Dispensa n. 8 del corso di
PLANETOLOGIA
(Prof. V. Orofino)
I CORPI MINORI DEL SISTEMA SOLARE:
COMETE E OGGETTI TRANSNETTUNIANI
Università del Salento
Corso di Laurea Magistrale in Fisica
A.A. 2011-2012
Ultimo aggiornamento: Agosto 2011
1. Definizione e orbite
Le comete sono dei corpi minori del Sistema Solare, formatisi nelle parti
esterne di quest'ultimo e costituiti prevalentemente da ghiacci, che almeno una volta
nella loro esistenza entrano nelle parti interne del Sistema Solare assumendo una tipica
morfologia (caratterizzata dalla presenza di una chioma e di una coda – v. par. 2) che
le contraddistingue. Per tale proprietà dinamica esse differiscono da certi satelliti dei
pianeti esterni e dai cosiddetti “oggetti transnettuniani” (v. par. 5) che hanno la stessa
natura. Le comete si differenziano anche dagli asteroidi che sono altri corpi minori del
Sistema Solare, costituiti però da materiali essenzialmente rocciosi in quanto si sono
formati nella regione tra le orbite di Marte e Giove.
A seconda che il periodo orbitale sia inferiore o superiore ai 200 anni, le
comete si dividono in comete a breve periodo e comete a lungo periodo; circa il 20%
delle comete catalogate appartiene al primo gruppo, mentre le restanti hanno periodi
orbitali che variano da 250 a 3 107 anni (Haymes, 1971).
Le 135 comete a corto periodo catalogate hanno orbite ellittiche di bassa
eccentricità ed inclinazione con una distanza perielica media di 1.6 0.7 UA (Lang,
1992). Una ben nota cometa a corto periodo è la P/Halley la cui orbita (percorsa in
circa 76 anni) si allunga fin oltre l’orbita di Nettuno con perielio all'interno dell'orbita
di Venere. Tra le altre comete a corto periodo un importante gruppo è costituito da
quelle con periodo minore di 20 anni, costituenti la cosiddetta “famiglia di Giove”.
Queste si muovono su orbite ellittiche, di eccentricità pari a circa 0.5, inclinate di
meno di 15° rispetto al piano orbitale terrestre (eclittica); il loro afelio cade
generalmente ad una distanza di circa 5 UA dal Sole, pari alla distanza del pianeta
Giove (Haymes, 1971).
Le comete a lungo periodo sono caratterizzate dal fatto di avere inclinazioni
orbitali completamente casuali. Di esse 179 hanno orbite effettivamente ellittiche, con
eccentricità comunque prossima ad 1.0. Le orbite delle restanti sono elencate come
paraboliche o, per 112 di esse, addirittura come iperboliche (Lang, 1992); quest’ultima
classificazione è chiaramente il risultato delle poche misure posizionali effettuate ed è
effetto della combinazione delle interazioni gravitazionali con il Sole e con Giove.
Si noti che molte comete non hanno orbite stabili, nel senso che, a causa di
perturbazioni gravitazionali ad opera dei pianeti giganti, i loro parametri orbitali non
di rado subiscono drastiche variazioni. Può accadere ad esempio che una cometa di
lungo periodo, passando vicino ad un pianeta, venga da questo costretta a percorrere,
da quel momento in poi (fino ad un’eventuale nuova perturbazione planetaria),
un’orbita ellittica, molto più stretta, di breve periodo. In tal caso si dice che la cometa
è stata catturata. Naturalmente può anche succedere il contrario, e cioè che una
cometa, che stava ruotando da secoli intorno al Sole su un’orbita ellittica di corto
periodo, venga immessa da un pianeta su un’orbita parabolica o iperbolica che la fa
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sfuggire per sempre dal Sistema Solare. Per questo motivo il fatto che una cometa sia
di breve o di lungo periodo non è in genere una caratteristica della cometa ma dipende
dall’epoca in cui questa viene osservata.
