Eucaristia: dal noto al conosciuto

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Conosci davvero l’Eucaristia?
Non accada che la lingua risuoni, e la coscienza dica il contrario!
(S. Agostino)
Il noto, diceva Hegel, non è conosciuto. Quante cose ci stanno palesemente sotto gli occhi,
eppure non le notiamo! Per strada incrociamo tante persone, eppure raramente possiamo dire che ne
incontriamo qualcuna, ovvero che investiamo anche solo un minimo di tempo e di energie per
riconoscerle, eventualmente per salutarle. Perché? Perché è una cosa ovvia, scontata, nelle nostre città
affollate, incontrare qualcuno. Ben altro accadrebbe se stessimo percorrendo una pista nel deserto, o
anche solo un sentiero in alta montagna: allora l’altra persona è accolta, circondata da attenzione,
rivestita di importanza… sottratta, cioè, all’ovvietà. L’ovvietà: questo pericoloso frutto della
consuetudine minaccia costantemente ogni attività e gesto dell’uomo, privandolo di vivacità e di
consistenza, rendendolo meccanico e insignificante. Il senso di ciò che si fa rischia sempre di andar
perso, di annegare nelle acque della ripetizione e della superficialità.
A questo pericolo non si sottraggono nemmeno i gesti che costellano la nostra vita cristiana, se
non ci prendiamo cura di sottrarli dalla banalità dell’abitudine. I riti che articolano le nostre preghiere
liturgiche rischiano di divenirci estranei, tanto sono familiari: diamo troppo spesso per scontato di
sapere perfettamente che cosa andiamo a fare quando “andiamo a Messa”, riteniamo ovvio l’aver
compreso il significato della celebrazione eucaristica – non abbiamo fatto tutti il catechismo, prima di
accostarci alla Prima Comunione? – e quindi non ce ne curiamo più. Salvo poi il ritrovarci immersi in
un linguaggio liturgico che a prima vista appare anacronistico e lontano, ben diverso dal linguaggio
adoperato correntemente nella quotidianità; o l’essere circondati da una gestualità rigida e ieratica –
oppure conviviale e trasandata, a seconda delle parrocchie – ma in ogni caso poco significativa, che non
interpella in profondità il nostro essere credenti e il nostro appartenere alla comunità ecclesiale.
Conosci davvero l’Eucaristia? L’incisivo titolo di un libricino di Cesare Giraudo (Qiqajon, Magnano
2001) ci provoca e ci invita a svegliarci da questo topore. Il noto non è ancora conosciuto. Ma per
sottrarci alla nostra ignoranza e superficialità, non ci viene propinato un lungo e noiosissimo trattato di
teologia. Il testo inizia con una domanda quanto mai significativa: dov’è che si impara veramente a
conoscere la liturgia e in particolare l’Eucaristia? Non tanto nelle scuole, come a lungo è stato fatto nel
tardo medioevo, quando imperversavano le dispute sulle categorie filosofiche più adatte a esprimere la
“presenza reale” del Corpo e del Sangue di Cristo nelle specie eucaristiche. Non si può seguire
l’esempio del “teologo orologiaio”, che smonta il rito in tanti pezzetti, ne isola alcuni analizzandoli a
fondo, ma come ingranaggi sconnessi e inerti. Piuttosto, dobbiamo prendere a modello i Padri dei primi
secoli, che studiavano l’Eucaristia non tanto “a scuola” quanto “in chiesa”, ovvero osservando la
dinamica del rito nel suo svolgimento vivente. Essi infatti studiavano i sacramenti nel culto e a partire dal culto.
Loro preoccupazione principale era introdurre i fedeli, attraverso una comprensione orante, al mistero stesso. In rapporto
alla teologia dei sacramenti, prima pregavano e poi credevano, pregavano per poter credere, pregavano per sapere come e che
cosa dovevano credere (p. 9). Dobbiamo, in sostanza, riprendere l’antica massima per cui la lex orandi è lex
credendi: capire i linguaggi, i ritmi, i contenuti della liturgia non è affatto un sovrappiù, una questione
estetica o ornamentale: ci aiuta a comprendere meglio la sostanza stessa della nostra fede. Così diceva il
grande vescovo Ambrogio: Vuoi sapere in qual modo con le parole celesti si consara? Prendi in considerazione quelle
che sono le parole! (p. 11).
