Dispensa n. 8 del corso di PLANETOLOGIA (Prof. V. Orofino) I CORPI MINORI DEL SISTEMA SOLARE: COMETE E OGGETTI TRANSNETTUNIANI Università del Salento Corso di Laurea Magistrale in Fisica A.A. 2011-2012 Ultimo aggiornamento: Agosto 2011 1. Definizione e orbite Le comete sono dei corpi minori del Sistema Solare, formatisi nelle parti esterne di quest'ultimo e costituiti prevalentemente da ghiacci, che almeno una volta nella loro esistenza entrano nelle parti interne del Sistema Solare assumendo una tipica morfologia (caratterizzata dalla presenza di una chioma e di una coda – v. par. 2) che le contraddistingue. Per tale proprietà dinamica esse differiscono da certi satelliti dei pianeti esterni e dai cosiddetti “oggetti transnettuniani” (v. par. 5) che hanno la stessa natura. Le comete si differenziano anche dagli asteroidi che sono altri corpi minori del Sistema Solare, costituiti però da materiali essenzialmente rocciosi in quanto si sono formati nella regione tra le orbite di Marte e Giove. A seconda che il periodo orbitale sia inferiore o superiore ai 200 anni, le comete si dividono in comete a breve periodo e comete a lungo periodo; circa il 20% delle comete catalogate appartiene al primo gruppo, mentre le restanti hanno periodi orbitali che variano da 250 a 3 107 anni (Haymes, 1971). Le 135 comete a corto periodo catalogate hanno orbite ellittiche di bassa eccentricità ed inclinazione con una distanza perielica media di 1.6 0.7 UA (Lang, 1992). Una ben nota cometa a corto periodo è la P/Halley la cui orbita (percorsa in circa 76 anni) si allunga fin oltre l’orbita di Nettuno con perielio all'interno dell'orbita di Venere. Tra le altre comete a corto periodo un importante gruppo è costituito da quelle con periodo minore di 20 anni, costituenti la cosiddetta “famiglia di Giove”. Queste si muovono su orbite ellittiche, di eccentricità pari a circa 0.5, inclinate di meno di 15° rispetto al piano orbitale terrestre (eclittica); il loro afelio cade generalmente ad una distanza di circa 5 UA dal Sole, pari alla distanza del pianeta Giove (Haymes, 1971). Le comete a lungo periodo sono caratterizzate dal fatto di avere inclinazioni orbitali completamente casuali. Di esse 179 hanno orbite effettivamente ellittiche, con eccentricità comunque prossima ad 1.0. Le orbite delle restanti sono elencate come paraboliche o, per 112 di esse, addirittura come iperboliche (Lang, 1992); quest’ultima classificazione è chiaramente il risultato delle poche misure posizionali effettuate ed è effetto della combinazione delle interazioni gravitazionali con il Sole e con Giove. Si noti che molte comete non hanno orbite stabili, nel senso che, a causa di perturbazioni gravitazionali ad opera dei pianeti giganti, i loro parametri orbitali non di rado subiscono drastiche variazioni. Può accadere ad esempio che una cometa di lungo periodo, passando vicino ad un pianeta, venga da questo costretta a percorrere, da quel momento in poi (fino ad un’eventuale nuova perturbazione planetaria), un’orbita ellittica, molto più stretta, di breve periodo. In tal caso si dice che la cometa è stata catturata. Naturalmente può anche succedere il contrario, e cioè che una cometa, che stava ruotando da secoli intorno al Sole su un’orbita ellittica di corto periodo, venga immessa da un pianeta su un’orbita parabolica o iperbolica che la fa 2 sfuggire per sempre dal Sistema Solare. Per questo motivo il fatto che una cometa sia di breve o di lungo periodo non è in genere una caratteristica della cometa ma dipende dall’epoca in cui questa viene osservata. In caso di cattura, l’afelio della nuova orbita viene a cadere in prossimità dell’orbita del pianeta che l’ha catturata e, dal momento che la cosa, al passar del tempo, si verifica per diverse comete, si viene a formare un’intera famiglia di comete, tutte con i loro afelii nei pressi dell’orbita del pianeta attrattore. Il pianeta più importante in questo senso è Giove al quale è legata una famiglia, già citata precedentemente, costituita da circa 300 comete (Sito web Univ. of Hawaii, 2005). Ma anche gli altri pianeti giganti, Saturno, Urano e Nettuno danno un contributo alla categoria delle comete di corto periodo: tutti e tre possiedono infatti le loro famiglie di comete, anche se meno numerose e definite con minor precisione 2. Struttura Sulla base delle osservazioni effettuate da Terra sin dal secolo scorso e dei dati ottenuti dagli strumenti a bordo dei satelliti e delle sonde interplanetarie, è stato possibile distinguere nella struttura di una cometa quattro componenti principali (v. fig. 1): a) il “nucleo”, solido e irregolare, che costituisce la parte più difficilmente osservabile dell’intero corpo cometario; b) la “chioma”, un’atmosfera gassosa e polverosa che si sviluppa attorno al nucleo quando questo si riscalda avvicinandosi al Sole e scompare all’allontanarsi della cometa dal perielio; c) la “coda di plasma”, un flusso di ioni che sono perduti dalla chioma e che vengono accelerati nella direzione antisolare dal vento solare; d) la “coda di polvere”, un getto di particelle di polvere accelerato dalla pressione di radiazione solare approssimativamente nella stessa direzione della coda di plasma. 2.1 Nucleo Il nucleo cometario è una struttura solida che costituisce la parte permanente di una cometa nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole. Il modello più adatto a spiegare le evidenze osservative è il modello del conglomerato ghiacciato (“palla di neve sporca” o “dirty snow ball”) proposto intorno al 1950 da Fred Whipple. Secondo questo modello un nucleo cometario è costituito da una mistura di ghiacci e polveri presenti grosso modo nella stessa percentuale. Il modello del conglomerato ghiacciato ha il vantaggio di spiegare efficacemente diversi risultati osservativi incompatibili invece con modelli precedenti, come quello del conglomerato sabbioso (“sand bank”) avanzato da Levin nel 1943. 