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Solennità del Corpus Domini – Domenica 10 giugno 2012
Basilica Cattedrale di San Marco - Venezia
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
L’istituzione della festa liturgica del Corpus Domini è l’esito della maturazione della fede
eucaristica della Chiesa che, progressivamente - a partire all’inizio del secondo millennio - anche
sotto la spinta di controversie dottrinali, si pone sempre più nella sua realtà di sacramentum
permanens.
Così, attraverso una più serrata riflessione teologica, la Chiesa giunge a una maggiore
conoscenza del mistero eucaristico inteso non solo come celebrazione ma, appunto, come presenza
reale.
Fu papa Urbano VI che nel 1264 istituì, per tutta la cristianità, la festa del Corpus Domini;
l’anno prima, a Bolsena, era avvenuto il miracolo eucaristico che aveva avuto come protagonista il
prete boemo - Pietro da Praga - il quale nutriva dubbi sulla presenza reale del Signore nella
santissima eucaristia e per questo aveva intrapreso un pellegrinaggio a Roma. Proprio a Bolsena - di
ritorno da Roma - mentre celebrava vide stillare sangue dall’ostia consacrata; sangue che bagnò
corporale e lini liturgici.
La solennità del Corpus Domini, festa universale della Chiesa, riveste un valore
particolarissimo per la fede cristiana; proprio perché viene celebrata in tutta la Chiesa e da tutta la
Chiesa.
A tale proposito richiamo l’affermazione tradizionale di Prospero d’Aquitania - monaco
agostiniano del V secolo e segretario di Papa Leone magno - che così s’esprime: legem credendi,
lex statuat supplicandi (ossia: la regola del pregare stabilisca la maniera del credere). In tale
assioma si dice che la preghiera - quando e se universalmente approvata dalla Chiesa - diventa
espressione certa della stessa fede della Chiesa.
Quindi l’aver fatto posto, nelle celebrazioni liturgiche della Chiesa, oltre alla missa in coena
Domini - la sera del giovedì santo -, anche alla solennità del Corpus Domini, si spiega col fatto che
il momento istitutivo-celebrativo non esaurisce il mistero eucaristico.
La celebrazione ha, infatti, il suo naturale prolungamento nell’adorazione che dobbiamo
riscoprire per poter vivere in modo nuovo, i gesti celebrativi tanto a livello di sacerdozio
ministeriale, la presidenza dell’eucaristia, tanto di sacerdozio universale dei fedeli.
Sia nel richiamo al silenzio, sia nel rimanere adoranti in ginocchio, di fronte al mistero che
ci precede, si coglie sempre meglio la Presenza ultima che guida il gesto celebrativo della Chiesa.
Così, personalmente e comunitariamente, ci consegniamo al vero Orante che è il Signore
Gesù, nell’atto di donarsi al Padre; si vive, in tal modo, la realtà del Christus totus: il Cristo totale,
Capo e corpo.
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L’adorazione è l’atto che, oltre al momento celebrativo, si pone in profonda continuità con
esso: il momento della comunione eucaristica e quello della presenza orante innanzi all’ostia
consacrata che, logicamente, segue o precede la stessa celebrazione.
L’eucaristia è, in tal modo, nella sua pienezza dottrinale, teologica, spirituale e pastorale,
sacramento celebrato, ricevuto, adorato e vissuto, affinché la nostra storia personale partecipi del
mistero del “corpo dato” e del “sangue effuso” per la salvezza del mondo. Così anche noi, a nostra
volta, diventeremo esistenze veramente “cristiane” attraverso l’eucaristia.
Sia la teologia sia la logica del battesimo cristiano chiedono di tradursi in un’antropologia
cristianamente compiuta, ossia, un’esistenza “cristica”. Siamo chiamati a diventare, nelle nostre
persone - attraverso l’eucaristia celebrata ricevuta e adorata -, un vero rendimento di grazie a Dio e
ad esprimere un forte senso di appartenenza a Gesù.
Il motivo primo di questo “rendimento di grazie” a Dio, che è l’eucaristia, è proprio il dono
del Padre all’umanità, il Cristo salvatore; è in Lui e solamente in Lui che noi ci possiamo riscoprire
umanità filiale, capace di dono e perdono.
E’ proprio dall’altare - anche dal più piccolo e sperduto - che nasce la carità di Cristo, ossia
la capacità di farsi carico di tutto l’uomo che è, insieme, spirito anima e corpo.
