L`uso dei derivati negli enti locali

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L’uso dei derivati
negli enti locali
Studi e Ricerche
Lo studio è stato realizzato
dal Dipartimento Finanza Locale IFEL
con il coordinamento di Andrea Ferri
a cura di
Umberto Cherubini e Salvatore Parlato
Il volume è stato chiuso il 30 ottobre 2014
ISBN 978-88-6650-113-8
La pubblicazione è liberamente scaricabile
dal portale IFEL - Sezione Studi e Ricerche
nei formati digitali
Progetto grafico:
Giuliano Vittori, Pasquale Cimaroli, Claudia Pacelli
www.backup.it
Indice
Introduzione
5
Capitolo 1
La scelta di finanziamento
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Capitolo 2
Finanziamento a tasso fisso o a tasso variabile
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Capitolo 3
Derivati: la scelta intermedia
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Capitolo 4
Misure di convenienza economica
4.1. Il trade-off rischio/costo
4.2. Una misura di costo ed efficacia di un derivato
4.3. Scomposizione del costo
4.4. Applicazioni su campione non rappresentativo
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37
38
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Capitolo 5
Un esempio di ristrutturazione di un contratto derivato
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Appendice 1
Valutazione di debito, con ammortamento e sinking fund
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Appendice 2
Emendamento IFEL alla legge di stabilità per il 2014
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Introduzione
Le norme previste nella legge di stabilità per il 2014 all’articolo 16 hanno
rappresentato l’atto finale di un travaglio normativo che ha riguardato l’utilizzo dei contratti derivati da parte degli enti pubblici e che ha occupato
tutto il primo decennio del secolo. In estrema sintesi, la posizione finale assunta dalla politica può essere riassunta nel concetto che gli enti possono
solo acquistare dalle banche garanzie contro il rialzo dei tassi. Ma a fianco
di questo principio, che è assolutamente condivisibile, la norma lascia una
vasta zona d’ombra, che da un lato riguarda la gestione del debito corrente delle amministrazioni pubbliche, e dall’altro espone gli enti pubblici a
rischi per la sistemazione di situazioni pregresse di utilizzo dei contratti
derivati. Scopo di questo studio è ripercorrere l’esperienza dell’utilizzo dei
contratti derivati da parte degli enti pubblici, e sulla base di questa sollevare gli elementi di criticità che la normativa attuale pone alla gestione del
loro debito e nella sistemazione di posizioni in derivati esistenti.
Il principio di fondo che ispira questo studio, e che è stato trascurato nel
dibattito di tipo pubblicistico e politico, è che l’analisi e il giudizio sull’utilizzo dei contratti derivati da parte degli enti pubblici non può essere fatto
senza e fuori da una valutazione complessiva della politica di bilancio e di
gestione del debito. I contratti derivati consentono di realizzare una scelta intermedia tra il finanziamento a tasso fisso e a tasso variabile che in
loro assenza non sarebbe possibile. Inoltre, questa scelta, che è il finan5
L’uso dei derivati negli enti locali
ziamento a tasso variabile con garanzia contro il rialzo dei tassi, è quella
preservata dall’articolo 16 della legge di stabilità, e a cui riserviamo il giudizio positivo. In effetti, mostreremo che scelte intermedie rappresentano
per loro natura rischi minori delle scelte più estreme. Questo contraddice
il senso comune, largamente diffuso nella pubblicistica, che il finanziamento a tasso fisso o a tasso variabile siano le scelte meno rischiose. Vedremo che sono senza dubbio più rischiose di un finanziamento a tasso
variabile con garanzia contro il rialzo dei tassi.
Accanto a questo aspetto positivo, che comunque non deve essere sopravvalutato - in fondo si permette a un comune o una regione di poter
accedere alla stessa scelta di cui i cittadini già dispongono quando stipulano un mutuo per l’acquisto di una casa – permangono però molte
ombre. Le preoccupazioni riguardano il modo in cui questa possibilità di
scelta intermedia potrà essere effettivamente attuata dagli enti pubblici,
e affondano le radici nei rapporti tra enti pubblici e banche cui abbiamo
assistito negli ultimi dieci anni.
Non possiamo dire se la relazione tra banche ed enti pubblici in questi
anni sia stata motivata da scarsa competenza o malafede, e se queste
colpe debbano essere cercate nel personale delle banche o della pubblica
amministrazione. Quello che possiamo affermare con certezza è che la relazione tra banche ed enti pubblici è stata contraddistinta dalla mancanza
assoluta di trasparenza. Questo problema di trasparenza permane, e non
è stato minimamente intaccato dall’articolo 16 della legge di stabilità. Siamo anzi testimoni di una volontà esplicita della politica di non affrontare
il tema, che è stato sollevato ripetutamente in emendamenti presentati sia
al Senato che alla Camera e sistematicamente respinti. Alla luce di questo
comportamento della politica, l’apertura lasciata nell’articolo 16 all’utilizzo
dei derivati per la copertura dal rialzo dei tassi può trasformarsi nel rischio
di ulteriori trasferimenti di valore dagli enti pubblici alle banche. La mancanza di norme che assicurino la trasparenza sulla convenienza economica
del contratto derivato offerto dalla banca all’ente porterà necessariamente al protrarsi del rapporto conflittuale cui abbiamo assistito negli ultimi
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Introduzione
anni. Inoltre, la previsione che le banche e gli enti possano ristrutturare i
contratti esistenti, in modo da chiuderli o metterli in regola, rappresenta,
in assenza di norme sulla trasparenza, quasi un invito al sistema bancario
a intervenire lucrando ulteriori commissioni non dichiarate.
Le preoccupazioni sopra riportate non nascono da un’attitudine pessimistica di tipo pregiudiziale e immotivato, ma sono fondate sulla storia delle
relazioni tra banche ed enti pubblici che riportiamo in questo studio. Vedremo che tale storia può essere articolata in tre fasi, l’ultima delle quali è
quella inaugurata dalla legge di stabilità 2013 e che ci apprestiamo a vivere.
In modo molto schematico, la prima fase ha visto l’intervento delle banche
nel proporre contratti per la ristrutturazione del debito degli enti pubblici,
in un momento in cui gli enti pubblici avevano un problema estremamente rilevante. Nel caso tipico, gli enti erano bloccati in contratti a lunghissima scadenza con tassi fissi contratti prima dell’ingresso dell’Italia nell’area euro. Quando i tassi di mercato sul debito pubblico hanno cominciato
precipitosamente a ridursi, e oggi sappiamo anche che si sono ridotti in
maniera eccessiva rispetto allo stato dei conti pubblici italiani, gli enti si
sono trovati nella necessità di ridurre il loro onere di interessi sul debito.
Inoltre, le previsioni normative, che imponevano piani di ammortamento
cui gli investitori al dettaglio sui mercati dei titoli non sono abituati, hanno
precluso la via diretta del ricorso al mercato, con un mercato di titoli BOC
che non è mai decollato, e hanno aperto la strada alle banche. Le banche
sono quindi intervenute, e nella prima fase del loro intervento hanno dato
indubbia prova di scarsa competenza, e in molti casi di malafede, proponendo prodotti che non rappresentavano strumenti di copertura, ma
scommesse sull’evoluzione dei tassi. Il contratto tipico di questa prima
fase era: se i tassi di interesse di mercato scendono al di sotto di una certa soglia, l’ente pagherà un tasso fisso inferiore a quello, alto, che paga
adesso. Se invece l’ente perde la scommessa, pagherà molto di più: tipicamente seguirà l’andamento al rialzo dei tassi, pagando un sostanzioso
“spread”, cioè un tasso fisso aggiuntivo. Questi prodotti, noti come “digitali”, che le banche hanno offerto in questa prima fase, non sono strumenti
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L’uso dei derivati negli enti locali
di gestione del rischio, e sollevano la domanda del perché le banche non
abbiano invece proposto un servizio di controllo del rischio.
Intorno al 2005 inizia la seconda fase della storia della relazione tra enti
pubblici e banche. A seguito di una norma che proibiva i prodotti speculativi che abbiamo descritto sopra, gli enti si sono visti proporre prodotti che
in linea di principio sono adatti al controllo del rischio di tasso. Il prodotto
che contraddistingue questo periodo, che arriva fino al 2013, è il cosiddetto
“collar”. Si tratta di uno scambio bilaterale di derivati tra la banca e l’ente.
In una scelta di finanziamento a tasso variabile, la banca vende all’ente una
garanzia contro il rialzo dei tassi a fronte della vendita dall’ente alla banca
di una garanzia contro il ribasso dei tassi. Così l’ente non rischia di pagare
interessi troppo elevati se i tassi di mercato salgono e la banca non rischia
di ricevere interessi troppo bassi sul capitale prestato se i tassi di mercato
scendono. Si tratta quindi di un prodotto per limitare gli effetti di un’oscillazione dei tassi, ed è quindi genuinamente finalizzato al controllo del rischio.
Il problema è che l’utilizzo è stato profondamente snaturato. In particolare, sono stati proposti contratti in cui l’assicurazione venduta dalla banca
all’ente era praticamente inefficace e di nessun valore, mentre quella venduta dall’ente alla banca era particolarmente stringente e molto costosa.