3 Fig. 1 – Elementi strutturali di una cometa. Esiste una grande varietà nelle dimensioni dei nuclei cometari (v. seconda colonna della tab. 1); queste ultime vanno generalmente da qualche centinaia di metri a qualche decina di chilometri (Maffei, 1976). Piú precisamente le comete di corto periodo hanno nuclei con dimensioni dell’ordine del chilometro, mentre quelle di lungo periodo hanno, in media, nuclei più grandi, con dimensioni tipiche di 5 ÷ 10 km (Divine et al., 1986). Naturalmente la statistica è limitata ai relativamente pochi casi osservati, per cui non solo non si può escludere ma è anche probabile che in passato il Sistema Solare interno possa essere stato visitato da comete di dimensioni ben maggiori. Questo dovrebbe essere stato ad esempio il caso della cometa gigante Sarabat (C/1729 P1). Tale oggetto, dal diametro stimato tra 100 e 300 km raggiunse la magnitudine -3.0 e rimase visibile ad occhio nudo per quasi 6 mesi, nonostante la sua elevata distanza perielica di 4.05 UA. Eventi simili potrebbero ovviamente ripetersi anche in futuro. Generalmente la forma dei nuclei cometari è molto lontana dall’essere sferica, e una struttura triassiale con rapporti tra gli assi di 2:1:1 sembra più appropriata; un tipico esempio è la P/Halley, le cui immagini trasmesse dalla sonda Giotto hanno permesso di evidenziare una struttura “ellissoidale” delle dimensioni di circa 16 8.2 8.4 km (Keller et al., 1994). In generale, il periodo di rotazione assiale di un nucleo cometario non risulta mai molto minore di 10 ore, variando tra 4 e 70 ore (Lang, 1992). Secondo Jewitt e Meech (1988), periodi di rotazione molto minori di 10 ore causerebbero squilibrio tra forza gravitazionale e forza centrifuga, determinando l’instabilità gravitazionale del nucleo stesso. Ciò si traduce in una densità critica di circa 0.3 g/cm3, che deve essere 4 superata perché il nucleo sia stabile (Jewitt e Luu, 1989). In realtà una densità di 1 g/cm3 dovrebbe essere ragionevole, e quindi si possono valutare gli ordini di grandezza delle masse cometarie, che variano tipicamente tra 1012 e 1016 kg. La seconda colonna della tab. 1 è relativa all’albedo pv del nucleo nel visibile (anche detta “albedo visuale”) ed è evidente come i valori siano molto bassi rispetto a quello del ghiaccio pulito, che è compreso tra il 60 e l’80%; in particolare, il nucleo della P/Halley (v. fig. 2) è un corpo molto scuro con un’albedo visuale del 4%. Fig. 2 – Il nucleo della cometa Halley fotografato il 14 marzo 1986 dalla sonda Giotto ad una distanza di circa 600 km. Si noti l’aspetto estremamente scuro della superficie e le poche regioni attive, di estensione alquanto limitata, da cui fuoriescono gas e polveri (dal sito web del Progetto Spaceguard, 2005). Esperimenti di laboratorio (Strazzulla e Baratta, 1992) sembrano indicare che ciò sia dovuto al lungo e continuo bombardamento da parte dei raggi cosmici, del vento solare e della radiazione ultravioletta del Sole, cui le superfici dei nuclei cometari sono soggette dai tempi della loro formazione. Tale bombardamento trasforma infatti i ghiacci ad alta albedo delle sostanze volatili semplici costituenti il nucleo (come CO, CO2, H2O, CH4 ed NH3 – vedi in seguito) in un polimero scuro e 5 refrattario costituito da una mistura estremamente complessa di sostanze organiche. Secondo Strazzulla et al. (1991) tale processo dovrebbe portare anche alla formazione di una specie di crosta solida molto porosa dello spessore di diversi metri. Alternativamente la crosta potrebbe essere il risultato della sublimazione dei ghiacci, essendo costituita da particelle di polvere di dimensioni tali da non poter essere trascinate via dai gas che si sprigionano appunto dalla sublimazione dei ghiacci e che quindi rimangono sul nucleo (v. fig. 3). E’ stato calcolato che la dimensione critica dc al di sopra della quale le particelle non riescono ad allontanarsi dal nucleo diminuisce con la distanza r della cometa dal Sole secondo la legge dc r -0.5. Tab. 1 - Proprietà fisiche di nuclei cometari relativamente ben conosciuti (da Festou et al., 1993b); R dà la misura delle dimensioni (raggio medio oppure misure degli assi), p v è l’albedo visuale (i punti interrogativi indicano valori assunti), f è la frazione attiva di superficie del nucleo. I dati aggiornati di p v ed f nel caso di Chirone provengono da Mc Fadden (1994) e da Stern e Campins (1996) rispettivamente. Cometa R (km) pV f 2060 Chirone 90 0.04 < 1% P/Schwassmann-Wachmann 1 P/Neujmin 1 P/Halley P/Tempel 2 P/Arend-Rigaux IRAS-Araki-Alcock P/Schwassmann-Wachmann 2 P/Encke Sugano-Saigusa-Fujikawa 20 11 9 8 4 4 8 4 4 7 4 4 8 3.5 3.5 3 2 3 0.4 0.13 0.02 0.03 0.04 0.02 0.03 0.03 0.04? 0.03? 0.03? 2% 0.06% 20% 0.6% 0.05% 0.6% 10% 1 2% 40 100% Nella crosta spesso si aprono delle crepe da cui sembrano fuoriuscire gas e polvere in forma di getti fortemente localizzati (v. fig. 2). All’approssimarsi del perielio l’attività cometaria non è infatti uniforme, ma coinvolge solo una frazione della superficie totale, frazione che può variare in un range molto ampio di valori (come si vede dalla tab. 1, dallo 0.05% della P/Arend-Rigaux al valore molto alto della P/Sugano-Saigusa-Fujikawa, che ha anche il nucleo più piccolo). La sonda Giotto ha evidenziato nella P/Halley 17 getti distinti, che diventavano quasi inattivi non appena le aree di emissione cadevano in ombra (Keller et al., 1994). L’analisi spettroscopica dell’emissione cometaria ha permesso, sin dai primi anni quaranta, l’identificazione di radicali e ioni cometari chimicamente instabili, e 6 creati quindi per reazioni fotochimiche da molecole più stabili presenti all’interno del nucleo (le cosiddette “molecole genitrici”); è stata rilevata la presenza di CO, CH4, CO2, N2, NH3, NH, CN, C2N2 (cianogeno), CH3OH (metanolo), C2H6 (etano), HCOOH (acido formico) e H2CO (formaldeide). Si noti, però, che recenti analisi condotte sulla cometa Hale-Bopp hanno permesso di appurare