In caso di cattura, l’afelio della nuova orbita viene a cadere in prossimità
dell’orbita del pianeta che l’ha catturata e, dal momento che la cosa, al passar del
tempo, si verifica per diverse comete, si viene a formare un’intera famiglia di comete,
tutte con i loro afelii nei pressi dell’orbita del pianeta attrattore. Il pianeta più
importante in questo senso è Giove al quale è legata una famiglia, già citata
precedentemente, costituita da circa 300 comete (Sito web Univ. of Hawaii, 2005). Ma
anche gli altri pianeti giganti, Saturno, Urano e Nettuno danno un contributo alla
categoria delle comete di corto periodo: tutti e tre possiedono infatti le loro famiglie di
comete, anche se meno numerose e definite con minor precisione
2. Struttura
Sulla base delle osservazioni effettuate da Terra sin dal secolo scorso e dei dati
ottenuti dagli strumenti a bordo dei satelliti e delle sonde interplanetarie, è stato
possibile distinguere nella struttura di una cometa quattro componenti principali (v.
fig. 1):
a) il “nucleo”, solido e irregolare, che costituisce la parte più difficilmente osservabile
dell’intero corpo cometario;
b) la “chioma”, un’atmosfera gassosa e polverosa che si sviluppa attorno al nucleo
quando questo si riscalda avvicinandosi al Sole e scompare all’allontanarsi della
cometa dal perielio;
c) la “coda di plasma”, un flusso di ioni che sono perduti dalla chioma e che vengono
accelerati nella direzione antisolare dal vento solare;
d) la “coda di polvere”, un getto di particelle di polvere accelerato dalla pressione di
radiazione solare approssimativamente nella stessa direzione della coda di plasma.
2.1 Nucleo
Il nucleo cometario è una struttura solida che costituisce la parte permanente di
una cometa nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole. Il modello più adatto a
spiegare le evidenze osservative è il modello del conglomerato ghiacciato (“palla di
neve sporca” o “dirty snow ball”) proposto intorno al 1950 da Fred Whipple. Secondo
questo modello un nucleo cometario è costituito da una mistura di ghiacci e polveri
presenti grosso modo nella stessa percentuale. Il modello del conglomerato ghiacciato
ha il vantaggio di spiegare efficacemente diversi risultati osservativi incompatibili
invece con modelli precedenti, come quello del conglomerato sabbioso (“sand bank”)
avanzato da Levin nel 1943.
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Fig. 1 – Elementi strutturali di una cometa.
Esiste una grande varietà nelle dimensioni dei nuclei cometari (v. seconda
colonna della tab. 1); queste ultime vanno generalmente da qualche centinaia di metri
a qualche decina di chilometri (Maffei, 1976). Piú precisamente le comete di corto
periodo hanno nuclei con dimensioni dell’ordine del chilometro, mentre quelle di
lungo periodo hanno, in media, nuclei più grandi, con dimensioni tipiche di 5 ÷ 10 km
(Divine et al., 1986). Naturalmente la statistica è limitata ai relativamente pochi casi
osservati, per cui non solo non si può escludere ma è anche probabile che in passato il
Sistema Solare interno possa essere stato visitato da comete di dimensioni ben
maggiori. Questo dovrebbe essere stato ad esempio il caso della cometa gigante
Sarabat (C/1729 P1). Tale oggetto, dal diametro stimato tra 100 e 300 km raggiunse la
magnitudine -3.0 e rimase visibile ad occhio nudo per quasi 6 mesi, nonostante la sua
elevata distanza perielica di 4.05 UA. Eventi simili potrebbero ovviamente ripetersi
anche in futuro.
Generalmente la forma dei nuclei cometari è molto lontana dall’essere sferica, e una
struttura triassiale con rapporti tra gli assi di 2:1:1 sembra più appropriata; un tipico
esempio è la P/Halley, le cui immagini trasmesse dalla sonda Giotto hanno permesso
di evidenziare una struttura “ellissoidale” delle dimensioni di circa 16 8.2 8.4 km
(Keller et al., 1994).
In generale, il periodo di rotazione assiale di un nucleo cometario non risulta
mai molto minore di 10 ore, variando tra 4 e 70 ore (Lang, 1992). Secondo Jewitt e
Meech (1988), periodi di rotazione molto minori di 10 ore causerebbero squilibrio tra
forza gravitazionale e forza centrifuga, determinando l’instabilità gravitazionale del
nucleo stesso. Ciò si traduce in una densità critica di circa 0.3 g/cm3, che deve essere
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superata perché il nucleo sia stabile (Jewitt e Luu, 1989). In realtà una densità di
1 g/cm3 dovrebbe essere ragionevole, e quindi si possono valutare gli ordini di
grandezza delle masse cometarie, che variano tipicamente tra 1012 e 1016 kg.