In termini più chiari, si è scambiata un’assicurazione, a favore dell’ente, su
un evento che ha probabilità praticamente nulla di verificarsi contro un’assicurazione, a favore della banca, su un evento che ha probabilità elevata,
se non la certezza, di verificarsi. Le implicazioni di questo comportamento
sono immediate. Da un lato, il servizio di copertura del rischio offerto all’ente era praticamente inefficace e inutile. Dall’altro, l’assicurazione venduta
dall’ente alla banca rappresentava un valore, non dichiarato, che la banca
poteva iscrivere a bilancio e monetizzare. Si tratta delle cosiddette “commissioni implicite” che hanno contraddistinto i contratti di questo periodo.
Sulla base di questo concetto si sono sviluppati casi giudiziari di fronte a
tutti i tipi di tribunale, civile, penale e amministrativo, e di fronte a diverse
giurisdizioni, italiana e inglese. Alla luce di queste iniziative, pare che nella
maggior parte dei casi l’iniziativa giudiziaria abbia portato maggiori costi
al sistema pubblico, più che soluzioni. Inoltre, la querelle si è sviluppata
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Introduzione
su un piano meramente giuridico, con una visione essenziale, o almeno
molto semplificata degli aspetti economici. Esempio di questo approccio
è la considerazione esclusiva dei “costi impliciti” per la valutazione del
concetto di “convenienza economica”. In realtà la convenienza economica
in tutti questi casi era stata violata due volte: in primo luogo imponendo un
costo non trasparente; in secondo luogo rendendo inefficace il prodotto.
In altri termini, nascondendo il costo delle commissioni dentro il prodotto
derivato, è stato reso inutile il derivato stesso. La convenienza economica
è stata violata quindi non solo imponendo costi all’ente, ma demolendo il
prodotto che questi costi avrebbero dovuto giustificare. Sono stati venduti
a poco contratti per la gestione del rischio di tasso di fatto inutili. Inoltre,
in moltissimi casi questi costi sono stati imposti nel corso del processo di
ristrutturazione dei contratti “digitali” precedenti. Questo elemento deve
essere tenuto presente anche per gli sviluppi futuri. In molti casi le banche
sono intervenute presso gli enti per ristrutturare i vecchi contratti, evidentemente con la giustificazione di metterli “a norma”.
La seconda fase, e l’esplosione di contenziosi da essa generati, ha indotto
il legislatore a vietarne temporaneamente l’uso, rimandando al Ministero dell’Economia la predisposizione di un regolamento per la definizione
delle norme per l’utilizzo dei derivati da parte degli enti pubblici. Questo
regolamento è stato predisposto in bozza in diverse versioni, ma non è
mai stato realizzato. Vale la pena notare che gli scogli sui quali il regolamento si è arenato sono stati la trasparenza dei costi e l’efficienza dei prodotti, cioè la richiesta alle banche di mostrare la convenienza economica
dei prodotti offerti agli enti. Questa richiesta di trasparenza era riportata
nelle prime bozze di regolamento non come una regola di condotta o un
impegno generico, ma era declinata in maniera esplicita e puntuale sulla
base di una metodologia proposta dalla CONSOB per la valutazione di
prodotti illiquidi. Il dissenso di qualcuna della parti interessate su questo
punto è stato molto probabilmente la ragione di stallo del regolamento
per un periodo di cinque anni. Gli stessi requisiti di trasparenza sono stati
richiesti con gli emendamenti presentati da ANCI-IFEL all’articolo 16 della
legge di stabilità per il 2014 e sono stati respinti in Commissione Bilancio.
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L’uso dei derivati negli enti locali
L’approvazione dell’articolo 16 della legge di stabilità inaugura il terzo periodo del rapporto tra enti pubblici e banche. Ora anche i prodotti della seconda fase, i “collar” che abbiamo descritto sopra, non sono più ammessi.
L’unico contratto derivato ammesso è l’acquisto da parte dell’ente di una
garanzia contro il rialzo dei tassi. E’ quello che in termini tecnici chiamiamo
“cap”. In realtà questa non è l’unica forma di garanzia da un rialzo dei tassi;
ce ne sono di meno costose, ma sono state ignorate. Comunque, con la limitazione dell’utilizzo dei contratti derivati al “cap” non è più consentito lo
scambio “in natura” di una garanzia a favore dell’ente contro una garanzia
a favore della banca. La garanzia a favore dell’ente dovrà essere pagata, in
somma unica o a rate, da parte dell’ente. Come abbiamo detto, però, nessuna norma impone alla banca di dichiarare in piena trasparenza quanto
questo contratto sia efficace nel contenere il costo del debito, e quale sia il
suo costo, scomposto nella parte di valore equo, di rischio di controparte,
e di commissioni. Questa era la richiesta contenuta in uno degli emendamenti sottoposti da ANCI-IFEL alla Commissione Bilancio. Ma c’è di più.
La norma consente la chiusura o la ristrutturazione dei contratti derivati in
essere, lasciando eventualmente viva solo l’assicurazione a favore dell’ente. Questo significa che i “collar” della seconda fase, che rappresentano la
larga maggioranza dei contratti ancora attivi, potranno essere trasformati
in contratti “a norma”, cioè “cap”, semplicemente eliminando l’altra parte
della garanzia, quella venduta, a suo tempo, dall’ente alla banca. Molto
probabilmente questo avverrà con la proposta da parte della banca di rivendere questa garanzia all’ente. Il problema di tutto questo è che, come
abbiamo discusso a proposito della seconda fase, quella del “collar”, all’origine le banche non hanno pagato quella assicurazione all’ente.
In conclusione, mentre da un lato l’intervento legislativo ha sancito il principio importante che un ente può solo acquistare un derivato e non venderlo,
ha completamente ignorato quello che è stato il problema fondamentale
del rapporto tra banche ed enti: la trasparenza. La mancanza di trasparenza
gioca in favore delle banche attraverso due effetti. Il primo è l’asimmetria
informativa tra banca e cliente, che impedisce al cliente di valutare il rap10
Introduzione
porto tra costo e qualità del derivato acquistato, al netto dei costi imposti
dalla banca. Il secondo effetto è la limitazione della concorrenza tra banche:
l’asimmetria informativa consente una sorta di monopolio della banca sul
cliente, perché il cliente non è in grado di comparare l’offerta di banche diverse se questa non è descritta in termini analitici. Inoltre, se questa scelta
del legislatore non pone le basi di una relazione sana tra banche ed enti
nel lungo periodo, rischia di esporre nell’immediato gli enti a proposte di
ristrutturazione dei contratti esistenti con i quali le banche potranno estrarre
altro denaro, oltre quello che hanno imposto all’origine dei contratti stessi.
La mancanza di trasparenza ha infatti un altro deleterio effetto collaterale
nel non garantire gli enti in occasione della ristrutturazione e della chiusura
dei contratti. Mentre infatti sono ancora aperti contenziosi sulle commissioni caricate dalle banche agli enti, e non rivelate, sovente assistiamo a episodi di chiusura di contratti in cui gli enti devono pagare somme ulteriori,
senza nessuna valutazione retrospettiva del valore del contratto all’origine.
In questo lavoro vogliamo analizzare in maniera analitica la scelta di finanziamento consentita dalla regolamentazione vigente, e le possibilità
di ristrutturazione delle posizioni in derivati attualmente attive. Idealmente, svolgeremo l’analisi seguendo un caso tipico, analizzando le problematiche che emergono e le possibili decisioni dalla politica di finanziamento da attuare fino alla scelta, eventuale, del derivato da utilizzare. In
particolare, passeremo in rassegna:
• la scelta della politica di bilancio e del tipo di finanziamento;
• la scelta del finanziamento a tasso fisso o variabile e della possibi•
•
lità di un ventaglio infinito di scelte intermedie, offerto dai prodotti
derivati;
il tipo di prodotti derivati disponibili, quelli attivi e quelli consentiti
per realizzare un piano di finanziamento intermedio tra tasso fisso
e tasso variabile;
i criteri di convenienza economica e come questi possano essere
tradotti e rappresentati con metodologie quantitative e con misure
di rischio/costo;
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L’uso dei derivati negli enti locali
• le problematiche di chiusura dei contratti derivati, sotto il profilo
dei principi da applicare e della prassi che si va sviluppando.
Gli aspetti tecnici di natura matematica e attuariale sono svolti in Appendice.
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La scelta
di finanziamento
1
La valutazione dell’impiego dei prodotti derivati non può prescindere dalla politica di gestione del bilancio nella quale tali prodotti sono inseriti.
E’ solo rispetto alla tipologia di finanziamento prescelta che è possibile
discutere della necessità e della congruenza dei prodotti derivati utilizzati. Per quanto attiene alla necessità, per esempio, emerge la questione
se scelte standard di finanziamento, a tasso fisso o variabile, possano o
meno richiedere l’utilizzo di prodotti derivati. La discussione della necessità del ricorso ai prodotti derivati è legata al tipo di mercato cui è rivolta l’emissione di debito. In primo luogo, il ricorso al private placement,
cioè collocamento presso investitori privati, essenzialmente investitori
istituzionali, fa ritenere non necessaria la stipula di un contratto di finanziamento e di un contratto derivato che ne cambi la natura, e alimenta
il sospetto che la distinzione tra i due contratti trovi spiegazione nelle
commissioni introitate dall’intermediario finanziario per la creazione e
la gestione della struttura finanziaria. La necessità di utilizzo dei derivati
può invece emergere per la presenza di particolari strutture imposte dalla
regolamentazione o scelte operate dall’emittente. Per le prime ricordiamo la norma che richiede la definizione di un piano di ammortamento per
il rimborso del capitale che non sia in un’unica soluzione alla scadenza:
questo fa sì che non sia possibile emettere quelli che chiamiamo bullet
bond, cioè titoli a tasso fisso o variabile con rimborso del capitale alla
fine. Per quanto riguarda le scelte di finanziamento, può verificarsi il caso
di scelte di tipo “strutturato” che richiedono l’impiego di prodotti derivati.
