Studiare il linguaggio - Università degli studi di Bergamo

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Studiare il linguaggio
Una brevissima introduzione
Nota. Questo breve testo ha un uso esclusivamente didattico. Non citare senza autorizzazione.
La scienza del linguaggio è la linguistica. Ma che cosa studia, esattamente, la linguistica? A quali
domande una scienza del linguaggio deve dare risposte? Il linguaggio è un fenomeno complesso che
investe molti aspetti della nostra vita. È impossibile affrontare lo studio del linguaggio da un unico
punto di vista.
L’esemplificazione forse più significativa di questa pluralità di prospettive è l’opposizione tra una
concezione del linguaggio come facoltà mentale, una complessa struttura realizzata nel nostro
cervello (parliamo e comprendiamo il linguaggio perché abbiamo il cervello fatto in un certo modo,
oltre che un apparato fono-articolatorio fatto in un certo modo), e una concezione del linguaggio
come fenomeno socio-culturale, da studiarsi nella prassi dell’interazione comunicativa. La seguente
affermazione del linguista e studioso di scienze della mente Ray Jackendoff mette bene in luce
l’opposizione che stiamo delineando:
«Se non ci fossero altre persone con cui comunicare, sarebbe difficile dare un senso
al linguaggio così come lo conosciamo. Ma, d’altra parte, l’uso di un linguaggio in
una comunità presuppone che le persone abbiano la capacità cognitiva di produrre e
comprendere i segnali che si scambiano.»
(Jackendoff 2002, p. 34)
In altre parole, il linguaggio è nella testa delle persone, ma si manifesta, si produce concretamente,
in un contesto sociale. Da un lato il linguaggio è una capacità con una base genetica che
sviluppiamo nei primissimi anni della nostra vita, dall’altro è un mezzo comunicativo sofisticato
che impariamo gradualmente a padroneggiare e che non è ben separato da altri aspetti della cultura.
Linguaggio-I e linguaggio-E
Noam Chomsky, il più grande linguista vivente, ha caratterizzato questa opposizione nei termini di
una distinzione tra Linguaggio-I e Linguaggio-E. Il linguaggio-I è l’insieme delle strutture mentali
(realizzate nel cervello) innate1 che ci consentono di usare e comprendere le lingue. Il linguaggio-I è
un oggetto completamente naturale, una proprietà specifica della specie umana, come tale immune
alla storia e al contesto socio-culturale. Il linguaggio-E è l’insieme dei proferimenti effettivi dei
parlanti, considerati in relazione al contesto sociale e specificamente comunicativo in cui sono
prodotti. È un artefatto socio-culturale, dipendente dalla storia e dalla società.
L’opposizione tra linguaggio-I e linguaggio-E comporta alcune significative differenze
epistemologiche (= relative al modo in cui conosciamo qualcosa) e metodologiche:
- Studiare il linguaggio-E è raccogliere i dati linguistici e cercare le regolarità che li caratterizzano –
«raccogliere corpora di enunciati e studiarne le proprietà» (Formigari 2001, p. 9), mentre studiare il
linguaggio-I è ipotizzare leggi o principi che spieghino certe proprietà dei dati. In altri termini, lo
studio del linguaggio-E avrebbe soprattutto un intento descrittivo e classificatorio (paragonabile a
quello di discipline come la zoologia sistematica), mentre lo studio del linguaggio-I mira alla
spiegazione del funzionamento (di certi aspetti) del linguaggio e, correlativamente, alla previsione
(di certi aspetti) del comportamento linguistico.
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Per ‘innate’ si deve intendere che lo sviluppo di queste strutture, che si completa nell’arco dei primi tre anni di vita, è
pre-determinato fin dalla nascita.
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- (coerentemente con il punto precedente) Il metodo di studio del linguaggio-I è deduttivo: si
ipotizzano delle leggi da cui dedurre i fenomeni; il metodo del linguaggio-E è invece empiricoinduttivo: si raccolgono molti dati e si fanno osservazioni cercando di ricondurle a delle regolarità.