che, almeno per questa cometa, il ghiaccio d’acqua sublima con una velocità diversa da quella degli altri ghiacci, il che non si concilia con il modello che assume che i ghiacci di sostanze diverse dall’acqua siano presenti nel nucleo sotto forma di caltrati (poiché in tal caso i ghiacci in traccia dovrebbero sublimare con la stessa velocità del ghiaccio d’acqua). Tali analisi confermano comunque che l’acqua è il costituente principale dei ghiacci cometari. E' importante sottolineare il fatto, già accennato precedentemente, che delle quattro componenti di una cometa solo il nucleo è sempre presente in ogni fase dell'evoluzione cometaria. Per questo si è soliti identificare la cometa con il suo nucleo. Fig. 3 – Modelli alternativi di formazione della crosta cometaria. Questa può essere prodotta o per irraggiamento dei ghiacci nucleari da parte dei raggi cosmici, del vento solare e della radiazione UV del Sole (riquadro superiore) o per sublimazione dei ghiacci, con conseguente formazione di un residuo solido molto poroso costituito da grani di grandi dimensioni (riquadro inferiore). 7 2.2 Chioma Come già accennato in precedenza, in prossimità del perielio, la sublimazione dei ghiacci nucleari e l’espulsione delle polveri dà luogo ad un alone diffuso denominato “chioma”, dal diametro compreso tra 104 e 105 km con una densità che varia tra 104 e 106 molecole al cm3 (Herrmann, 1978): la cometa diventa così visibile. Mentre il nucleo può essere osservato solo per la luce solare che riflette, la chioma brilla nel visibile per effetto della luce solare diffusa dalla polvere e dal gas e per emissione atomica e molecolare (“fluorescenza”) delle specie chimiche sublimate dal nucleo sottostante (Festou et al., 1993b): lo spettro cometario è quindi costituito da un continuo cui sono sovrapposte righe e bande di emissione. I grani di polvere cometaria coprono un ampio range di dimensioni che vanno da diversi nanometri a qualche centimetro e oltre (Grün et al., 1997) con una cospicua percentuale di particelle di 1 ÷ 10 m (Hanner, 1986). E’ stato possibile identificare due principali componenti la polvere cometaria: silicati (in particolare olivina) e composti di C, H, O e N (le cosiddette “particelle CHON”); i primi, più compatti, hanno una densità media di 2.5 g/cm3, mentre i materiali CHON hanno densità dell’ordine di 1 g/cm3 (Jessberger e Kissel, 1991) e dovrebbero presentarsi più sotto forma di mantelli carbonacei presenti intorno a nuclei silicatici che sotto forma di particelle singole e distinte (Jessberger, 1991). I fit degli spettri cometari suggeriscono che le percentuali di queste due componenti variano non solo da cometa a cometa ma anche, per una stessa cometa, al variare della distanza eliocentrica (Colangeli et al., 1996). In particolare è stato trovato che la percentuale in massa dei silicati nella polvere cometaria varia dal 10% al 97%, mentre quella dei materiali carbonacei varia corrispondentemente dal 90% al 3% (Krishna Swamy et al., 1989; Hanner et al., 1994; Colangeli et al., 1996; Sarmecanic et al., 1997). Data la lunghezza delle loro orbite, i nuclei cometari che sviluppano la chioma manifestano la loro attività solamente durante una piccola frazione della loro esistenza. Per le comete a lungo periodo, che all’afelio raggiungono una temperatura ben inferiore a 40 K, la durata totale dell’attività (di fatto limitata ad un breve periodo intorno al perielio) è del tutto trascurabile rispetto all’intera vita di questi oggetti; le comete a corto periodo sono invece attive per il 10-30% della loro vita (Festou et al., 1993a). Ad esempio la P/Halley dovrebbe essere attiva per circa il 10% della sua intera esistenza (Festou et al., 1993a). In generale, la chioma raggiunge la massima estensione apparente quando la cometa si trova da 1 a 1.5 UA dal Sole. 2.3 Code L’elemento caratteristico che distingue le comete da ogni altro oggetto del Sistema Solare è la coda che si sviluppa in prossimità del Sole. All’opposto di quelle del nucleo, le dimensioni della coda sono enormi, aggirandosi spesso intorno a 8 qualche decina di milioni di chilometri in lunghezza e 1 o 2 milioni di chilometri in larghezza. In casi eccezionali la coda può essere lunga fino a 300 milioni di chilometri, come nel caso della cometa del 1680 (Herrmann, 1978). Si possono distinguere essenzialmente due tipi di code, la “coda di ioni” o “coda di plasma” (tipo I) e la “coda di polvere” (tipo II). La prima, di colore azzurrognolo, è abbastanza rettilinea ed è orientata in direzione opposta al Sole; può essere composta da un fascio di code ravvicinate. Il suo è principalmente uno spettro di righe, dovuto a fluorescenza degli ioni cometari. Essa è composta principalmente da ioni d’acqua, H2O+ (Wegmann, 1997) e in genere cambia il suo aspetto in una scala temporale molto corta (dell’ordine delle ore o addirittura dei minuti). La coda di polvere, di colore giallognolo, è curva ed è anch’essa orientata in direzione opposta al Sole. Essa è generalmente meno lunga della coda di ioni. Il suo spettro è continuo, essendo generato dalla diffusione della luce solare da parte della polvere. Le comete sviluppano la coda di ioni ad una distanza pari o inferiore a 1.5 UA dal Sole. Alcune comete, tuttavia, presentano in queste regioni una coda di tipo I estremamente debole, o non la presentano affatto, mentre altre non mostrano la coda di polvere. Talvolta, anche se molto raramente, alcune comete mostrano, oltre alle code di tipo I e II, anche una protuberanza a forma di aculeo che fuoriesce dalla chioma e che, al contrario delle code, è diretta verso il Sole. Questa struttura, detta “anticoda” (v. figg. 1 e 4) è costituita da polveri di dimensioni in genere superiori alla media (Krishna Swamy et al., 1989) che lasciano il nucleo a velocità quasi nulla e pertanto formano uno strato nel piano orbitale della cometa (Festou et al., 1993b). Tale strato diviene visibile per effetto prospettico dalla Terra quando questa viene a trovarsi nel suddetto piano; quando invece, come usualmente accade, la Terra è al di fuori del piano dell’orbita della cometa, la luminosità apparente per unità di area dello strato di polvere diminuisce sotto la soglia di visibilità e l’anticoda rimane invisibile (Herrmann, 1978). La densità di una coda puo variare tra solo 10 e 100 molecole al cm 3, mentre la sua massa totale è del tutto trascurabile rispetto alla massa del nucleo cometario (Herrmann, 1978): è quindi evidente come il passaggio del nostro pianeta anche al centro della coda non possa avere alcun risultato preoccupante; probabilmente non vi sarebbe neppure nulla degno di nota, se non, forse, un aumento della frequenza di “stelle cadenti” (v. par. 3). 