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L’uso dei derivati negli enti locali
Dalle osservazioni di cui sopra emerge chiaramente che l’utilizzo di prodotti derivati è legato a scelte di finanziamento:
• maggiormente orientate al mercato degli investitori al dettaglio, rispetto agli investitori istituzionali;
• orientate a conseguire un profilo di rischio intermedio tra la scelta
a tasso fisso e quella a tasso variabile.
In presenza di queste due motivazioni, l’utilizzo di prodotti derivati, se
non indispensabile, sembra assolutamente preferibile. In realtà, mentre
il primo dei due argomenti spiega l’utilizzo dei derivati che è stato effettivamente fatto dagli enti locali, è la seconda motivazione (quella di un
profilo di rischio “strutturato”) che da sola li può giustificare sotto il profilo sostanziale.
Per verificare dove possono intervenire (e dove è giusto che intervengano)
i contratti derivati, ricordiamo che l’ente pubblico ha a disposizione tre
strategie di fondo:
• finanziamento a tasso fisso;
• finanziamento a tasso variabile;
• finanziamento a tasso variabile con un limite al costo del debito.
La scelta del tipo di finanziamento è parte della politica di bilancio ordinaria di un ente pubblico. Poiché, come vedremo, l’utilizzo di prodotti derivati è necessario (se non indispensabile) solo per la realizzazione della
terza strategia, l’eventuale divieto di operare in derivati avrà l’effetto di
indirizzare le scelte di finanziamento verso le strategie più estreme (tasso
fisso o tasso variabile). Il costo ed il rischio di una norma che impedisca
l’utilizzo di contratti derivati coincide quindi con il rischio ed il costo del
finanziamento a tasso fisso o a tasso variabile.
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Finanziamento
a tasso fisso
o a tasso variabile
2
La scelta del finanziamento a tasso fisso o tasso variabile non richiede l’utilizzo di contratti derivati. Sia che il placement sia indirizzato a investitori
istituzionali o a investitori al dettaglio, la struttura del finanziamento può
sempre essere realizzata, in ottemperanza alla normativa, con la costituzione di un “sinking fund”.
Esempio. Finanziamento a tasso fisso. Il Comune Alfa vuole emettere un
finanziamento di 100 milioni a 30 anni a tasso fisso, indirizzato alla clientela retail. La struttura di finanziamento può essere realizzata tramite:
• emissione di un titolo a 30 anni per un ammontare pari a 100 milioni,
con pagamento di cedola fissa. In fase di emissione, il Comune potrà scegliere di:
−− fissare la cedola, e lasciare che la domanda di sottoscrizione determini l’ammontare di finanziamento effettivamente attribuito all’ente;
−− fissare l’ammontare di finanziamento, tipicamente pari al valore
nominale prescelto (di 100 milioni, nel nostro caso), e lasciare
che la domanda di sottoscrizione determini la cedola fissa che
dovrà pagare.
• la costituzione di un sinking fund in cui verserà le quote di capitale.
In questo caso, il Comune dovrà scegliere:
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L’uso dei derivati negli enti locali
−− il tipo di ammortamento (ad esempio, francese);
−− le modalità di gestione e retribuzione dei fondi versati nel sinking
fund. A questo proposito deve essere chiaro che, poiché il pagamento degli interessi sul finanziamento viene fatto su tutto l’ammontare nominale, e non sul debito residuo, l’equilibrio finanziario dell’operazione richiede che i ricavi delle somme versate nel
sinking fund vadano a favore dell’ente. In caso contrario avremmo infatti pagamenti di interessi fissi (nell’ammontare) riferiti a
un debito residuo che si riduce progressivamente. Un aspetto importante è che il rendimento su questi fondi è aleatorio, in assenza
della possibilità di fissare tale rendimento con contratti derivati.
Nello stesso modo, un finanziamento a tasso variabile può essere realizzato con l’emissione di un titolo, che paga cedole indicizzate a un tasso di
mercato più uno spread fisso, più l’accensione di un sinking fund secondo le stesse caratteristiche.
Discuteremo più avanti di scelte intermedie tra il tasso fisso e il tasso variabile, che coinvolgono i prodotti derivati. A questo punto, ci basta rimarcare che il divieto di sottoscrivere contratti derivati lascia agli enti solo
queste scelte estreme, e in generale sono le scelte estreme che nascondono i rischi maggiori. Tali rischi sono di natura speculare. Per capirne di
più richiamiamo un principio fondamentale della matematica finanziaria,
che riguarda la valutazione di flussi di pagamenti fissi e indicizzati.
Per quanto riguarda i flussi di pagamenti fissi, il principio di fondo è molto semplice: il valore attuale di tali flussi è funzione inversa del livello dei
tassi di interesse. In altri termini, una diminuzione dei tassi di interesse provoca un aumento del valore di mercato del debito. Meno immediato è il
principio che riguarda la valutazione di flussi a tasso variabile. In questo
caso il valore dei pagamenti per interessi ed il fattore di sconto che a tali
interessi viene applicato si muovono in direzione opposta, e si bilanciano
in modo che all’origine del contratto, e ad ogni stacco della cedola (cioè a
ogni pagamento di interessi) il valore del debito ritorni, come si dice, “alla
20
Finanziamento a tasso fisso o a tasso variabile
pari”, cioè al valore nominale. Ovviamente sia quest’ultimo principio che
quello che riguarda i pagamenti a tasso fisso sono svolti a prescindere da
considerazioni sul rischio di credito dell’emittente, in questo caso dell’ente
pubblico. A prescindere quindi dallo spread, che il mercato carica per il rischio di credito, e altre fonti di rischio sulle quali qui non ci intratteniamo, il
valore del debito emesso a tasso variabile ritorna allo stesso valore ad ogni
pagamento degli interessi. A fronte della buona notizia della stabilizzazione
del valore dello stock di debito c’è un’ovvia fonte di rischio che rappresenta
la cattiva notizia: un aumento dei tassi provoca un aumento dei pagamenti
per interessi e può provocare tensioni sul bilancio dell’emittente.
In pratica, le due scelte estreme, di finanziamento a tasso fisso o a tasso
variabile, devono essere valutate sulla base della preferenza dell’emittente per:
• sterilizzazione del valore del debito a fluttuazioni dei tassi, con
esposizione a un possibile aumento dei pagamenti di interessi;
• sterilizzazione dei pagamenti di interessi, con esposizione a un possibile aumento del valore del debito.
Sulla base di queste considerazioni possiamo ora affrontare in maniera
critica il concetto, che spesso incontriamo nel dibattito sul debito degli
enti locali, secondo il quale l’indebitamento a tasso fisso sarebbe privo
di rischio. E’ ovvio, dai principi affermati sopra, che sotto il profilo finanziario questa affermazione è priva di senso. La garanzia di pagamenti
fissi nel tempo viene pagata con il rischio che il valore mark-to-market
del debito possa aumentare nel corso del tempo. Nel caso degli emittenti
privati la normativa contabile richiede di fare emergere queste perdite di
valore nel bilancio, e l’argomentazione che il finanziamento a tasso fisso
sia privo di rischio si manifesta in tutta la sua inconsistenza. Ma anche
nel caso degli enti pubblici, in cui il debito è riportato al costo storico di
emissione, l’affermazione è per lo meno discutibile. Non solo infatti c’è
un’ovvia contraddizione tra la preoccupazione, che è spesso espressa,
per il peggioramento del mark-to-market dei derivati, e la noncuranza per
21
L’uso dei derivati negli enti locali
il peggioramento del mark-to-market del debito. C’è soprattutto l’evidenza storica del fatto che molti comuni italiani sono stati convinti all’utilizzo
dei prodotti derivati per la necessità di sfuggire a mutui a tasso fisso che,
stipulati prima della nascita dell’euro, li costringevano a pagare tassi di
interesse di un’epoca storica ormai passata. Una delle lezioni da trarre
dall’esperienza dei Comuni italiani con i derivati è infatti che di fronte a
cambiamenti epocali, e persistenti, della struttura dei tassi di interesse
(come appunto il cosiddetto convergence game, dell’area euro), la possibilità di cambiare la composizione del debito da fisso a variabile, o viceversa, è una facoltà desiderabile. Senza l’impiego di derivati, questa
flessibilità è preclusa, o comunque senz’altro più costosa.