La seconda colonna della tab. 1 è relativa all’albedo pv del nucleo nel visibile
(anche detta “albedo visuale”) ed è evidente come i valori siano molto bassi rispetto a
quello del ghiaccio pulito, che è compreso tra il 60 e l’80%; in particolare, il nucleo
della P/Halley (v. fig. 2) è un corpo molto scuro con un’albedo visuale del 4%.
Fig. 2 – Il nucleo della cometa Halley fotografato il 14 marzo 1986 dalla sonda Giotto ad una distanza
di circa 600 km. Si noti l’aspetto estremamente scuro della superficie e le poche regioni attive, di
estensione alquanto limitata, da cui fuoriescono gas e polveri (dal sito web del Progetto Spaceguard,
2005).
Esperimenti di laboratorio (Strazzulla e Baratta, 1992) sembrano indicare che
ciò sia dovuto al lungo e continuo bombardamento da parte dei raggi cosmici, del
vento solare e della radiazione ultravioletta del Sole, cui le superfici dei nuclei
cometari sono soggette dai tempi della loro formazione. Tale bombardamento
trasforma infatti i ghiacci ad alta albedo delle sostanze volatili semplici costituenti il
nucleo (come CO, CO2, H2O, CH4 ed NH3 – vedi in seguito) in un polimero scuro e
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refrattario costituito da una mistura estremamente complessa di sostanze organiche.
Secondo Strazzulla et al. (1991) tale processo dovrebbe portare anche alla formazione
di una specie di crosta solida molto porosa dello spessore di diversi metri.
Alternativamente la crosta potrebbe essere il risultato della sublimazione dei ghiacci,
essendo costituita da particelle di polvere di dimensioni tali da non poter essere
trascinate via dai gas che si sprigionano appunto dalla sublimazione dei ghiacci e che
quindi rimangono sul nucleo (v. fig. 3). E’ stato calcolato che la dimensione critica dc
al di sopra della quale le particelle non riescono ad allontanarsi dal nucleo diminuisce
con la distanza r della cometa dal Sole secondo la legge dc r -0.5.
Tab. 1 - Proprietà fisiche di nuclei cometari relativamente ben conosciuti (da Festou et al., 1993b); R
dà la misura delle dimensioni (raggio medio oppure misure degli assi), p v è l’albedo visuale (i punti
interrogativi indicano valori assunti), f è la frazione attiva di superficie del nucleo. I dati aggiornati di p v
ed f nel caso di Chirone provengono da Mc Fadden (1994) e da Stern e Campins (1996)
rispettivamente.
Cometa
R (km)
pV
f
2060 Chirone
90
0.04
< 1%
P/Schwassmann-Wachmann 1
P/Neujmin 1
P/Halley
P/Tempel 2
P/Arend-Rigaux
IRAS-Araki-Alcock
P/Schwassmann-Wachmann 2
P/Encke
Sugano-Saigusa-Fujikawa
20
11 9
8 4 4
8 4 4
7 4 4
8 3.5 3.5
3
2 3
0.4
0.13
0.02 0.03
0.04
0.02
0.03
0.03
0.04?
0.03?
0.03?
2%
0.06%
20%
0.6%
0.05%
0.6%
10%
1 2%
40 100%
Nella crosta spesso si aprono delle crepe da cui sembrano fuoriuscire gas e
polvere in forma di getti fortemente localizzati (v. fig. 2). All’approssimarsi del
perielio l’attività cometaria non è infatti uniforme, ma coinvolge solo una frazione
della superficie totale, frazione che può variare in un range molto ampio di valori
(come si vede dalla tab. 1, dallo 0.05% della P/Arend-Rigaux al valore molto alto della
P/Sugano-Saigusa-Fujikawa, che ha anche il nucleo più piccolo). La sonda Giotto ha
evidenziato nella P/Halley 17 getti distinti, che diventavano quasi inattivi non
appena le aree di emissione cadevano in ombra (Keller et al., 1994).
