono le loro forze nel perseguimento di un progetto politico comune, storicamente questi momenti unitari rappresentano l’eccezione, non la regola. Lo stesso vale per le grandi caste mercantili. Nonostante il tentativo di certi storici di scoprire organizzazioni che raccogliessero e organizzassero politicamente ed economicamente i membri delle grandi caste mercantili, sembra assodato come tali organizzazioni, quando esistevano, avessero un ruolo puramente sociale19. Diversa sembra essere la situazione nel caso delle confraternite contadine impegnate nell’opera di dissodamento di terre vergini. Qui l’interdipendenza delle caste e la capacità di regolamentazione sociale del sistema castale sembrano essere state alte. Ma si trattava pur sempre di un’area marginale della società indiana, quella, cioè, che si collocava, geograficamente e socialmente, nelle aree di frontiera. Anche la realtà castale, quindi, come quella rappresentata dai villaggi autosufficienti, sembra avere avuto caratteristiche completamente diverse da quelle Per un’analisi di fondamentale importanza sul mutamento del sistema castale nel periodo fra la fine dell’era antica e l’inizio del Medio Evo, si veda l’articolo di R. S. Sharma, Problem of Transition from Ancient to Medieval in Indian History, in «The Indian Historical Review», I, 1, marzo 1974. 18 Ma anche questa, come si è appena ricordato, non era una funzione che venisse svolta sempre. 19 Su questo problema si veda, ad es., Michelguglielmo Torri, A Loch Ness monster? The Mahajans of Surat during the second half of the 18th century in «Studies in History», 13, 1, n.s., 1997, pp. 1-18. 12 17 imputatele dall’Orientalismo20. Lo stesso vale per il terzo degli elementi chiave della visione orientalistica, cioè l’idea che esistesse una singola e ben determinata religione, chiamata «induismo». La ricerca storica degli ultimi decenni ha ormai dimostrato che l’induismo non era (e non è) un’unica religione, bensì una tradizione religiosa o, se vogliamo, un insieme di religioni che condividono una serie di elementi comuni più o meno importanti21. Insomma, dire che l’induismo è una religione – come fecero gli Orientalisti e come, sulla loro scia, fa una corrente di pensiero indiana che ha incominciato a diventare influente a partire dagli anni ’20 del secolo appena concluso – è come affermare che esiste una religione «abramica», formata dall’ebraismo, dal cristianesimo e dall’islàm. Ebraismo, cristianesimo ed islàm, infatti, sono tutte religioni monoteistiche che condividono la tradizione profetica del vecchio testamento. In realtà, quindi, le religioni semitiche hanno, fra di loro, almeno altrettanti elementi comuni quanto quelli esistenti fra le varie forme di induismo (alcune delle quali, in definitiva, non sono, a differenza di altre, strettamente monoteistiche; così come alcune delle quali non hanno, a differenza di altre, una visione gerarchica dell’umanità). Storicamente, quindi, la tradizione induista è stata percorsa da una serie di correnti, anche considerevolmente diverse fra di loro. Alcune di queste correnti ipotizzavano l’esistenza di una società castale gerarchica, in cui le caste più alte (in quanto ritualmente più pure) erano le caste brahmaniche. Ma altre correnti svalutavano completamente l’importanza della gerarchia castale, arrivando in certi casi a negare completamente lo stesso ordinamento castale. Quindi, le idee che oggi ci appaiono come tipiche dell’induismo (cioè la visione dell’umanità come articolata in un ordine castale gerarchico, sanzionato da criteri religiosi) sono, in realtà, tipiche di un certo tipo di induismo. Si tratta anche di un certo tipo di induismo che, per le ragioni che indicheremo fra poco, diventò particolarmente influente in epoca coloniale. Esso faceva riferimento soprattutto ai Dharma Shastra, cioè – come si è già ricordato - a raccolte di leggi codificate e messe per iscritto presumibilmente fra il III ed il V secolo d.C. (il periodo coincidente con quello che in Europa aveva visto l’ultima fase dell’impero romano). Questi codici – che registravano l’ideale brahmanico di come la società indiana avrebbe dovuto essere organizzata, ma, con ogni probabilità, non l’effettivo funzionamento di leggi concretamente applicate – descrivevano un sistema sociale rigidamente organizzato in caste, disposte secondo un preciso ordine gerarchico di Per un approfondimento dell’intero problema dell’evoluzione reale del sistema castale, si rimanda all’articolo di Dhirubhai L. Sheth, Caste e classi in India: realtà sociale e rappresentazioni politiche, in AA.VV. L’India contemporanea. Dinamiche culturali e politiche, trasformazioni economiche e mutamento sociale, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1998, pp. 21-48, ed alla bibliografia in esso indicata. 21 Per una discussione di questo problema si rimanda a Richard King, Orientalism and Religion. Postcolonial Theory, India and ‘The Mystic East’, Routledge, Londra 1999. 13 20 natura rituale, santificato e reso immutabile dai precetti dell’induismo. In altre parole, i Dharma Shastra non solo davano l’impressione che in India esistesse e fosse sempre esistita una società gerarchica, ma che questa fosse giustificata da una religione, che, molto tempo dopo, gli europei avrebbero chiamato «induismo». Il fatto che l’induismo gerarchico dei brahmani fosse accolto nel periodo coloniale come il «vero» induismo – e tale, da allora, abbia finito per essere considerato anche dalla maggioranza di coloro che si riconoscono nella tradizione religiosa indù – non dovrebbe, però, oscurare il fatto che, storicamente, esso fu tutt’altro che l’unica forma di induismo (e tale, nonostante tutto, rimane la situazione ancora oggi). Senza soffermarci su un tema assai complicato, vale tuttavia la pena di ricordare, quanto meno, che, in era medievale, l’induismo fu attraversato da importanti movimenti mistici che, a livello teorico e nella prassi, svalutarono in maniera radicale l’importanza delle caste o, addirittura, la legittimità della divisione degli esseri umani secondo regole castali22. Inoltre, anche in periodo coloniale, nonostante l’appoggio dato dallo stato alla visione gerarchica dell’induismo, questo vide il sorgere di importanti movimenti di riforma che negavano ogni validità alle divisioni castali23. Infine, l’enfasi sull’induismo come la religione dell’India – un’enfasi così tipica dell’Orientalismo (anche se poi accettata da molti indù) – oscura un’altra realtà storica della massima importanza. Questa è che, in India, con l’induismo hanno convissuto – e tuttora convivono – altre tradizioni filosofico-religiose che sono tanto indiane quanto l’induismo. Questo vale in particolare (anche se non esclusivamente) per l’islàm e per il cristianesimo. L’islàm e il cristianesimo, infatti, arrivarono in India praticamente in contemporanea alla creazione delle due rispettive religioni24. In conclusione, quindi, differentemente da quanto argomentato dall’Orientalismo: la società indiana non è mai stata una società immobile; il sistema dei villaggi autosufficienti era una parte – e, per lunghi periodi storici, la parte meno importante – dell’economia indiana; il sistema castale aveva caratteristiche completamente diverse da quelle che gli sono state attribuite e, in molti casi, sembra essere stato assai meno importante di quanto sostenuto dall’Orientalismo; Per un approfondimento di questo tema si veda Torri, Storia dell’India cit., spec. pp. 240-246. Ibidem, pp. 418-23, 451-61. 24 Secondo la tradizione, la prima moschea indiana venne fondata nel Kerala da un abitante del luogo che, durante un suo soggiorno in Arabia, era stato convertito dallo stesso profeta Muhammad. Dal canto loro, i cristiani «vecchi» del Kerala fanno risalire la propria conversione alla predicazione dell’apostolo Tommaso. Ovviamente si tratta di tradizioni il cui fondamento storico non può essere stabilito con alcuna certezza. Ma le ricerche più recenti tendono a dimostrare che il cristianesimo si insediò stabilmente in India nei primi secoli della nostra era e che l’opera di apostolato dei missionari shiiti e dei sufi sunniti si svolse indipendentemente e, in alcuni casi, precedette il processo di conquista del subcontinente da parte prima degli arabi e poi dei turco-afghani. 14 22 23 l’induismo non è, in primis, una religione unificata, con le caratteristiche attribuitegli dall’Orientalismo, bensì un fascio di religioni anche considerevolmente diverse; e, per finire, l’induismo, per quanto la tradizione religiosa maggioritaria, è ben lungi dall’essere l’unica tradizione religiosa presente in India. Quando si tiene presente tutto quanto è stato fin qui detto, la conclusione a cui non si può fare a meno di arrivare è che i modelli interpretativi basati sull’Orientalismo hanno un rapporto con la realtà effettuale decisamente tenue. Un rapporto così tenue, in effetti, che un uso acritico dei modelli orientalisti, come unico strumento – o anche solo come strumento privilegiato – attraverso il quale interpretare la realtà indiana non può che essere fuorviante. La visione orientalistica dell’India: da chi è stata creata e come Se, quindi, l’Orientalismo ha un così scarso rapporto con la realtà effettuale, diviene imperativo chiedersi per quale ragione e come esso venne elaborato, perché divenne così influente e perché, nonostante tutto, continui a rimanere tale. La visione orientalistica dell’India, mirabile nella sua armonia, eleganza ed onnicomprensività, venne formulata nella seconda metà del ’700 e nel corso dell’800. I suoi creatori furono essenzialmente funzionari britannici della Compagnia inglese delle Indie Orientali e missionari europei. Entrambi questi gruppi – divisi in certi periodi da reciproche tensioni, ma uniti in altri da rapporti di collaborazione – ebbero come fine quello di cercare di comprendere una realtà immensa, multiforme, rutilante e complessa. Gli amministratori perseguirono questa conoscenza per poter governare in maniera più efficiente; i missionari, al fine di portare la luce della Cristianità a popolazioni «barbare e ottenebrate». Gli uni e gli altri, per realizzare questo loro progetto di comprensione della società indiana, non poterono fare a meno di ricorrere alla collaborazione di dotti indigeni. Da questo punto di vista, il tipo di collaboratori scelti da amministratori e missionari fu cruciale nella creazione della visione orientalistica dell’India. Tali collaboratori, infatti, appartenevano in misura dominante alle caste brahminiche indù e, in proporzione minore, erano dottori della legge musulmani. Nell’uno e nell’altro caso si trattava di specialisti nelle scienze religiose «alte», profondi conoscitori dei rispettivi testi canonici 25. Nell’uno e nell’altro caso, poi, si trattava di persone appartenenti a categorie che non erano state intimamente legate alle classi dirigenti degli stati precoloniali (occupando, se mai, i gradini subordinati della burocrazia). 25 Kopf, British Orientalism cit., passim. 15 In altre parole, gli intellettuali indiani con cui collaborarono gli amministratori britannici e i missionari cristiani, soprattutto nel periodo sotteso fra la metà del ’700 e la metà dell’800, rappresentavano solo una parte dell’intellettualità indigena dell’epoca e, senza alcun dubbio, la parte culturalmente e socialmente più conservatrice. La sezione culturalmente più vivace e socialmente progressista dell’intellettualità indigena, infatti, era rappresentata soprattutto dai circoli dirigenti delle corti degli stati successori dell’impero moghul. Si trattava, cioè, di persone appartenenti ad un ambiente sociale caratterizzato da un clima che oggi si definirebbe multiculturale, i cui membri appartenevano a religioni diverse, erano di regola poliglotti e, come formazione, erano, in linea di massima, non teologi o giuristi, ma amministratori e storici. Come tali, essi erano perfettamente coscienti sia della varietà, dell’indeterminatezza e della porosità delle differenti tradizioni culturali e costumi sociali che caratterizzavano l’India, sia dei processi di mutamento che ne attraversavano la società26. Per ovvie ragioni, la collaborazione con questo tipo di intellettuali venne evitata sia dagli amministratori della nuova potenza imperiale – la Compagnia inglese delle Indie Orientali – sia dai missionari cristiani. Gli uni e gli altri preferirono stabilire un rapporto con quegli intellettuali che non erano parte delle vecchie classi dirigenti e che vedevano il proprio mondo articolato secondo criteri religiosi rigidi ed immutabili. Ovviamente, gli amministratori della nuova potenza imperiale trovarono politicamente più opportuno marginalizzare gli strati sociali che avevano detenuto il potere nel periodo precoloniale, promuovendone altri, che, per ciò stesso, risultassero legati al nuovo sistema di potere. D’altro canto, i missionari, per la loro formazione religiosa, trovarono più facile confrontarsi con altri religiosi, legati ad un’interpretazione «ortodossa» della religione di appartenenza, piuttosto che con intellettuali che sembravano muoversi con estrema facilità fra «religioni» che, dal punto di vista dell’alta teologia, erano radicalmente differenti (come appunto induismo ed islàm). Certamente, il fatto che un indù potesse avere un maestro spirituale musulmano, o che un musulmano potesse avere un maestro spirituale indù, o che indù e musulmani venerassero le tombe degli stessi sant’uomini, o che monarchi indù facessero da patroni a istituzioni religiose musulmane e, viceversa, monarchi musulmani facessero da patroni a istituzioni religiose indù erano cose profondamente sconcertanti per i buoni missionari cristiani (in genere protestanti) che operarono in India fra la metà del ’700 e la metà dell’800 (cioè il periodo formativo dell’Orientalismo). Non stupisce più di tanto, quindi, che questi ultimi cercassero un rapporto intellettuale con seri e dotti teologi – fossero essi musulmani o indù – che, se non altro, avessero le idee chiare sul fatto che, in questo mondo, vi sono religioni diverse e che ognuna di esse è rigorosamente separata dalle altre da una serie di dogmi fondanti. 