Semplificando un po’, un procedimento è deduttivo quando dal generale si deriva il particolare (i fatti particolari si
ottengono come conseguenza logica di principi generali); è induttivo quando si risale dal particolare al generale (si
osservano molti fatti particolari, si cercano delle correlazioni, e, ammesso di trovarle, si ipotizza che i fatti osservati
siano esemplificazioni di un principio generale). Nella pratica scientifica i due metodi tipicamente coesistono.
- Nel caso del linguaggio-I fanno parte dei dati empirici qualsiasi frase venga in mente a un parlante
(e al linguista, in quanto parlante tra gli altri) e i giudizi di grammaticalità su tali frasi. Nel caso del
linguaggio-E i dati empirici sono i corpora, cioè le registrazioni di interazioni linguistiche
effettivamente avvenute. Nel primo caso è rilevante qualsiasi cosa una persona può (è capace di)
dire; nel secondo caso soltanto quello che le persone dicono davvero.
Riassumendo, lo studio del linguaggio-I mira all’elaborazione di una vera e propria teoria, cioè di
un sistema di regole e principi in grado di spiegare i fatti linguistici; mentre nello studio del
linguaggio-E prevale l’intento descrittivo, volto a costruire una sorta di mappa dei fatti linguistici.
Secondo Chomsky, soltanto il linguaggio-I può essere oggetto di scienza; la linguistica è pertanto lo
studio scientifico del linguaggio-I. Del linguaggio-E non si può fare scienza, perché ciò che
effettivamente proferiamo nelle svariate circostanze comunicative dipende da una congerie di fattori
che non possono essere ricondotti ad alcun principio esplicativo generale. La nozione stessa di
lingua, così come comunemente intesa (l’italiano, l’inglese, lo swahili ecc.), è completamente priva
di rigore e non ha alcun rilievo scientifico, perché l’identificazione di una lingua dipende da fattori
storici, sociali e politici (si veda più avanti, paragrafo Linguaggio e lingue).
Non è difficile immaginare come il punto di vista di Chomsky abbia suscitato critiche assai aspre.
La restrizione dell’ambito della linguistica al linguaggio-I, cioè alla facoltà del linguaggio (piuttosto
che al linguaggio in quanto tale, direbbe un oppositore2), implica che i principi del linguaggio siano
di natura mentale, o psicologica, e che le lingue storico-culturali non siano altro che idealizzazioni
costruite a partire dalle lingue realmente parlate da ciascuno di noi (poiché le differenze tra la lingua
parlata da X e la lingua parlata dal suo connazionale Y sono, da un certo punto di vista, modeste, ne
facciamo astrazione). Il linguaggio è essenzialmente qualcosa di mentale, dunque di individuale.
All’opposto per i critici di Chomsky le regole o principi che governano il funzionamento del
linguaggio sono, almeno in parte, convenzioni fissate in una data comunità linguistico-culturale, e la
competenza linguistica –ciò che Chomsky chiama “linguaggio-I”– consiste perlopiù
nell’“introiezione” da parte dei parlanti di tali principi: solo dopo che il linguista li ha messi in luce
lo studioso del linguaggio inteso come competenza o facoltà mentale può spiegare in che modo i
principi vengono acquisiti e codificati nella mente delle persone.
Un altro aspetto che ha attirato a Chomsky molte critiche è che la facoltà del linguaggio, o
linguaggio-I, comprende solo alcuni aspetti della nostra capacità di usare e comprendere il
linguaggio, quasi esclusivamente quelli grammaticali. Ciò lascia fuori molto di ciò che vorremmo
sapere sul linguaggio. Si potrebbe allora sostenere che, se il prezzo da pagare per rendere la
linguistica una scienza rigorosa come la biologia o la chimica è quello di ignorare, ad esempio,
diverse questioni relative al significato o alla comunicazione, forse non vale la pena di pagarlo. Se
queste critiche hanno qualche fondamento, identificando la linguistica con lo studio del linguaggio-I
Chomsky ne restringerebbe eccessivamente l’ambito.