L’analisi spettroscopica dell’emissione cometaria ha permesso, sin dai primi
anni quaranta, l’identificazione di radicali e ioni cometari chimicamente instabili, e
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creati quindi per reazioni fotochimiche da molecole più stabili presenti all’interno del
nucleo (le cosiddette “molecole genitrici”); è stata rilevata la presenza di CO, CH4,
CO2, N2, NH3, NH, CN, C2N2 (cianogeno), CH3OH (metanolo), C2H6 (etano), HCOOH
(acido formico) e H2CO (formaldeide).
Si noti, però, che recenti analisi condotte sulla cometa Hale-Bopp hanno
permesso di appurare che, almeno per questa cometa, il ghiaccio d’acqua sublima con
una velocità diversa da quella degli altri ghiacci, il che non si concilia con il modello
che assume che i ghiacci di sostanze diverse dall’acqua siano presenti nel nucleo sotto
forma di caltrati (poiché in tal caso i ghiacci in traccia dovrebbero sublimare con la
stessa velocità del ghiaccio d’acqua). Tali analisi confermano comunque che l’acqua è
il costituente principale dei ghiacci cometari.
E' importante sottolineare il fatto, già accennato precedentemente, che delle
quattro componenti di una cometa solo il nucleo è sempre presente in ogni fase
dell'evoluzione cometaria. Per questo si è soliti identificare la cometa con il suo
nucleo.
Fig. 3 – Modelli alternativi di formazione della crosta cometaria. Questa può essere prodotta o per
irraggiamento dei ghiacci nucleari da parte dei raggi cosmici, del vento solare e della radiazione UV del
Sole (riquadro superiore) o per sublimazione dei ghiacci, con conseguente formazione di un residuo
solido molto poroso costituito da grani di grandi dimensioni (riquadro inferiore).
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2.2 Chioma
Come già accennato in precedenza, in prossimità del perielio, la sublimazione
dei ghiacci nucleari e l’espulsione delle polveri dà luogo ad un alone diffuso
denominato “chioma”, dal diametro compreso tra 104 e 105 km con una densità che
varia tra 104 e 106 molecole al cm3 (Herrmann, 1978): la cometa diventa così visibile.
Mentre il nucleo può essere osservato solo per la luce solare che riflette, la chioma
brilla nel visibile per effetto della luce solare diffusa dalla polvere e dal gas e per
emissione atomica e molecolare (“fluorescenza”) delle specie chimiche sublimate dal
nucleo sottostante (Festou et al., 1993b): lo spettro cometario è quindi costituito da un
continuo cui sono sovrapposte righe e bande di emissione.
I grani di polvere cometaria coprono un ampio range di dimensioni che vanno
da diversi nanometri a qualche centimetro e oltre (Grün et al., 1997) con una cospicua
percentuale di particelle di 1 ÷ 10 m (Hanner, 1986).
E’ stato possibile identificare due principali componenti la polvere cometaria:
silicati (in particolare olivina) e composti di C, H, O e N (le cosiddette “particelle
CHON”); i primi, più compatti, hanno una densità media di 2.5 g/cm3, mentre i
materiali CHON hanno densità dell’ordine di 1 g/cm3 (Jessberger e Kissel, 1991) e
dovrebbero presentarsi più sotto forma di mantelli carbonacei presenti intorno a nuclei
silicatici che sotto forma di particelle singole e distinte (Jessberger, 1991). I fit degli
spettri cometari suggeriscono che le percentuali di queste due componenti variano non
solo da cometa a cometa ma anche, per una stessa cometa, al variare della distanza
eliocentrica (Colangeli et al., 1996). In particolare è stato trovato che la percentuale in
massa dei silicati nella polvere cometaria varia dal 10% al 97%, mentre quella dei
materiali carbonacei varia corrispondentemente dal 90% al 3% (Krishna Swamy et al.,
1989; Hanner et al., 1994; Colangeli et al., 1996; Sarmecanic et al., 1997).
Data la lunghezza delle loro orbite, i nuclei cometari che sviluppano la chioma
manifestano la loro attività solamente durante una piccola frazione della loro esistenza.