26 Per un’elaborazione di questi punti si veda Torri, Storia dell’India cit., pp. 377-380. 16 La costruzione di una certa visione dell’India – una costruzione che divenne paradigmatica non solo per l’Indologia ma per l’Orientalismo nel suo complesso – non fu quindi (solo) l’imposizione da parte degli Europei di una certa visione dell’India – e dell’«Oriente» – nei confronti delle popolazioni indigene, ma fu frutto di un rapporto dialogico con certi settori della società indigena27. Naturalmente, questi settori della società indigena operarono attivamente per rimodellare la società indiana secondo le proprie idee, modificando in maniera radicale la realtà effettuale fin lì esistente. Furono soprattutto i pandit (esperti nei testi canonici sanscriti) ad ottenere un immenso successo, convincendo amministratori e missionari che la «vera» India, l’India autentica e immutabile, era quella rappresentata in testi come i Dharma Shastra. Come il regime coloniale diede sostanza ai fantasmi dell’Orientalismo Il successo di questo particolare processo dialogico – che vide impegnati, da un lato, amministratori e missionari europei e, dall’altro, intellettuali indiani (sia indù, sia musulmani), che erano teologi e, spesso, anche giuristi – ebbe poi uno sbocco politico di cruciale importanza nell’opera legislativa da parte della nuova potenza imperiale. Il potere coloniale britannico, infatti, realizzò codici legislativi che recepivano le direttive fondamentali di leggi religiose, sia indù sia musulmane. Si trattava di direttive religiose che raramente o mai erano state parte della prassi giuridica degli stati precoloniali, in particolare nei due secoli e mezzo precedenti la conquista europea28. In sostanza, in India, il risultato socialmente più rilevante del processo di modernizzazione rappresentato dall’introduzione – a partire dalla fine del ’700 – di codici legislativi di tipo europeo fu, quindi, quello di dare l’appoggio della legge a ideologie religiose conservatrici (indù e musulmane) che, fino a quel momento, non avevano potuto contare, se non raramente, sul sostegno del potere statale. Una delle conseguenze di questa decisione politica fu la «brahmanizzazione» della società indiana: i fantasmi ideologici dei teologi, con l’appoggio potente delle leggi coloniali, assunsero una sempre maggior concretezza. Se il diritto coloniale distribuiva le ricchezze guadagnate dal singolo secondo il «tradizionale» diritto di famiglia indù (per cui la ricchezza guadagnata dal singolo era in effetti proprietà della famiglia estesa ed era amministrata dal patriarca che ne era a capo), è chiaro che l’evoluzione verso la famiglia nucleare non poteva che essere bloccata o rovesciata. Di nuovo, se il diritto coloniale 27 Il concetto di rapporto dialogico fra colonizzatori e gruppi di intellettuali indigeni nel «costruire» la visione orientalistica dell'India è mutuata da Eugene F. Irschick, Dialogue and History. Constructing South India 1795-1859, University of California, Berkeley 1994. 28 Con la parziale eccezione dell’operato del padishah moghul Aurangzeb (1658-1707). 17 limitava la possibilità di svolgere certe attività economiche in base all’appartenenza castale, è chiaro che la casta assumeva un’importanza che prima non aveva mai avuto29. Ma né la creazione di un’ideologia, né l’introduzione di nuove leggi basate su tale ideologia sono di per sé sufficienti ad imbrigliare lo sviluppo di una società, in particolare in un’area geograficamente estesa e demograficamente densa come il subcontinente indiano. Il problema fu che, mentre amministratori e missionari europei, in collaborazione con teologi e giuristi indiani, elaborarono la visione «orientalistica» dell’India, e mentre quegli stessi amministratori idearono quei codici legislativi in cui si rispecchiava tale visione dell’India, il concreto funzionamento del sistema coloniale creò – soprattutto nella prima metà dell’800 – quella stessa realtà sociale che gli orientalisti andavano descrivendo. Ancora alla vigilia della conquista coloniale, infatti, la società indiana era politicamente, economicamente e socialmente dinamica. La disgregazione dell’impero moghul aveva portato all’emergere di una serie di stati, molti dei quali apparivano più centralizzati – e più efficienti – di quanto fosse stato l’impero che li aveva preceduti. Questi stati, per quanto in guerra perenne fra di loro – come, del resto, i contemporanei stati europei – sembravano evolversi – di nuovo come gli stati europei – verso un sistema di equilibrio politico a livello continentale. Nonostante una crisi commerciale di grandi proporzioni (che, nel ’700, coinvolse tutta la parte occidentale dell’Oceano Indiano e che non mancò, nella seconda metà del secolo, di influire negativamente sulle stesse fortune economiche della Compagnia inglese delle Indie Orientali), e nonostante le distruzioni legate alla guerra nell’alta vallata gangetica, nel XVIII secolo l’economia indiana attraversò, nella maggior parte del subcontinente, una fase di crescita. Ancora nella seconda metà del ’700, i tessuti di cotone o di cotone misto a seta prodotti in India erano concorrenziali sul mercato mondiale. A parte questo – e a parte alcune zone geografiche, sfavorite dalle vicende politico-militari – il settore agricolo continuò a crescere, in genere sia sotto la spinta delle esigenze di consumo degli stati indigeni, sia sotto quella della domanda internazionale di prodotti quali i tessili e la seta grezza (quest’ultima prodotta in Bengala)30. A livello sociale, nonostante la persistenza o il riemergere di correnti intellettuali che dividevano gli esseri umani in base alla loro 29 David Washbrook, Law State and Agrarian Society in Colonial India, in «Modern Asian Studies», 15, 3, 1981, pp. 649-721. 30 Sull’importanza della seta grezza e dei tessili bengalesi nell’economia indiana ed internazionale fra ’600 e ’700 si vedano Om Prakash, The Dutch East India Company and the Economy of Bengal 1630-1720, Princeton University Press, Princeton 1985, e il dibattito fra Sushil Chaudhuri e Om Prakash in «Modern Asian Studies», 27, 2, maggio 1993, pp. 321-356. Sempre sul medesimo argomento, si veda Sushil Chaudhury, International Trade in Bengal Silk and The Comparative Role of Asians and Europeans, circa. 1700-1757, in «Modern Asian Studies», 29, 2, maggio 1995, pp. 373386. 18 appartenenza religiosa, la cultura egemonica era chiaramente basata sulla convivenza e sulla ricerca degli elementi comuni fra le varie tradizioni religiose. Il sistema castale, infine, appariva fluido e aperto. Alcune delle caste più importanti (ad esempio i maratha) si erano formate in tempi relativamente recenti, attraverso il confluire in un unico gruppo sociale di appartenenti a caste diverse, uniti dal fatto di aver acquisito, attraverso il mestiere delle armi, rispettabilità sociale e agiatezza economica (l’una e l’altra esemplificate dalla concessione del godimento di terre esentasse). Inoltre, in particolare le caste più importanti ricorrevano normalmente alla cooptazione di individui che tecnicamente, secondo le regole dei Dharma Shastra, avrebbero dovuto essere considerati fuoricasta. In altre parole, come si è già ricordato, i rampolli di unioni con donne appartenenti a caste diverse e ritualmente inferiori rispetto a quella del padre, venivano considerati membri a tutti gli effetti della casta di quest’ultimo. Inoltre – come del resto era stato spesso il caso nella storia indiana fin dai tempi più antichi – l’appartenenza ad una determinata casta non preveniva l’ascesa ai pinnacoli del potere politico ed economico31. Tutto ciò cambiò in maniera drammatica nella prima metà dell’800, in coincidenza con l’estensione dell’egemonia inglese a tutto il subcontinente e con l’aumento di efficienza e di onestà della macchina statale creata dalla Compagnia inglese delle Indie Orientali. Questo aumento di efficienza e di onestà, avviato dalle riforme di Lord Cornwallis alla fine del ’700, è in genere visto come il momento in cui si concluse la fase in cui il governo della Compagnia era stato poco più di una maschera legale per le attività predatorie dei suoi funzionari (che, valendosi del potere politico della Compagnia, avevano, fino a quel momento, perseguito come loro fine primario il proprio arricchimento personale). Questo tipo di analisi ha però sempre trascurato il fatto che il tanto lodato aumento di efficienza e di onestà avviato dalle riforme di Cornwallis era finalizzato al perseguimento di obiettivi che nulla avevano a che vedere con il benessere dell’India. La Compagnia delle Indie rimaneva una gigantesca società per azioni, il cui obiettivo ultimo era quello di pagare dividendi ai suoi azionisti in Gran Bretagna, non certo quello di aumentare il benessere collettivo dei suoi sudditi indiani. Direttamente legato a questo 31 Per un approfondimento di queste tesi si rimanda a Torri, Storia dell'India cit., pp. 314-323. Si tratta di tesi che – oltre che sullo spoglio, compiuto da chi scrive, delle fonti primarie inglesi concernenti Surat ed il suo hinterland nella seconda metà del ’700, ed oltre che sul saggio di Perlin, Proto-industrialization and Pre-colonial South Asia cit. – sono basate su C.A. Bayly, Rulers, Townsmen and Bazaars. North Indian society in the age of British expansion, 1770-1870, Cambridge University Press, Cambridge 1983; id., Indian Society and the Making of the British Empire, Cambridge University Press, Cambridge 1988; Stewart Gordon, The Marathas 1600-1818, Cambridge University Press, Cambridge 1993; id., Marathas, Marauders, and State Formation in EighteenthCentury India, Oxford University Press, Delhi 1994. 19 obiettivo primario, ve ne erano poi altri due, di uguale importanza: mantenere alto il livello del proprio apparato militare in India, in modo da proteggere e da espandere i propri dominî in loco; attuare una politica economica che proteggesse la Compagnia dalle gelosie di quella parte maggioritaria della borghesia britannica che non aveva la fortuna di far parte del circolo di azionisti della Compagnia (e che, di conseguenza, era esclusa dal godimento dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento dell’India). Soprattutto il primo e l’ultimo di questi obiettivi (il pagamento dei dividendi agli azionisti, cioè il trasferimento di ricchezza dall’India all’Inghilterra, e il perseguimento di politiche economiche che non entrassero in competizione con gli interessi della borghesia britannica) si tradussero in una politica di spietato sfruttamento dell’economia indiana. Questa politica comportò, fra l’altro, la ristrutturazione dei traffici internazionali dell’India e la contrazione della spesa pubblica (una spesa pubblica che era stata parte integrante degli obblighi dei prìncipi indiani e che, ora, venne radicalmente ridimensionata al fine di realizzare economie che, a loro volta, permettessero l’accumulo di ricchezza da trasferire in Inghilterra). Il risultato ultimo di queste politiche – che, nei loro effetti negativi, furono rafforzate da un’avversa congiuntura internazionale – fu una catastrofica depressione che portò alla contrazione ed alla dislocazione delle attività artigianali, alla scomparsa di una serie di attività commerciali di lunga distanza, al venir meno dell’economia monetaria in ampie zone del subcontinente ed al declino economico di un numero considerevole di città (anche se quest’ultimo processo fu in parte controbilanciato dalla crescita dei tre centri di irradiazione del nuovo potere coloniale: Calcutta, Bombay e Madras)32. In sostanza, quindi, in vaste parti dell’India – precedentemente caratterizzate da una fiorente economia mercantile – vi fu l’emergere di un’economia dominata dalla presenza di villaggi con scarsi contatti con il mondo esterno, che, al loro interno, funzionavano in base all’interscambio – non mediato dal nesso monetario – di attività lavorative33. Questa stessa realtà, descritta dagli studiosi dell’epoca coloniale, venne vista non come Per un approfondimento delle argomentazioni sul collasso dell’economia indiana in corrispondenza del sorgere del colonialismo si rimanda a Torri, Storia dell'India cit., pp. 389-394, 397408. Si tratta di tesi largamente basate sulla reinterpretazione dei dati presentati nelle due opere di C.A. Bayly citate nella nota precedente e sullo studio, condotto da chi scrive, del mutamento dei rapporti commerciali fra il Bengala e Surat nella seconda metà del ’700. Su quest’ultimo punto si veda Torri, The Hindu Bankers of Surat and their business world cit., passim. 33 Solo in un secondo tempo, nel Nord dell’India questo interscambio di beni e di servizi fra i vari gruppi sociali che formavano un villaggio venne legittimato in base ad obbligazioni di carattere rituale e religioso, dando origine al cosiddetto sistema jajmani. Per quanto indicato dagli antropologi del ’900 come un sistema di «grande antichità» (cioè come un’altra delle manifestazioni dell’immutabilità della società indiana), il sistema jajamani nacque, quindi, solo nel tardo ’800. Sulla questione, si veda Peter Mayer, Inventing Village Tradition: The Late 19th Century Origins of the North Indian ‘Jajmani System’, in «Modern Asian Studies», 27, 2, maggio 1993, pp. 357-365. 