Dunque, e lo vedremo meglio in seguito, ci sono diverse opinioni e programmi di ricerca all’interno
della linguistica. Non vi è dubbio, tuttavia, che il programma di ricerca di Chomsky sia stato quello
più significativo e fecondo di risultati degli ultimi cinquant’anni.
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Si potrebbe infatti descrivere il punto di vista di Chomsky dicendo che egli tende a far coincidere il linguaggio con la
conoscenza del linguaggio, mentre per il suo oppositore le due cose sono ben distinte: un conto è il linguaggio, un altro
la capacità dei parlanti di usarlo e comprenderlo.
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Altre opposizioni
Si possono fare altri esempi di concezioni differenti del linguaggio, che danno luogo a opposizioni
difficili da ricomporre. P. es. (cfr. Gauker 1994), si può contrapporre una concezione del linguaggio
come veicolo del pensiero a una come azione. Nel primo caso c’è un primato della dimensione
personale, soggettiva; nel secondo la priorità è accordata alle regole sociali e agli scopi pratici che
emergono nelle interazioni sociali. Oppure si può contrapporre l’idea che il linguaggio abbia una
funzione esclusivamente comunicativa, di trasmissione del pensiero, all’idea secondo cui il
linguaggio ha una funzione cognitiva, cioè costitutiva del pensiero; mentre in base al primo punto di
vista il pensiero precede il linguaggio, che può essere considerato un codice del pensiero, cioè un
sistema per trasmettere all’esterno (ad altri) i nostri contenuti mentali che resterebbero altrimenti
privati e incomunicabili, nel secondo caso il linguaggio contribuisce a dare forma al pensiero, o, nel
caso estremo, il pensiero altro non è che un parlare a se stessi. In tutti questi casi il lettore non deve
attendersi che ci sia una risposta giusta; la questione di che cosa sia il linguaggio e quale la sua
funzione non può essere decisa al modo di un problema logico-matematico. Dovrà essere lui stesso
a formarsi un’opinione. D’altra parte, anche nelle cosiddette scienze “dure” – le scienze della natura
– vi sono divergenze di opinione su alcune questioni importanti. Il valore di un certo programma di
ricerca si misura dai risultati che riesce a ottenere, cioè da quanti fatti riesce a spiegare (cfr. Moro
2006, pp. 35 sgg.).
Linguistica e non solo…
Queste considerazioni spiegano perché vi sono più programmi di ricerca sul linguaggio, per
esempio quello generativista, che si richiama a Chomsky, e quelli eredi dello strutturalismo di De
Saussure. Ma la complessità del linguaggio si manifesta anche nella sua articolazione in diversi
livelli di struttura, ciascuno dei quali è oggetto di una specifica disciplina linguistica: la fonologia,
la morfologia, la sintassi, la semantica e la pragmatica. Prima di introdurre queste articolazioni
disciplinari, è utile far menzione anche di alcune discipline scientifiche di “interfaccia”, che si
muovono a cavallo tra la linguistica propriamente detta ed altre discipline:
- la psicolinguistica, che è lo «studio dei meccanismi mentali che regolano la capacità umana di
usare e comprendere il linguaggio» (la definizione è di Cristina Burani). Il suo obiettivo specifico è
sviluppare una teoria coerente del modo in cui il linguaggio viene prodotto e capito, attraverso lo
studio sperimentale dei processi di comprensione, produzione e acquisizione del linguaggio stesso.
E’ sostanzialmente una branca, o, meglio, un’area di studio, delle scienze della mente e più
specificamente della psicologia dei processi cognitivi.
- la neurolinguistica, che è lo studio dei meccanismi neuronali, cioè cerebrali, soggiacenti alla
nostra capacità di usare e comprendere il linguaggio, con un’attenzione particolare per i disturbi del
linguaggio (afasie, dislessie ecc.)