Ma – appunto – vanno considerate con attenzione tutte le parole che si utilizzano durante
l’Eucaristia, è necessario uno sguardo complessivo, capace di afferrare il significato che emerge
dall’intera dinamica della celebrazione, e in particolare del suo “cuore”, che è la preghiera eucaristica. Al
contrario, non è infrequente l’impressione che la concentrazione – sia del presbitero che presiede sia di
tutto il popolo che celebra l’Eucaristia – sia giustamente elevatissima in un preciso momento della
preghiera eucaristica, quello che segue la prima epiclesi, ovvero l’invocazione dello Spirito sulle offerte
del pane e del vino, ma che essa sia assai più rarefatta durante le altre parti di questa lunga preghiera,
che pure rappresenta il culmine dell’intera celebrazione, e che contiene tra l’altro una seconda epiclesi
sul Popolo di Dio. Il prete legge frettolosamente, i fedeli pensano ad altro. E così, qualcosa va
irrimediabilmente perso: la comprensione del significato più profondo del mistero eucaristico.
In queste pagine, Cesare Giraudo ci aiuta a penetrare un po’ più in profondità questo mistero,
facendoci rileggere con occhi nuovi le formule che siamo abituati ad ascoltare, e attingendo inoltre ai
testi assai suggestivi della ricca tradizione orientale. Questo percorso, che segue il ritmo della struttura
stessa della preghiera eucaristica, e ne spiega alcuni termini-chiave di comprensione non immediata
(come: rendimento di grazie, intercessione, epiclesi, anamnesi…), ci invita a comprenderne il significato
complessivo, meditando soprattutto sull’intima unione che sussiste tra le due epiclesi, ovvero le
invocazioni allo Spirito Santo, rivolte l’una sul pane e sul vino, l’altra sui fedeli che compongono
l’assemblea celebrante. La transustanziazione delle specie eucaristiche non è, per così dire, fine a se
stessa: anzi, essa ottiene il suo pieno significato nella trasformazione escatologica dei credenti, che si
nutrono del pane e del vino consacrati, nel corpo stesso di Cristo. Questo risulta più evidente – rispetto
al rito della Chiesa d’Occidente, che separa le due invocazioni – nel testo dell’anafora di San Basilio, che
recita così: ... manda il tuo Spirito su di noi e su questi doni, perché trasformi i doni nel corpo sacramentale, affinché,
comunicando con esso, noi siamo trasformati in un solo corpo, ossia nel corpo ecclesiale. Il “Cristo sacramentale” –
sottolinea Giraudo – non è il termine ultimo dell’Eucaristia: esso è rappresentato piuttosto dal “Cristo
ecclesiale”: tutta l’azione eucaristica converge di fatto sulla chiesa, ossia su quel corpo che si costituisce al ritmo delle
nostre eucaristie (p. 69).
Penetrando nel linguaggio e nella struttura della preghiera eucaristica, comprendiamo così come il
sacramento non sia un feticcio, ipostatizzato nella sua sacralità, ma sia piuttosto segno vivente della
comunione ecclesiale che si costruisce giorno per giorno sulla base del memoriale – cioè della memoria
viva e operante – della morte e risurrezione del Signore. La liturgia perde così il suo isolamento e la sua
insignificanza, e da parentesi desueta diventa davvero fons et culmen della vita dei credenti (cfr. Concilio
Vaticano II, Sacrosantum Concilium, n° 10). Entrando in chiesa, portiamo tutto il vissuto di gioia e di angoscia del
mondo, per viverlo al massimo grado in quella particolare relazione a Dio e agli altri che è la celebrazione eucaristica.
Uscendo di chiesa, poi, portiamo nella quotidianità del mondo tutti gli impegni assunti e riassunti al ritmo delle nostre
eucaristie (p. 83).
Emanuele Bordello
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