20 32 il prodotto di una congiuntura recente, in misura dominante determinata dall’azione del governo coloniale, ma come la manifestazione delle caratteristiche di fondo di una società ristagnante e senza storia. La diffusione e la persistenza dell’Orientalismo nel pensiero occidentale Si è già accennato al fatto che l’Orientalismo, nel periodo della sua prima elaborazione, cioè nella seconda metà del ’700, era una visione che, più che sul criterio di inferiorità/superiorità, si basava sul criterio di diversità. L’«Oriente», cioè, era visto come diverso dall’Occidente, non necessariamente come inferiore. Anzi, in molti dei pensatori illuministi contemporanei dei primi orientalisti vi era stato un considerevole rispetto verso le civiltà orientali; un rispetto che, nel caso particolare della Cina, era spesso sfociato in esplicita ammirazione34. Tutto ciò cambiò all’inizio dell’800. Sintomaticamente, questo mutamento si verificò nel momento in cui divenne chiaro che il rapporto di forza militare fra Occidente e «Oriente» si era ormai radicalmente spostato a favore del primo. In effetti, i nuovi rapporti di forza erano tali da far ritenere ormai imminente la rapida conquista di tutto l’«Oriente» da parte dell’Occidente (una conquista presagita da quella inglese di gran parte del subcontinente indiano, negli anni a cavallo fra ’700 e ’800). Dall’inizio dell’800, l’«Oriente» venne categorizzato non solo come diverso, ma anche come «barbaro» ed «irrimediabilmente inferiore». Fu una copernicana rivoluzione intellettuale esemplificata – e, al medesimo tempo, incoraggiata – da un’opera storica destinata a diventare enormemente influente. Intendiamo parlare della History of British India di James Mill, pubblicata nel 1817 a Londra, e destinata a diventare, nei centocinquant’anni circa successivi alla sua pubblicazione, in assoluto il più influente libro sull’India in circolazione. Ma, in definitiva, la visione orientalistica dell’India in particolare e dell’«Oriente» in generale rimaneva una branca specializzata, per definizione «esotica», del pensiero europeo. Tuttavia, nel corso dell’800, l’Orientalismo divenne parte integrante della Weltanschauung europea, permeando di sé anche elaborazioni intellettuali che, a prima vista, poco o nulla avevano a che vedere con la tradizione intellettuale orientalistica. Questo filtrare dell’Orientalismo nel senso comune occidentale fu dovuto alla mediazione di una serie di grandi maître à penser, impegnati, in prima istanza nel costruire una visione nuova del mondo in cui vivevano. Pensatori come Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Karl Marx e Max Weber (solo per ricordare alcuni dei più influenti fra Sulla «sinofilia» europea nel ‘700, si veda Giorgio Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, Rizzoli, Milano 1977, pp. 81-99. 21 34 di loro) sono giustamente ricordati come giganti intellettuali. Ma, nelle loro elaborazioni, Hegel, Marx e Weber (e non solo loro) – parlando dell’«Asia», o dell’«Oriente», o dell’«India» – si servirono delle conoscenze del loro tempo, irrimediabilmente inficiate dall’Orientalismo35. Nel far ciò, questi pensatori spesso usarono l’esotico mondo orientale costruito dagli Orientalisti come il contraltare in base al quale definire tutto ciò che – a parer loro – vi era di buono e di valido in Occidente. L’utilizzo dei loro schemi interpretativi, per quanto innovativi fossero, portò all’accettazione, in genere inavvertita (ciò che, di fatto, rese la cosa più grave), della dimensione orientalista del pensiero di questi autori. In questo modo l’Orientalismo «filtrò» nel senso comune degli europei, in particolare degli europei colti e, spesso, progressisti. Oggi, i lavori di Hegel, Marx e Weber continuano ad essere assai più ampiamente e diffusamente letti – come è giusto che sia – che non quelli degli storici all’avanguardia nello studio delle varie realtà in cui si articola l’«Oriente». Ne consegue che la visione che gli occidentali hanno del «non Occidente» continua ad essere profondamente permeata di idee che, come è stato dimostrato dalla ricerca storica degli ultimi quarant’anni, hanno una corrispondenza scarsa o nulla con la realtà. Ma la persistente vitalità della visione orientalistica non è solo un caso di «blocco intellettuale» spontaneo e di mancata diffusione dei risultati della ricerca più recente. Dopo tutto, l’Orientalismo nacque per controllare politicamente e per sfruttare economicamente il mondo non occidentale, giustificando e legittimando intellettualmente questo stato di cose. Oggi, anche se il vecchio mondo coloniale è ormai tramontato, il «valoroso nuovo mondo» in cui viviamo continua ad essere caratterizzato da un ordine internazionale gerarchico ed ingiusto. Si tratta di un ordine che, per mantenersi, non può basarsi esclusivamente sull’uso della forza, ma deve ricorrere a varie forme di legittimazione. E, ovviamente, l’Orientalismo, sia nella sua versione «classica», sia in versioni nuove, ha continuato ad essere una delle più influenti fra queste forme di legittimazione. -IIL’ORIENTALISMO ECONOMICO E LO SVILUPPO DELL’INDIA di Elisabetta Basile 35 Su un caso specifico, quello rappresentato dal concetto di «modo di produzione asiatico», elaborato da Karl Marx, si veda la seconda parte di questo saggio introduttivo, scritta da Elisabetta Basile. 22 La questione dello sviluppo capitalistico dell’India L’analisi corrente dei processi economici del subcontinente indiano è, in larga misura, dominata da un’impostazione che ha molti elementi in comune con l’Orientalismo classico. Anche quando si richiama a schemi interpretativi marxiani, keynesiani e strutturalisti – anche quando cioè ha una matrice ideologica distante dall’Orientalismo classico – l’analisi economica convenzionale dell’India si concentra sulle forme di immobilismo della società e si propone di identificare i fattori responsabili della lentezza nel ritmo della crescita e della trasformazione. Il prodotto di quest’analisi è una interpretazione dello sviluppo indiano costruita intorno ad un «Orientalismo» di tipo economico, che, anche se «inconsapevole» delle implicazioni ideologiche dell’Orientalismo classico, entra in sintonia con esso, ponendo l’accento sulla specificità dell’India e cercando di spiegare la stagnazione della sua economia di fronte alla forza dirompente del capitalismo. Come l’Orientalismo classico, anche l’Orientalismo economico non riesce a cogliere i segnali di cambiamento che attraversano la società e l’economia indiana nel corso del ’900, né ad individuare la natura e la profondità delle trasformazioni che portano al crescente inserimento del subcontinente nel processo di globalizzazione iniziato con la crisi del Fordismo36. 36 Il termine «Fordismo» viene utilizzato per indicare una particolare fase dello sviluppo capitalistico identificata da specifici equilibri produttivi e sociali. Nel Fordismo la produzione di beni industriali è basata sulla tecnica della catena di montaggio, impiega lavoratori semi-specializzati, e sfrutta le economie di scala di grandi impianti centralizzati. L’accumulazione e la crescita sono assicurate dall’articolazione fra produzione e consumo: la crescita della produzione, dovuta alle economie di scala, si traduce in crescita dei salari e, dunque, in crescita dei consumi. Sul fronte dell’apparato di regolazione, le istituzioni che garantiscono il funzionamento del sistema fordista sono lo Stato, che controlla le politiche macroeconomiche, e il sindacato, che contratta il livello dei salari in relazione alle dinamiche della produttività. Il regime fordista entra in crisi alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, quando, in seguito all’aumento dei prezzi delle materie prime, il prototipo di welfare state keynesiano che sostiene l’accumulazione fordista non può essere più sostenuto dal settore privato. Il regime di accumulazione che si afferma nella fase successiva – correntemente indicato come postFordismo – è caratterizzato da un processo produttivo flessibile, basato sull’impiego di risorse umane e macchinari impiegati in più linee produttive (che genera le cosiddette economie di scopo), sulla diversificazione della produzione e del consumo, e su forme di regolazione decentrate a livello locale, espressione di interessi particolaristici. (Cfr. B. Jessop, Post-Fordism and the State, in A. Amin (a cura di), Post-Fordism. A Reader, Blackwell, Oxford, 1994.) 23 La discussione dell’impostazione orientalistica nello studio delle trasformazioni sociali ed economiche è l’obiettivo di questo scritto. Ci si concentra in particolare sulla controversa questione dello sviluppo capitalistico dell’India, ossia sulla discussione che ha riguardato, da un lato, il livello e le forme di penetrazione del modo di produzione capitalistico nell’economia indiana e, dall’altro, l’impatto che la transizione al capitalismo ha esercitato sugli equilibri sociali e politici. La tesi che si sostiene è: i) che vi sia stato un ritardo nella comprensione della transizione al capitalismo dell’economia indiana; ii) che questo ritardo sia imputabile al confronto che gli analisti fanno del caso indiano con altre esperienze di sviluppo; e che tale confronto abbia portato a diagnosticare l’immobilismo della società indiana, imputandolo a fattori «culturali»; e iii) che il ritardo di comprensione della transizione capitalistica in India si sia tradotto nella difficoltà di cogliere appieno i caratteri del capitalismo indiano, in particolare nel contesto della ristrutturazione indotta dalla crisi del Fordismo nella seconda metà del ’900. Si comincia discutendo le ipotesi sulle quali la visione economico-orientalistica è basata e l’interpretazione che essa produce della trasformazione capitalistica in India. Viene considerato in particolare l’approccio marxista, che indaga i caratteri della transizione al capitalismo; ci si sofferma poi sul concetto di «sviluppo economico moderno» poiché esso costituisce il termine di confronto obbligato per valutare la performance economica dell’India negli anni della sua Indipendenza. Successivamente si mostra come l’enfasi sullo sviluppo economico moderno porta a misinterpretare le specificità dell’organizzazione sociale e produttiva indiana e a sottovalutarne il ruolo nel processo di sviluppo. Infine, si ragiona sulla natura del capitalismo indiano ed in particolare sulla funzionalità delle caratteristiche istituzionali della società e dell’economia per lo sviluppo del mercato. L’India pre-coloniale e il modo di produzione asiatico Uno dei pilastri dell’Orientalismo economico è rappresentato dalla costruzione teorica nota come «modo di produzione asiatico». Questa costruzione è stata al centro del dibattito sulle forme economiche pre-capitaliste tra studiosi in prevalenza marxisti (ma non solo) e, sebbene non vi sia un’opinione concorde fra gli studiosi sull’esatto pensiero di Marx ed Engels sull’Asia e sulle forme di produzione là prevalenti nei secoli precedenti l’avvento del capitalismo37, è indubbio che lo sviluppo del concetto di modo 37 Ad esempio, Gianni Sofri, che ha studiato con particolare attenzione la questione, afferma che non è neppure chiaro il ruolo che il modo di produzione asiatico, e più in generale la riflessione sull’Asia, riveste nell’elaborazione di Marx nel Capitale. Si veda in proposito G. Sofri, Il modo di 24 di produzione asiatico parta dagli scritti dei padri del marxismo, ed in particolare di Marx. Marx cominciò ad interessarsi all’India nel suo ruolo di corrispondente da Londra del New York Daily Tribune nel corso degli anni ’50 dell’’800, durante i quali seguiva da vicino l’evoluzione delle vicende dell’occupazione britannica dell’India38. Tuttavia, le sue convinzioni sull’Asia erano basate sul patrimonio di conoscenza, generale e specifica39, al tempo disponibile, sul quale si innestavano le informazioni che raccoglieva nel suo ruolo di giornalista. Inoltre, la cornice concettuale all’interno della quale si muoveva nella sua elaborazione sull’Oriente era costituita dall’analisi di Hegel, il quale, a sua volta, poggiava le sue riflessioni sulle conoscenze e sulle opinioni del tempo. In altri termini, in una prima fase, l’elaborazione di Marx sull’India non conteneva alcun elemento di originalità, limitandosi a riflettere l’opinione convenzionale sull’argomento. Condivideva, così, le principali opinioni orientaliste dell’epoca: l’Asia (e l’India) era il regno del dispotismo e della schiavitù, della stazionarietà dei rapporti sociali e della stagnazione dell’economia, della rigida divisione del lavoro definita dal sistema delle caste, il quale era una costruzione culturale, prima ancora che sociale40. Quando l’interesse per l’osservazione dei processi economici divenne dominante rispetto all’analisi di tipo culturale, l’elaborazione di Marx (e di Engels) si affinò e si differenziò progressivamente da quella di Hegel. Ciò non implicò un radicale ribaltamento della posizione sostanzialmente orientalista, quanto piuttosto un arricchimento della stessa con osservazioni che si riferivano esplicitamente ai rapporti di produzione. Così, l’accento venne posto sulla stagnazione di paesi che per «migliaia di anni non hanno fatto progressi»41, stagnazione che era direttamente ricondotta al tipo di organizzazione sociale ed economica prevalente. Responsabili dell’immobilismo e dell’assenza di progresso dell’India erano il sistema delle caste – che era considerato un potente fattore di «cristallizzazione» sociale – e il sistema di villaggio – che, per conseguenza della sovrapposizione fra industria ed agricoltura nelle stesse unità produzione asiatico. Storia di una controversia marxista, PBE, Einaudi, Torino, 1969-73, alle pagine 14 e 15. Un’altra analisi – ben fatta, anche se meno ampia e approfondita del lavoro di Sofri – del concetto di modo di produzione asiatico è rintracciabile in Daniel Thorner, Marx on India and the Asiatic Mode of Production, in Contributions to Indian Sociology, IX, dicembre 1966 (ristampato in The Shaping of Modern India, a cura di Alice Thorner, Allied, New Delhi, 1980). 38 Per le edizioni italiane degli scritti di Marx sull’India si rimanda a Karl Marx e Friedrich Engels, India, Cina, Russia (a cura e traduzione dagli originali di Bruno Maffi), Il Saggiatore, Milano 1960 [ed edizioni successive], e a Karl Marx, India, Roma, Editori riuniti 1993. 39 Come uomo colto del suo tempo, certamente Marx era familiare con i resoconti di viaggi in India e con le prime elaborazioni orientaliste commentate nella prima parte di questo capitolo. 