Breve storia degli studi sulla schizofrenia Patrizia Marzo INDICE Introduzione. Uno sguardo alle psicosi…….……………….……………..….pag. 2 1. Origini della definizione di schizofrenia………………………..……..… pag. 3 2. La schizofrenia secondo la prospettiva di Eugene Minkowski……...…..pag. 6 3. Binswanger e il “caso Suzanne Urban”…………………………….…….pag. 11 4. Il concetto di schizofrenia fino al secondo dopoguerra ………………….pag. 13 5. Sito-Bibliografia……………………………………………………………pag. 18 1 Introduzione. Uno sguardo alle psicosi Il tema delle psicosi, introdotto nella disciplina psichiatrica durante il XIX secolo, è stato progressivamente arricchito da conoscenze e competenze che nel tempo si sono rafforzate, fino a costituire un sapere ampiamente condiviso. Oggi molti autori concordano sulla definizione delle psicosi, sulle loro differenze dalle nevrosi e su una classificazione che comprende diverse connotazioni della malattia. La suddivisione “classica” fra nevrosi e psicosi colloca le prime nelle forme funzionali dei disturbi mentali e le seconde nell’insieme dei disturbi organici, ossia quei problemi connessi a vere e proprie lesioni della struttura cerebrale. Col passare del tempo, tuttavia, tale classificazione ha subito profondi ripensamenti, soprattutto mediante l’estensione della connotazione di psicosi non solo alle manifestazioni prettamente organiche, ma anche a tutte quelle configurazioni dis-funzionali dei processi mentali che, a tutt’oggi, non trovano spiegazioni esaustive nei progressi della scienza. Diversi studiosi, comunque, riconoscono generalmente una duplice manifestazione delle psicosi, sia a livello psicopatologico (in relazione alla gravità e alla possibile irreversibilità del decorso del disturbo) sia a livello sociale (in relazione alla condizione di disadattamento sociale del malato, alle sue difficoltà di comunicare ed interagire con gli altri e al suo scarso contatto con la realtà). Le psicosi sono caratterizzate da una forte componente soggettiva, costituita dalle condizioni della singola personalità malata: elemento che rende le osservazioni dei medici non generalizzabili ed inquadrabili in rigidi modelli. La variabilità delle definizioni delle psicosi, inoltre, dipende anche dai differenti indirizzi di studio della psichiatria e della psicologia che, sommariamente, confermano le due macro-aree dell’impostazione organogenetica (secondo la quale un fattore tossico e/o costituzionale sarebbe alla base di ogni disturbo mentale) e di quella psicologica (che, invece, attribuisce la causa delle patologie a degenerazioni di disturbi inizialmente “solo” psicologici). I fattori che generalmente vengono identificati con le cause delle psicosi sono di ordine organico (come la psicosi acuta confusionale, che viene attribuita ad una condizione tossica o tossinfettiva), costituzionale (nel senso della predisposizione ereditaria di alcune forme) e psichico. I sintomi più facilmente riscontrabili nei quadri psicotici riguardano la percezione/consapevolezza della posizione del sé nel mondo: il mondo viene percepito dal 2 soggetto in modo distorto, incomprensibile per chi lo circonda, popolato da allucinazioni, fissazioni, stati maniacali e progressiva perdita degli affetti. La persona psicotica può vivere – secondo la gravità del suo disturbo – per poche ore oppure per lunghi anni in uno stato di oggettiva e profonda difficoltà di capire il mondo e di essere, a sua volta, compresa da esso. Ad ogni modo, per quanto controverse ed, ancora oggi, indefinite siano le rappresentazioni dei disturbi psicotici, la scienza dispone ormai di elementi più che sufficienti per definire “la schizofrenia come la psicosi per eccellenza”1. 1. Origini della definizione di schizofrenia Esiste davvero la schizofrenia? E, in caso affermativo, in cosa consiste, quali sono i suoi confini? Numerosi studiosi tentano da oltre un secolo di dare - a questi e a molti altri interrogativi sulla psichiatria - risposte il più possibile condivisibili ed inscrivibili nella prospettiva olistica della condizione umana. Ad oggi, tuttavia, la ricerca di una definizione chiara, unitaria ed esaustiva della patologia, appare ancora un “oggetto in costruzione”, una sorta di carburante che alimenta senza sosta il dibattito sulle cause e gli effetti di questa forma di malessere individuale e (inevitabilmente) sociale. Nella prefazione italiana del libro di Jean Garrabè2, in relazione ad una possibile definizione di schizofrenia, viene ribadita l’assenza di un confine preciso della patologia. Le molteplici componenti che costituiscono e caratterizzano la schizofrenia interessano, infatti, ambiti vitali profondamente differenti e, almeno in apparenza, tanto lontani fra loro da indurre l’Autore – in maniera provocatoria – a chiedersi, appunto, “se” la patologia esista davvero. Al fine di contribuire ad una possibile definizione della schizofrenia e dei suoi pesanti condizionamenti nella vita delle persone, Garrabè realizza nel suo libro un importante lavoro di ricostruzione storica dello studio della patologia. Egli individua nel 1911 il momento cruciale in cui inizia il passaggio culturale dalla mera considerazione dei sintomi e dei comportamenti patologici – che nei secoli erano stati osservati e, in linea di massima, giudicati, condannati, istituzionalizzati e stigmatizzati - alla ricerca di una eziologia della schizofrenia e all’elaborazione di ipotesi metodologiche funzionali all’aiuto e al recupero dei malati. 