9 Fig. 4 – Anticoda della cometa Hale-Bopp (dal sito web dell’UCL Astrophysics Group, 2005). La forma della coda di polvere è il risultato dell’azione della pressione di radiazione solare sulle particelle solide espulse dal nucleo nella chioma. L’effetto combinato della spinta dovuta alla pressione di radiazione solare e del moto orbitale della cometa determina la separazione dei due diversi tipi di coda, dando a quella di polvere la caratteristica forma arcuata. Nella maggior parte dei casi si osservano diversi tipi di sottostrutture all’interno delle code di polvere. Le code di polvere hanno tempi di evoluzione che vanno dalle ore ai pochi giorni e raggiungono il massimo sviluppo quando la cometa è all'interno dell'orbita terrestre; all'allontanarsi dal perielio, la struttura scompare progressivamente in accordo con la generale diminuzione della produzione di polvere da parte del nucleo. 3. Evoluzione L’intermittente attività cometaria (che, come abbiamo visto, si manifesta esclusivamente in occasione dei passaggi al perielio) dura complessivamente solo per un periodo molto breve rispetto ai tempi-scala cosmici. Modelli teorici indicano che il nucleo di una cometa di corto periodo produce fenomeni tipicamente cometari solo per un periodo di tempo dell’ordine delle migliaia o decine di migliaia di anni, 10 corrispondenti a 150 500 rivoluzioni (Kresak e Kresakova, 1990). Ad esempio nel caso della cometa P/Halley, che passa nelle vicinanze del Sole ogni 76 anni, dai valori di m (massa totale persa in una rivoluzione) ed m (massa attuale del nucleo), riportati da Whipple (1987), si ricava che m/m = 0.004 0.01, per cui teoricamente la Halley dovrebbe esaurirsi tra 100 250 rivoluzioni, pari al più a 19000 anni1; dopo di che tutto ciò che potrebbe rimanere del nucleo ormai disgregato sarebbe (come nel caso della cometa di Biela) una scia di polvere e detriti vari disseminati lungo l'orbita, responsabili sulla Terra delle cosiddette “piogge di stelle cadenti” quando il nostro pianeta attraversa tale scia. Tuttavia la cometa potrebbe estinguersi ben prima di raggiungere questa fase. Può succedere infatti che la crosta solida che riveste il nucleo diventi sufficientemente spessa da sigillare le sostanze volatili al suo interno, bloccando così l'attività cometaria e rendendo inerte il nucleo. Questa è per esempio la sorte toccata alla cometa P/Wilson-Harrigton, identificata successivamente con l'asteroide 4015 1979VA. Si sospetta inoltre che almeno alcuni degli oggetti classificati come NEA (“Near Earth Asteroids”) siano in realtà delle comete estinte. Si noti però che non tutti i nuclei cometari dovrebbero essere rivestiti da una crosta esterna in grado di diventare tanto spessa da bloccare l’attività cometaria. Usando modelli di evoluzione termica cometaria, De Sanctis et al. (1997) hanno di recente trovato che la crosta si sviluppa su un nucleo cometario per valori sufficientemente grandi del periodo di rotazione assiale e della massa del nucleo, nonché per abbastanza grandi dimensioni dei grani di polvere presenti nei ghiacci del nucleo. Molte comete, sono caratterizzate da valori del periodo assiale e della massa del nucleo sufficientemente bassi da ritenere improbabile che abbiano sviluppato una spessa crosta: tali comete dovrebbero quindi rimanere attive per molte altre rivoluzioni. Oltre ad estinguersi in questi modi sostanzialmente tranquilli, una cometa può anche subire una fine catastrofica. Può succedere infatti che, a causa di forti tensioni interne, essa si spezzi in due o più parti, come è accaduto per la cometa di Biela e per le comete West e Shoemaker-Levi 9. Un'altra fine violenta può essere la caduta sul Sole o la collisione con un pianeta, come nel caso della stessa Shoemaker-Levi 9. In particolare quando questa cometa si è avvicinata al limite di Roche di Giove (la distanza alla quale le forze mareali del pianeta legate alla sua forza gravitazionale, possono superare le forze dovute all’auto-gravità del corpo collidente), si è spezzata in 21 frammenti, con dimensioni stimate tra i 50 m e 5 km, ma con una frequenza maggiore intorno al chilometro, che sono caduti su Giove nel Luglio 1994 (v. fig. 5). (1): Dato che la cometa ha già compiuto 300 orbite intorno al Sole (Jones et al., 1989), la sua vita sarebbe di 400 550 rivoluzioni, in sostanziale accordo con i valori riportati da Kresak e Kresakova (1990). 11 Fig. 5 – I 21 frammenti della cometa Shoemaker-Levy, frantumatasi passando entro il limite di Roche di Giove (dal sito web dell’Hubble Space Telescope, 1994). 