40 Per una puntuale ricostruzione del rapporto fra la visione di Hegel e quella di Marx cfr. Sofri, Il modo di produzione asiatico, cit.,. 41 D. Thorner, Marx on India, cit, p. 355. 25 produttive, determinava l’autosufficienza delle comunità locali e, grazie ad essa, consentiva l’isolamento economico, sia a livello locale sia a livello nazionale. Come documenta Daniel Thorner42, per Marx i villaggi indiani erano delle «forme primitive stereotipate» che non avevano nulla di idilliaco e che erano «contaminate dalle distinzioni di casta e dalla schiavitù», le quali definivano una rigida divisione sociale del lavoro43 che costituiva un solido fondamento per il dispotismo orientale44. In aggiunta, un ruolo importante nell’immobilismo della società indiana era giocato anche dall’assenza della proprietà privata della terra. Questi tre fattori di immobilismo – le caste, il sistema di villaggio, e l’assenza di proprietà privata – divennero il nucleo concettuale per identificare le comunità asiatiche «primitive», che Marx considerava particolarmente resistenti al cambiamento. Per questo motivo, quando cominciò a studiare le forme economiche pre-capitalistiche, Marx collocò la comunità orientale al primo posto nella gerarchia delle organizzazioni sociali antiche: una forma di organizzazione sociale che, per l’assenza della proprietà privata, per il forte legame con la campagna e per il peso della comunità, fu definita come «primitiva» in contrapposizione alle forme organizzative dei Greci e dei Romani (in cui la base della società erano l’individuo e il nucleo familiare) che erano considerate come «secondarie»45. Il «modo di produzione asiatico» – ossia l’insieme dei rapporti di produzione osservati nelle comunità orientali – divenne quindi sinonimo di un’organizzazione sociale e produttiva cristallizzata, basata su di un equilibrio molto stabile e capace di sfuggire ad ogni tipo di cambiamento. La condizione necessaria di questo equilibrio era costituita dall’autosufficienza della comunità nella produzione di alimenti, di beni artigianali di consumo e di mezzi di produzione, autosufficienza che era 42 Ibid., pp. 355-357. Secondo Marx, e secondo molti dei teorici dello sviluppo che hanno analizzato l’economia indiana, la divisione del lavoro definita dal sistema castale era rigida poiché vincolava la posizione sociale degli individui alla appartenenza castale e rendeva di fatto impraticabili i cambiamenti di status e di ruolo, scoraggiando così qualunque iniziativa individuale – ad esempio l’imprenditorialità – finalizzata al progresso economico e sociale. 44 Va ricordato, anche se solo rapidamente, che, in linea con la visione orientalistica dominante, Marx riteneva che un elemento fondamentale dell’organizzazione sociale orientale fosse costituito dal governo centrale. Una delle caratteristiche principali del governo centrale, che era funzionale all’esercizio del già menzionato dispotismo, era quella di realizzare e gestire le grandi opere pubbliche necessarie all’organizzazione economica, e tra queste in particolare le infrastrutture irrigue. 45 Marx identificò quattro modi di produzione attraverso i quali ritenne potesse essere ricostruita l’evoluzione dell’organizzazione sociale ed economica: il modo di produzione asiatico, il modo di produzione antico, il modo di produzione feudale e il modo di produzione capitalistico. Cfr. D. Thorner, Marx on India, cit., pp. 368-370, e G. Sofri, Il modo di produzione asiatico, cit., pp. 39 e seguenti. 26 43 considerata come garanzia di un isolamento dal resto del mondo destinato (in assenza di shock esterni) a durare nei secoli. La convinzione che il modo di produzione asiatico identificasse organizzazioni sociali particolarmente arretrate, e soprattutto destinate ad un perenne immobilismo, spiega l’atteggiamento di Marx nei confronti della colonizzazione inglese. Sebbene i termini drammatici della colonizzazione dell’India gli fossero completamente noti46, Marx affidava alla Gran Bretagna la «doppia missione» di «demolire l’antica società asiatica e gettare le basi materiali della società occidentale in Asia». Per Marx, i maggiori veicoli della trasformazione economica erano la diffusione dell’industria e la costruzione delle grandi infrastrutture di trasporto, le quali sarebbero state capaci di rompere gli equilibri del sistema autosufficiente dell’economia di villaggio e di spezzare l’isolamento che garantiva la cristallizzazione dei rapporti sociali indotta dall’esistenza delle caste. In altri termini, la colonizzazione inglese era considerata come un potente fattore di cambiamento – ancorché doloroso – capace di creare le condizioni per il superamento del modo di produzione asiatico e di introdurre il capitalismo in India. Divenuta familiare grazie alla dominazione inglese, la divisione del lavoro definita dall’industria sarebbe stata in grado di liquidare la tradizionale divisione del lavoro basata sul sistema castale, che Marx considerava «un ostacolo fatale» al progresso dell’India. I valori tradizionali dell’India Ma la convinzione che l’India pre-coloniale fosse dominata da un’organizzazione sociale e produttiva che inibiva il cambiamento e il progresso economico, ossia la convinzione che i valori (e le istituzioni) tradizionali fossero responsabili dell’immobilismo economico dell’India, era radicata anche nel pensiero di una vasta gamma di analisti dell’economia e della società che non condividevano l’impostazione marxista. Come acutamente osserva Sanjay Subrahmanyan47, una lunga teoria di eminenti studiosi, a partire da Max Weber, sottolinea che l’Asia (e dunque l’India) è il regno dell’irrazionalità e della tradizione, «un altro mondo» rispetto all’Occidente dove 46 Come documenta un articolo per il New York Daily Tribune sulla Dominazione britannica in India citato da G. Sofri, Il modo di produzione, cit., pp. 32 e 33. 47 In Institutions, agency and economic change in South Asia, pubblicato in Institutions and Economic Change in South Asia, a cura di B. Stein e S. Subrahmanyan, Oxford University Press, Delhi, 1996, pp. 22 e seguenti. 27 invece regna la razionalità e dove vive l’«uomo economico»48. Per Weber, è la religione dell’India, che considera la contemplazione e l’astrazione49 come obiettivi della vita umana, a rendere poco attraente per la popolazione indiana la produzione di merci; ed è il sistema castale stesso, impregnato com’è del concetto di gerarchia, ad apparire estraneo al principio dell’azione individuale che caratterizza la società occidentale, e a cui si deve la rivoluzione industriale50. La costruzione weberiana aggiunge, così, un altro elemento all’edificio orientalista nell’analisi dell’organizzazione socio-economica indiana. Il sistema castale è letto in duplice prospettiva: non è soltanto un sistema di relazioni che definisce una forma di divisione del lavoro cristallizzata, cui l’organizzazione sociale deve adeguarsi, ma è anche, e soprattutto, un sistema di valori – una costruzione intellettuale – che, qualora venga accettato e condiviso, rende l’idea di progresso economico improponibile. In altri termini, le caste non solo delineano un’organizzazione sociale che è basata su una divisione dei compiti e dei ruoli funzionale alla riproduzione di una società statica e autosufficiente, ma definiscono anche un apparato istituzionale – derivato da un sistema di valori – che fa sì che questa divisione del lavoro sia accettata universalmente e che non esistano possibilità di fuga verso sistemi di valori (e organizzazioni sociali) alternativi. Con questi contenuti, l’impalcatura concettuale dell’Orientalismo economico domina lo studio delle prospettive di sviluppo dell’India durante i primi decenni dell’Indipendenza. Il sistema castale e il rituale ad esso collegato sono al centro di una scena di immobilismo e di stagnazione. La responsabilità delle caste (e dell’Induismo) per il mancato sviluppo economico dell’India è diagnosticata in modo concorde sia da studiosi occidentali sia da analisti indiani. Tra i primi, spiccano in particolare Gunnar Myrdal e Immanuel Wallerstein, i quali in lavori di ampio respiro ripropongono argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle di Weber. Gunnar Myrdal, in Asian Drama attribuisce al sistema castale, congiuntamente alle particolari caratteristiche dello Mentre in Asia (anzi in India) vive l’homo hierarchicus (cfr. Luis Dumont, Homo Hierarchicus, cit.). 49 Come puntualmente osserva André Béteille, la leggenda della spiritualità indiana è un altro pezzo importante della costruzione orientalista (cfr. Caste in Contemporary India in Caste Today a cura di C.J. Fuller, Oxford University Press, Delhi, 1996). 50 Va sottolineato che per Weber il sistema castale non è di per sé in contraddizione con la divisione del lavoro alla base del sistema di fabbrica introdotto dal capitalismo; ciò che inibisce la formazione di un capitalismo endogeno, capace di trasformare l’Asia del Sud da economia agricola ad economia industriale, è piuttosto il rituale indù che ostacola fenomeni come l’apprendistato e la partecipazione al mercato, che sono all’origine dell’imprenditorialità. Cfr. D.N. Gellner, Max Weber and the Religion of India, in DN. Gellmner, The Antropology of Buddism and Hinduism. Weberian Themes, Oxford University Press, Oxford, 2001. 28 48 Stato, il fallimento economico indiano51, mentre Wallerstein nella sua analisi dei «world systems» sottolinea il carattere stagnante dell’economia indiana tradizionale nella fase che precede il colonialismo, prima cioè che il subcontinente sia «incorporato» nel capitalismo mondiale52. Ma l’analisi orientalista degli studiosi indiani si spinge ancora più a fondo. L’economista Deepak Lal afferma che il sistema castale, mentre appare come una istituzione funzionale ed efficiente nell’economia di villaggio, diventa un ostacolo al cambiamento non appena l’India entra in contatto con il capitalismo poiché definisce un «equilibrio» basato su un sistema di valori a cui il profitto è sostanzialmente estraneo. Secondo Deepak Lal, dunque, il sistema castale definisce delle condizioni di stazionarietà – il cosiddetto «equilibrio indù» – che spiegherebbero l’assenza di crescita53. Una conclusione analoga è raggiunta da Raj Krishna con la teorizzazione del «tasso di crescita indù», ossia di un tasso di crescita che non può superare un certo (basso) livello perché vincolato dall’organizzazione sociale derivata dall’Induismo. L’immagine dell’India che ci viene consegnata dall’analisi economica è dunque quella di una economia stagnante, imprigionata nella tradizione e nei valori che essa esprime, primo fra tutti il sistema castale. Così, il fallimento dell’industrializzazione, e più in generale della crescita, è imputato a fattori che poco o nulla hanno a che vedere con la struttura e il funzionamento del sistema economico: è cioè un «fallimento culturale». Non vi è spiegazione di questo fallimento se non quella, sostanzialmente circolare, che afferma che l’economia indiana è stagnante perché i valori e le istituzioni indiane definiscono una struttura produttiva predestinata alla stagnazione. Ma vi è di più. Non solo l’organizzazione sociale e produttiva indiana è strutturalmente immobile e stagnante per i fattori culturali che abbiamo fin qui visto, e non solo è rimasta immobile nei millenni precedenti il contatto con gli occidentali nella colonizzazione; ma anche quando questo contatto si è avuto, quando cioè la società indiana ha cominciato ad avere rapporti con il capitalismo, i vincoli culturali hanno continuato ad operare, impedendo (o rallentando) le trasformazioni strutturali necessarie alla crescita. 51 Cfr. G. Myrdal, The Asian Drama: an Inquiry Into the Poverty of Nations, Penguin Press, New York, 1968. 52 In particolare Wallerstein afferma che fino al 1600 l’economia dell’Asia del Sud è stata sostanzialmente stagnante. E sostiene anche che le principali trasformazioni sociali ed economiche avvengono tra il 1600 e il 1700, solo dopo la nascita e il rafforzamento dei legami fra l’area dell’Oceano indiano e l’Europa. Cfr. I. Wallerstein, The Incorporation of India in the Capitalist WorldEconomy, in The Indian Ocean. Exploration and History, Commerce and Politics, a cura di S. Chandra, Sage, Delhi,1987. 53 Cfr. Deepak Lal, The Hindu Equilibrium, vol. I, Cultural Stability and Economic Stagnation, c.1500 BC-AD 1980, Oxford University Press, Oxford, 1988. 29 L’Orientalismo e lo sviluppo economico moderno Per l’Orientalismo economico, la stagnazione dell’India tradizionale è dunque imputabile al sistema di valori prodotto dall’Induismo il quale genera un’organizzazione sociale ed economica scarsamente intaccabile dai processi di crescita e di trasformazione. Ma qual è questa organizzazione sociale? E per quali motivi riesce ad opporsi alla forza trasformatrice del capitalismo? La risposta economico-orientalista a questi interrogativi fa riferimento alle «deviazioni» che si osservano nell’economia tradizionale dell’India rispetto alla struttura sociale e produttiva propria dell’Occidente capitalistico54. Il primo indizio di arretratezza economica dell’India è l’assenza delle classi sociali che invece costituiscono la base della stratificazione della società capitalistica. L’assenza delle classi dipende, congiuntamente, da tre ordini di fattori: la non esistenza della proprietà privata; lo stato di quasi-schiavitù di alcuni individui determinato dall’ordine castale; l’organizzazione produttiva basata sull’economia di villaggio. L’ordine castale nega la divisione in classi, imponendo invece un tipo di stratificazione diverso che poggia sul sistema di valori espresso dalla religione. Tale forma di stratificazione sociale è accettata universalmente proprio perché è ratificata dalla religione; e trova un altro elemento di supporto nel sistema di villaggio che attribuisce alle relazioni tra individui un carattere prettamente paternalistico. Infine, l’assenza della proprietà privata concorre a sostenere l’ordine castale poiché esclude altri fattori di differenziazione tra gli individui. Questa situazione contrasta con l’organizzazione della società capitalistica in cui esiste la proprietà privata della ricchezza e la divisione in classi è definita sulla base del controllo da parte delle singole categorie di individui sui mezzi di produzione. La società capitalistica è basata sulla divisione del lavoro definita sulla base delle esigenze dell’accumulazione, che richiede un continuo aumento della produttività delle risorse attraverso la specializzazione. La prima e basilare forma di divisione del lavoro è quella che si osserva tra i settori e nello spazio: nel corso della trasformazione capitalistica, l’attività agricola si separa progressivamente dalla manifattura, sia nell’uso delle risorse umane, sia nell’occupazione degli spazi. L’industria si concentra progressivamente nelle città, che diventano centri di produzione, oltre che centri di commercio e di controllo politico-culturale. Viceversa, nella società orientale primitiva, le città hanno prevalentemente un ruolo culturale e religioso, e l’attività produttiva – sia per la produzione di alimenti e di materie prime, sia per la produzione di manufatti – rimane localizzata nella campagna. A questa forma di divisione del lavoro territoriale e 54 Per discutere queste deviazioni viene qui utilizzata la classica analisi di M. Dobb, Studies in the Development of Capitalism, Routledge & Kegan Paul, London, 1963. 