1 Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1975, pag. 302 Jean Garrabè, Storia della schizofrenia, ed. Ma.Gi, Roma, 2001. La prefazione e la traduzione sono curate da Marco Alessandrini 2 3 Il dibattito scientifico sulla definizione della schizofrenia aveva preso avvio già diversi anni prima con il lavoro di Benedict Augustin Morel (1809-1873) sulla nozione di dementia praecox, che egli descrisse come un disturbo mentale caratterizzato prevalentemente dall’insorgenza precoce, dalla rapidità dell’evoluzione e dall’esito inevitabile (demenza effettiva). Questo ragionamento aveva introdotto l’elemento innovativo della degenerazione, ossia l’idea di deviazioni patologiche trasmissibili per via ereditaria destinate a provocare il decadimento psico-fisico della vittima. Per la prima volta i saperi psichiatrici furono orientati non solo all’osservazione clinica, ma anche ad una prospettiva dinamica/evolutiva e ad un’attenzione all’eziologia del disturbo. Le scoperte di Morel erano avvenute in un momento particolarmente importante per la scienza e la storia della psichiatria. A partire dal 1845, erano già stati avviati gli studi relativi alle psicosi, che in Germania (la Prussia di allora) seguirono fino alla fine del secolo due grandi correnti di pensiero: quella dei “Somatiker”, che attribuivano alle psicosi un’origine organica, e quella molto più diffusa degli “Psychiker” che, al contrario, sostenevano le origini psichiche della malattia. In quel periodo, il mondo accademico franco-prussiano era impegnato nell’analisi del problema concernente la classificazione delle malattie mentali, dividendosi fra l’ipotesi dell’esistenza di diverse tipologie di psicosi e l’idea – predominante – di un’unica psicosi, suddivisa in vari stadi di gravità, caratterizzati da sintomi e manifestazioni differenti. Negli ultimi anni del 1800, ulteriori elementi di grande innovazione per gli studi psichiatrici furono introdotti dagli studi di Emil Kraepelin sulla dementia praecox. Lo psichiatra prussiano pubblicò, fra la fine del 1800 ed il 1900, ben otto edizioni del suo celebre “Trattato”. In particolare, nella quinta edizione della sua opera, l’Autore confermò l’evoluzione di alcune malattie mentali (dementia praecox, catatonia e dementia paranoide); nella sesta edizione egli considerò la dementia praecox una malattia che può evolvere in tre differenti tipologie: ebefrenica, catatonica e paranoide. Quest’ultima classificazione della demenza – che aveva conferito a Kraepelin una fama internazionale – suscitò, tuttavia, anche pesanti critiche da parte di altri studiosi appartenenti alle Scuole francesi e russe (come Jules Christian e Vladimir Serbski), i quali sostanzialmente gli contestarono i seguenti argomenti: a) la compresenza in un’unica malattia di sintomi eccessivamente differenti; b) la possibilità di poter effettuare una diagnosi solo a “degenerazione avvenuta” e non all’insorgenza della patologia, secondo i canoni classici della medicina; 4 c) la mancanza di chiarezza nell’interpretazione eziologica della malattia (determinata secondo Kraepelin da un’autointossicazione di origine sessuale); d) la quasi totale esclusione degli strumenti allora disponibili di analisi psicologica. Nell’ottava ed ultima edizione del suo “Trattato”, concluso nel 1913, Kraepelin prese in seria considerazione le critiche dei suoi colleghi ed elaborò un’ultima ipotesi di classificazione, nella quale la dementia praecox venne sostituita dalle demenze endogene (comprendenti la demenza precoce e le parafrenie), la paranoia fu completamente separata da questo gruppo e fu reintrodotta l’analisi psicologica del paziente. Il definitivo passaggio dal concetto di dementia praecox a quello di schizofrenia avvenne proprio nel 1911 con la pubblicazione degli studi di alcuni fra i più importanti psichiatri e psicoanalisti dell’epoca, quali Eugen Bleuler, Sygmund Freud, Carl Gustav Jung ed un quarto autore sconosciuto, considerati i fondatori della moderna psichiatria. Fu Bleuler a coniare il termine “schizofrenia” per indicare – in aperta rottura con i suoi colleghi predecessori e soprattutto con Kraepelin – la condizione di separazione delle diverse funzioni della mente umana e, quindi, la scissione (ma anche la dissociazione, la dislocazione, la discordanza) della personalità dell’individuo. Per Bleuler la dementia praecox si suddivideva in quattro gruppi di malattie: la forma paranoide, la catatonia, l’ebefrenia e la schizofrenia semplice. Per quanto concerne la forma schizofrenica, Bleuler era convinto che non si trattasse di una patologia destinata alla cronicizzazione e al deterioramento cognitivo della persona sofferente, anche perché egli ipotizzò che la malattia fosse suddivisa in una forma semplice, più curabile poiché caratterizzata da sintomi manifesti, ed in una forma latente, più complessa ed irreversibile. Secondo Bleuler, le origini della schizofrenia erano di natura psichica più che organica e ciò spiegava il perché i disturbi dei soggetti malati erano spesso di carattere comportamentale e relazionale più che di tipo cognitivo. Di conseguenza, egli inquadrava nella patologia schizofrenica le forme di autismo, ambivalenza, anaffettività e alterata associazione di idee: disturbi non necessariamente compresenti con una scarsa intelligenza. Nello stesso periodo, Jung adottava, nei confronti dei pazienti cui era stata diagnosticata la psicosi schizofrenica, terapie di tipo psicoanalitico. In quegli anni egli curava, fra gli altri, anche una paziente molto particolare, Sabina Spielrein, una giovane ebrea tedesca cui Jung aveva diagnosticato una forma di “psicosi isterica” e per il cui trattamento egli aveva più volte chiesto l’aiuto di Freud (con il quale – a partire dal 1906 – intrattenne una regolare corrispondenza che durò per quasi sette anni). Il caso della Spielrein ebbe un esito positivo, al punto che la stessa riuscì a portare a compimento i suoi studi in medicina e in psichiatria. In quest’ultimo ambito Sabina