Per le comete a lungo periodo, che all’afelio raggiungono una temperatura ben
inferiore a 40 K, la durata totale dell’attività (di fatto limitata ad un breve periodo
intorno al perielio) è del tutto trascurabile rispetto all’intera vita di questi oggetti; le
comete a corto periodo sono invece attive per il 10-30% della loro vita (Festou et al.,
1993a). Ad esempio la P/Halley dovrebbe essere attiva per circa il 10% della sua
intera esistenza (Festou et al., 1993a). In generale, la chioma raggiunge la massima
estensione apparente quando la cometa si trova da 1 a 1.5 UA dal Sole.
2.3 Code
L’elemento caratteristico che distingue le comete da ogni altro oggetto del
Sistema Solare è la coda che si sviluppa in prossimità del Sole. All’opposto di quelle
del nucleo, le dimensioni della coda sono enormi, aggirandosi spesso intorno a
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qualche decina di milioni di chilometri in lunghezza e 1 o 2 milioni di chilometri in
larghezza. In casi eccezionali la coda può essere lunga fino a 300 milioni di chilometri,
come nel caso della cometa del 1680 (Herrmann, 1978).
Si possono distinguere essenzialmente due tipi di code, la “coda di ioni” o
“coda di plasma” (tipo I) e la “coda di polvere” (tipo II). La prima, di colore
azzurrognolo, è abbastanza rettilinea ed è orientata in direzione opposta al Sole; può
essere composta da un fascio di code ravvicinate. Il suo è principalmente uno spettro
di righe, dovuto a fluorescenza degli ioni cometari. Essa è composta principalmente da
ioni d’acqua, H2O+ (Wegmann, 1997) e in genere cambia il suo aspetto in una scala
temporale molto corta (dell’ordine delle ore o addirittura dei minuti). La coda di
polvere, di colore giallognolo, è curva ed è anch’essa orientata in direzione opposta al
Sole. Essa è generalmente meno lunga della coda di ioni. Il suo spettro è continuo,
essendo generato dalla diffusione della luce solare da parte della polvere.
Le comete sviluppano la coda di ioni ad una distanza pari o inferiore a 1.5 UA
dal Sole. Alcune comete, tuttavia, presentano in queste regioni una coda di tipo I
estremamente debole, o non la presentano affatto, mentre altre non mostrano la coda di
polvere.
Talvolta, anche se molto raramente, alcune comete mostrano, oltre alle code di
tipo I e II, anche una protuberanza a forma di aculeo che fuoriesce dalla chioma e che,
al contrario delle code, è diretta verso il Sole. Questa struttura, detta “anticoda” (v.
figg. 1 e 4) è costituita da polveri di dimensioni in genere superiori alla media
(Krishna Swamy et al., 1989) che lasciano il nucleo a velocità quasi nulla e pertanto
formano uno strato nel piano orbitale della cometa (Festou et al., 1993b). Tale strato
diviene visibile per effetto prospettico dalla Terra quando questa viene a trovarsi nel
suddetto piano; quando invece, come usualmente accade, la Terra è al di fuori del
piano dell’orbita della cometa, la luminosità apparente per unità di area dello strato di
polvere diminuisce sotto la soglia di visibilità e l’anticoda rimane invisibile
(Herrmann, 1978).
La densità di una coda puo variare tra solo 10 e 100 molecole al cm 3, mentre la
sua massa totale è del tutto trascurabile rispetto alla massa del nucleo cometario
(Herrmann, 1978): è quindi evidente come il passaggio del nostro pianeta anche al
centro della coda non possa avere alcun risultato preoccupante; probabilmente non vi
sarebbe neppure nulla degno di nota, se non, forse, un aumento della frequenza di
“stelle cadenti” (v. par. 3).
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Fig. 4 – Anticoda della cometa Hale-Bopp (dal sito web dell’UCL Astrophysics Group, 2005).
La forma della coda di polvere è il risultato dell’azione della pressione di
radiazione solare sulle particelle solide espulse dal nucleo nella chioma. L’effetto
combinato della spinta dovuta alla pressione di radiazione solare e del moto orbitale
della cometa determina la separazione dei due diversi tipi di coda, dando a quella di
polvere la caratteristica forma arcuata. Nella maggior parte dei casi si osservano
diversi tipi di sottostrutture all’interno delle code di polvere.