30 settoriale si aggiunge la divisione sociale del lavoro. Mentre la divisione del lavoro tra i settori, con la concentrazione dell’industria nelle città, consente l’introduzione del sistema di fabbrica e, con esso, l’adozione delle innovazioni, la divisione sociale del lavoro accentua la professionalità degli individui e consente l’aumento della produttività delle risorse. Nella società capitalistica, dunque, la localizzazione della produzione e la divisione del lavoro, tra settori e tra individui, rispondono ad esigenze maturate nella sfera economica, e non alla necessità di ratificare socialmente una gerarchia definita su base religiosa, come invece accade nella società orientale. L’economia capitalistica è dinamica, mentre invece quella primitiva asiatica è statica. Questa differenza si osserva a due livelli. Il primo è determinato dall’introduzione della scienza nella produzione sotto forma di tecnologia. Il secondo è rappresentato dagli spostamenti delle risorse. Si hanno spostamenti di risorse nello spazio – di cui si è già detto commentando la separazione fra i settori – e spostamenti di risorse all’interno dei settori. Gli spostamenti delle risorse fra i settori si osservano nei processi di aumento della scala della produzione: nell’economia capitalistica la produzione è concentrata in imprese sempre più grandi, cui corrisponde una progressiva contrazione del numero delle imprese piccole a gestione familiare. Questi processi di concentrazione attribuiscono un carattere dinamico alle varie forme di divisione del lavoro su cui si basa il capitalismo, determinando una situazione che contrasta nettamente con l’immobilismo di una divisione del lavoro su base religioso-gerarchica . Gli spostamenti delle risorse nei settori e nello spazio sono alla base della trasformazione capitalistica che ha come sbocco lo «sviluppo economico moderno»55. Questa espressione identifica lo «stato» raggiunto da una economia che ha attraversato con successo la «trasformazione strutturale», ossia che ha sperimentato un’ampia ridefinizione degli equilibri fra i settori, raggiungendo in tutti un elevato livello di produttività delle risorse. Il processo che guida la trasformazione strutturale è l’industrializzazione, e lo sviluppo economico moderno è il prodotto delle trasformazioni ad essa associate che hanno un impatto sia sull’organizzazione produttiva sia sull’organizzazione sociale56. Protagonista del processo di industrializzazione è l’impresa capitalistica, orientata all’aumento della produttività delle risorse attraverso 55 Simon Kuznets utilizza per primo questa espressione per descrivere la situazione dei paesi industrializzati (cfr. S. Kuznets, Modern Economic Growth: Rate, Structure and Spread, Yale University Press, New Haven, 1966); il lavoro di Kuznets ha fornito la base per l’analisi strutturalista sviluppata da H. Chenery, S. Robinson e M. Syrquin nel famoso libro Industrialization and Growth, Oxford University Press, New York, 1986. 56 Tra queste trasformazioni si ricordano in particolare: la contrazione del settore agricolo, la crescita qualitativa e quantitativa delle città, il cambiamento dei modelli di consumo e la modernizzazione della struttura sociale, la crescita dell’impiego dei prodotti intermedi nella produzione di manufatti e di merci agricole, la crescita degli investimenti, la concentrazione dell’industria. 31 l’aumento della scala della produzione e l’inserimento del progresso tecnico. L’evidenza empirica suggerisce che i processi alla base della trasformazione strutturale si osservano con modalità che si ripetono regolarmente in ogni esperienza di industrializzazione. Essi definiscono cioè un «paradigma» con cui le esperienze dei singoli paesi possono essere confrontate. Così, il concetto di «sviluppo economico moderno» è definito sulla base delle «regolarità» della crescita – ossia dell’insieme delle trasformazioni della struttura economica osservate sistematicamente nelle diverse esperienze. Le esperienze dei paesi che «arrivano prima» alla maturità industriale diventano così il termine di confronto «naturale» per i paesi «che arrivano dopo». Nei suoi termini generali, questo confronto prescinde dalle differenze culturali esistenti fra le due situazioni e presuppone che la trasformazione della struttura economica possa riprodursi nei tratti principali, malgrado i condizionamenti della sovrastruttura sociale e ideologica. Ciò implica che si ipotizzi l’esistenza di un sentiero di trasformazione capitalistica che costituisce il «modello» per le esperienze dei singoli paesi. Il confronto con questo modello assume che: i) il successo della trasformazione capitalistica sia subordinato alla presenza di particolari dinamiche economiche e sociali osservate nei paesi di prima industrializzazione57; ii) che l’assenza di (alcuni di) questi processi – o la loro incompletezza – comporti un giudizio negativo sulla performance economica; e iii) che, a seconda del tipo e del numero di «deviazioni», questo giudizio possa indicare o l’immobilismo o diversi gradi di arretratezza. Si tratta comunque sempre – è il caso di sottolinearlo qui con forza – di un giudizio «relativo» basato su di modello costruito su di un numero limitato di esperienze specifiche, le quali sono avvenute in condizioni di tempo e di spazio sostanzialmente irripetibili, in paesi caratterizzati da strutture sociali molto distanti. La conclusione di questo discorso è che l’affermazione che un paese è immobile o stagnante è di regola il prodotto di un confronto con una situazione che è l’esito di un processo di sviluppo e di cambiamento spesso non esportabile al di fuori del contesto in cui viene inizialmente osservato. La convinzione – ripetutamente espressa con riferimento ai paesi del subcontinente indiano – che un’economia sia immobile o stagnante, o anche semplicemente arretrata, dipende dunque dal termine di confronto che si è individuato, il quale «per costruzione» è definito come dinamico e sviluppato. Si tratta certamente di un giudizio affrettato, oltre che superficiale, che non tiene conto dei condizionamenti della struttura sociale che spesso rendono improponibili i cambiamenti ricercati, nei tempi e nei modi considerati «normali». 57 Tra queste in particolare vanno sottolineate: il superamento delle relazioni di produzione precapitalistiche, la formazione delle classi sociali e la modernizzazione della struttura sociale, la crescita e la concentrazione dell’industria; la contrazione e la modernizzazione dell’agricoltura; la contrazione del settore informale; la formazione dei mercati dei fattori e dei prodotti (compreso il mercato del lavoro); l’apertura agli scambi. 32 Il peccato originale dell’analisi economico-orientalista dell’India è dunque quello di avere giudicato immobile e stagnante un’economia in cui non si osservavano i processi di cambiamento paradigmatici e di avere considerato come replicabile nel caso del subcontinente indiano lo stesso percorso di sviluppo sperimentato dai paesi europei di prima industrializzazione. Ma qual è il sentiero di sviluppo effettivamente seguito dall’economia indiana? È vero, come dicono Marx e Wallerstein e un vasto numero di studiosi, che l’India è stata immobile per migliaia di anni prima di entrare in contatto con l’Occidente con il processo di colonizzazione? Quali sono le caratteristiche economiche e sociali che rendono «anomalo» lo sviluppo economico indiano? E infine è corretto sostenere che il sistema castale e, più in generale, la struttura sociale indiana abbia bloccato il processo di sviluppo? Processi di cambiamento nell’India pre-coloniale La ricerca degli ultimi due decenni ha dimostrato che molte delle affermazioni dell’Orientalismo economico non trovano fondamento né nella storia né nella realtà attuale del subcontinente indiano. Gli storici dell’India pre-coloniale hanno raggiunto due conclusioni di primaria importanza per il nostro discorso, e cioè: i) che nella fase precedente la colonizzazione, in particolare nel corso del ’600 e del ’700, la struttura economica indiana era tutt’altro che immobile e stagnante; e ii) che nell’organizzazione dell’economia e nella società si osservavano dei processi di cambiamento in molti casi strutturalmente diversi da quelli registrati nei paesi europei nella fase pre-capitalistica58. Innanzitutto, sono state messe in discussione le convinzioni consolidate in merito alla base dell’economia dell’India tradizionale, e cioè il sistema di villaggio. Dai lavori degli storici è emerso che l’economia di villaggio non era uniformemente basata sul 58 La letteratura su questo punto è abbondante. Per alcune riflessioni di ordine generale, si vedano: B. Stein e S. Subrahmanyan, Introduction, in Institutions and Economic Change in South Asia, a cura di B. Stein e S. Subrahmanyan, Oxford University Press, Delhi, 1996; C.J. Baker, An Indian Rural Economy 1880-1955, Clarendon Press, 1984; M. Torri, Storia dell’India, cit.. Su aspetti specifici più specifici vedano anche: M.H. Gopal, Tipu Sultan's Mysore. An Economic Study, Popular Prakashan, Bombay 1971; Asok Sen, A Pre-British Economic Formation in India of the Late Eighteenth Century: Tipu Sultan's Mysore, in Barun De (a cura di) Perspectives in Social Sciences I. Historical Dimensions, Oxford University Press, Oxford, 1977 M. Torri, In the Deep Blue Sea: Surat and its merchant class during the dyarchic era (1759-1800), in «The Indian Economic and Social History Review», Vol. XIX, nn. 3-4, 1982, pp. 267-299; id., The Hindu Bankers of Surat and their business world in the second half of the 18th century, in "Modern Asian Studies" 25, 2, 1991, pp. 367-401. Per un inquadramento di ordine geneale si veda A.G. Frank, ReOrient. Global Economy in the Asian Age, University of California Press, Berkeley, 1998. 33 rapporto paternalistico descritto con il nome di «jajmani», all’interno del quale la divisione del lavoro era imposta dal sistema castale; è stato dimostrato invece che, in molti contesti, le transazioni economiche passavano per il mercato. Questo si verificava nel caso dei rapporti di lavoro, in cui sia l’allocazione del lavoro sia il pagamento per le prestazioni tenevano conto delle caratteristiche degli individui e dei lavori prestati, seguendo una logica razionale ed efficientistica. Si è osservato anche che la penetrazione del mercato nelle transazioni economiche si estendeva alle modalità seguite per il pagamento delle prestazioni; in particolare, è stata documentata la pratica diffusa di pagare il lavoro in termini monetari o con quote di prodotto che non erano consumate direttamente dai lavoratori, ma vendute o scambiate nel mercato con l’obiettivo di procurare gli alimenti per la famiglia. In altri termini, l’approvvigionamento alimentare richiedeva l’esistenza del mercato. Un’ultima caratteristica del sistema di villaggio che è stata confutata riguarda la localizzazione della produzione. Contrariamente alle ipotesi orientaliste, la ricerca ha dimostrato che la produzione di manufatti non era localizzata esclusivamente nelle campagne, all’interno delle unità produttive del villaggio; al contrario erano frequenti i casi di artigiani che lavoravano nelle città, le quali erano centri che assumevano un ruolo economico primario come luoghi di produzione e scambio di beni consumo. Un’altra radicata convinzione dell’Orientalismo messa in discussione riguarda l’assenza di differenziazioni di tipo economico fra gli individui. Gli storici hanno dimostrato sia l’ampia stratificazione sociale sia l’esistenza di classi sociali definite sulla base del controllo della ricchezza e del ruolo degli individui nell’organizzazione dell’economia. Esisteva una classe di «imprenditori» (che possiamo oggi considerare particolarmente «moderni») che realizzava investimenti di capitali, contemporaneamente, nella produzione agricola e nella manifattura, differenziando le attività sulla base del rischio. A questa classe imprenditoriale, si aggiungeva poi uno strato di agricoltori ricchi e di classi medie; queste ultime costituivano una specie di «piccola borghesia» impegnata nella produzione artigianale o nella produzione agricola all’interno di aziende a gestione familiare. Anche la classe dei mercanti aveva una configurazione sostanzialmente diversa da quella che ci è consegnata dalla letteratura orientalista: si è registrato il caso – tutt’altro che infrequente – di mercanti che investivano nella produzione di alimenti con l’obiettivo di disporre di merce da