Spielrein è ricordata come la prima studiosa delle 5 connessioni fra l’istinto di morte ed autodistruzione con quello sessuale e procreatore. Solo di recente è stata rivelata l’importanza che il legame sentimentale fra la giovane studiosa e l’affermato psichiatra Jung ha rivestito per la storia della psichiatria3. Circa la presenza e la funzione degli istinti nei quadri psico-patologici, Jung, al contrario della Spielrein, era fortemente convinto dell’esistenza di un unico istinto di vita, che non consentiva differenziazioni fra l’istinto sessuale, quello di conservazione, di autodistruzione, ecc. Lo studio degli istinti, sul quale si era avventurata con tanto impegno anche la Spielrein, fu in quel periodo di grande importanza per la comprensione e per i primi tentativi terapeutici (soprattutto) dell’autismo. Anche Freud si occupò dello studio degli istinti ed in particolare del concetto di libido, ossia una forma di impulso sessuale (e non solo): nel 1911 veniva pubblicato un suo lavoro sulla follia del “Presidente Schreber”, ispirato al caso di un magistrato sassone gravemente affetto da una patologia mentale, alla cui base Freud ipotizzò un istinto fortemente represso di tipo omosessuale e persecutorio. La pubblicazione suscitò un’eccezionale risonanza nel mondo accademico della psichiatria di allora e, in particolare, stimolò Jung ad approfondire l’idea della libido come elemento completamente distaccato dal mondo esterno nelle forme di demenza precoce. Nel decennio immediatamente precedente la Prima guerra mondiale, in relazione agli studi sulle psicopatologie e sulle terapie psicoanalitiche, determinante fu l’esperienza dell’equipe guidata da Freud e composta da esperti di valore ancora oggi fondamentale per la psichiatria, quali, oltre Jung, Eitington, Binswanger, Abraham, Ferenczi. Freud introdusse nel 1914 il concetto di narcisismo quale forma di pulsione sessuale patologicamente orientata al proprio Io, avente un ruolo fondamentale nelle patologie dell’autismo parziale e nelle nevrosi narcisistiche (queste ultime definite dall’Autore anche come parafrenie). In quel periodo, diversi studiosi approfondirono le connessioni fra schizofrenia e istinto di morte, riprendendo e spesso appropriandosi – come, del resto, fece anche Freud - delle originali e sottovalutate intuizioni di Sabina Spielrein. In particolare Freud, condizionato dalla prospettiva dualistica degli istinti, produsse una visione di contrapposizione fra “eros e thanatos” (amore/vita e odio/morte) che pose in diretta relazione causale con la schizofrenia. In proposito appare di grande interesse anche il film di Roberto Faenza, “Prendimi l’anima”, del 2002, che tenta di focalizzare anche i periodi della vita della giovane psichiatra successivi alla relazione con Jung. 3 6 2. La schizofrenia secondo la prospettiva di Eugene Minkowski Un’innovativa interpretazione della schizofrenia fu offerta negli anni compresi fra le due Guerre mondiali da Eugene Minkowski, una delle più importanti figure della storia della psichiatria. La sua vita (San Pietroburgo 1885 – Parigi 1972) è stata caratterizzata dalla sintesi di tre grandi passioni: lo studio della psichiatria, la riflessione filosofica e l’attività medica intesa come una sempre rinnovata relazione fra la duttilità del terapeuta e la rigidità dei pazienti; tutto ciò affrontato con quella “armonia con la vita”, come la definì sua figlia Jeannine, che gli consentì una straordinaria produzione di intuizioni e approfondimenti teorici e operativi. Al di là di tutte le “scoperte” di carattere teorico e metodologico - fonti di ispirazione per diverse generazioni di psichiatri - Minkowski improntò il suo agire professionale sulla difesa irremovibile dell’importanza dei processi di identificazione terapeuta-paziente e sull’accettazione del “diverso”, quale segno prioritario della “responsabilità” della persona sana nei confronti di quella malata. Sul piano filosofico – che riteneva naturalmente connesso alla psicopatologia Minkowski fu fortemente condizionato dal pensiero di Henri Bergson, che superava il positivismo attribuendo all’intuizione e all’istinto una funzione di primaria importanza per la ragione umana. Per quanto concerne, invece, il rapporto con i colleghi, Minkowski si schierò con la maggior parte degli psichiatri suoi contemporanei nella critica all’eccessiva rigidità della classificazione di Kraepelin, pur riconoscendone il grande valore nella diagnostica e nella nosografia. Nella “storica” clinica svizzera di Burgholzli, egli affiancò per diversi anni Bleuler negli studi sulla schizofrenia ed ebbe importanti confronti con studiosi del calibro di Jung, Spielrein, Binswanger, Abraham e Freud. In particolare, Minkowski fu decisamente attratto dall’esperienza psicoanalitica di quest’ultimo, comprendendo – a differenza di altri suoi colleghi – il valore del confronto fra le due discipline, al punto da contribuire alla costituzione di un’associazione (la Evolution Psychiatrique) avente l’obiettivo di tutelare il rapporto teorico e metodologico fra psichiatria e psicoanalisi. Nel suo testo sulla schizofrenia4, che Minkowski pubblica nel 1927, egli muove dalle considerazioni di Bleuler sulle origini ereditarie della malattia ed, in particolare, sulla sua distinzione fra la “forma latente” e la “forma manifesta”, molto meno frequente, che veniva studiata nei manicomi. Minkowski riconosce all’interpretazione ereditaria un indubbio valore causale del fenomeno patologico, tuttavia preferisce analizzare con maggiore attenzione la nosologia della schizofrenia – già avviata da studiosi come Kretschmer, Bleuler, Delmas e 4 E. Minkowski, La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, ed. G. Einaudi, Torino, 