4. Relazioni tra comete e asteroidi Sebbene nuclei cometari e asteroidi siano due tipi di oggetti completamente diversi per origine e composizione, è spesso molto difficile distinguere certe comete quiescenti o estinte dagli asteroidi esterni alla fascia principale; in particolare, come già accennato al paragrafo precedente, non di rado risulta estremamente complicato poter discriminare tra nuclei cometari inattivi e NEA. Il problema è che in genere, non sapendo da dove realmente proviene un corpo che non mostra attività cometaria, è praticamente impossibile stabilire se esso sia effettivamente un asteroide oppure un nucleo cometario quiesciente o estinto. Fino a pochi anni fa si riteneva che le comete avessero dimensioni al più di una ventina di chilometri, per cui un corpo con dimensioni maggiori di 30 km veniva considerato con certezza un asteroide. Oggi sappiamo invece che al di là dell’orbita di Nettuno esistono oggetti ghiacciati detti TNO (“TransNettunian Objects” - v. par. 5), alcuni dei quali di dimensioni superiori ai 1000 km, che potrebbero in futuro diventare delle gigantesche comete. D’altra parte anche in passato, il Sistema Solare interno potrebbe essere stato visitato da comete di dimensioni ben maggiori di quelle finora note, come ad esempio nel già citato caso della cometa gigante Sarabat (C/1729 P1). Pertanto questo criterio di discriminazione tra cometa ed asteroide basato sulle dimensioni del corpo in esame purtroppo non è più valido. Fino a poco tempo fa si riteneva che i nuclei cometari fossero gli unici corpi del Sistema Solare in grado di lasciare una scia di polvere (“dust trail”) lungo la loro orbita. Ciò rappresentava pertanto un utile metodo per identificare nuclei cometari estinti o quiescienti, distinguendoli dagli asteroidi (Mc Fadden, 1994). Oggi sappiamo 12 però che grani di polvere possono essere sollevati dalla superficie di un asteroide per effetto di impatti di micrometeoriti (Matson et al., 1977) o dell'azione di forze elettrostatiche che si esercitano sui grani, se questi sono carichi e se la superficie dell'asteroide ha un'alta resistività (Lee, 1996). Una volta staccati dalla superficie questi grani, spinti dalla pressione di radiazione solare, possono poi sfuggire alla debole attrazione gravitazionale dell'asteroide, formando una scia di polvere simile a quelle cometarie (Lee, 1996). Sfortunatamente anche la determinazione del periodo di rotazione assiale di un corpo non è utile per sapere se quel corpo è un asteroide o un nucleo cometario (Mc Fadden, 1994). Poco utile è anche la determinazione dell’albedo visuale pv. Come abbiamo visto, si ha ragione di ritenere che i nuclei cometari abbiano superfici molto scure, annerite dal continuo bombardamento di raggi cosmici e fotoni ultravioletti solari. Per questo motivo l’albedo visuale dei nuclei cometari è in genere molto bassa, forse pv 0.04 per quasi tutte le comete (Mc Fadden, 1994). Il problema è che circa il 60% di tutti gli asteroidi ha albedo visuali di qualche centesimo. Quindi un basso valore di pv non è indicativo di un’origine cometaria; d’altronde un’alta albedo non fornisce un’indicazione sicura di un’origine asteroidale, se dobbiamo dar credito all’alto valore di pv determinato per la cometa P/Schwassmann-Wachmann 1 e riportato nella tab. 1. Sicuramente maggiore potere diagnostico ha a questo riguardo l'analisi dello spettro di riflettanza di un corpo. Se ad esempio tale spettro ha la forma tipica degli spettri degli asteroidi di tipo tassonomico S (v. par. 4.2 della Dispensa n. 6), allora si ha la certezza che il corpo in esame è un asteroide proveniente dalla zona più interna della fascia asteroidale. Sfortunatamente però non pochi spettri sono difficilmente classificabili per cui, di nuovo, non si possono ricavare indicazioni certe sull'origine e la natura dei corpi in esame. Alla luce di quanto sopra esposto la questione dell'individuazione della natura dei corpi minori del Sistema Solare rimane ancora aperta. 5. Regioni di provenienza e oggetti transnettuniani Come abbiamo già osservato al par. 3, la vita di una cometa è estremamente breve su scala cosmica. Quindi, assumendo che tutte abbiano avuto origine in una stessa epoca, dopo un breve intervallo di tempo avrebbero dovuto essere scomparse. Naturalmente non si può escludere a priori l’idea che il periodo in cui vivono le comete sia proprio quello attuale in cui possiamo osservarle; ma, per quanto possibile, una tale concezione è troppo antropocentrica e, d’altra parte, sarebbe più ragionevole 13 assumere che, semmai, l’epoca della nascita delle comete cadde nei primi tempi della vita del Sistema Solare, quando da una nebulosa primordiale si formarono anche il Sole, i pianeti ed i satelliti. Il fatto quindi che ancora adesso osserviamo l’arrivo di comete nuove porta a due possibili ipotesi sull’origine di questi corpi celesti: 1) le comete provengono continuamente dallo spazio interstellare e vengono più o meno legate al Sole tramite incontri ravvicinati con i pianeti giganti; 2) le comete provengono continuamente da un serbatoio presente in qualche parte del Sistema Solare dove hanno avuto origine (o sono state trasferite) ai tempi della formazione dei pianeti. La prima ipotesi si basa sull’osservazione, già menzionata nel primo paragrafo, che alcune comete sembrano avere un’orbita iperbolica (e quindi sarebbero degli oggetti non legati gravitazionalmente al Sole) e trae sostegno da certe osservazioni che implicherebbero l’esistenza di corpi cometari in altri sistemi stellari come ad esempio Pictoris (Lagrange-Henri et al., 1988). Sebbene non si possa escludere che qualche cometa provenga dallo spazio interstellare (Bailey et al., 1986), non esistono neanche evidenze osservative inequivocabili a supporto di questa ipotesi. Ciò in quanto, come è già stato rilevato nel primo paragrafo, le osservazioni che suggeriscono che alcune comete sarebbero su orbite iperboliche sono estremamente incerte. Si può pertanto escludere che la maggior parte delle comete provenga dall’esterno del Sistema Solare. Consideriamo quindi la seconda ipotesi che fu proposta e sviluppata dall’astronomo olandese J. Oort dell'osservatorio di Leida. 