Esempio. Assumiamo che i mutui che negli anni 90 erano stati stipulati
dai comuni con la Cassa Depositi e Prestiti avessero avuto una clausola di
callability, cioè avessero riconosciuto al comune la facoltà di rimborsare il
debito al nominale prima della scadenza. Questo avrebbe agevolato, nella
fase di riduzione dei tassi, il rimborso dei mutui, il cui valore attuale (e
quindi l’onere del debito futuro) era cresciuto in maniera sostanziale. Questo semplice derivato, un’opzione call che consente il riacquisto del debito, avrebbe evitato ai comuni di sottoscrivere derivati ben più complessi
di quelli che gli intermediari hanno offerto. Si noti, inoltre, che questo
derivato parrebbe vietato dalla regolamentazione attualmente in vigore.
Al di là di queste considerazioni, ci sono anche argomenti di natura più
tecnica che possono sconsigliare la scelta del finanziamento a tasso fisso.
Ne citiamo almeno tre:
• l’eventuale necessità di ricomprare il debito (buy-back), per qualunque motivo si manifesti, prima della scadenza espone l’ente alla
possibilità di dover pagare un prezzo più alto dell’ammontare raccolto all’origine dell’operazione;
• la presenza in bilancio di poste attive il cui andamento è positivamente correlato con le fluttuazioni dei tassi può far sì che l’emissione a tasso fisso di fatto provochi fluttuazioni del deficit più ampie di
22
Finanziamento a tasso fisso o a tasso variabile
quelle che si avrebbero con l’emissione di debito a tasso variabile.
Un esempio di questo principio, che nella letteratura sul risk-management è noto come natural hedging (copertura naturale) può
essere dato dalla tendenza di aumento delle entrate tributarie e dei
tassi in periodi di espansione, e la loro tendenza alla diminuzione
in fasi di recessione;
• una fonte particolare, di natura squisitamente tecnica, di natural
hedging è fornita, nel caso in questione, dalla stessa normativa sui
derivati degli enti. Poiché questa prevede infatti la costituzione di
un sinking fund, l’emittente che scelga un finanziamento a tasso
fisso si trova a incassare, sulle somme che progressivamente vengono versate nel sinking fund, flussi di interessi variabili (in quanto ovviamente non noti all’origine del finanziamento), e questo lo
espone comunque a fluttuazioni nei pagamenti netti di interesse. In
particolare, la scelta di un finanziamento a tasso fisso con sinking
fund espone l’ente a perdite in uno scenario di riduzione dei tassi.
23
Derivati:
la scelta intermedia
3
Abbiamo visto che escludere l’utilizzo dei derivati impoverisce di molto la
varietà di scelte a disposizione dell’ente pubblico. Le scelte a disposizione sono quelle estreme di finanziamento a tasso fisso o a tasso variabile.
E’ vero che l’emittente pubblico, almeno quello di grandi dimensioni, può
scegliere di segmentare le proprie emissioni di debito emettendone parte
a tasso fisso e parte a tasso variabile, ma la scelta resta poco flessibile. L’utilizzo dei derivati consentirebbe invece una scelta intermedia. La
possibilità di finanziarsi a tasso variabile, ponendo un limite al rialzo del
costo degli interessi nel caso in cui i tassi salgano al di sopra di una certa
soglia. Questa possibilità può essere ottenuta con due strumenti:
• l’acquisto di un cap, che pone un limite superiore a ogni pagamento
•
di interessi da parte dell’ente pubblico;
l’acquisto di una swaption, che consente all’emittente, a una data
prestabilita, o a un insieme di date prestabilite, di passare dal pagamento del tasso variabile al tasso fisso, o viceversa.
Per essere più precisi, il cap è un insieme di opzioni, ognuna delle quali è
chiamata caplet, tante quante sono le rate di pagamento degli interessi,
che consentono di porre un limite superiore al pagamento di ciascuna
rata. Questo significa che se in una data il tasso indicizzato è superiore
alla soglia predefinita (il tasso strike), il pagamento viene posto uguale a
27
L’uso dei derivati negli enti locali
tale soglia. E’ da notare che se nelle scadenze successive il tasso di riferimento riscenderà al di sotto della soglia, l’emittente potrà tornare a beneficiare di tale riduzione dei tassi. Non succede così se la scelta cade sulla
swaption. In questo caso la scelta di abbandonare il tasso variabile per il
tasso fisso è per sempre. Per questo motivo la swaption, che rappresenta
una scelta meno flessibile, costa meno del cap.
Nella legislazione attuale, definita dall’art. 16 della legge di stabilità, la
possibilità di sottoscrivere una swaption non è prevista. Ciò è dovuto
probabilmente al fatto che il prodotto è considerato complesso. In realtà
dal punto di vista delle banche si tratta di un prodotto altrettanto standard
che, come abbiamo visto, fornisce un servizio simile e meno caro, anche
se meno flessibile. La complicazione emerge, per quanto riguarda la valutazione, se l’esercizio viene previsto a più date (ad esempio, ad ogni
data di pagamento degli interessi). Questa caratteristica, di esercizio anticipato (che qualifica questa clausola con il nome di bermuda), è ancora
oggi un formidabile problema di valutazione, anche se gran parte della
problematica riguarda livelli di precisione che non sono estremamente
rilevanti in questo tipo di applicazioni.
In quella che abbiamo chiamato la seconda fase della stagione dei contratti derivati tra banche e enti pubblici, si è diffuso l’utilizzo di un prodotto
chiamato collar. Un collar ha la stessa caratteristica del cap, per quanto
riguarda il grado di protezione offerto all’ente da parte della banca. La differenza è che mentre il cap è pagato con un premio, in un’unica soluzione
o a rate, nel collar il cap è pagato per così dire “in natura” con un’altra opzione, che l’ente vende alla banca, e che protegge quest’ultima dal ribasso
dei tassi. In questo modo, l’ente rinuncia ad avvantaggiarsi del ribasso
dei tassi al di sotto di una soglia inferiore: questo è appunto un floor, che
viene posto alla discesa dei tassi. I collar rappresentano il prodotto tipico
che è stato offerto dalle banche agli enti pubblici nel secondo lustro del
secolo. Dei casi da noi analizzati nell’ambito del servizio di consulenza offerto da ANCI-IFEL, nella grande maggioranza si è trattato di prodotti collar, più o meno personalizzati. L’esperienza ha messo in luce che in molti,
28
Derivati: la scelta intermedia
se non tutti, i casi i collar sono disegnati in maniera asimmetrica, in modo
che il valore dell’opzione venduta dall’ente alla banca (floor) sia maggiore
di quello venduto dalla banca all’ente (cap). In certi casi il valore del tasso
previsto dal floor è talmente elevato che di fatto il finanziamento è a tasso
fisso, perché la probabilità che i tassi restino al di sotto della soglia è praticamente uguale a uno. E questo significa che il cap corrispondente, che
sarà ovviamente superiore al floor, avrà praticamente valore pari a zero.
Esempio. Per avere una idea di come riconoscere un collar asimmetrico, riportiamo un grafico ispirato a un esempio di contratto swap tratto dal mondo reale. Il contratto prevedeva la trasformazione di un flusso di pagamenti
fissi in un flusso di pagamenti a tasso variabile con un limite superiore al
6,19% e un limite inferiore al 3,54%. Il grafico della Figura 1 riporta il collar
delimitato da questi livelli, e all’interno la cosiddetta curva dei tassi impliciti
(o curva forward). Senza entrare nei dettagli del significato matematico di
questi tassi di interesse, questi tassi rappresentano una buona approssimazione dei valori attesi dei pagamenti attesi indicizzati, che si avrebbero
in assenza di collar. E’ ovvio che tanto più questi valori attesi sono vicini al
livello inferiore previsto per questi pagamenti, tanto maggiore sarà il valore
dell’assicurazione, fornita dall’ente alla banca, contro una riduzione di tali
pagamenti. Nello stesso modo, tanto più distante è il livello dei tassi attesi
dal livello superiore consentito, tanto minore sarà il valore dell’assicurazione, venduta dalla banca all’ente, contro un rialzo dei tassi.
Figura 1. Un esempio di collar asimmetrico. Il valore dei tassi impliciti
è vicino al floor.
7,00%
6,00%
5,00%
4,00%
3,00%
2,00%
1,00%
0,00%
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29
29
L’uso dei derivati negli enti locali
Nella Figura 2 modifichiamo il contratto stipulato dal Comune preso a
modello per verificare a che livello avrebbe dovuto essere posto il limite
inferiore in modo che il valore netto del collar risultasse pari a zero. Il tasso floor avrebbe dovuto essere posto a circa il 2,725% per cento.
Figura 2. Esempio di collar simmetrico (zero cost combination).
7,00%
6,00%
5,00%
4,00%
3,00%
2,00%
1,00%
0,00%
30
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29
Misure di convenienza
economica
4
Il concetto di convenienza economica di un derivato è oggetto di gran parte
del dibattito sull’utilizzo da parte degli enti pubblici, poiché è un requisito
richiesto per legge. In particolare, il concetto di convenienza economica
è spesso ricondotto alla verifica di quelle che nel dibattito sono chiamate
commissioni implicite o anche commissioni occulte. Il concetto, che abbiamo già richiamato sopra e che è assente nella letteratura scientifica sui
derivati, indica la pratica da parte degli intermediari di inserire nella valutazione del contratto derivato elementi di costo che riguardano la necessità
di coprire fonti di rischio connesse al rischio di credito, oltre a commissioni
per il confezionamento e la gestione del derivato. Poiché queste commissioni non sono rivelate esplicitamente dagli intermediari, ma nascoste nella struttura, sono chiamate commissioni occulte. Il concetto è simile a quello che è noto come “caricamento” nelle polizze vita, ma, come discuteremo
sotto, il modo in cui è stato applicato nei contratti derivati con clienti al
dettaglio ha un aspetto radicalmente diverso. Infatti, nell’applicazione tipica con enti pubblici e aziende il costo non è aggiunto uniformemente come
nelle polizze, ma è nascosto nella struttura. Per così dire, è determinato da
uno scambio “in natura” con il cambiamento dei parametri del prodotto.