1998 7 Boll – che distingue la malattia nelle due macro-tipologie di sintonia e di schizoidia (che in Kretschmer si suddivide a sua volta in cicloidia, schizotimia e ciclotimia). Anche se non in modo pedissequo, alla prima vengono ricondotti gli aspetti psicopatologici (come quelli maniaco-depressivi) che non impediscono al soggetto malato di percepire ed avere relazioni significative con gli elementi essenziali dell’ambiente che lo circonda. Al contrario, nella schizoidia (o schizofrenia) la persona è completamente avulsa dal contesto ambientale e relazionale cui appartiene, non si lascia attraversare/contaminare da ciò che è esterno ad essa. Minkowski spiega che tale fondamentale e dolorosa peculiarità della schizofrenia non è generata dalla diminuzione di una funzione intellettiva piuttosto che di un’altra: la lesione che costituisce la malattia interessa trasversalmente tutte le funzioni mentali del soggetto, poiché disturba ed impedisce la loro connessione armonica. Spesso gli studiosi hanno rimarcato – ciascuno a suo modo – che, a differenza del demente, lo schizofrenico possiede tutte le facoltà mentali di un’intelligenza “normale”, ma queste appaiono “scombinate” fra loro, prive di nesso, come “un libro completo non rilegato con le pagine in disordine”. Minkowski non condivide pienamente questa interpretazione “definitiva” della malattia e cita gli studi di Henry Bergson sulla contrapposizione fra concetto di istinto e di intelligenza, che collocano i dati più importanti della coscienza e dell’intelletto umano (l’affettività, le sensazioni, gli stimoli, i riflessi,..) nella sfera irrazionale. Il disturbo essenziale della schizofrenia diviene, pertanto, la perdita del contatto vitale con la realtà, concetto di cui Minkowski rivendica una buona quota di paternità e che esprime più di ogni altro l’orientamento ed il pensiero dell’Autore. Nel testo di Minkowski, le argomentazioni sulla perdita del contatto vitale con la realtà sono ricercate ed individuate nella pratica medica quotidiana: vengono messi a confronto casi gravissimi di paralisi generale nella fase di rimbambimento e casi altrettanto disperati di persone schizofreniche i cui comportamenti manifesti appaiono ad una prima osservazione molto simili. A differenza dei primi, negli schizofrenici si possono notare soprattutto l’assenza di senso statico (ossia il significato dell’essere “io-qui-adesso”), una marcata depersonalizzazione (manca l’affermazione dell’io), l’assenza del fattore pragmatico (gli schizofrenici perdono interesse nei confronti dello scorrere del tempo e della loro collocazione nello spazio) e l’interruzione del dinamismo mentale (i soggetti percepiscono se stessi e la realtà circostante come elementi immobili, manca la percezione della durata di un avvenimento). Circoscritto entro precisi limiti, l’isolamento dal mondo viene riconosciuto fisiologico anche da Minkowski, che considera tale atteggiamento un’esigenza reale di ogni essere 8 umano; al contrario, l’isolamento della persona schizofrenica, unito ai tratti prima delineati, diviene una delle componenti più dannose, in quanto essa spinge l’individuo a sviluppare un agire improntato al cosiddetto “razionalismo morboso”, ossia ad un irrigidimento eccessivo nei parametri logico-matematici della realtà e ad una contestuale diminuzione delle capacità affettive ed emozionali. L’isolamento della persona schizofrenica rispetto alle proprie reti parentali e sociali, oltre che essere fonte di grande sofferenza per il paziente e per coloro che lo circondano, rappresenta, tuttavia, l’elemento strategico nell’impostazione della terapia: mediante un’efficace lettura delle citate reti da parte del terapeuta, è possibile infatti “realizzare una strategia terapeutica capace di sottrarre il malato al processo di destoricizzazione che lo allontana dall’Altro, per restituirlo alla sua storicità essenziale, e quindi alla pienezza e alla libertà della sua compresenza.”5 Condizione ancora diversa è rappresentata dall’autismo, che Bleuler definisce “il distacco dalla realtà e la predominanza della vita interiore”, un isolamento estremo del malato causato dalla completa chiusura del suo mondo interiore ad ogni possibile contatto con la realtà. Eugenio Borgna6, facendo proprie le considerazioni di Bleuler, afferma l’esistenza di un autismo schizofrenico, ossia l’autismo come sintomo primario dell’esperienza psicotica, decisamente differente per categorie sintomatologiche dall’autismo depressivo, le cui diversità dalla forma schizofrenica vengono così sintetizzate dall’Autore: “Se nell’autismo schizofrenico il distacco dalla realtà è oscillante nelle sue forme di espressione, e la vita interiore è solcata dall’irrompere dell’immaginario (del fantasmatico) e dalla presenza, a volte, di una riverie straziante, nell’autismo depressivo le cose sono diverse: non c’è questa epifania dell’immaginario e la separazione dal reale è più radicale”7. Secondo Minkowski esiste un “pensiero autistico” contrapposto ad uno “realistico”, ossia il distacco totale dalla realtà (tipico della condizione patologica) in antitesi rispetto al quotidiano “fare i conti” con la realtà per ricavare la massima soddisfazione dei propri bisogni (come accade nella condizione fisiologica). Fra le altre ipotesi nosologiche dell’autismo, vi è la distinzione fra quelle che Minkowski definisce la forma ricca e la forma povera della malattia: l’una caratterizzata da uno stretto rapporto con il sogno e con le fantasticherie (il fenomeno della rèverie) – al punto da consentire al soggetto disturbato di vivere in un mondo immaginario – e l’altra che, invece, M.Galzigna, “Binswanger e le strutture della presenza”, in L. Binswanger, Il caso Suzanne Urban, ed. Marsilio, Venezia, 2001, pag. 51. 