Le code di polvere hanno tempi di evoluzione che vanno dalle ore ai pochi
giorni e raggiungono il massimo sviluppo quando la cometa è all'interno dell'orbita
terrestre; all'allontanarsi dal perielio, la struttura scompare progressivamente in
accordo con la generale diminuzione della produzione di polvere da parte del nucleo.
3. Evoluzione
L’intermittente attività cometaria (che, come abbiamo visto, si manifesta
esclusivamente in occasione dei passaggi al perielio) dura complessivamente solo per
un periodo molto breve rispetto ai tempi-scala cosmici. Modelli teorici indicano che il
nucleo di una cometa di corto periodo produce fenomeni tipicamente cometari solo per
un periodo di tempo dell’ordine delle migliaia o decine di migliaia di anni,
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corrispondenti a 150 500 rivoluzioni (Kresak e Kresakova, 1990). Ad esempio nel
caso della cometa P/Halley, che passa nelle vicinanze del Sole ogni 76 anni, dai valori
di m (massa totale persa in una rivoluzione) ed m (massa attuale del nucleo), riportati
da Whipple (1987), si ricava che m/m = 0.004 0.01, per cui teoricamente la Halley
dovrebbe esaurirsi tra 100 250 rivoluzioni, pari al più a 19000 anni1; dopo di che
tutto ciò che potrebbe rimanere del nucleo ormai disgregato sarebbe (come nel caso
della cometa di Biela) una scia di polvere e detriti vari disseminati lungo l'orbita,
responsabili sulla Terra delle cosiddette “piogge di stelle cadenti” quando il nostro
pianeta attraversa tale scia.
Tuttavia la cometa potrebbe estinguersi ben prima di raggiungere questa fase.
Può succedere infatti che la crosta solida che riveste il nucleo diventi sufficientemente
spessa da sigillare le sostanze volatili al suo interno, bloccando così l'attività cometaria
e rendendo inerte il nucleo. Questa è per esempio la sorte toccata alla cometa
P/Wilson-Harrigton, identificata successivamente con l'asteroide 4015 1979VA. Si
sospetta inoltre che almeno alcuni degli oggetti classificati come NEA (“Near Earth
Asteroids”) siano in realtà delle comete estinte.
Si noti però che non tutti i nuclei cometari dovrebbero essere rivestiti da una
crosta esterna in grado di diventare tanto spessa da bloccare l’attività cometaria.
Usando modelli di evoluzione termica cometaria, De Sanctis et al. (1997) hanno di
recente trovato che la crosta si sviluppa su un nucleo cometario per valori
sufficientemente grandi del periodo di rotazione assiale e della massa del nucleo,
nonché per abbastanza grandi dimensioni dei grani di polvere presenti nei ghiacci del
nucleo. Molte comete, sono caratterizzate da valori del periodo assiale e della massa
del nucleo sufficientemente bassi da ritenere improbabile che abbiano sviluppato una
spessa crosta: tali comete dovrebbero quindi rimanere attive per molte altre
rivoluzioni.
Oltre ad estinguersi in questi modi sostanzialmente tranquilli, una cometa può
anche subire una fine catastrofica. Può succedere infatti che, a causa di forti tensioni
interne, essa si spezzi in due o più parti, come è accaduto per la cometa di Biela e per
le comete West e Shoemaker-Levi 9. Un'altra fine violenta può essere la caduta sul
Sole o la collisione con un pianeta, come nel caso della stessa Shoemaker-Levi 9. In
particolare quando questa cometa si è avvicinata al limite di Roche di Giove (la
distanza alla quale le forze mareali del pianeta legate alla sua forza gravitazionale,
possono superare le forze dovute all’auto-gravità del corpo collidente), si è spezzata in
21 frammenti, con dimensioni stimate tra i 50 m e 5 km, ma con una frequenza
maggiore intorno al chilometro, che sono caduti su Giove nel Luglio 1994 (v. fig. 5).
(1): Dato che la cometa ha già compiuto 300 orbite intorno al Sole (Jones et al., 1989), la sua
vita sarebbe di 400 550 rivoluzioni, in sostanziale accordo con i valori riportati da Kresak e
Kresakova (1990).