5.1 La nube di Oort Intorno al 1950 Oort, esaminando la distribuzione dei semiassi maggiori delle orbite di una cinquantina di comete di lungo periodo opportunamente scelte, scoprì che i loro afelii cadevano a distanze superiori a 30 mila UA (quindi ben al di là dell'orbita di Plutone) ed inferiori a 100 mila UA, con una frequenza massima intorno a 50 mila UA. Questo risultato suggeriva che le comete provenissero da un guscio sferico centrato intorno al Sole, detto poi “nube di Oort”. Tenendo presente che la stella più vicina, cioè Centauri, dista da noi 250 mila UA, si vede che questa zona di origine delle comete si spinge fino a quasi metà strada tra il Sole e la stella più vicina. Tale nube viene occasionalmente perturbata dal passaggio di una stella che cambia gli elementi orbitali delle comete all’interno, per cui una di esse può venire proiettata verso la parte interna del Sistema Solare. Successivamente, durante il primo passaggio attraverso il sistema planetario (“comete nuove”) l’azione perturbatrice di Giove può espellere il corpo cometario verso lo spazio interstellare, o catturarlo in orbite ellittiche molto meno eccentriche (Weissman, 1991). Solo il 5% delle comete nuove ritorna alla nube di Oort. E’ stato calcolato che nella storia del Sistema Solare 14 circa 5.4 103 stelle sono passate entro 105 UA dal Sole, provocando l’espulsione di circa il 10% della popolazione della nube di Oort (Weissman, 1991). A partire dal 1970 sono stati riconosciuti anche altri effetti perturbativi: l’azione del campo gravitazionale galattico e inoltre gli incontri con le nubi molecolari giganti presenti nella Galassia. Questi ultimi, seppure rari (uno ogni 3 108 anni), hanno un grande effetto sulle orbite delle comete interne, determinando una critica variazione della loro velocità. Per tenere conto del flusso osservato di comete nuove, Oort stimò, mediando sull’intera età del Sistema Solare, che la popolazione di questa nube cometaria dovesse essere di circa 2 1011 oggetti; assumendo una massa cometaria media di 1013 kg, la massa totale della nube dovrebbe essere di 2 1024 kg, corrispondente circa a 0.3 M (Festou et al., 1993a). Successivi modelli dinamici hanno prodotto una stima leggermente superiore del numero di oggetti all’interno della nube. Per buona parte dell'ultimo mezzo secolo l'ipotesi di Oort ha spiegato adeguatamente dimensioni e orientazione delle traiettorie seguite dalle comete di lungo periodo. Le osservazioni astronomiche dimostrano infatti che questi corpi giungono nella zona occupata dai pianeti provenendo da direzioni casuali, come ci si aspetterebbe se le comete avessero origine in una regione sferica come appunto la nube di Oort. Viceversa, l'ipotesi di Oort non poteva spiegare le orbite delle comete di breve periodo, che normalmente hanno semiassi maggiori più piccoli e che sono solo leggermente inclinate rispetto all'eclittica. La maggior parte degli astronomi riteneva che le comete di breve periodo percorressero in origine orbite immense, orientate in maniera casuale (come fanno oggi le comete di lungo periodo), e che fossero state portate nella loro attuale configurazione orbitale dagli effetti gravitazionali (“cattura gravitazionale”) dei pianeti, soprattutto di Giove. Non tutti i ricercatori però erano d'accordo con questa ipotesi. In effetti Joss (1970) ha fatto notare che la probabilità di un tale tipo di cattura gravitazionale è così bassa da non potere in alcun modo spiegare il gran numero di comete di breve periodo oggi esistenti. Successivamente Duncan et al. (1988) hanno mostrato che le comete di breve periodo devono essere state catturate a partire da orbite non molto inclinate rispetto all'eclittica e che con ogni probabilità queste comete provengono da una fascia appiattita di corpi situata immediatamente oltre l'orbita di Nettuno. A tale fascia è stato dato il nome di “fascia di Edgeworth-Kuiper” (d’ora in poi denominata in questa dispensa “fascia E-K”) in onore dei due scienziati che per primi ne avevano suggerito l'esistenza. 5.2 La fascia di Edgeworth-Kuiper Il primo passo per provare la reale esistenza della fascia E-K si ebbe nel 1992 con la scoperta di un oggetto di 180 km di diametro, designato 1992QB1, che si trova 15 su un’orbita stabile e pressocchè circolare a circa 44 UA dal Sole, cioè ben oltre l’orbita di Plutone. Da allora oltre 1200 oggetti di questo tipo, denominati con l’acronimo KBO (“Kuiper Belt Objects”), sono stati scoperti nella regione transnettuniana. Si tratta di corpi prevalentemente ghiacciati del tutto simili alle comete, dalle quali differiscono solo dal punto di vista dinamico. Per la loro collocazione spaziale tali oggetti sono anche chiamati TNO (“TransNettunian Objects”), nome in verità più generico con il quale si indicano anche i corpi della nube di Oort. L’acronimo KBO risulta, pertanto, più preciso. Valutazioni teoriche eseguite da Stern (1995) e da Luu e Jewitt (1996) indicano che tra 30 e 50 UA dovrebbero essere presenti circa 4 104 oggetti con diametro maggiore di 100 km (v. tab. 2). Secondo Stern e Campins (1996) tali oggetti dovrebbero essere addirittura 7 104. Oltre a questi, osservazioni effettuate con il Telescopio Spaziale Hubble, operante al limite delle sue possibilità (Cochran et al., 1995), hanno anche individuato la presenza di numerosi oggetti di dimensioni comprese tra 10 e 20 km (pari a quelle tipiche dei nuclei cometari attualmente noti). Dalla tab. 2 si nota che il numero totale di corpi di questo tipo, presenti tra 30 e 50 UA dovrebbe ammontare a diversi miliardi (Duncan et al., 1995; Stern, 1995). In realtà la fascia E-K non si arresta a 50 UA dal Sole ma si ha ragione di credere che si estenda fino a grandi distanze dal Sole collegandosi con la parte più interna della nube di Oort. Il più grande oggetto transnettuniano attualmente noto è 136199 Eris, dal diametro prossimo ai 2400 km, ossia poco più grande di Plutone. Per questo motivo tale oggetto è stato proposto da alcuni autori come il decimo pianeta del Sistema Solare. Tuttavia, allo scopo di evitare il “proliferare” di nuovi pianeti, a causa delle probabili future scoperte di corpi transnettuniani di dimensioni confrontabili o maggiori di quelle di Eris, l’Unione Astronomica Internazionale (IAU) ha recentemente adottato una nuova definizione