6 E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992 7 E. Borgna, op. cit. pag. 88 5 9 riflette il più assoluto e drammatico vuoto o, per dirla con l’Autore “il soffio glaciale della demenza affettiva”. Per lungo tempo gli studiosi hanno creduto in un presunto aspetto “totalizzante” della rèverie nei confronti della schizofrenia, quasi che la persona malata vivesse esclusivamente immersa nel suo mondo fantastico, ma progressivamente tale prospettiva è stata ridimensionata. Esiste, infatti, anche nell’autismo, una sorta di “attività”, anche se non pienamente coerente con la realtà e priva della consapevolezza degli obiettivi e dell’importanza del loro conseguimento. Minkowski riconosce, dunque, una rèverie normale – che, anche quando assume la forma più incidente, viene costantemente affiancata dalla coscienza latente della realtà - ed una morbosa, frutto inequivocabile della patologia schizofrenica, caratterizzata dalla concentrazione del soggetto malato su pochissime idee e fantasie, reiterate costantemente .ed in maniera stereotipata. Insieme all’interiorizzazione e alla rèverie morbosa, altri tipici atteggiamenti schizofrenici sono individuati da Minkowski nei malumori morbosi (costituiti da un ripiegamento del malato su se stesso con produzione di comportamenti rabbiosi, collerici, intolleranti e melanconici), nei cosiddetti rimpianti morbosi o atteggiamenti interrogativi, ossia la mancanza di ogni capacità di immaginazione/proiezione/progettazione nei confronti del tempo futuro, una sorta di continuo ritorno del soggetto malato sul suo tempo trascorso, costituito da onnipresenti rimpianti e da una fossilizzazione del comportamento sulla costante “interrogazione” delle scelte prese in passato e delle soluzioni trovate. In questo caso l’atteggiamento interrogativo diviene l’unico legame significativo del soggetto con il mondo esterno. Un ulteriore frequente atteggiamento schizofrenico è costituito dalle stereotipie psichiche: movimenti corporei reiterati in modo esasperato, allo scopo di riempire quei “vuoti” che la patologia determina fra la persona sofferente e l’ambiente esterno. Circa la probabilità di guarigione della persona schizofrenica, Minkowski chiarisce in modo inequivocabile la grande influenza che assume la qualità del rapporto terapeutico fra medico e paziente e, ancor di più, la convinzione e la consapevolezza da parte degli psichiatri della “curabilità” dei malati: per l’Autore è infatti determinante, ai fini della cura e della guarigione, che il medico non abbandoni mai la relazione – pur problematica e talvolta apparentemente “impossibile” – dialogica ed empatica con il paziente. Minkowski nel 1927 ha tracciato un’importante linea di demarcazione nella storia della psichiatria distinguendo, forse per la prima volta, gli “eccessi” della nosologia e degli “intellettualismi” sulla schizofrenia dall’esigenza di incentivare nel malato e nel rapporto terapeutico gli aspetti più propriamente emotivi ed affettivi. 10 3. Binswanger e il “caso Suzanne Urban” A partire dal secondo dopoguerra le osservazioni, gli studi e le pubblicazioni sulla schizofrenia si moltiplicarono velocemente in Europa e in Nord America, a causa della sempre crescente attenzione al problema e ai progressi della ricerca e delle terapie. Nel 1952 fu pubblicato il testo di Ludwig Binswanger “Il caso Suzanne Urban, storia di una schizofrenia”, una dettagliata riflessione su un caso di psicosi, destinata a mutare definitivamente il corso degli studi psichiatrici, anche se la straordinaria vicenda umana e professionale rappresentata dal rapporto terapeutico instaurato fra Binswanger e Susanne Urban era, per la verità, iniziata diversi anni prima. Nell’introduzione al testo di Binswanger8, Eugenio Borgna evidenzia le principali correlazioni fra i tratti costitutivi della malattia della Urban e l’elaborazione della Daseinsanalyse, ossia l’”analisi della presenza”, un approccio metodologico all’analisi psichiatrica di tipo filosofico/fenomenologico, fondato sul rapporto che si instaura fra la condizione del paziente psicotico e la sua percezione di “essere nel mondo”. Fu proprio Binswanger ad introdurre per primo la Daseinsanalyse, movendo dalla considerazione della condizione umana non limitata alla “semplice” esistenza, ma intesa come dasein, ossia esserenel-mondo, ossia essere in continuo mutare. Si tratta di una costruzione che risente fortemente delle influenze filosofiche dell’esistenzialismo (in quegli anni rappresentato soprattutto da Heidegger) che condizionò, oltre l’Autore, numerosi altri studiosi delle “scienze umane”, come Minkowski, Strauss e Cargnello in Italia. Mediante la Daseinsanalyse, Binswanger intendeva dimostrare che <<una psichiatria è impossibile senza un antropologia e [egli] nei suoi malati ha cercato l’”uomo”, l’”essere umano”, tentando di vedere ciò che lo rende più o meno umano. La Daseinsanalyse, quindi, cerca attraverso il curriculum della storia di un individuo, attraverso la “storia della vita interiore”, la “categorialità di fondo” dell’essere di quell’individuo, cerca il suo “a-priori esistenziale”, lo specifico modo in cui quell’individuo progetta il mondo, conferendo un significato a cose, eventi, rapporti.>>9. Secondo Mario Galzigna – nell’introduzione al medesimo testo di Binswanger10 l’insorgenza della malattia mentale è conseguente ad un progetto-di-mondo (Dasein) limitato e ridotto ad un’unica idea che predomina tragicamente tutta la prospettiva esistenziale di un individuo: nel caso di Suzanne Urban, l’unica idea dominante il suo orizzonte di vita è una 8 L. Binswanger, Il caso Suzanne Urban, a cura di E. Borgna e M. Galzigna, ed. Marsilio, Venezia, 1994 G. Reale e D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. 