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Fig. 5 – I 21 frammenti della cometa Shoemaker-Levy, frantumatasi passando entro il limite di
Roche di Giove (dal sito web dell’Hubble Space Telescope, 1994).
4. Relazioni tra comete e asteroidi
Sebbene nuclei cometari e asteroidi siano due tipi di oggetti completamente
diversi per origine e composizione, è spesso molto difficile distinguere certe comete
quiescenti o estinte dagli asteroidi esterni alla fascia principale; in particolare, come
già accennato al paragrafo precedente, non di rado risulta estremamente complicato
poter discriminare tra nuclei cometari inattivi e NEA. Il problema è che in genere, non
sapendo da dove realmente proviene un corpo che non mostra attività cometaria, è
praticamente impossibile stabilire se esso sia effettivamente un asteroide oppure un
nucleo cometario quiesciente o estinto.
Fino a pochi anni fa si riteneva che le comete avessero dimensioni al più di una
ventina di chilometri, per cui un corpo con dimensioni maggiori di 30 km veniva
considerato con certezza un asteroide. Oggi sappiamo invece che al di là dell’orbita di
Nettuno esistono oggetti ghiacciati detti TNO (“TransNettunian Objects” - v. par. 5),
alcuni dei quali di dimensioni superiori ai 1000 km, che potrebbero in futuro diventare
delle gigantesche comete. D’altra parte anche in passato, il Sistema Solare interno
potrebbe essere stato visitato da comete di dimensioni ben maggiori di quelle finora
note, come ad esempio nel già citato caso della cometa gigante Sarabat (C/1729 P1).
Pertanto questo criterio di discriminazione tra cometa ed asteroide basato sulle
dimensioni del corpo in esame purtroppo non è più valido.
Fino a poco tempo fa si riteneva che i nuclei cometari fossero gli unici corpi
del Sistema Solare in grado di lasciare una scia di polvere (“dust trail”) lungo la loro
orbita. Ciò rappresentava pertanto un utile metodo per identificare nuclei cometari
estinti o quiescienti, distinguendoli dagli asteroidi (Mc Fadden, 1994). Oggi sappiamo
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però che grani di polvere possono essere sollevati dalla superficie di un asteroide per
effetto di impatti di micrometeoriti (Matson et al., 1977) o dell'azione di forze
elettrostatiche che si esercitano sui grani, se questi sono carichi e se la superficie
dell'asteroide ha un'alta resistività (Lee, 1996). Una volta staccati dalla superficie
questi grani, spinti dalla pressione di radiazione solare, possono poi sfuggire alla
debole attrazione gravitazionale dell'asteroide, formando una scia di polvere simile a
quelle cometarie (Lee, 1996).
Sfortunatamente anche la determinazione del periodo di rotazione assiale di un
corpo non è utile per sapere se quel corpo è un asteroide o un nucleo cometario (Mc
Fadden, 1994).
Poco utile è anche la determinazione dell’albedo visuale pv. Come abbiamo
visto, si ha ragione di ritenere che i nuclei cometari abbiano superfici molto scure,
annerite dal continuo bombardamento di raggi cosmici e fotoni ultravioletti solari. Per
questo motivo l’albedo visuale dei nuclei cometari è in genere molto bassa, forse
pv 0.04 per quasi tutte le comete (Mc Fadden, 1994). Il problema è che circa il 60%
di tutti gli asteroidi ha albedo visuali di qualche centesimo. Quindi un basso valore di
pv non è indicativo di un’origine cometaria; d’altronde un’alta albedo non fornisce
un’indicazione sicura di un’origine asteroidale, se dobbiamo dar credito all’alto valore
di pv determinato per la cometa P/Schwassmann-Wachmann 1 e riportato nella tab. 1.
Sicuramente maggiore potere diagnostico ha a questo riguardo l'analisi dello
spettro di riflettanza di un corpo. Se ad esempio tale spettro ha la forma tipica degli
spettri degli asteroidi di tipo tassonomico S (v. par. 4.2 della Dispensa n. 6), allora si
ha la certezza che il corpo in esame è un asteroide proveniente dalla zona più interna
della fascia asteroidale. Sfortunatamente però non pochi spettri sono difficilmente
classificabili per cui, di nuovo, non si possono ricavare indicazioni certe sull'origine e
la natura dei corpi in esame.