- la sociolinguistica, che è la «scienza del comportamento verbale nei suoi aspetti sociologici» (la
definizione è di Carlo Prevignano). La sociolinguistica mette in luce e analizza le correlazioni tra
fenomeni o tratti linguistici e tratti sociologici, come età, sesso, estrazione sociale, attività, origine
geografica ecc. Studia per esempio come le relazioni sociali che intercorrono tra i protagonisti di
un’interazione comunicativa infuenzano la comunicazione. In uno slogan, la sociolinguistica
determina chi parla quale varietà di quale linguaggio, quando, a proposito di che cosa e con chi.
Essa è quindi sostanzialmente una scienza sociale, forse una branca della sociologia.
- la linguistica computazionale, che si propone di dedurre il funzionamento dei processi di
comprensione simulandoli, cioè riproducendoli al computer. Essa è quindi una branca
dell’informatica e specificamente dell’intelligenza artificiale.
Linguaggio e lingue
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Si deve poi distinguere la linguistica teorica dalla linguistica storica o, come viene talvolta
chiamata, la glottologia. La distinzione realmente importante a questo riguardo è quella tra
Linguaggio e Lingua, cioè tra il sistema di comunicazione caratteristico della specie umana (il
linguaggio sarebbe anzi, secondo alcuni, ciò che rende peculiare la specie umana rispetto agli altri
animali) e come tale comune a tutti i membri della specie; e le singole diverse realizzazioni storicoculturali del linguaggio, appunto le lingue. I cosiddetti dialetti sono anch’essi vere e proprie lingue:
il fatto che la lingua parlata da una certa comunità di persone sia etichettata come “mero” dialetto
dipende esclusivamente da accidenti storici che non hanno rilievo alcuno per la linguistica come
scienza (anche se, naturalmente, hanno interesse storico e sono quindi importanti per lo storico della
lingua e il glottologo). Si noti inoltre come, nel dire che due persone parlano la stessa lingua,
facciamo astrazione da molte differenze del loro parlare: fonetiche, lessicali ecc.
A volte si parla di linguaggio per denotare qualsiasi sistema di comunicazione, dalla danza delle api
ai vocalizzi delle scimmie. Vedremo tuttavia che ci sono buone ragioni per riservare il termine
‘linguaggio’ al nostro linguaggio; altrimenti detto, il linguaggio ha delle caratteristiche peculiari che
lo rendono profondamente diverso dai sistemi di comunicazione animali. C’è una discontinuità
radicale tra questi e quello.
Le discipline della linguistica
Quale che sia l’approccio al linguaggio che si vuole seguire, tutti gli studiosi convergono nel
rilevare quattro aree disciplinari ben distinte, ciascuna relativa a un aspetto del linguaggio.
Vediamole.
(i) Fonetica e fonologia
Le parole, come è ovvio, sono fatte di suoni. I suoni sono l’unità minima della teoria linguistica. Ci
sono tuttavia due sensi diversi del termine ‘suono’: i suoni come entità fisiche o foni e i suoni come
entità funzionali o fonemi. I foni sono suoni distinguibili per qualche, eventualmente lievissima,
differenza fisica (rilevabile attraverso analizzatori di frequenza). Due suoni sono invece dei fonemi
se, posti nello stesso contesto, hanno una funzione distintiva. P. es. il suono [l] e il suono [r] sono
due fonemi perché, posti nello stesso contesto, [pa]_[co], distinguono due parole, ‘palco’ e ‘parco’.
Analogamente [l] e [r] in ‘light’ e ‘right’ o [p] e [c] in ‘pane’ e ‘cane’. Invece ci sono alcune lingue
in cui il suono [l] e il suono [r] non hanno mai una funzione distintiva. Sono soltanto due foni (la
nozione di fonema è quindi relativa a una lingua). I foni si indicano così: [l], [r]. I fonemi così: /l/
/r/. La branca della linguistica che studia i foni si chiama fonetica, quella che studia i fonemi si
chiama fonologia (o, talora, fonematica). La fonetica è una disciplina ai confini con la fisica e la
biologia.