di pianeta. In base alla risoluzione n. 5A della Assemblea Generale dell’IAU, tenuta a Praga nell’agosto del 2006, si definisce, appunto, pianeta un corpo che soddisfa alle seguenti tre condizioni: 1) orbita intorno al Sole; 2) è sufficientemente massiccio da assumere una forma regolare quasi sferica; 3) ha “ripulito” le zone limitrofe alla sua orbita (nel senso che nel suo processo di formazione ha inglobato, eliminandoli, tutti i corpi un tempo presenti in queste zone). Si definisce, invece, pianeta nano o planetoide ogni corpo celeste che soddisfa le prime due condizioni, ma non la terza. A questa categoria appartengono Plutone (che perde così il suo status di “pianeta”), Eris e Vesta. Ciò in quanto le orbite dei primi due sono all’interno della fascia E-K, mentre il terzo oggetto orbita nella cintura degli asteroidi, e quindi nessuno dei tre è stato in grado di ripulire da altri corpi le zone limitrofe alla sua orbita. 16 Tab. 2 - Valutazioni del numero e della massa totale degli oggetti con varie dimensioni presenti nella fascia E-K. La massa di tale fascia relativa alle prime due classi di oggetti (valori tra parentesi) è stata -3 valutata in questa dispensa assumendo una densità media di 1 g cm ed una dimensione media pari a 3 km e 10 km per la prima e la seconda classe, rispettivamente. (Rif. Bibl.: (1): Stern, 1995; (2): Duncan et al., 1995); (3): Cochran et al., 1995; (4): Luu e Jewitt, 1996). Dimensione, D Semiasse maggiore orbitale, a Numero di oggetti Massa Rif. Bibl. 1 km D 6 km 1 km D 20 km 30 UA < a < 50 UA 30 UA a 50 UA 1010 5 x 109 (0.2 M ) (3.5 M ) 1 10 km D 20 km D > 100 km 30 UA a 40 UA 30 UA a 50 UA > 2 x 108 3.5 x 104 0.02 M 0.03 M 3 2 1, 4 Oltre ad Eris ed a Plutone, altri KBO di notevoli dimensioni sono 2005 FY9 (nome provvisorio Easter Bunny, che dovrebbe raggiungere i 1700 km di diametro), 2003 EL61 Santa (dal diametro di circa 1600 km), 90377 Sedna (con un diametro stimato tra 1200 e 1800 km) e 50000 Quaoar (dal diametro di quasi 1300 km). Eris, Plutone e 2003 EL61 sono anche dotati di satelliti; quest’ultima non è una circostanza rarissima nella fascia E-K, in quanto ben 29 KBO sono binari o multipli (TransNeptunian Objects Web Site, 2006). Tuttavia il più interessante tra questi oggetti è forse Sedna, innanzitutto perché è il più lontano corpo della fascia E-K finora conosciuto; in effetti la sua orbita fortemente eccentrica, caratterizzata da un semiasse maggiore di circa 530 UA (e di conseguenza un periodo di 12000 anni), lo porta ad una distanza minima di 76 UA dal Sole con un afelio a circa 980 UA. Sedna è inoltre interessante a causa del suo colore decisamente rossastro (dopo Marte è il più rosso oggetto del Sistema Solare). Osservazioni di Quaoar compiute con lo spettrometro CISCO accoppiato al telescopio giapponese Subaru di 8 m, sito alle Hawaii, hanno recentemente permesso di ottenere uno spettro di questo oggetto così remoto. Tale spettro, mostrato in fig. 6, conferma che Quaoar è effettivamente costituito di ghiaccio d’acqua cristallino e che pertanto ha la stessa natura dei nuclei cometari. Recenti studi sulla struttura della fascia E-K indicano che quest’ultima è costituita da una fascia principale, un disco diffuso ed un disco diffuso esteso (Gladman, 2005). La fascia principale è la zona con la più alta densità di oggetti; essa è posta immediatamente al di là dell’orbita di Nettuno e si estende fino a 56 UA. Tale fascia possiede due componenti: una costituita da corpi (i cosiddetti “KBO classici”) con orbite di piccola eccentricità e bassa inclinazione e l’altra cui appartengono oggetti (detti “Plutini”) posti su orbite, simili a quella di Plutone, più eccentriche e più inclinate. Il disco diffuso è costituito invece da oggetti con orbite molto eccentriche 17 caratterizzate da perieli, prossimi all’orbita di Nettuno, posti tra 30 e 38 UA ma con afeli tra 100 e 3000 UA. Infine gli oggetti del disco diffuso esteso hanno afeli nella stessa zona di quelli dei corpi del disco diffuso, ma con perieli posti oltre le 38 UA. Questo disco diffuso si collega alla parte interna della nube di Oort che, al contrario di quella esterna, dovrebbe essere piuttosto appiattita, estendendosi fino a 1000-2000 UA dal Sole (v. fig. 7). Fig. 6 – Spettro in riflessione dell’oggetto Quaoar nel vicino IR (in nero), confrontato con lo spettro del ghiaccio d’acqua (in rosso). I larghi minimi intorno a 1.5 e 2.0 m indicano la presenza di ghiaccio d’acqua in superficie. La più stretta banda a 1.65 m indica che tale ghiaccio ha una struttura cristallina piuttosto che amorfa. I tratti neri orizzontali indicano le regioni spettrali dove l’atmosfera terrestre assorbe maggiormente (da Jewitt e Luu, 2004). 18 Fig. 7 - Rappresentazione schematica delle estreme regioni del Sistema Solare (da Gladman, 2005). In (a) sono mostrate le orbite, proiettate sul piano dell’eclittica, dei seguenti oggetti: Giove (J), Saturno (S), Urano (U), Nettuno (N), due membri della fascia principale di E-K (uno (C) appartenente ai KBO classici ed uno (P) appartenente al gruppo dei Plutini), nonché un membro del disco diffuso (SD). In (b) si vedono le orbite di un oggetto del disco diffuso (SD) e di uno del disco diffuso esteso (E). Infine in (c) è mostrata la nube di Oort. 19 Simulazioni al calcolatore accoppiate con osservazioni astronomiche (Duncan et al., 1995), hanno inotre evidenziato la notevole carenza di corpi con orbite di bassa inclinazione rispetto all' eclittica e con semiassi maggiori prossimi a 36 UA e tra 40 e 42 UA. Deboli instabilità dinamiche (dovute a risonanze tra il periodo orbitale dei corpi della fascia e quello di Nettuno) possono aver rimosso dalla fascia E-K oggetti con caratteristiche orbitali di questo tipo, spingendoli verso l’interno del Sistema Solare. Tali oggetti hanno così dato luogo alle comete della famiglia di Giove come pure a corpi, noti collettivamente con il nome di “Centauri” che, al contrario delle