3, ed. La Scuola, Brescia, 1983, pag. 475 10 L. Binswanger, Il caso Su zanne Urban, op.cit. 9 11 tremenda angoscia che scaturisce da un delirio di persecuzione. Binswanger diagnosticò senza esitazione alla sua paziente una forma di schizofrenia, spiegando poi nel suo testo di avere una visione della malattia di carattere decisamente antropoanalitico, basata su elementi ben precisi come il superamento del dualismo fra soma e psiche, l’interpretazione di sintomi come “intermittenze”, le temporanee interruzioni dell’esserci, una dimensione esistenziale spazio-temporale completamente sopraffatta dall’orrore. L’approccio antropoanalitico in Binswanger emerge anche sul piano metodologico oltre che teoretico, poiché egli cercò di incontrare le persone sofferenti nei loro aspetti esistenziali complessivi, redigendo successivamente ad ogni incontro una dettagliata descrizione dei sintomi, delle condizioni dei disturbi e degli effetti delle terapie intraprese. Nella relazione sul caso di Suzanne Urban, il terapeuta effettua una minuziosa anamnesi della paziente, dalla quale emergono elementi di particolare interesse per la comprensione della condizione esistenziale della stessa. Nel testo è riportata la storia di Suzanne Urban partendo dalla sua infanzia; viene descritta la qualità delle relazioni con i suoi familiari, l’episodio del suicidio della sorella, il legame profondo con il marito e le reazioni alla notizia della grave malattia che colpisce quest’ultimo. La notizia delle gravi condizioni di salute del marito, da parte dei medici, viene individuata quale momento cruciale (la scena originaria) per la sintomatologia della malattia della paziente. Dal momento in cui apprende il pericolo di vita del consorte, Suzanne manifesta quei segnali di disagio psicologico e comportamentale che l’accompagneranno – a fasi alterne – per il resto della sua vita, come i disturbi alimentari, l’insonnia, i frequenti soliloqui, la profonda tristezza, i problemi funzionali legati alla “percezione, la memoria, l’ideazione, il giudizio, l’affettività ecc.”11. Si tratta dei primi segnali di una condizione destinata a divenire sempre più drammatica. Negli undici mesi precedenti l’arrivo ed il ricovero della donna nell’Istituto di Kreuzlingen, secondo la ricostruzione diacronica operata da Binswanger, la malattia si manifesta attraverso una serie di episodi caratterizzati da un crescente panico e terrore, accompagnati da deliri ed allucinazioni, inappetenza, notevole perdita di peso e pianti continui. In quel periodo Suzanne vive tormentata dai sospetti di complotti e persecuzioni ai danni della sua persona e delle sua famiglia, in un’angoscia che lei stessa non esita a definire “senza fine”. Il rapporto con lo spazio diviene per la paziente completamente privo di ogni senso, in quanto l’unico spazio che la stessa riconosce è la “scena del terrore”. Anche il tempo, o meglio, il nuovo, la triste novità che il tempo le ha riservato (ossia la notizia della 11 M. Galzigna, in L. Binswanger, Il caso Su zanne Urban, op. cit., pag. 35 12 malattia del marito), è intriso di terrore e sofferenza ed ella cerca di eluderlo, di sfuggire al tempo, in quanto esclusivamente portatore di dolore. A seguito del ricovero e delle conseguenti analisi dell’esserci effettuate da Binswanger, a Suzanne viene diagnosticato un delirio depressivo e, in particolare, di tipo persecutorio quale principale segnale della condizione di schizofrenia che coinvolge la mente della donna; tale condizione si rivelerà irreversibile e sarà costituita dall’unico “progetto di mondo” improntato al terribile e all’autodistruzione. 4. Il concetto di schizofrenia fino al secondo dopoguerra Gli studi sulla schizofrenia, durante gli anni della Grande guerra, erano stati notevolmente influenzati anche dalle tragiche epidemie della “febbre spagnola” e della “encefalite letargica”, che avevano causato nel mondo diversi milioni di vittime. I sopravvissuti dell’encefalite letargica furono sottoposti ad accertamenti e cure che condussero alle prime elaborazioni di modelli anatomici e biochimici del cervello, successivamente utilizzati per gli studi sulla schizofrenia e sulle psicosi in genere. A partire dall’immediato dopoguerra, la schizofrenia divenne il tema centrale sul quale il mondo della psichiatria concentrò gran parte delle proprie energie e ricerche, complici anche le congiunture storiche e sociali determinate dalla grande follia collettiva scatenata durante il conflitto. Fra gli aspetti più studiati cominciarono a farsi strada le strategie di cura. In particolare, uno dei trattamenti più diffusi della schizofrenia era diventata la cosiddetta “cura del sonno” o narcoterapia, applicata per la prima volta da Jacob Klaesi, all’epoca direttore dell’Istituto di Burgholzhli (lo stesso dove era stata ricoverata la Spielrein anni prima). Questo genere di terapia, indotto dalla somministrazione di abbondanti dosi di sonnifero, muoveva dalla constatazione dei gravi problemi di insonnia di cui soffrivano i malati e dall’esigenza di “liberare gli schizofrenici dai loro automatismi”, come avevano affermato gli studiosi Morel e Quetel già all’inizio del secolo. Altri metodi di cura che, in gran parte, cominciavano a sostituire la narcoterapia si ispiravano al principio dello “shock”, una sorta di brusca modificazione della condizione psico-fisica del soggetto, ottenuta mediante metodi diversi, come l’insulinoterapia sperimentata a Berlino da Manfred Sakel dapprima con i morfinomani poi con gli schizofrenici, la terapia convulsivante applicata dal ricercatore ungherese Laszlo Von Medusa e l’elettroshock presentato dallo studioso italiano Ugo