L’esempio tipico è stato dato dai collar asimmetrici, di cui abbiamo parlato
nel capitolo precedente. La struttura del prodotto viene distorta in modo
che il valore dell’assicurazione venduta dalla banca all’ente (il cap) sia inferiore a quello della protezione venduta dall’ente alla banca (il floor). Questa
33
L’uso dei derivati negli enti locali
pratica è oltremodo inefficiente, in quanto l’introduzione del costo riduce,
e in alcuni casi elimina del tutto, l’efficacia del contratto. La stessa pratica
verrà ovviamente perpetuata anche nella strutturazione dei cap, che sono
rimasti l’unico derivato a disposizione degli enti. In questo caso, possiamo
ritenere che la commissione venga nascosta in un cap eccessivamente elevato, rendendo il contratto di fatto inutile.
Misure di convenienza economica devono quindi produrre una valutazione relativa del costo rispetto all’efficacia del prodotto. Il paradigma
ricorda il trade-off tra rischio e rendimento che viene utilizzato nella teoria
dell’allocazione del portafoglio. Nel resto del paragrafo daremo un contenuto quantitativo a questi concetti.
4.1. Il trade-off rischio/costo
Una valutazione della convenienza economica di un finanziamento, come
quella di un investimento, non può prescindere da un’analisi in due dimensioni: il rischio ed il costo. Nello stesso modo in cui sarebbe del tutto
infondato valutare la bontà di un investimento rispetto a un altro soltanto
guardando il rendimento atteso, e non il rischio, l’analisi di convenienza
economica di un contratto derivato incluso in un contratto di finanziamento non può limitarsi ad accertare se il contratto derivato abbia elevato il costo atteso del debito. Infatti, il costo può essere aumentato, per le
commissioni richieste e per il valore del contratto di assicurazione acquistato dal Comune, ma questo aumento di costo può essere compensato
dalla riduzione del rischio che il prodotto consente di ottenere.
Per questo motivo, proponiamo qui una rappresentazione in due dimensioni del costo atteso e del rischio, che consente di valutare simultaneamente l’efficacia e il costo dell’utilizzo di un derivato. La rappresentazione
affronta quindi il problema del trade-off tra:
i) costo atteso scontato dei pagamenti di interesse sul debito;
ii) riduzione del rischio di un aumento complessivo del debito a scadenza.
34
Misure di convenienza economica
Nello specifico, queste grandezze possono essere misurate come:
a) il valore del contratto derivato acquistato. La rappresentazione di
tale valore può essere limitata al valore equo (quello che cioè non
include la retribuzione del rischio di credito e le commissioni), oppure
può includere le commissioni caricate dalla banca;
b) una misura di rischio dell’aumento del costo complessivo della spesa per interessi. Questa misura può essere rappresentata dal Value-atRisk, cioè le possibilità di aumento del costo alla data finale in uno scenario che ha una probabilità di verificarsi, ad esempio del 5%. Questo
approccio, che è stato proposto dalla CONSOB per prodotti del risparmio gestito e prodotti strutturati, e che era riportato nella prima bozza
di regolamento predisposto dal Ministero dell’Economia, costituisce
una procedura estremamente utile per misurare questo aumento del
rischio, e la più semplice. Un approccio più sofisticato, ma con lo stesso significato di fondo, consisterebbe nella misurazione del possibile
aumento del costo atteso del debito per tutti gli scenari con probabilità
inferiore al 5%, misura nota come Expected Shortfall.
Nella Figura 3 riportiamo una rappresentazione di una frontiera efficiente
per il cap, cioè l’unico derivato che è ancora consentito dalla legislazione
italiana per il contenimento del costo del debito degli enti pubblici. Per
chi ha ancora dei collar, il prodotto derivato più utilizzato dai Comuni
fino ad oggi, ricordiamo che esso è costituito da un cap, assicurazione
contro il rialzo della spesa per interessi a favore del Comune, e un floor,
assicurazione contro il ribasso dei tassi a favore dell’intermediario. Anche
in questo caso, quello che rileva per il contenimento del costo del debito
è lo scenario di rialzo dei tassi, ed il cap che è designato a limitarne gli
effetti, mentre il valore del floor entra semmai a definire i fondi che hanno
consentito l’acquisto dell’assicurazione.
35
L’uso dei derivati negli enti locali
Value-at.Risk costo del debito
Figura 3. Frontiera efficiente per la scelta di un cap da parte di un ente
che paga una passività fissa.
5%
1,2
1
0,8
0,6
0,4
0,2
0
0,00000%
0,10000%
0,20000%
0,30000%
0,40000%
0,50000%
0,60000%
0,70000%
Costo del derivato
La Figura, ispirata a uno dei casi nel nostro campione, mostra il tipico
trade-off tra costo e rischio. Sull’asse orizzontale è riportato il costo del
prodotto derivato, che nell’illustrazione è calcolato al fair value, con il
modello standard di Black (1976). Sull’asse verticale riportiamo invece
il Value-at-Risk del costo complessivo del debito, nello spirito della proposta CONSOB. In pratica, i valori rappresentano il costo del debito, cumulato fino alla scadenza, in uno scenario negativo con una probabilità del 5%. Il valore è stato calcolato applicando la metodologia Monte
Carlo. Ciascun punto del grafico rappresenta un diverso livello del cap
prescelto, dall’8% al 3% muovendo da sinistra a destra. L’interpretazione
del grafico è immediata. Per valori decrescenti del cap prescelto, il prezzo
aumenta, ma il rischio di un aumento dei costi della spesa per interessi
si riduce. Ciò che è opportuno notare è che per livelli del cap superiori al
5% la riduzione di rischio è trascurabile: la curva è praticamente piatta. La
curva comincia a declinare leggermente per valori del cap che scendono
verso il 4% e assume una inclinazione decisamente negativa per valori
che scendono verso il 3%. In pratica, per valori superiori al 6% il contributo del prodotto derivato è praticamente nullo, e anche se il prodotto fosse
venduto al fair value, senza alcuna commissione, esplicita o implicita, il
prodotto sarebbe pressoché inutile. E’ invece quando il costo aumenta,
per livelli più bassi del cap, che l’efficacia del prodotto in termini di riduzione del rischio aumenta.
36
Misure di convenienza economica
4.2. Una misura di costo ed efficacia di un derivato
Utilizzando lo stesso principio e le stesse misure di costo e rischio descritte
sopra possiamo costruire una misura del trade-off tra il costo del contratto
e la sua efficacia. Si tratta quindi di una misura sintetica della convenienza
economica del contratto derivato nelle sue due dimensioni. La più semplice misura che possiamo pensare è un rapporto che al numeratore riporti
l’efficacia del contratto e a denominatore il costo. La misura di efficacia che
è di più immediata applicazione è data dalla diminuzione di Value-at-Risk
resa possibile dal derivato. Nello stesso spirito dell’approccio quantitativo
proposto dalla CONSOB, possiamo confrontare la spesa complessiva per
interessi che verrebbe sostenuta in uno scenario negativo cui viene attribuito il 5% di probabilità, senza o con il prodotto derivato. Se definiamo VaRN
il valore del VaR in assenza del prodotto derivato e VaRD il valore nell’ipotesi
in cui sia stato sottoscritto, possiamo definire l’efficacia del contratto come:
E = VaRN - VaRD (1)
Questo indicatore di efficacia dovrà essere rapportato con il costo del derivato, che denotiamo C, e che può essere alternativamente rappresentato
come il fair value, C = FV, o come la somma del fair value e il mark-up che
viene aggiunto dall’intermediario per la produzione e gestione del derivato e per la retribuzione dell’intermediario stesso. In questo caso abbiamo:
C = FV + M (2)
dove M denota il mark-up. A questo punto, il trade-off tra efficacia e costo, che potremmo definire cost-effectiveness ratio, è semplicemente:
CER = E/C.
37
L’uso dei derivati negli enti locali
4.3. Scomposizione del costo
Un’ulteriore indagine che può risultare estremamente utile per la scelta
e l’analisi dei derivati, particolarmente nel caso italiano, è la composizione del denominatore della cost-effectiveness ratio. Questa composizione può essere valutata secondo due direttrici. La prima, che richiama
fortemente il dibattito che si è svolto in Italia sull’offerta di prodotti derivati agli enti pubblici e agli investitori al dettaglio in generale, riguarda
la dimensione del mark-up. La discussione su quanto debba essere un
mark-up equo è ancora in alto mare, e forse è una questione mal posta:
come per tutti gli altri prodotti e servizi, solo l’azione della concorrenza
sul mercato è in grado di definirne l’ammontare di equilibrio.