(ii) Grammatica
La grammatica ha per oggetto i meccanismi di composizione del linguaggio, cioè quei meccanismi
che consentono di costruire unità linguistiche più complesse a partire da unità linguistiche più
semplici. Ciò avviene a due livelli, quello morfologico, nel quale certe unità dette morfemi, che, si
badi, non sono le sillabe (per esempio nella parola ‘intrattabile’ i morfemi sono in, tratta, bil ed e),
si compongono in modo da formare parole; e quello sintattico, nel quale le parole si compongono a
formare frasi.
A volte si parla di flessione invece che di morfologia ma, a rigore, c’è una distinzione tra flessione e morfologia: la
flessione è, insieme alla derivazione, una parte della morfologia: p. es. il rapporto morfologico tra ‘stagione’ e
‘stagionale’ è di tipo derivativo, non flessivo, mentre il rapporto morfologico tra ‘sono’ e ‘sei’ è flessivo, non
derivativo.
I morfemi non sono le unità più semplici: essi si ottengono a loro volta per composizione di fonemi,
che sono le unità linguistiche minime. Pertanto possiamo dire che il linguaggio è caratterizzato da
due fondamentali livelli di composizione di unità complesse a partire da unità semplici: i fonemi
formano parole, cioè sequenze di suoni dotati di significato, e le parole formano enunciati (= frasi
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dotate di significato). I linguisti si riferiscono a questo duplice livello di composizione con
l’espressione “doppia articolazione”3.
Si noti come la distinzione tra morfologia e sintassi presupponga il riconoscimento della parola
come unità fondamentale dell’analisi linguistica4. Nondimeno la grammatica si disinteressa del
significato o contenuto delle espressioni. E’ irrilevante che le frasi siano sensate (es. “le idee verdi
dormono furiosamente” è perfettamente lecita, ben formata, dal punto di vista grammaticale e
specificamente sintattico, anche se è priva di significato, almeno letterale. Grammaticale ma del
tutto priva di significato è “La quadruplicità beve la procrastinazione”). Il concetto di
“grammaticalità” o “accettabilità grammaticale” è quello centrale della grammatica. Una frase è
grammaticale se rispetta certe regole di buona formazione. Le leggi di composizione della
grammatica sono intrinseche alla grammatica stessa, non vincolate da questioni di significato.
Questa autonomia della grammatica trova un limite, tuttavia, nella considerazione che la parola,
che, come detto, è l’unità linguistica in qualche modo centrale, non è definibile in termini
puramente grammaticali. In questo senso l’autonomia della grammatica va intesa soprattutto come
una separazione metodologica, che di fatto ha consentito di fare molti progressi nella ricerca5.
Si noti che per Chomsky la facoltà del linguaggio umano consiste quasi esclusivamente in una
facoltà grammaticale e specificamente sintattica.
(iii) Semantica
La semantica è lo studio del significato linguistico (questioni tipiche: a quali condizioni due parole
sono sinonime? Possiamo dire che il significato del tutto è esclusivamente funzione del significato
delle parti? …). È l’oggetto principale di questo corso. Come vedremo, c’è una semantica filosofica,
una semantica linguistica e una semantica psicologica, ed ognuna di queste contempla a sua volta
diverse teorie. Di tutte le discipline linguistiche, è quella più speculativa e più resistente a un’analisi
scientifica.
(iv) Pragmatica
La pragmatica è lo studio dell’uso del linguaggio, cioè di come i parlanti di fatto sfruttano il
linguaggio nei processi comunicativi, perseguendo vari scopi. La definizione della pragmatica è in
realtà molto controversa, e vi sono chiaramente alcune aree di sovrapposizione con la semantica –
in particolare, lo studio degli effetti del contesto di enunciazione sul significato linguistico è un
tipico terreno di confine.
Che cosa definisce il linguaggio umano
Abbiamo dato, credo, un’idea abbastanza chiara dell’ampiezza e complessità del soggetto. Per
concludere questa introduzione, mi sembra importante tornare su una questione a cui avevamo fatto
un accenno fugace: che cosa differenzia il linguaggio, cioè il sistema di comunicazione proprio
degli esseri umani, da altri sistemi di comunicazione, per esempio dai vocalizzi degli animali?