Cerletti, consistente 13 nell’impiego di elettricità per procurare convulsioni, che, dopo anni di alterne fortune, è stato definitivamente superato nella cura della schizofrenia. La terapia psicochirurgica costituisce un’altra significativa area di studi nel panorama della psichiatria del primo dopoguerra, rappresentata soprattutto dalle ricerche del dott. Egas Moniz, i cui esperimenti gli valsero anche un Premio Nobel per la medicina nel 1949. Le pratiche di lobotomia conobbero una certa diffusione nei Paesi industrializzati, prima di essere fortunatamente limitate a partire dagli anni ’80. Nello stesso periodo, ricordato soprattutto per gli studi di Bleuler e Minkowski, si svilupparono anche le riflessioni di Karl Jaspers, di fondamentali importanza per l’approccio filosofico fenomenologico alla schizofrenia, che tanta influenza ha avuto e a tutt’oggi riveste per lo studio e la cura della malattia: a differenza di molti suoi colleghi coevi, per tale Autore la patologia era un fatto addirittura “creativo”, almeno nei suoi stadi iniziali. In Europa, l’esperienza del nazifascismo condusse ad epici stravolgimenti anche nella riflessione e nella gestione della schizofrenia: molti psichiatri e ricercatori furono costretti ad emigrare dalla Germania facendo la fortuna della scienza e della ricerca dei Paesi ospiti. In Francia, durante gli anni del conflitto, crebbe a dismisura il numero dei decessi di persone ricoverate negli ospedali psichiatrici, prevalentemente causato dall’improvviso e drastico abbassamento di calorie distribuite mediante le razioni alimentari. Secondo le direttive del sistema nazista, la distribuzione di cibo giornaliero doveva essere inferiore alle 1700 calorie e ciò rispondeva ad un preciso disegno di sterminio di massa. In quel periodo vennero, inoltre, portati a compimento significativi progressi nella sintesi chimica di molecole costitutive alcune droghe, quali l’acido lisergico (LSD) e la mescalina. L’uso di tali sostanze fu, negli anni fra le due Guerre, un’abitudine decisamente poco frequente, acquisita prevalentemente da parte di personaggi di prestigio come, ad esempio, l’artista e poeta francese Antonin Artaud, una caso divenuto nel tempo emblematico di assunzione di droghe e contestuale sofferenza da disturbi psicotici. Il caso Artaud – che secondo J. Garrabè, potrebbe essere oggi definito un caso di farmacopsicosi divenne particolarmente importante perché condusse il mondo della psichiatria a riflettere: a) sul dato dell’esito psicotico in alcuni (e non in tutti) i tossicomani e b) sull’eventualità che alcune sostanze possano essere più dannose – ossia slatentizzanti, schizofrenizzanti- di altre. Artaud aveva “subito” diverse terapie durante i suoi prolungati ricoveri, dall’elettroshok all’assunzione di peyotl, ma senza conseguire risultati soddisfacenti; anzi, egli aveva più volte, nei momenti di lucidità, criticato aspramente gli effetti delle terapie che gli venivano somministrate: sperava di guarire definitivamente solo con l’assunzione di peyotl, cui attribuiva poteri taumaturgici derivanti più dalla magia che dalle proprietà farmacologiche. 14 Il principio attivo del peyotl è la mescalina, una molecola dalle proprietà allucinogene ed euforizzanti che alla lunga sfociano in patologie psicotiche molto simili ad alcune tipologie schizofreniche; durante la Seconda Guerra mondiale, l’uso di tale sostanza fu diffuso soprattutto fra i giovani militari, allo scopo di ridurre il senso di sonnolenza e di panico in situazioni di particolare pericolo e violenza. La sintesi chimica di determinate “amine” e l’osservazione dei loro effetti devastanti per la mente umana attirarono ben presto l’attenzione di numerosi ricercatori sulle terapie farmacologiche più efficaci per il contenimento e la riduzione dei danni provocati dalle sostanze sintetiche. Furono, così, sintetizzate altre molecole (come le fenotiazine ed alcuni anti-istaminici) che costituirono un antidoto agli stati di sovreccitazione e che furono addirittura impiegate nella cura del parkinson. La complessa questione delle connessioni fra sostanze sintetiche e governo della mente era, tuttavia, negli anni’40, appena agli inizi: neppure le guerre, infatti, erano riuscite a fermare le ricerche su queste interrelazioni. Progressivamente, fino ai giorni nostri, sono stati approfonditi gli studi sulle farmacopsicosi (ossia quelle forme di psicosi causate dall’uso di droghe) e, più di recente, sulla sindrome della doppia diagnosi (o comorbidità): ossia le forme di compresenza in una stessa persona di comportamenti tossicomanici e di sintomi psicopatologici. Tuttavia, se si sposta il focus di questi problemi da un piano più speculativo ed “accademico” ad un livello più strettamente terapeutico, si osserva che in entrambi i casi si tratta di condizioni di sofferenza per lungo tempo trascurate dal mondo della psichiatria, che non ha saputo/potuto/voluto cogliere la dimensione olistica della propria operatività. Ancora oggi, se pure con minore frequenza, si assiste ad episodi di “rimpallo” dei pazienti dai Servizi di salute mentale a quelli per le dipendenze patologiche, poiché a torto ritenuti “di competenza” di questi ultimi. In taluni casi si registra, inoltre, la confusione dovuta, da una lato, ad un certo riduttivismo medico, che scaturisce da un approccio prevalentemente patologizzante e psicofarmacologico ai disturbi psicotici e, d’altro canto, ad un pre-giudizio sociale molto radicato nei confronti del ricorso alle droghe: un comportamento sovente identificato come segnale di disadattamento e/o devianza. Alcuni recenti studi hanno evidenziato problemi di comorbidità negli assuntori abituali di alcol, eroina e cocaina, spesso afflitti anche da