La seconda direttrice nella quale può essere informativo scomporre il costo è il modo in cui questo costo complessivo è stato pagato. In principio,
il contratto derivato che viene acquistato, con il fine della riduzione del
rischio, può essere pagato in tre diversi modi: i) con il pagamento di una
somma unica all’origine del contratto (upfront); ii) con il pagamento di
uno spread fisso, alle date di pagamento degli interessi (running basis
spread); iii) con la vendita di prodotti derivati all’intermediario. Formalmente, possiamo scrivere:
C = UF + S + O
(3)
dove UF denota il pagamento upfront, S denota lo spread e O rappresenta
l’opzione. Ovviamente, la terza forma di pagamento non sarà più possibile
a seguito della nuova regolamentazione introdotta dalla legge di stabilità
2014. Si noti che nella nostra scomposizione UF denota il pagamento da parte dell’ente a favore dell’intermediario, un’ipotesi che non si è mai verificata,
almeno nella nostra esperienza, ma che è prevista nella nuova regolamentazione. Esistono invece molti casi per i quali la banca ha versato upfront
all’ente: nella nostra scomposizione dei costi, questo significa registrare un
valore negativo di UF, che in questo modo riduce il costo complessivo dell’operazione. E’ noto che questa pratica è stata oggetto di un’iniziativa rego38
Misure di convenienza economica
lamentare, che ha posto un limite all’upfront erogabile dall’intermediario a
favore dell’ente. Ciò che è invece presente nella maggior parte dei casi di
derivati oggi aperti nel mercato italiano, è la componente derivata O. La pratica più diffusa è quella del collar, nel quale il cap viene pagato dall’ente con
la vendita all’intermediario di un’opzione contro il ribasso dei tassi: un floor.
4.4. Applicazioni su campione non rappresentativo
Presentiamo qui una prima applicazione, su un campione di dimensioni
molto limitate, delle nostre misure di convenienza economica. Il campione
è stato ricavato dai casi analizzati nello svolgimento del Progetto Derivati a
cura di ANCI-IFEL. Da questo campione, abbiamo estratto 9 casi di collar che
sono tipici dell’esperienza italiana. Alcuni di questi casi (6) prevedono livelli
fissi di cap e floor su tutte le scadenze, mentre altri hanno limiti superiori e
inferiori “strutturate”, e cioè con livelli di soglia diversi per diverse scadenze.
Tabella 1. Caratteristiche dei contratti.
MATURITÀ
20
30
20
7
20
15
19
13
20
UPFRONT
-10,40%
–1,41%
–1,53%
–0,75%
SPREAD
-0,04%
0,00%
-0,05%
-0,50%
1,15% - 0,80%
1,75%
2,15%
2,15%
0,67%
CAP
4,82%
6,19%
6,74%*
6,00%*
7,10%*
7,20%
6,00%
6,25%
6,00%
(*) Prodotti strutturati
Nella Tabella 1 riportiamo le principali caratteristiche del campione. Per
quanto riguarda le maturità, gran parte dei contratti sono su un orizzonte
di 20 anni. Il valore eccezionale di 7 anni è parte di un contratto fortemente strutturato, in cui il collar copriva una parte sola dell’intero contratto.
39
L’uso dei derivati negli enti locali
L’upfront (e ricordiamo che nella nostra rappresentazione il segno negativo indica che è a fronte dei Comuni) è presente in circa la metà dei casi nel
campione, e, seppure non riportiamo per ovvi motivi i nomi dei Comuni,
possiamo aggiungere l’informazione che gli upfront sono stati rilevati su
Comuni di dimensione inferiore. L’upfront è sempre in ogni caso a favore
dell’Ente, e questo significa che non esiste una cultura dell’acquisto di
assicurazione da parte degli enti.
Per quanto riguarda lo spread, dobbiamo innanzitutto ricordare che in
generale non si tratta di un valore esplicitamente stabilito nel contratto,
ma che emerge dalla scomposizione del contratto (unbundling) nelle sue
componenti elementari (replicating portfolio). Notiamo che in cinque casi
lo spread è positivo, in tre è negativo e in uno è nullo. Anche a questo
proposito emerge una differenza per dimensione: spread negativi e nulli
appaiono nelle città più grandi. In un caso, abbiamo anche una struttura
cosiddetta step-down, di riduzione dello spread nel tempo.
Per finire, veniamo all’informazione più rilevante per l’analisi dell’efficacia dei contratti di copertura, e si tratta del livello superiore imposto ai
pagamenti di interesse, il cap. Notiamo che in tutti i casi, meno uno, il
livello è superiore o uguale al 6%. In alcuni casi (tre su nove), i cap sono
strutturati, cioè hanno strutture step-up o step-down. Anche se i contratti
sono stati stipulati in periodi diversi, e quindi con livelli dei tassi diversi,
e anche se le maturità dei contratti sono diverse, il livello dei cap appare
comunque molto elevato, e fa anticipare uno dei problemi dell’esperienza italiana: i prodotti venduti ai Comuni sono stati poco efficaci.
A conferma di questi problemi di efficacia, nella Tabella 2 riportiamo i
valori degli indici CER (Cost- Effectiveness-Rato). I valori sono calcolati
sia valutando i costi al fair value, sia includendo il mark-up.
La Tabella 2, sia nei valori medi che nei valori puntuali, porta a due conclusioni:
40
Misure di convenienza economica
• il livello della misura CER è molto basso per tutto il campione, con
una leggera eccezione per il primo caso, per il quale il cap è di livelli inferiori al 5%, anche se il costo è misurato al fair-value. Nella
media del campione, la spesa di 100 euro in derivati ha ridotto il
rischio di 18 centesimi;
• l’inclusione di commissioni e altri costi di produzione riduce in ma-
niera drastica l’indicatore di cost/effectiveness: considerando tutti i
costi, la spesa di 100 euro in un cap ha prodotto una riduzione del
VaR di 9 centesimi.
Tabella 2. Cost-Effectiveness-Ratio.
OSSERVAZIONE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Media
(^) Costo al fair value
CAP 1
4,82%
6,19%
6,74%
6,00%
7,10%
7,20%
6,00%
6,25%
6,00%
6,26%
CER 1 ^
51,88%
28,86%
13,17%
22,94%
2,71%
20,88%
14,72%
1,10%
6,60%
18,10%
CER 2 ^^
23,74%
17,82%
6,01%
14,15%
1,11%
4,70%
8,15%
1,02%
3,79%
8,94%
(^^) Costo al fair value più il mark-up
La dimensione dei costi, su cui si è incentrato gran parte del dibattito, è
quindi senz’altro un elemento rilevante nella valutazione dell’utilizzo dei
derivati nei casi del nostro campione. Resta ora da definire come questi
costi siano stati pagati. E la domanda sul come siano stati pagati può
consentirci di fare congetture sul perché siano stati pagati, o se siano stati
pagati consapevolmente.
Nella Tabella 3 riportiamo le informazioni necessarie a quantificare e analizzare il costo del derivato. La prima colonna fornisce una misura del costo
complessivo del derivato acquistato (il cap) in proporzione al suo fair value.
A parte un caso virtuoso, in cui il rapporto è molto vicino a 1, gran parte dei
41
L’uso dei derivati negli enti locali
valori oscillano tra 1,6 e 2,19. Due casi sono fuori dalla norma (uno in particolare, per il quale il costo è quasi quattro volte e mezzo il fair-value). Questa
rappresentazione solleva due questioni. La prima riguarda il livello del costo,
che nel nostro campione è 2,12 volte il fair value. E’ troppo elevato? Questa
questione è aperta e riguarda la funzione di produzione di questi prodotti, e
il grado di competitività del mercato. Quest’ultimo punto solleva la seconda
questione, che riguarda la dispersione del costo, che nel nostro campione è
0,96. Le dimensioni del campione non consentono di dire di più, ma almeno
il campione ridotto consente di identificare gli aspetti rilevanti del problema.
Tabella 3. Scomposizione del costo.
COSTO/FV*
2,19
1,62
2,19
1,62
2,44
4,44
1,81
1,08
1,74
UPFRONT^
-0,63
-0,40
-1,66
-0,21
SPREAD^
OPZIONI^
ALTRO^
-0,06
0,00
-0,09
-4,26
1,73
2,99
4,32
14,02
1,40
0,17
0,81
1,08
5,09
1,08
0,98
0,81
2,65
0,19
0,88
0,19
0,00
0,79
-1,81
-2,98
-3,73
-14,01
-0,38
(*) Valore del costo complessivo in proporzione al fair value
(^) Valori in rapporto al costo complessivo
Le altre colonne della tabella riportano la scomposizione del costo complessivo nelle voci discusse nel capitolo tre: upfront, spread ed opzioni.
Aggiungiamo un’ulteriore colonna per altre voci che concorrono a pagare
il cap. Questi possono essere altre voci del contratto. In alcuni casi questa
voce può contenere semplicemente un disallineamento tra i pagamenti
fissi e quelli variabili previsti dal contratto, in altri può contenere altri
contratti swap che consentono di scambiare pagamenti della quota capitale. Dall’analisi dei dati emerge che in molti casi il costo è pagato quasi
interamente con l’opzione (per tre casi il valore è intorno a 1 e per altri
due intorno a 0,8). Gli altri casi generano valori distanti in senso opposto.