commercializzare nel medio e lungo periodo. È poi interessante notare che l’organizzazione dell’economia e della società indiana nella fase pre-coloniale si distaccava da quella osservata nei paesi europei nella fase pre-capitalistica per almeno due aspetti «strutturali». Questi aspetti, che ricoprono una primaria importanza nello sviluppo successivo del subcontinente, giustificano 34 l’opinione diffusa59 che il colonialismo non sia stata l’unica differenza importante nella storia economica dell’Asia del Sud e dell’Occidente. Il primo riguarda la scarsità relativa della manodopera, in particolare di quella agricola. La ricerca storica sottolinea il peso di questo vincolo e documenta azioni di limitazione della mobilità dei lavoratori tra le varie terre che includevano anche investimenti in infrastrutture mirati a migliorare le condizioni di vita dei coltivatori e ad aumentare l’efficienza del sistema. La scarsità relativa di manodopera evidenzia come la contrazione dell’occupazione agricola non fosse una strategia idonea per aumentare la produttività delle risorse nell’economia indiana, e marca una differenza tutt’altro che marginale con il modello europeo in cui l’esodo agricolo è il fattore principale della crescita capitalistica, nell’agricoltura come nell’industria. Il secondo aspetto riguarda il ruolo dello Stato. La ricerca storica recente ha sottolineato la forte presenza dello Stato nell’economia indiana pre-coloniale che è stata dedotta dagli elevati investimenti in infrastrutture irrigue – necessarie per l’attività agricola nelle zone aride – che solo entità statali erano in condizioni di realizzare. Non si trattava però di uno Stato centrale dispotico, come sostenuto dai pensatori orientalisti; si trattava invece di uno Stato fortemente ramificato e sparso, che esercitava un forte controllo a livello politico locale60. La ricerca storica ha dunque individuato anche nell’India pre-coloniale la presenza dei due processi di base del modo capitalistico di produzione, ossia i) la differenziazione sociale – che è dimostrata dall’esistenza di una classe di imprenditori capaci di trovare occasioni di investimento in più settori, cui si aggiungeva un ampio e diversificato strato di piccola borghesia – e ii) l’accumulazione di capitale – che 59 C.J. Baker, An Indian Rural Economy 1880-1955, cit.. 60 In altre parole, almeno nel periodo moghul e nel ’700, non sembra esserci stato un intervento centralizzato da parte dello stato nell’economia, bensì l’intervento da parte dei singoli membri della classe dirigente, dai monarchi ai grandi nobili. Il sovvenzionare una serie di attività giudicate socialmente utili era visto sia come parte dei doveri del monarca (che era tenuto ad agire come «madre e padre» dei suoi sudditi) e del grande nobile, sia come una manifestazione di potere. Le attività socialmente utili patrocinate dai monarchi e dalla nobiltà andavano dal supporto dei templi e delle scuole religiose (in genere del tutto indipendentemente dal fatto che tali templi e scuole appartenessero alla stessa religione del patrono) agli investimenti in pozzi, canali, alberazione di strade e costruzione di caravanserragli. Vale la pena di ricordare che templi e scuole religiose avevano una funzione anche di carattere economico. Alle une ed alle altre erano in genere legati mercati, mentre soprattutto i templi agivano anche come imprenditori agricoli. Sul ruolo della nobiltà moghul e degli stati successori dell’impero moghul si vedano, ad esempio, C.A. Bayly, Rulers, Townsmen and Bazaars, North Indian society in the age of British expansion, 1770-1870, Cambridge University Press, Cambridge 1983 [ed edizioni succ.] e id., Indian Society and the Making of the British Empire (vol II, 1 di The New Cambridge History of India), Cambridge University Press, Cambridge 1988. Sul ruolo della nobiltà maratha si veda Stewart Gordon, The Marathas 1600-1818 (vol II, 4 di The New Cambridge History of India), Cambridge University Press, Cambridge 1993. 35 avveniva per opera di queste classi imprenditoriali ed era agevolata dalla creazione di infrastrutture per la produzione da parte delle élite politiche e nobiliari. Ciò suggerisce che l’economia e la società dell’India nella fase pre-coloniale erano attraversate da processi il cui sbocco prevedibile sarebbe stato la trasformazione capitalistica, seppure con alcuni caratteri contrastanti con la strada percorsa dai paesi europei. La dominazione inglese bloccò questa trasformazione e cristallizzò la situazione indiana negli equilibri produttivi e sociali osservati alla fine del ’700 (perché quella struttura era funzionale ai «bisogni» del colonizzatore). Ciò spiega la stagnazione del secolo successivo che si registra nell’industria ed in particolare nell’agricoltura. Solo alla fine dell’’800 l’economia indiana ricominciava a mostrare dei deboli segni di crescita con una serie di investimenti, finanziati congiuntamente con capitale indiano e capitale britannico, nell’industria tessile e meccanica, concentrati in alcune, ristrette, aree del paese61. Stagnazione e cambiamento in cinquanta anni di indipendenza indiana Quando ha conquistato l’indipendenza politica, l’India era un paese molto povero, con una struttura economica arretrata62 ed un ampio numero di problemi sociali, identificati da Jawaharlal Nehru in «povertà, ignoranza e malattia e disuguaglianza di opportunità»63. La storia recente è una storia di gravi fallimenti e ancora oggi, dopo oltre cinquanta anni di indipendenza, l’India deve confrontarsi con povertà e disuguaglianza diffuse64. Questa situazione è stata frequentemente imputata al basso livello di efficienza dell’economia, responsabile di comprimere il tasso di crescita e di determinare una prolungata stagnazione. Secondo alcuni influenti studiosi65, l’inefficienza della struttura produttiva dell’India indipendente sarebbe stata determinata dai «controlli pubblici» che avrebbero distorto l’uso e la distribuzione delle risorse tra le diverse attività. Cfr. M.Torri, Storia dell’India, cit. La quota agricola sul PIL era pari al 49%, quella dell’industria intorno al 17%, quella dei servizi e delle costruzioni intorno al 34%. Le quote relative all’occupazione erano rispettivamente il 71,8%, il 9,5% e il 18,7% (cfr. Sudip Chauduri, Debates on Industrialization, in The Indian Economy. Major Debates Since Independence, a cura di T.J. Byres, Oxford University Press, Delhi, 1998). 63 Citato da Amartya Sen in Radical Needs and Moderate Reforms, in Indian Development. Selected Regional Perspectives, a cura di J. Drèze e A. Sen, Oxford University Press, Delhi, 1998, p. 5. 64 A. Sen, Radical Needs and Moderate Reforms, cit. 65 Cfr. V. Joshi e I.M.D. Little, India. Macroeconomics and Political Economy 1964-1991, Oxford University Press, Delhi, 1998 p. 350. Si veda anche J.N. Bhagwati, India in Transition: Freeing the Economy, Clarendon Press, Oxford, 1993. 36 61 62 L’intervento pubblico66 avrebbe cioè la responsabilità di avere cristallizzato gli equilibri socio-economici dell’India post-coloniale, ostacolando il libero gioco delle forze di mercato e, con esse, la crescita. Questa convinzione, piuttosto consolidata tra gli studiosi e le élite indiane, ha ispirato la politica di liberalizzazione inaugurata nel 1991, la quale si proponeva di rimuovere gli ostacoli alla libera iniziativa e di transitare l’India al mercato. Tuttavia, dopo oltre un decennio di liberalizzazione, l’economia indiana continua a mostrare segni di costante peggioramento, com’è evidenziato dai più comuni indicatori di progresso economico e civile67. Questa performance di basso profilo, anche dopo l’apertura dell’economia, solleva più di un dubbio sulla fondatezza della diagnosi liberista e suggerisce l’opportunità di ricercare altrove le cause della persistenza della povertà e del sottosviluppo del paese. Vi sono molte ragioni per ritenere che la persistenza della povertà e della disuguaglianza nell’India contemporanea, insieme al peggioramento diffuso delle condizioni di vita osservate nell’ultimo decennio, debba essere imputata non tanto alla stagnazione dell’economia negli anni della pianificazione, quanto piuttosto al particolare modello di sviluppo capitalistico che si è andato affermando nel paese dalla fine della colonizzazione in poi. In particolare sembra evidente che, nella seconda metà del ’900, l’economia indiana non sia stata immobile e cristallizzata sotto i controlli statali, ma che abbia subito una serie di trasformazioni che ne hanno alterato gli equilibri sociali in profondità e che hanno determinato l’aggravamento della povertà e della disuguaglianza. Queste trasformazioni, che sono insufficientemente riflesse negli indicatori aggregati utilizzati nelle analisi macroeconomiche, si osservano in particolare con riferimento all’organizzazione produttiva a livello locale. Se si ricompone in linee estremamente generali, sulla base della letteratura economica più recente68, il quadro dello sviluppo indiano nella seconda metà del secolo scorso, si può vedere come l’intervento pubblico sia stato fin dai primi anni la componente di gran lunga più dinamica dell’economia e abbia costituito la voce più importante della domanda aggregata. Questa caratteristica dà ragione della convinzione diffusa che la prolungata fase di stagnazione attraversata dal settore industriale, a partire Che era stato inizialmente disegnato con l’obiettivo di indirizzare lo sviluppo dell’economia in modo da impedire la concentrazione della ricchezza in mano a pochi e di promuovere lo sviluppo equilibrato delle diverse attività, e che era accettato da un vasto numero di capitalisti indiani come supporto all’iniziativa privata (cfr. Sudip Chauduri, Debates on Industrialisation, cit.). 67 Cfr. M. Torri, Corruzione, oscurantismo e globalizzazione dell’India del BJP, in Asia Major 2001, Il Mulino, Bologna. 68 Cfr. T.J. Byres, Introduction: Development Planning and the Interventionist State versus Liberalisation and the Neo-Liberal State, e I.J. Ahluwalia, The Contribution of Planning to Indian Industrialisation, entrambi in The State, Development Planning and Liberalisation in India, a cura di T.J. Byres, Oxford University Press, 1997. Si vedano anche i saggi contenuti nel volume a cura di T.J. Byres, The Indian Economy. Major Debates Since Independence, cit. 37 66 dalla seconda metà degli anni ’60 del ’900 e fino alla metà degli anni ’70, sia imputabile alla contrazione degli investimenti pubblici, che ha influito negativamente sul mercato dei beni capitali69. Questa contrazione mette a nudo una debolezza strutturale dell’economia indiana che è correntemente ritenuta essere il principale fattore responsabile della stagnazione, ossia l’insufficienza della domanda interna. Nei suoi aspetti essenziali, l’insufficienza della domanda interna indica una crescita ridotta dei consumi rispetto alla produzione, nelle due componenti di prodotti finali (destinati alle famiglie) e di beni intermedi e capitali (acquistati dalle imprese). L’insufficienza strutturale della domanda (privata) interna è un indicatore importante di squilibri nel sistema economico, che porta al centro dell’attenzione questioni cruciali come quella del trade-off tra equità ed efficienza nel processo di crescita e della distribuzione dei benefici della crescita fra i diversi strati sociali e fra campagna e città. Fin dai primi anni dell’indipendenza, l’importanza dell’agricoltura in termini di valore aggiunto e di occupazione contrastava con l’arretratezza in cui versavano le aree rurali70. Si trattava di una arretratezza multidimensionale, che si osservava nelle condizioni di vita delle vaste masse di lavoratori occupati nel settore, nei rapporti istituzionali tra terra e lavoro, nelle tecniche impiegate per la produzione 71. La modernizzazione appariva la strada obbligata per consentire al settore agricolo di partecipare al progresso dell’India con tutte le sue potenzialità. La scelta fu iniziare il processo dalla modernizzazione tecnologica, nella duplice convinzione che l’arretratezza delle tecniche fosse responsabile del basso livello di produttività delle risorse e che la 69 Sudip Chauduri, Debates on Industrialization, cit.. Lo sviluppo agricolo nella fase post-coloniale è analizzato in J.Mohan Rao, Agricultural Development under State Planning e U. Patnaik, India’s Agricultural Development in the Light of Historical Experience, entrambi in The State, Development Planning and Liberalisation in India, a cura di T.J. Byres, cit.. Si veda anche J.Mohan Rao e Servaas Storm, Distribution and Growth in Indian Agriculture, in The Indian Economy. Major Debates Since Independence, a cura di T.J. Byres, cit.. 71 L’arretratezza sociale ed istituzionale del mondo rurale è ben documentata dall’importante dibattito sul «modo di produzione in India» – ospitato dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70 del secolo scorso sulle pagine di «Economic and Political Weekly» e di altre riviste indiane – che si interrogava sul livello e le forme di penetrazione del capitalismo nelle campagne indiane. La discussione, tra i molti ed autorevoli partecipanti, echeggiava i toni orientalisti dell’analisi marxista. Il nucleo della discussione riguardava la composizione di classe della società indiana e lo sforzo maggiore consisteva nell’accomodare la stratificazione definita dal sistema di casta all’interno di quella in classi definita dall’analisi marxista. Il tentativo era quello di localizzare nelle aree rurali le categorie sociali che nell’esperienza inglese avevano innescato il processo di accumulazione primitiva, creando le condizioni per la transizione al capitalismo. Per un resoconto si vedano A. Thorner, Semi-Feudalism or Capitalism? Contemporary Debate on Classes and Modes of Production in India, in Economic and Political Weekly, numeri 4, 11, 18, 1982, e J. Harriss, The Mode of Production Controversy: Themes and Problems of the Debate, in Approaches to Development Studies: Essays in honour of Athole Mackintosh, Gower, Aldershot, 1982. 