comete, non penetrano mai nelle parti interne del Sistema Solare. Lo svuotamento di queste regioni è ancora in atto, così come pure il processo di allontanamento dei corpi dalle zone più interne della fascia, quelle cioè più prossime a Nettuno (Duncan et al. 1995). Poiché i processi di trasporto dinamico, che portano gli oggetti della fascia E-K su orbite che intersecano quelle planetarie, sono essenzialmente indipendenti dalla massa dell’oggetto trasportato, ci si aspetta che il gruppo di corpi (di dimensioni che vanno da quelle delle comete della famiglia di Giove a quelle dei Centauri) che orbitano tra i pianeti giganti, sia sufficientemente rappresentativo dell’intera popolazione degli oggetti presenti nella fascia E-K tra 30 e 50 UA, da cui tale gruppo deriva. In particolare studi di evoluzione dinamica delle orbite nella fascia E-K predicono che all’equilibrio la popolazione di oggetti su orbite che intersecano quelle dei pianeti sia lo 0.01% della popolazione di corpi della fascia E-K (Stern e Campins, 1996). Pertanto una popolazione costituita da circa 5 105 (o forse 106) comete e da qualche Centauro con diametro maggiore di 100 km dovrebbe essere in orbita tra i 2 pianeti giganti . I Centauri sono una popolazione molto importante per gli studi sulla fascia EK. Difatti, a causa della loro maggiore vicinanza al Sole, i Centauri più grandi sono da 100 a 600 volte più brillanti degli oggetti più luminosi della fascia E-K, il che permette studi dei Centauri più dettagliati di quanto sia possibile con gli oggetti della fascia di Kuiper. Sfortunatamente, sebbene i Centauri siano più luminosi degli oggetti della fascia E-K, essi sono ancora deboli in termini assoluti. Nonostante le grandi lacune nelle nostre conoscenze sulle caratteristiche fisiche e chimiche di questa popolazione unica, molte informazioni cominciano ad essere raccolte. Tali informazioni sono compendiate nella tab. 3. I tre Centauri che sono stati osservati nell’infrarosso mostrano sorprendenti differenze di colore l’uno dall’altro. Difatti, mentre il colore intrinseco di 2060 Chirone è grigio (cioè neutro) in tutto l’intervallo spettrale da 0.3 a 2.5 m, l’altro KBO, 5145 Pholus, che è simile per tipo di orbita e per dimensioni, è invece (2): Si noti che Stern e Campins (1996) valutano invece tra 30 e 300 il numero di questi Centauri di grosse dimensioni. 20 estremamente rosso. D’altra parte anche 1993HA2, sebbene più piccolo e su un’orbita più grande, appare molto rosso rispetto a Chirone. Non è ancora chiaro sino a che punto queste differenze tra i vari Centauri siano principalmente dovute a meccanismi evolutivi (in contrapposizione a caratteristiche intrinseche); in ogni caso, come abbiamo già visto, è fuori di dubbio che l’esposizione a lungo termine ai raggi cosmici e alle radiazioni ultraviolette del Sole, possa inizialmente arrossare e poi annerire le superfici contenenti sostanze organiche semplici, creando una mistura organica molto complessa (Strazzulla e Baratta, 1992). Tab. 3 - Caratteristiche fisiche dei Centauri (da Stern e Campins, 1996). Oggetto Diametro (km) Albedo visuale Periodo assiale Indice di colore V-J Attività 2060 Chirone 5145 Pholus 1993HA2 1994TA 182 ± 10 185 ± 22 62 28 0.20 0.04 ± 0.02 0.05 0.05 5.92 h 9.98 h 1.13 ± 0.04 2.53 ± 0.06 2.07 ± 0.40 Si No No No 1995DW2 1995GO 68 60 0.05 0.05 No No Tra i Centauri particolarmente interessante è Chirone, a causa delle sue grandi dimensioni (stimate intorno ai 180 km) e della lunga storia dei suoi sporadici outburst. In effetti Chirone, scoperto nel 1977 in prossimità dell’afelio e catalogato inizialmente come asteroide, avvicinandosi al Sole ha manifestato intorno al 1989 chiari segni di attività cometaria, mostrando una chioma allungata estesa 10 secondi d’arco; tuttavia, in prossimità del perielio, sembra sorprendentemente aver interrotto tale attività, ritornando ad uno stato quiescente di apparenza asteroidale. Attualmente non è noto il motivo per cui questa attività sia stata rilevata solo su Chirone. Probabilmente questo corpo è dinamicamente più giovane e quindi più attivo degli altri oggetti. In alternativa gli altri oggetti potrebbero avere mantelli superficiali più spessi, o semplicemente potrebbero non essere stati osservati abbastanza a lungo da scoprirne l’attività. Secondo Stern (1995) le collisioni tra le comete e i detriti più piccoli si verificano frequentemente e con elevate velocità all’interno della fascia E-K. Tuttavia la frequenza di collisioni di corpi più piccoli con oggetti più grandi (R > 100 km), quali ad esempio Eris, è così bassa che appare problematico spiegare come oggetti di quella taglia abbiano potuto formarsi mediante collisioni binarie nel disco così come 21 oggi lo conosciamo. Alla luce di questa situazione appare probabile che la fascia E-K attualmente osservata non sia molto rappresentativa dell’antica struttura dalla quale si è evoluta. Questo suggerisce a sua volta l’interessante possibilità che la fascia E-K che oggi osserviamo sia il risultato dell’evoluzione erosionale di un disco circumstellare molto spesso che un tempo circondava il Sole, del tutto simile a quelli presenti intorno a stelle come Pictoris, Lyrae e Piscis Austrini. 22 Bibliografia Bailey, M.E., Clube, S.W.M., Napier, W.M.: 1986, Vistas in Astronomy, 29, 53. Cochran, A.L., et al.: 1995, Astrophys. Jou., 455, 342. Colangeli, L., Mennella, V., Rotundi, A., Palumbo, P., Bussoletti, E.: 1996, Astron. Astrophys., 312, 643. De Sanctis, M.C.: 1997, in Workshop on the Rosetta Targets 46P/Wirtanen: observations, modelling and future work, Napoli 10-11 Dicembre 1997 (Abstract). Divine, N., et al.: 1986, Spa. Scie. Rev., 43, 1. Duncan, M.J., Levison, H.F., Budd, S.M.: 1995, Astron. Jou., 110, 3073. Duncan, M., Quinn, T., Tremaine, S.: 1988, Astrophys. J. Lett. 328, L69. Festou, M.C., Rickman, H., West, R.M.: 1993a, Astron. Astrophys. Rev., 4, 363. 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