42
Misure di convenienza economica
Per due casi il valore dei derivati venduti è tra il 17% e il 19% del costo
del cap, e si tratta degli unici casi del nostro campione per cui il valore
del collar è positivo per l’ente. I due casi in cui i valori sono largamente
superiori alla mediana del campione rappresentano outlier, sia sotto il
profilo quantitativo che qualitativo. In particolare, uno è il caso fortemente strutturato di cui abbiamo parlato nella descrizione del campione. L’altro è il caso virtuoso, l’unico con un mark-up trascurabile. Questo caso
è estremamente interessante per illustrare la nostra scomposizione, e
come questa possa consentire l’interpretazione di un prodotto.
Possiamo infatti trarre le conclusioni che: i) il contratto ha un prezzo molto vicino al fair value (1,08); ii) il collar del contratto è asimmetrico a favore della banca, ma la banca ha pagato una somma upfront congrua
con la differenza di valore tra floor e cap; iii) l’ente si impegna a fare pagamenti fissi futuri per controbilanciare la differenza tra i pagamenti fissi
della banca. In altri termini, la scomposizione consente di appurare se un
contratto che è equo nel suo complesso lo è anche nelle sue componenti
(lineare e non lineare).
43
Un esempio
di ristrutturazione
di un contratto
derivato
5
Per concludere la nostra narrazione costruiamo un caso, ispirato a quelli
che abbiamo analizzato nel progetto ANCI-IFEL. L’intenzione è ripercorrerlo dall’inizio e valutare quali proposte di ristrutturazione potrebbero
provenire dalle banche per un’eventuale ristrutturazione a seguito della
legge di stabilità per il 2014.
Il contratto tipico è un collar. Assumiamo che all’origine, alla fine del 2007,
sia stato emesso un titolo obbligazionario a tasso fisso, per un tasso del
4,50%, e che questo sia stato scambiato con un flusso di pagamenti a
tassi variabili con limiti di variazione. Viene quindi proposto un contratto
swap in cui la banca si accolla i pagamenti fissi del 4,50% in cambio di
pagamenti a tasso variabile, legato al tasso Euribor a 6 mesi e con un
limite di oscillazione superiore al 6,50% e quello inferiore a un livello del
3,55%. In pratica l’ente vuole riservarsi di sfruttare una riduzione dei tassi
di quasi un punto percentuale in caso di ribasso dei tassi, accettando il rischio di un aumento fino a due punti percentuali. Il profilo di rimborso del
debito è strutturato in modo da essere in linea con quanto richiesto dalla
regolamentazione. La figura riporta una descrizione sintetica del profilo
di debito e dei pagamenti di interessi a seguito dello scambio.
47
L’uso dei derivati negli enti locali
Figura 4. Piano di ammortamento e oneri di interessi attesi all’origine
del contratto.
4.000.000,00
5,2000%
Debito residuo
3.500.000,00
5,0000%
3.000.000,00
2.500.000,00
4,8000%
2.000.000,00
4,6000%
1.500.000,00
4,4000%
1.000.000,00
4,2000%
500.000,00
-
Spesa per interessi attesa (%)
5,4000%
4.500.000,00
1 2
3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38
4,0000%
Elenco rate
Se questo contratto fosse stato sottoposto a un consulente, questo avrebbe trovato che la struttura dello scambio nasconde una commissione a
favore della banca per 100.000 euro. In percentuale del valore nozionale
del contratto, è il 2,40%, che corrisponde alla media ponderata dei casi
valutati nell’esperienza IFEL.
Per quanto riguarda la composizione della commissione occulta, calcoliamo che per un terzo deriva dal valore del “collar”, che è sbilanciato a debito
dell’ente per circa 33.600 euro. In pratica, la banca avrebbe potuto abbassare il valore del floor fino a 3,133% se avesse venduto un “collar” equo.
Vediamo ora quali sono le opportunità e i rischi a cui sono esposti casi
come questo alla luce della nuova regolamentazione prevista dall’articolo
16 della legge di stabilità per il 2014. Innanzitutto rivalutiamo il contratto
alla data del 30 settembre 2014. In quella data, nel caso in questione il valore netto del contratto risulta a favore dell’ente per più di 122.600 euro.
L’effetto è dovuto all’aumento della differenza tra il valore attuale dei pagamenti a tasso fisso e quelli a tasso variabile (aumentato a quasi 544.000).
48
Un esempio di ristrutturazione di un contratto derivato
Tale aumento è controbilanciato dall’esplosione del valore del “collar”, legato anch’esso al crollo dei tassi, ed aumentato a circa 421.400 euro.
Questo caso ci consente di illustrare i punti critici delle due alternative
a disposizione dell’ente e della banca che ne è controparte nel contratto
swap. La prima decisione, che va per la maggiore nella pratica dei Comuni, è la chiusura del contratto. Tre sono i punti critici di questa decisione:
• in primo luogo, la chiusura dovrebbe essere contrattata sulla base
•
•
del valore equo di 122.600 euro calcolato. In questo caso la banca
potrebbe accampare diverse considerazioni per ridurre il valore di
chiusura, legate a prassi che tra l’altro non sono chiare neppure nel
mercato bancario. La banca potrebbe infatti far valere la prassi, recente, di includere anche nella valutazione di chiusura il rischio di
credito di entrambe le parti e rivendicare un maggiore rischio di credito dell’ente rispetto a quello della banca. Inoltre, è ormai prassi da
parte della banca rivendicare anche i costi di finanziamento (“funding cost”) dei costi di chiusura del contratto stesso. Per cui, nel
caso specifico, possiamo ipotizzare che la somma si riduca rispetto
a quella calcolata in assenza di questi elementi;
in secondo luogo, la contrattazione sarebbe complicata dalla discussione sul modo in cui dovrebbero essere considerati i 100.000
euro di commissioni riscosse dalla banca all’origine del contratto.
Dovrebbero essere retrocessi integralmente? Solo in proporzione
al periodo di vita del contratto che verrà tagliato per la conclusione
prematura? Oppure resterà tutto a favore delle banche?
in terzo luogo, in cambio di un esborso monetario al Comune rimarrebbe l’onere di pagare il 4,50% fisso per i prossimi undici anni.
Rinuncerebbe per sempre allo sfruttamento dei tassi bassi. Ricordiamo che in termine di valore attuale il valore finanziario della
differenza tra le due scelte è di 544.000 euro.
Per questo, tornare al tasso fisso quando i tassi sono bassi non è una
scelta razionale. A meno che non ci siano quindi clausole di estinzione
49
L’uso dei derivati negli enti locali
anticipata nel contratto che forzano la chiusura del contratto, il Comune
dovrebbe perseverare nella scelta dei pagamenti a tasso variabile, proprio perché la scelta gli ha dato ragione. Ma proprio sulla razionalità di
questa scelta si potrebbe innestare una proposta di ristrutturazione del
contratto da parte della banca che potrebbe apparire, e addirittura essere utile, al Comune, consentendo però alla banca di incamerare ulteriori
commissioni implicite, oltre a quelle intascate all’origine del contratto.
Nel nostro caso di esempio, consideriamo che la banca proponga la chiusura del “floor”, cioè della garanzia contro il ribasso dei tassi venduta
dall’ente alla banca. Il personale di vendita della banca potrebbe osservare che in questo modo il contratto verrebbe messo “a norma” rispetto
alla nuova disciplina regolamentare. Resterebbe infatti solo un pagamento a tassi variabili con una garanzia contro il rialzo dei tassi (“cap”), come
previsto dalla legge di stabilità del 2013.
La banca potrebbe proporre di eliminare questo “floor” in cambio di uno
“spread” fisso pari al 3% annuo. Potrebbe anche argomentare che questa ristrutturazione consentirebbe un immediato risparmio di spese per
interessi attese rispetto alla situazione attuale, e che questo risparmio
permarrebbe per i prossimi cinque anni. L’emissario della banca potrebbe mostrare un piano di interessi come quello riportato nella curva denominata “Ipotesi 1” nella Figura 5. Potrebbe anche argomentare, a ragione, che: il risparmio copre quasi metà della vita residua del contratto; il
risparmio è centrato sul periodo di vita residua in cui il debito residuo è
maggiore, e quindi il risparmio ottenuto nei primi cinque anni in termini
monetari vale di più dell’aumento della spesa per interessi negli ultimi
anni di vita del contratto.
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Un esempio di ristrutturazione di un contratto derivato
Figura 5. Prospettive di ristrutturazione del contratto swap.
5,500%
5,000%
4,500%
4,000%
3,500%
Bond
Corrente
Ipotesi 1
Ipotesi 2
3,000%
2,500%
2,000%
1,500%
0
2
4
6
8
10
12
In conclusione, mentre la scelta di chiudere il contratto “tout court” non pare
razionale, ristrutturare il contratto chiudendo il “floor” con un risparmio nella spesa per interessi nel primo periodo al costo di un aggravio nella seconda parte è una scelta che può essere difesa, e ritenuta utile, e addirittura
rafforzata da considerazioni di congiuntura economica. L’unico problema è
che in questo modo la banca incasserebbe un’ulteriore commissione implicita di circa 31.700 euro, pari a circa lo 0,8% del valore nozionale del debito.