38 70 modernizzazione istituzionale e sociale seguisse spontaneamente quella tecnologica. La cosiddetta «rivoluzione verde» introdusse nell’agricoltura le nuove sementi ibride (prodotte in laboratorio) e ne accompagnò l’introduzione con misure di incentivazione, costituite in larga misura da credito agevolato e sussidi sugli input. La scelta della modernizzazione tecnologica rispondeva ad una logica economica articolata, che non si limitava ad aumentare la produzione agricola, ma puntava ad indurre la crescita anche negli altri comparti dell’economia grazie all’impatto esercitato dalla domanda espressa dal settore primario. L’obiettivo era cioè quello di attivare un meccanismo attraverso il quale le nuove tecnologie (introdotte in agricoltura) potessero generare la crescita nell’industria e nei servizi grazie all’aumento dei consumi degli agricoltori – di beni manufatti e di beni d’investimento – per conseguenza della crescita dei redditi imputabile alle nuove tecniche di produzione72. Si riteneva inoltre che l’effetto moltiplicativo della domanda agricola si sarebbe potuto manifestare a due livelli territoriali diversi: a livello locale, qualora la domanda degli agricoltori si fosse diretta a prodotti dell’industria localizzata nel comprensorio che ospitava anche la produzione agricola; e a livello nazionale, qualora le industrie fossero state localizzate altrove nel territorio dell’Unione. La debolezza strutturale della domanda interna dimostra che il meccanismo attivato nelle aree rurali non ha funzionato. In primo luogo, l’impatto della rivoluzione verde in termini di aumento della produzione è stato nel medio-lungo periodo e a livello aggregato molto più modesto di quanto si ritenesse nei primi anni; inoltre, mentre l’India ha raggiunto a livello globale l’autosufficienza alimentare, alcuni distretti hanno registrato in oltre trenta anni una riduzione della capacità produttiva a causa principalmente dei problemi ambientali collegati all’intensificazione nell’uso di acqua irrigua e fertilizzanti indotta dall’impiego delle sementi ibride73. In secondo luogo, il carattere dello sviluppo innescato dall’introduzione della nuova tecnologia è stato fortemente diseguale. Questa disuguaglianza non riguarda tanto la concentrazione delle terre74, quanto piuttosto la formazione della capacità produttiva determinata dalla possibilità di accedere agli input (acqua e fertilizzanti) che consentono l’introduzione delle sementi ibride. Analogamente, l’effetto moltiplicativo della domanda degli Il funzionamento per l’India del modello di crescita trainata dalla domanda agricola è illustrato da J. Mellor in The New Economics of Growth: A Strategy for India and Developing World, Cornell University Press, Ithaca e NY, 1976. 73 Cfr. B. Harriss-White, La rivoluzione verde nell’India meridionale, in «Politica internazionale», n. 5, 1996. 74 Poiché non vi è stata a livello aggregato la polarizzazione della concentrazione delle terre che gli studiosi marxisti avevano ipotizzato (cfr. T.J.Byres, The New Technology, Class Formation and Class Action in the Indian Countryside, in «The Journal of Peasant Studies», Vol. 8, No. 4, 1981). 39 72 agricoltori si è distribuito in modo ineguale, dirigendosi spesso verso produzioni di altre località, se non addirittura di altri paesi. Il diseguale impatto della rivoluzione verde ha determinato una riduzione della potenzialità del settore agricolo come componente della domanda interna. Gli squilibri territoriali e sociali dello sviluppo agricolo hanno determinato una crescita ridotta e distorta dei consumi degli agricoltori. Poiché i redditi dei lavoratori dipendenti e dei piccoli agricoltori sono cresciuti poco (in qualche caso si sono persino ridotti) la domanda dei beni manufatti (a tecnologia matura) destinati ai fabbisogni quotidiani è aumentata in modo molto contenuto; per contro, è aumentata la domanda degli agricoltori ricchi. Come è noto però il modello di consumo dei ricchi è sostanzialmente diverso da quello dei poveri – sia per la presenza dei beni capitali sia per la composizione del paniere di consumo – e la domanda da essi espressa può essere soddisfatta con beni d’importazione o con beni che impiegano tecnologia importata75. L’insufficienza strutturale della domanda nelle aree rurali è ampliata ed aggravata da quella che si osserva nei comprensori urbani. Questa appare essere determinata da due processi che si sostengono e rafforzano a vicenda: l’insufficiente crescita della domanda di beni capitali e la ridotta e distorta crescita della domanda di beni di consumo. Entrambi possono essere ricondotti alle caratteristiche dello sviluppo industriale indiano, polarizzato fra settore formale e settore informale. Le scelte di industrializzazione dei primi anni dell’indipendenza erano basate su di un modello che puntava sulla grande impresa – a capitale pubblico nei settori strategici – finalizzata alla produzione di beni capitali. La produzione di beni capitali, a sua volta, era destinata ad essere impiegata nella formazione di un tessuto industriale, in larga misura privato, costituito da imprese di dimensioni medio-piccole impegnate nella produzione di beni di consumo. L’equilibrio del sistema richiedeva il verificarsi di una doppia condizione: i) le imprese finalizzate alla produzione di beni di consumo dovevano esprimere una domanda crescente per i beni capitali prodotti dall’industria pesante controllata dai capitali pubblici; e ii) la crescita del potere di acquisto dei salari, nell’interno comparto industriale, doveva garantire un ritmo sostenuto di crescita della domanda di beni di consumo. In altri termini, questo modello richiedeva la formazione di un tessuto industriale «formale», costituito da imprese di diverse dimensioni registrate e regolate, che impiegavano lavoro sulla base di rapporti regolamentati e tutelati dalla legge e che pagavano salari capaci di sostenere la domanda. Il fallimento di questo modello di industrializzazione è mostrato dalla strutturale insufficienza della domanda privata, sia di beni capitali sia di beni di consumo. E questo fallimento deve essere spiegato non in termini di stagnazione – ossia non con il fatto che non vi è stata crescita dell’industria – quanto piuttosto sulla base delle caratteristiche 75 Sudip Chauduri, Debates on Industrialization, cit., p. 266. 40 specifiche del tessuto industriale che si è andato formando dall’Indipendenza in poi. La crescita industriale, che si è affermata in India in oltre cinquanta anni di indipendenza e che si è rafforzata negli anni della liberalizzazione, ha interessato in misura prevalente il settore dell’economia cosiddetto «informale», ossia quella parte dell’organizzazione produttiva non registrata e non regolamentata, che cresce al di fuori dei controlli pubblici sulle condizioni e sui tempi di lavoro. Il settore informale indiano – che spesso opera ai margini della legalità – è caratterizzato dalle più svariate forme organizzative, che spaziano dalla grande impresa segmentata e decentrata, all’impresa familiare e individuale, a forme di lavoro dipendente mascherato da lavoro autonomo all’interno di micro-imprese; e questa varietà di forme risponde all’esigenza di sfuggire ai controlli pubblici con l’obiettivo di ridurre i costi di produzione, in particolare quelli del lavoro. In cinquanta anni di indipendenza, il settore informale ha costituito la componente maggioritaria dell’economia indiana, con una quota di occupati sul totale che si è mantenuta oltre il 90%76. I motivi per cui lo sviluppo del settore informale inibisce la crescita della domanda vanno ricercati nei fattori di competitività di questo tipo di industrializzazione, ed in particolare nel controllo dei costi di produzione. Con l’obiettivo di contenere i costi, le imprese informali tendono ad operare con tecniche produttive arretrate, a forte intensità di lavoro. Ciò spiega il fatto che non esprimano domanda di beni capitali, o la esprimano a livelli molto contenuti. Analogamente, sempre con l’obiettivo di acquisire vantaggi competitivi sui mercati, i livelli dei salari sono molto più bassi di quelli pagati in condizioni analoghe nel settore formale. Anzi, l’informalità delle relazioni di lavoro viene ricercata dalle imprese con l’obiettivo esplicito di sfuggire ai controlli pubblici e alla regolamentazione in merito alle condizioni di lavoro, livello salariale incluso. Ciò fa sì che le condizioni di lavoro siano di quasi sfruttamento e i livelli salariali siano molto vicini alla sussistenza. Poiché il settore informale ha in India una consistenza molto ampia, quest’ultimo aspetto concorre a giustificare la strutturale insufficienza della domanda di beni di consumo che ha portato al fallimento del modello di industrializzazione inaugurato dopo l’indipendenza. La questione dell’insufficienza della domanda aggregata è servita fin qui per mettere in luce gli aspetti nodali dello sviluppo economico indiano nella seconda metà del secolo scorso. Si è così potuto mostrare che la situazione indiana non può essere descritta in termini di immobilismo. Al contrario, l’India ha registrato un complesso 76 Alcune stime basate su dati ufficiali indicano che nel 1981 meno del 10% della popolazione attiva era occupata nel settore «formale», oltre il 70% della quale operava all’interno di imprese pubbliche (cfr. V. Joshi e I.M.D. Little, India. Macroeconomics and Political Economy, 1964-1991, cit., p. 26). Stime più recenti indicano livelli ancora più bassi (cfr. B. Harriss-White e N. Guptu, Mapping India’s World of Unorganized Labour, in The Socialist Register 2001, a cura di L. Panitch e C. Leys, Merlin, Londra, 2000). 41 processo di cambiamento che ha interessato le aree urbane e le campagne, l’industria e l’agricoltura. Si è anche rilevato il pieno inserimento della realtà indiana all’interno della logica capitalistica, com’è evidenziato dall’azione dei meccanismi dell’accumulazione nei diversi settori produttivi. Infine, si sono ricostruiti i processi di marginalizzazione che spiegano perché i cambiamenti dell’economia indiana non si siano tradotti in un generalizzato miglioramento delle condizioni sociali. Il quadro tracciato non suggerisce che l’economia indiana non è cresciuta; dice invece che è cresciuta male e che i progressi economici raggiunti sono rimasti concentrati nelle mani di pochi. E dice anche che il processo di crescita dell’India è «diverso» da quello dei paesi europei di prima industrializzazione, la differenza principale essendo l’incapacità di generare un progresso generalizzato delle condizioni di vita. La questione che rimane da discutere è a cosa debba essere imputata questa diversità e quale ruolo svolga nello sviluppo del capitalismo in India. Le impurità dello sviluppo economico indiano La risposta orientalista classica a questo interrogativo farebbe riferimento ai fattori culturali, spiegando il processo di crescita distorto dell’India con il prevalere nella società di valori e istituzioni scarsamente compatibili con lo sviluppo economico capitalistico. Una alternativa preferibile alla visione orientalistica è quella di interpretare le anomalie del capitalismo indiano utilizzando un approccio istituzionalista che tiene conto dei valori e delle istituzioni e ne analizza il ruolo nello sviluppo del capitalismo. Ciò comporta l’abbandono dei concetti di «sviluppo economico moderno» e di «capitalismo puro» e l’assunzione dell’ipotesi che ogni economia capitalistica è costituita da una struttura dominante – le relazioni di produzione – e da una serie di caratteristiche (o «residui») culturali e istituzionali country-specific, che sostengono il processo produttivo e l’accumulazione di capitale. Questi residui culturali e istituzionali costituiscono una sorta di «impurità» che rendono specifica la trasformazione capitalistica nelle diverse situazioni di spazio e di tempo. Tuttavia, queste impurità non vengono superate con l’affermazione del modo di produzione capitalistico: esse sono «necessarie» alla riproduzione del sistema perché definiscono gli equilibri sociali ed economici che, nella situazione particolare, consentono l’affermazione e la durata nel tempo delle relazioni alla base dell’accumulazione capitalistica77. 77 In altri termini, si assume che esista una «via nazionale al capitalismo»: ogni paese può individuarla e percorrerla se riesce a plasmare la propria struttura sociale in modo da consentire l’accumulazione. Evidentemente, questo processo può condurre ad individuare figure sociali e relazioni 42 Questo approccio consente di leggere lo sviluppo capitalistico non come una progressiva purificazione dalle forme pre-capitalistiche – destinate a dissolversi nella trasformazione della società – ma piuttosto come un processo di adattamento evolutivo della struttura sociale e produttiva, processo che dipende dalle condizioni storiche e di contesto all’interno delle quali ogni singola economia è collocata. Non esistono così leggi di movimento «universali», ma ogni paese produce una specifica forma di capitalismo sulla base del «proprio bagaglio storico di impurità»: queste impurità dunque non si dissolvono con la crescita economica, ma rimangono a caratterizzare il modello di sviluppo nel lungo periodo78. Sulla base di questa impostazione, il vero problema analitico che ora si presenta è quello di identificare le impurità del capitalismo indiano e di comprendere in che modo esse segnano lo sviluppo economico della regione. La principale «impurità» del capitalismo indiano va ricercata nella struttura sociale che influenza in modo determinante l’organizzazione dell’economia. Si tratta di una struttura sociale complessa che può essere analizzata con riferimento i) alla stratificazione da cui è attraversata e ii) alla natura delle figure sociali che la compongono. La stratificazione sociale dell’India contemporanea è generata dall’interagire di più forme di aggregazione. La prima e certamente la più importante per pervasività e persistenza è costituita dal sistema di casta. Le caste, così come sono descritte dalla letteratura del periodo post-coloniale, appaiono sia come il principio ordinatore della società civile indiana, sia come aggregati sociali che conservano nella religione induista la fonte della propria legittimità di fronte ai cambiamenti socio-economici. Secondo le ricerche del periodo successivo all’indipendenza, la principale conseguenza del legame fra caste e Induismo è che la società indiana è organizzata in forma gerarchica, all’interno della quale la legge, la religione e la moralità sono strumenti per rafforzare la subordinazione dell’individuo al gruppo79. Il sistema castale quindi definisce il contesto culturale e, contemporaneamente, plasma i comportamenti sociali, definendo un codice per l’identificazione degli individui e degli interessi. Inoltre, ogni casta costituisce un «gruppo di interesse» che può essere coinvolto a sostegno di particolari azioni sociali e politiche80. estranee al modello del «capitalismo puro», che però, in quel determinato contesto, diventano necessarie per realizzare l’accumulazione di capitale. 