A ragione, quindi, il beato Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia così si
esprime: “Si comprende, da quanto detto, la grande responsabilità che hanno, nella celebrazione
eucaristica soprattutto i sacerdoti, ai quali compete di presiederla in persona Christi, assicurando
una testimonianza e un servizio di comunione non solo alla comunità che direttamente partecipa
alla celebrazione, ma anche alla Chiesa universale, che è sempre chiamata in causa
dall’Eucaristia. Occorre purtroppo lamentare - aggiunge Giovanni Paolo II - che, soprattutto a
partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e
adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti… ” (Ecclesia de
Eucharistia, n.52).
Non è possibile, poi, aprirsi alla carità solo fino ad un certo punto… L’arbitrio che esclude,
infatti, non appartiene alla scelta di Cristo. L’antropologia cristiana, in realtà, non ammette
parzialità o riduzioni di sorta. Infatti, o si è di fronte all’uomo, nella sua totalità, oppure s’elabora e
si finisce per correre dietro a astrazioni; a un uomo, che, di fatto, nella realtà, non esiste.
La Chiesa è, e sarà sempre, legata alla volontà del suo Signore che - mentre le pronuncia dona ai “suoi” le parole sul pane e sul vino: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue “dati”,
“offerti” per voi,
Come si diceva, sono parole trasmesse alla Chiesa, che è la sposa, perché nell’incontro tra la
fedeltà di Cristo, lo Sposo, e la fedeltà della Chiesa, la sposa, si faccia la memoria, si celebri il
“memoriale”. In altre parole: la Chiesa “fa” l’eucaristia attraverso il ministero ordinato, l’eucaristia
“fa” la Chiesa sul piano più profondo del mistero.
Da quel momento la Chiesa, nella sua pienezza, non potrà più prescindere dal pane “dato” e
dal vino “effuso” per la salvezza del mondo. La liturgia, quindi, esprime la fede della Chiesa nel
corpo dato e nel sangue effuso.
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Gesù accessibile, qui e ora, presente, qui e ora, per la salvezza del mondo. L’eucaristia è
l’esserci di Gesù che si offre nell’incontro di una fede che attende e di un dono che si consegna;
l’eucaristia è il rimanere con Lui nella celebrazione che in se stessa è già adorazione; la
celebrazione eucaristica è l’atto più alto di adorazione che si prolunga, appunto, nella comunione e
nell’adorazione.
Per il discepolo del Signore, adorare è semplicemente adesione e svolgimento coerente della
fede battesimale.
La processione eucaristica - in un passato non troppo lontano - non sempre è stata compresa
da quanti, forse senza piena coscienza, cedevano a una visione secolarizzata in cui la processione
veniva percepita come trionfalismo o come pericolo per la laicità.
Ma lasciare pregare chi desidera farlo, anche pubblicamente, è espressione della vera laicità
che non coltiva il mito di un’impossibile neutralità o che non vede nell’orante un pericoloso
sovversivo.
Al contrario la processione - momento di preghiera pubblica - è la testimonianza serena di
chi ritiene come l’orizzonte della città sia più libero dai vari condizionamenti degli uomini se viene
concesso di “pronunciare” il nome di Dio. Solo Dio, infatti, può realmente liberare l’uomo
disponendolo alla relazione che lo fonda e che viene prima della politica, dell’economia e della
finanza.
Politica, economia, finanza: trinomio che oggi fatica non poco ad esprimere ciò che pensava
di dare all’uomo e alla società, ossia una buona vita da condividere a partire dal bene comune.
L’eucaristia, nella semplicità del suo essere pane spezzato per la condivisione e la salvezza
del mondo, diventa in questa solennità del Corpo e Sangue del Signore - anche per la città proposta e testimonianza di un mondo nuovo.
Particolarmente oggi, in questo tempo in cui facciamo esperienza di una crisi diffusa, che
sembra non voler cedere il passo e sembra intaccare anche i più forti e ottimisti, assumono
significato particolare queste parole di Benedetto XVI, proprio sulla processione odierna: “La
processione del Corpus Domini ci insegna che l’Eucaristia ci vuole liberare da ogni abbattimento e
sconforto, ci vuole far rialzare, perché possiamo riprendere il cammino con la forza che Dio ci dà
mediante Gesù Cristo” (Omelia, 22 maggio 2008).