Un valore non trascurabile, se si considera il valore nozionale del comparto
dei Comuni, che si aggira intorno ai 12 miliardi di euro. I costi (guadagni)
potenziali per i Comuni (le banche) si aggirerebbero intorno ai 100 milioni di
euro. Siamo quindi in una situazione in cui la ristrutturazione del contratto
è utile all’ente, particolarmente se in crisi di liquidità, e quindi incline a sottoscrivere la ristrutturazione, anche se una parte dei benefici va alle banche.
Lo stesso è avvenuto all’apertura dei contratti, e quando i contratti di prima
generazione sono stati sostituiti con i “collar” di oggi. Niente di nuovo dunque. L’unica novità che avrebbe potuto cambiare la negoziazione tra banche
ed enti sarebbe stata una norma che avesse costretto le banche a informare
l’ente in maniera trasparente sul valore equo degli elementi del contratto.
Questo era lo spirito dell’emendamento che era stato proposto da ANCI-IFEL
all’articolo 16 della legge di stabilità, e che non è stato considerato.
51
L’uso dei derivati negli enti locali
L’emendamento proposto da ANCI-IFEL prevedeva due regole di trasparenza:
i) il fatto che la banca avrebbe dovuto illustrare la convenienza economica, intesa come valore dell’efficacia del derivato nel ridurre il
rischio in relazione al costo del contratto;
ii) il fatto che in caso di ristrutturazione, tale analisi avrebbe dovuto tenere conto anche dei costi impliciti imposti all’origine del contratto.
Nel nostro caso, chiudere la parte “floor” del contratto sarebbe costato
tra 2,75% e 2,80% l’anno (a seconda di quanto dei 100.000 euro iniziali
sarebbero stati inclusi nel contratto). Nella Figura 5, il nuovo profilo dei
pagamenti di interesse è riportato nella curva “Ipotesi 2”.
52
Valutazione di debito,
con ammortamento
e sinking fund
Appendice 1
Titolo a tasso variabile con ammortamento
In questa appendice tecnica mostriamo la valutazione di titoli con profili
di ammortamento come quelli richiesti dalla regolamentazione italiana.
Consideriamo innanzitutto un finanziamento emesso direttamente con
un profilo di ammortamento definito su uno scadenzario di {t1, t2, …,tn}.
Assumiamo un piano di rimborso che preveda di ripagare una quota ki
del capitale al tempo ti, i = 1,2,…,n. Definiamo wi il debito residuo al tempo ti. Al tempo di emissione, t0, il debito residuo è uguale all’ammontare
nominale dell’emissione, che per semplicità poniamo uguale a 1 (w0 = 1).
Consideriamo il caso di pagamenti di interessi posticipati ri, i = 1,2,…,n, e
assumiamo il caso di pagamenti indicizzati.
E’ noto che la valutazione di una cedola indicizzata posticipata su un ammontare wi-1 utilizza i cosiddetti tassi impliciti (forward). Formalmente,
definito i(ti-1,ti) il tasso d’interesse di riferimento a pronti al tempo ti-1 e, in
maniera equivalente, f(t0,ti -1,ti) il corrispondente tasso a termine rilevato
al tempo t0, esiste una misura di probabilità Mi, chiamata misura di martingala forward (Forward Martingale Measure, FMM) tale che:
(A.1)
55
L’uso dei derivati negli enti locali
dove v(t0,ti) rappresenta il valore attuale di un euro disponibile alla data
futura ti. Il valore complessivo dei pagamenti di interesse è quindi:
(A.2)
e può essere riscritto come:
(A.3)
Si noti che per definizione i pagamenti della quota capitale ki sono uguali
alla differenza tra il debito residuo wi-1 e quello wi: ki = wi-1 - wi. Inoltre, poiché al tempo tn tutto il debito deve essere ripagato (cioè wn = 0), abbiamo
wn-1 = kn. Sulla base di queste considerazioni, il valore complessivo dei
pagamenti di interesse può essere scritto:
(A.4)
Si noti che poiché il valore attuale dei pagamenti delle quote capitale è
uguale a:
(A.5)
o otteniamo che il valore complessivo del debito è uguale a w0 o alla
pari. In realtà, se assumiamo un nozionale unitario, come si è soliti fare,
abbiamo che all’origine il titolo vale 1, esattamente come il titolo a tasso
variabile senza piano di ammortamento. Abbiamo così verificato il prinicpio che l’emissione di debito a tasso variabile consente di conservare
il valore del debito (a meno di variazioni del rischio di credito dell’emittente) alla pari a ogni data di pagamento di interesse.
56
Valutazione di debito, con ammortamento e sinking fund
Titolo a tasso variabile con sinking fund.
Si noti che lo stesso risultato può esssere ottenuto emettendo un titolo a
tasso variabile con rimborso in un’unica emissione alla scadenza e il versamento delle quote di capitale ki in un fondo di ammortamento (sinking
fund). Per una verifica, si assuma che l’ammontare di capitale unitario
sia investito in un titolo a tasso variabile con rimborso alla scadenza. Il
valore attuale del flusso di cedole è quindi dato da:
(A.6)
e v(t0,tn) è il valore del capitale a scadenza. Assumiamo ora che vengano
versate le somme ki in un fondo di ammortamento, e che queste somme
vengano investite a tasso variabile. Denotiamo sr(ti,tn) il tasso swap a
pronti di un contratto swap stipulato al tempo ti, con scadenza tn, con
moltiplicatori (day-count) j, j = i +1, …,n. Definiamo fsr(t0,ti,tn) il tasso
swap a termine (forward). Sappiamo che in assenza di arbitraggio esiste
una misura di probabilità Qi, chiamata misura di martingala swap (Swap
Martingale Measure, SMM) tale che:
(A.7)
Possiamo ora calcolare il flusso di interessi che si accumula sul sinking
fund come:
(A.8)
57
L’uso dei derivati negli enti locali
dove abbiamo utilizzato
di interesse è dunque:
. Il flusso complessivo netto di pagamenti
(A.9)
come nel caso del titolo con ammortamento.
Contratto swap con sinking fund.
Consideriamo ora la costruzione sintetica di un titolo a tasso variabile con
l’emissione di un titolo a tasso fisso, con rimborso alla scadenza (bullet
bond). Lo schema che è stato applicato nell’emissione del titolo, con utilizzo dei derivati, prevedeva due tipi di contratti swap. Il primo riguardava
lo scambio di pagamenti di interesse, o Interest Rate Swap (IRS):
(A.10)
dove r è il tasso fisso sul bullet bond emesso. Il secondo swap prevedeva
lo scambio di pagamenti delle quote capitale, o Interim Exchange (IE):
(A.11)
Il contratto swap assiste l’emissione di un bullet bond B da parte dell’ente
il cui valore attuale è pari a:
58
(A.12)
Valutazione di debito, con ammortamento e sinking fund
é immediato concludere che il valore netto dell’operazione equivale all’emissione di un titolo a tasso variabile con ammortamento, con valore alla
pari. Otteniamo infatti:
(A.13)
dove abbiamo utilizzato l’equazione (A.4).
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Emendamento IFEL
alla legge di stabilità
per il 2014
Appendice 2
ARTICOLO 16
(Ulteriori disposizioni in materia di finanza locale degli enti territoriali)
All’articolo 16, comma 2, lettera d) sono aggiunti i seguenti:
“4bis. L’attestazione di cui al comma precedente può essere resa solo in
presenza di un prospetto informativo prodotto dalla controparte finanziaria che descriva la convenienza economica del prodotto finanziario venduto, espressa in termini di scenari probabilistici secondo le metodologie
elaborate dalla CONSOB.”
“4ter. Nei casi previsti dai commi 3bis, lettera a) e c), 3ter e 3quater, il
prospetto informativo di cui al comma precedente deve essere prodotto
con riferimento alla data di stipula del contratto originario e gli eventuali
guadagni già incorporati dalle parti alla data di revisione o estinzione del
contratto devono essere conteggiati tra i fattori di concambio pattuiti a
tale data, ivi compresi eventuali regolazioni per cassa.”
“4quater. Nei casi previsti dai commi 3bis, 3ter e 3quater, l’assenza del prospetto informativo di cui al comma 4bis determina la nullità del contratto.”
63
L’uso dei derivati negli enti locali
MOTIVAZIONE
L’emendamento prevede, in tutti i casi in cui la nuova normativa consente
le stipula, modifica o estinzione di un contratto derivato, che questa sia
accompagnata da un prospetto informativo che permetta al contraente
pubblico di conoscere esattamente il valore del prodotto acquistato o degli elementi del contratto oggetto della negoziazione.
Il prospetto deve essere reso nei termini previsti dalla metodologia CONSOB adottata per le polizze unit-linked e richiamata dalla recente sentenza della corte d’appello di Milano con riferimento al caso derivati del
Comune di Milano.
Infine, l’emendamento prevede che tale informativa sia resa anche come
elemento di valutazione all’origine, nei casi in cui si tratti di estinzione o
rinegoziazione, in modo da tenere conto di eventuali costi che l’ente abbia già sopportato e che devono essere quindi tenuti in considerazione in
sede di chiusura o revisione del contratto.
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