78 Cfr. G.M. The Evolution of Capitalism from the Perspective of Institutional and Evolutionary economics, in Capitalism in Evolution. Global Contentions – East and West, a cura di G.M. Hodgson, M. Itoh e N. Yokokawa, Edwar Elgar, Cheltenham, 2001. 79 Cfr.A.Béteille in Caste in Contemporary India, cit. 80 Questo tipo di immagine corrisponde alla realtà quale esisteva alla metà del secolo appena concluso. Tuttavia, ciò che, in genere, non è percepito da sociologi e da antropologi è il fatto che la 43 Il mutamento del sistema castale, diventato sempre più rapido, complesso e percepibile a partire dagli anni ’50 si è verificato all’interno di quadri ideologici di riferimento in radicale contrapposizione fra loro, cioè quello costituito dall’ideologia democratica dell’India indipendente e quello rappresentato dall’induismo gerarchico. L’ideologia democratica dell’India indipendente si è appropriata del discorso di tutela e promozione dei gruppi castali subordinati81 e lo ha portato avanti come parte di una politica di promozione degli strati deboli della società. Tale politica, sanzionata nella Costituzione, ha trovato espressione in una serie di leggi ad hoc, approvate in tempi diversi, ma tutte inquadrabili nella cosiddetta reservation policy, cioè nelle discriminazione positiva a favore prima dei fuoricasta e, più recentemente, delle cosiddette backward classes (di fatto caste intermedie contadine, che occupano una posizione subordinata dal punto di vista rituale ma che, spesso, sono potenti dal punto di vista politico ed economico). D’altra parte, la rivitalizzazione dell’induismo, in corso fin dagli anni ’20, ma diventata particolarmente percepibile e politicamente rilevante a partire dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ha contribuito ad aumentare la rilevanza sociale per una casta di essere considerata quanto più «pura» possibile82. L’effetto situazione da essi descritta non è il permanere di una realtà immutabile, bensì è il risultato dell’operare del governo coloniale. Questo significa che i) se è vero che il sistema castale ha continuato a mutare nel tempo, non deve in alcun modo stupire che, dopo la pausa coloniale, tale sistema riprendesse ad evolversi e ii) che il concreto operare del governo coloniale aveva dato al sistema castale delle caratteristiche che prima non aveva. In particolare, sono stati i provvedimenti politici presi dal governo coloniale a trasformare le caste in reti organizzative politiche. Paradossalmente, quindi, la modernizzazione coloniale ha effettivamente trasformato il sistema castale nel principio organizzatore della società indiana, anche se in termini nuovi e più complessi di quelli indicati nei testi canonici dell’induismo. Per approfondimenti sulla questione delle trasformazione del sistema castale, si veda la prima parte di questa introduzione scritta da Michelguglielmo Torri. 81 Iniziato dal regime coloniale con il fine di indebolire il movimento per l’indipendenza, considerato espressione delle caste brahmaniche (cfr. Torri, Storia dell’India, cit.). 82 Si è così assistito alla «sanscritizzazione» di molti gruppi castali che, adottando i costumi sociali tipici delle caste alte (dal vegetarianesimo alla segregazione delle donne), hanno rivendicato uno status sociale più «puro» – e, pertanto, più alto – nell’ordinamento castale tradizionale (Cfr. M.N. Srinivas, The Cohesive Role of Sanskritisation and Other Essays, Oxford University Press, Delhi, 1989). Ma si è anche visto come, di per sè, il processo di sanscritizzazione fosse del tutto insufficiente a fare accettare l’«elevazione» sociale di un gruppo castale. Nella realtà concreta, infatti, l’elevazione sociale di un gruppo castale (un processo che, come ben sanno gli storici, è lungi dall’essere una novità degli ultimi cent’anni) è del tutto indipendente dal processo di sanscritizzazione. Questo può esserci o non esserci ma, in ogni caso, da solo non porta mai al riconoscimento di uno status più alto da parte degli altri gruppi castali. Il riconoscimento di questo status più alto è , infatti, legato alla conquista di potere economico e/o politico da parte di strati più o meno ampi di un certo gruppo castale (che, poi, agiscono come patroni nei confronti dai loro confratelli di casta meno fortunati). A sua volta, la conquista di potere economico e/o politico coincide o si risolve con l’abbandono delle occupazioni «ereditarie» di una determinata casta e con l’assunzione di occupazioni nuove e più prestigiose. 44 combinato di questi processi e della contestata applicazione della Reservation Policy del governo indiano – accelerata dalla pubblicazione del Rapporto Mandal – è stato il prevalere di una «cultura duale» per cui una casta reclama uno stato alto nell’ambito religioso e uno stato basso nell’ambito economico e sociale83. Si ha così una separazione fra la sfera religiosa e la sfera sociale che genera la «secolarizzazione» delle caste. Il sistema castale, quindi, appare oggi – rispetto al sistema «classico» descritto nei testi canonici dell’induismo – come un «sistema mutilato» il cui futuro «non è nella religione, ma nella politica»84. Esso stesso in fase di trasformazione, il sistema castale influenza l’organizzazione sociale in forme nuove che vengono segnalate dalla letteratura. In primo luogo, si osserva un raggruppamento degli individui appartenenti allo stesso gruppo castale nelle nuove professioni, che ricorda da vicino l’associazione tra caste e mestieri definita dalla religione. Questa diversificazione dell’occupazione nei settori moderni sulla base dei gruppi castali assume però un significato nuovo, poiché non riflette la gerarchia tradizionale delle caste, ma è generata dalla distribuzione delle capacità professionali e delle risorse e dalle imperfezioni del mercato del lavoro dovute al controllo individuale e/o di gruppo sulle informazioni e sulle opportunità professionali. Inoltre, il nuovo sistema di casta è caratterizzato dalla mobilità verso l’alto e dalla crescita di una eterogenea «classe media» prodotta dalla Reservation Policy e dai movimenti delle caste basse. Infine, si registra una saldatura fra questo nuovo tipo di ordine castale e le altre forme di stratificazione della società indiana. La liberalizzazione fa emergere la forte segmentazione della società indiana, all’interno della quale le caste sono intimamente interconnesse con un network di organizzazioni della società civile che regolano ogni aspetto della vita politica ed economica85. Queste organizzazioni comprendono sia associazioni che emulano aggregazioni tradizionali – come quelle tra individui appartenenti alla stessa casta e alla Sull’argomento si vedano S.N. Srinivas, The dominant caste and other essays, Oxford University Press, Delhi 1987, e id., Village, caste, gender, and method : essays in Indian social anthropology, Oxford University Press, Delhi 1996. 83 Cfr. G.K. Karanth, Caste in Contemporary Rural India, in Caste. Its Twentieth Century Avatar, a cura di M. N. Srinivas, cit. 84 Cfr. A. Béteille, Caste in Contemporary India, cit., p. 158. 85 Vi è una crescente letteratura su queste forme di organizzazione della società civile in varie parti dell’India. Si vedano in particolare E. Basile e B. Harriss-White, The Politics of Accumulation in Small Town India, in «IDS Bulletin»,Vol. 30, No. 4, Sussex University, Brighton, 1999; C. Uphadya, Culture, Class and Entrepreneurship: a Case Study of Coastal Andhra Pradesh, in Small Business Entrepreneurship in Asia and Europe, a cura di M. Rutten e C. Uphadya, Sage, Delhi, 1997; M. Rutten, Farms and Factories. Social Profile of Large Farmers and Rural Industrialists in West India, Oxford University Press, Delhi, 1995; M.L. Reiniche, The Urban Dynamics of Caste: A Case Study from Tamilnadu, in Caste today, a cura di C. Fuller, Oxford University Press, Delhi, 1996. 45 stessa religione – sia aggregazioni di tipo nuovo – come quelle tra individui che svolgono la stessa attività economica o la stessa professione, o che sono uniti dagli stressi interessi culturali e politici. Esse definiscono una segmentazione sociale che è espressa in un linguaggio associativo che riecheggia l’ordine castale, e ciò avviene perché il sistema delle caste definisce ancora la base culturale dell’India contemporanea. Sarebbe, tuttavia, un errore interpretare questa segmentazione come segno di cristallizzazione della società indiana «tradizionale»; al contrario, essa è il prodotto di forme associative che definiscono, tra i diversi gruppi sociali, delle distinzioni di status che sono in molti casi delle distinzioni di classe. Questa situazione si verifica in generale nel caso delle associazioni dettate da interessi economici, ma si può osservare talvolta anche per le associazioni di casta, che, in specifici contesti locali e sociali, finiscono per aggregare individui che condividono la stessa posizione di classe. Questo tipo di stratificazione presenta due importanti anomalie rispetto a quella osservata nei paesi di prima industrializzazione. La prima è che le varie forme di segmentazione, che si intrecciano e si sovrappongono, rendono difficile delimitare in termini univoci le categorie sociali che identificano il capitale e il lavoro. Così, è frequente imbattersi in un capitalista che persegue la rendita, oltre che al profitto, con mezzi che spaziano dalla corruzione alla violenza, e che ha uno stile di vita analogo a quello di un redditiero. Allo stesso modo, la categoria del lavoro dipendente può apparire inadeguata a rappresentare la situazione di quei lavoratori che sono formalmente impegnati in attività autonome, ma che nei fatti sono imprigionati in legami contrattuali squilibrati con chi fornisce loro il capitale per l’acquisto dei macchinari e di altri input e con chi gestisce la commercializzazione dei loro prodotti. La seconda anomalia è individuabile nelle implicazioni della persistenza del sistema di casta sulle relazioni fra lavoro e capitale. Le caste costituiscono ancora la base culturale dell’India contemporanea e l’ordine che esse definiscono continua ad essere nei fatti la base della stratificazione sociale che oggi osserviamo. Ciò implica che le relazioni fra i vari gruppi sociali siano presentate in termini di armonia sociale piuttosto che di antagonismo. Questo fatto, associato al carattere spurio delle categorie che individuano il capitale e il lavoro, concorre a ridurre lo spazio per i conflitti di classe, delegando alle varie associazioni il compito di rappresentare gli interessi dei propri membri al di fuori di una logica sindacale86. Queste due anomalie – che descrivono un rapporto fra capitale e lavoro molto contrastante con quello osservato nelle fasi iniziali e centrali dell’industrializzazione nei paesi europei – assumono nel contesto indiano un ruolo tutt’altro che marginale e 86 Questa situazione può essere descritta come una forma di «corporativismo sociale», in cui le caste assumono il ruolo di mediatore dei conflitti sociali ricoperto dallo Stato nel corso del Fascismo in Italia. Su questo punto cfr; E. Basile e B. Harriss-White, The Politics of Accumulation in Small Town India, cit. 46 secondario poiché spianano la strada a forme di sfruttamento del lavoro che non sarebbero socialmente sostenibili in una situazione conflittuale, e che consentono la crescita del vasto e complesso settore informale. In altri termini, queste anomalie consentono di aumentare lo sfruttamento del lavoro, contenendone i costi e aumentandone la flessibilità d’impiego. Se si considera che questi fattori che sono alla base della competitività dell’industria indiana dopo il fallimento del modello di industrializzazione proposto con i piani quinquennali, si vede che le caratteristiche della stratificazione sociale, anche se appaiono in contrasto con il modo di produzione capitalistico, nei fatti operano a sostegno del processo di accumulazione del capitale. Grazie a queste anomalie si possono cogliere gli aspetti principali delle deviazioni del capitalismo indiano rispetto al modello di «capitalismo puro». Queste anomalie – queste impurità – affondano le radici in una stratificazione sociale che è frequentemente espressa in un linguaggio che re-interpreta e re-inventa la «tradizione» dell’India classica. Si è qui mostrato che queste impurità sostengono l’accumulazione capitalistica e definiscono il percorso dello sviluppo economico moderno dell’India contemporanea. È dunque legittimo concludere affermando che le istituzioni indiane rappresentano elementi che, contrariamente alla visione orientalista, si dimostrano funzionali all’accumulazione capitalistica e da quest’ultima traggono forza per la legittimazione di quelle condizioni sociali che rappresentano uno, ma soltanto uno, dei fattori culturali specifici della realtà indiana. 47