Perché linguaggio in senso proprio è solo il primo e non i secondi, che chiamiamo talvolta
‘linguaggi’ soltanto per estensione, in senso metaforico? La questione è importante anche perché
aiuta a definire il linguaggio, ci dice che cosa è. Ebbene il linguaggio (umano, non c’è più bisogno
di precisarlo) si distingue da altri sistemi di comunicazione animale per due caratteristiche cruciali:
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Più rigorosamente, “doppia articolazione” significa che 1) unità sprovviste di significato formano unità semantiche (=
dotate di significato) elementari, e 2) unità semantiche meno complesse formano unità semantiche più complesse. Il
principio 2 si applica a diversi livelli: morfemiparole; parolesintagmi; sintagmifrasi ecc.
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E’ impossibile dare una definizione grammaticale di ‘parola’ che non si esponga ad alcuni controesempi. La
definzione che meglio cattura quello che intendiamo è quella di Bloomfield: “forma libera minima”, cioè unità
linguistica che può occorrere in isolamento e non contiene al suo interno altre forme libere. Questa definizione
corrisponde più o meno all’intuizione che le parole sono le unità semantiche minime.
5
Si deve tuttavia considerare che l’autonomia della grammatica, e specificamente della sintassi, trova un riscontro
empirico nel fatto che le attività sintattiche sono realizzate in modo autonomo da specifiche aree del cervello (cfr. Moro
2006).
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1. il possesso di una struttura sintattica, cioè il fatto che le nostre emissioni linguistiche siano
articolate in elementi costitutivi in base a certe regole;
2. la sua natura sistemica, cioè l’esistenza di relazioni non solo tra segni e elementi della realtà
extralinguistica, ma anche tra segni e segni (cfr. Deacon 2004); per esempio, le proprietà
linguistiche di una parola come ‘pane’ non si esauriscono nel fatto che quella parola sia usata (in
italiano) per riferirsi a un alimento basilare, ma sono costituite anche dalle relazioni (di vario
genere) che la parola ‘pane’ intrattiene con altre parole, come ‘cibo’, ‘farina’, ‘fame’ ecc. (per
limitarci al caso delle relazioni semantiche).
È probabile che queste due caratteristiche siano interdipendenti, nel senso che 2 è una conseguenza
di 1, o forse 1 e 2 sono declinazioni diverse di un’unica proprietà sottostante. Inoltre, parlare di
struttura implica che ci siano meccanismi per comporre unità discrete, quali sono ad esempio i
fonemi e le parole, in unità più complesse (cfr. Graffi e Scalise 2002, cap. 1). Avremo modo di
discutere, nel corso, di queste importanti caratteristiche. Per il momento quello che ci interessa
sottolineare è che, sebbene vi siano alcuni ricercatori che insistono nell’affermare che alcune
scimmie (gli scimpanzé) sono in grado di comprendere il linguaggio, la tesi secondo cui il
linguaggio è una facoltà peculiare della specie umana è oggi largamente condivisa da linguisti e
filosofi, e per delle buone ragioni.
Le tesi 1 e 2, prese congiuntamente, consentono di dare una definizione non rigorosa, ma
abbastanza efficace, del linguaggio: il linguaggio è un sistema di segni che obbediscono a certe
regole di composizione o combinazione. In base a questa definizione, i linguaggi formali (i
linguaggi logici o quelli di programmazione) sono linguaggi veri e propri.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (opere citate nel testo)
Deacon T., La specie simbolica, G. Fioriti 2004 (ed. orig. 1997).
Formigari L, Linguaggio. Storia delle teorie, Laterza 2001.
Gauker C., Thinking Out Loud, Princeton University Press 1994.
Graffi G., Scalise S., Le lingue e il linguaggio, il Mulino 2002.
Jackendoff R., Foundations of Language, Oxford University Press 2002.
Moro A., I confini di Babele, Longanesi 2006.