disturbi d’ansia, forme depressive, disturbi del sonno e della concentrazione. In relazione a tali particolari tipologie di disturbo psichico, gli studiosi First e Gladis hanno proposto una classificazione di massima12 che potrebbe essere sintetizzata come segue: 12 Paolo Rigliano, Paolo Miragoli, Tossicomania e sofferenza mentale: la questione della doppia diagnosi, in "Rivista sperimentale di feniatria" n. 1/2000. La versione integrale, completa di riferimenti scientifici e di una ricca bibliografia, è reperibile nel sito [email protected] 15 a) pazienti con disturbo psichiatrico primario e dipendenza secondaria, b) pazienti con tossicomania primaria e disturbi psichiatrici secondari, c) pazienti con disturbi psichiatrici e tossicodipendenza entrambi primari. La letteratura scientifica e/o, comunque, “ispiratrice” di riflessioni di carattere psichiatrico, ebbe, dunque, una progressiva e notevole crescita durante la prima metà del ventesimo secolo. In proposito, determinanti sono ancora oggi considerate alcune opere, quali: “L’essere e il nulla” di Jean Paul Sartre, un saggio di carattere fenomenologico pubblicato nel 1943 e scritto in parte sotto l’effetto di una amfetamina, che reputava la schizofrenia un’esperienza esistenziale; l’articolo di Kanner “Disturbi autistici e contatto affettivo”, nel quale viene avanzata la proposta di indicare con la denominazione di autismo precoce infantile la sindrome caratterizzata dalla mancanza di proprietà del linguaggio da parte dei bambini più piccoli, in passato considerata vero e proprio ritardo mentale: tutto ciò per evidenziare la “fisiologia” di determinate condizioni, vissute in chiave patologica dalla società più che dalla scienza. Un’altra importante opera è rappresentata dal “Comportamento individuale e di massa nelle situazioni estreme” di Bruno Bettelheim, pubblicato anch’esso nel 1943, nel quale sono descritti gli effetti sul comportamento umano conseguenti alla detenzione nei campi di sterminio nazisti. Nel periodo della Seconda Guerra mondiale furono, inoltre, pubblicate le opere di Anna Freud e Melanine Klein sulle psicosi infantili, di W.R. Bion sulle “nevrosi traumatiche di guerra”, di Paul Federn e Paul Schilder sulle tecniche di psicoterapia. Gli studi fin qui citati ebbero una notevole influenza anche sull’orientamento delle strategie terapeutiche, improntato con sempre maggiore attenzione alla psicoterapia e alla forza del colloquio fra tecnico e paziente. Circa l’importanza del colloquio terapeutico, Eugenio Borgna cita la suggestiva riflessione di Martin Heidegger: “Noi siamo un colloquio. L’essere dell’uomo si fonda nel linguaggio; ma questo accade autenticamente solo nel colloquio”13. Un’innovativa chiave di lettura – di grande interesse non solo per gli studiosi di psichiatria – fu introdotta anche dall’etnologo psicoanalista Georges Devereux e da Geza Roheim, che approfondirono le significative ed affascinanti implicazioni fra psicoanalisi ed antropologia culturale: il primo, elaborando una “teoria sociologica della schizofrenia”, ed il secondo mediante la pubblicazione di “Magia e schizofrenia” avvenuta nel 1955. In quel periodo si aprì una nuova frontiera nello studio della psichiatria, relativa alla sfera “culturale” 13 E. Borgna, Malinconia, op. cit., pag. 166 16 dell’Io, che influenza la determinazione, la percezione e l’analisi delle patologie mentali secondo le differenze culturali dei diversi gruppi umani. Si tratta di una materia che, a partire dalla seconda metà del ‘900, si è sviluppata prevalentemente negli Stati Uniti fino a fondare le basi di una nuova branca della scienza psichiatrica, l’etnopsichiatria, che ha avuto altri importanti riferimenti nelle figure di Ruth Benedict, Gregory Bateson, Margaret Mead e Claude Levi-Strauss. Nel nostro Paese l’etnopsichiatria è una disciplina ancora giovane, anche se in espansione: i legami fra il disagio mentale in generale ed i punti di osservazione dai quali si cerca di cogliere le “differenze culturali” stanno progressivamente diventando un oggetto di studio di fondamentale importanza, anche a causa dell’impatto che i fenomeni migratori hanno prodotto negli ultimi anni nel tessuto sociale italiano. La percezione ed il rapporto con l’”Altro”, intesi sia come fascinazione sia in quanto problema (pregiudizio, rifiuto, discriminazione,..) è diventato anche in Italia un indicatore sociale, istituzionale, politico, economico fondamentale per una seria analisi della comunità civile. A tale tematica, lo studio dell’etnopsichiatria non potrà che contribuire in misura sempre maggiore e sempre più opportunamente. 17 BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA G..Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1975 J. Garrabè, Storia della schizofrenia, ed. Ma.Gi, Roma, 2001. La prefazione e la traduzione sono curate da Marco Alessandrini E. Minkowski, La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, ed. G. Einaudi, Torino, 1998 M.Galzigna, “Binswanger e le strutture della presenza”, in L. Binswanger, Il caso Suzanne Urban, ed. Marsilio, Venezia, 2001 E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992 L. Binswanger, Il caso Suzanne Urban, a cura di E. Borgna e M. Galzigna, ed. Marsilio, Venezia, 1994 G. Reale e D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. 3, ed. La Scuola, Brescia, 1983 P. Rigliano, P. Miragoli, Tossicomania e sofferenza mentale: la questione della doppia diagnosi, in "Rivista sperimentale di feniatria" n. 1/2000. La versione integrale, completa di riferimenti scientifici e di una ricca bibliografia, è reperibile nel sito [email protected] it.encarta.msn.com/enciclopedia www.psychiatryonline.it www.thiene.it www.psicoanalisi.it www.psicolinea.it 18