Alla luce di quanto sopra esposto la questione dell'individuazione della natura
dei corpi minori del Sistema Solare rimane ancora aperta.
5. Regioni di provenienza e oggetti transnettuniani
Come abbiamo già osservato al par. 3, la vita di una cometa è estremamente
breve su scala cosmica. Quindi, assumendo che tutte abbiano avuto origine in una
stessa epoca, dopo un breve intervallo di tempo avrebbero dovuto essere scomparse.
Naturalmente non si può escludere a priori l’idea che il periodo in cui vivono le
comete sia proprio quello attuale in cui possiamo osservarle; ma, per quanto possibile,
una tale concezione è troppo antropocentrica e, d’altra parte, sarebbe più ragionevole
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assumere che, semmai, l’epoca della nascita delle comete cadde nei primi tempi della
vita del Sistema Solare, quando da una nebulosa primordiale si formarono anche il
Sole, i pianeti ed i satelliti. Il fatto quindi che ancora adesso osserviamo l’arrivo di
comete nuove porta a due possibili ipotesi sull’origine di questi corpi celesti:
1) le comete provengono continuamente dallo spazio interstellare e vengono più o
meno legate al Sole tramite incontri ravvicinati con i pianeti giganti;
2) le comete provengono continuamente da un serbatoio presente in qualche parte del
Sistema Solare dove hanno avuto origine (o sono state trasferite) ai tempi della
formazione dei pianeti.
La prima ipotesi si basa sull’osservazione, già menzionata nel primo paragrafo,
che alcune comete sembrano avere un’orbita iperbolica (e quindi sarebbero degli
oggetti non legati gravitazionalmente al Sole) e trae sostegno da certe osservazioni che
implicherebbero l’esistenza di corpi cometari in altri sistemi stellari come ad esempio
Pictoris (Lagrange-Henri et al., 1988). Sebbene non si possa escludere che qualche
cometa provenga dallo spazio interstellare (Bailey et al., 1986), non esistono neanche
evidenze osservative inequivocabili a supporto di questa ipotesi. Ciò in quanto, come è
già stato rilevato nel primo paragrafo, le osservazioni che suggeriscono che alcune
comete sarebbero su orbite iperboliche sono estremamente incerte. Si può pertanto
escludere che la maggior parte delle comete provenga dall’esterno del Sistema Solare.
Consideriamo quindi la seconda ipotesi che fu proposta e sviluppata
dall’astronomo olandese J. Oort dell'osservatorio di Leida.
5.1 La nube di Oort
Intorno al 1950 Oort, esaminando la distribuzione dei semiassi maggiori delle
orbite di una cinquantina di comete di lungo periodo opportunamente scelte, scoprì
che i loro afelii cadevano a distanze superiori a 30 mila UA (quindi ben al di là
dell'orbita di Plutone) ed inferiori a 100 mila UA, con una frequenza massima intorno
a 50 mila UA. Questo risultato suggeriva che le comete provenissero da un guscio
sferico centrato intorno al Sole, detto poi “nube di Oort”. Tenendo presente che la
stella più vicina, cioè Centauri, dista da noi 250 mila UA, si vede che questa zona di
origine delle comete si spinge fino a quasi metà strada tra il Sole e la stella più vicina.
Tale nube viene occasionalmente perturbata dal passaggio di una stella che
cambia gli elementi orbitali delle comete all’interno, per cui una di esse può venire
proiettata verso la parte interna del Sistema Solare. Successivamente, durante il primo
passaggio attraverso il sistema planetario (“comete nuove”) l’azione perturbatrice di
Giove può espellere il corpo cometario verso lo spazio interstellare, o catturarlo in
orbite ellittiche molto meno eccentriche (Weissman, 1991). Solo il 5% delle comete
nuove ritorna alla nube di Oort. E’ stato calcolato che nella storia del Sistema Solare
14
circa 5.4 103 stelle sono passate entro 105 UA dal Sole, provocando l’espulsione di
circa il 10% della popolazione della nube di Oort (Weissman, 1991).
A partire dal 1970 sono stati riconosciuti anche altri effetti perturbativi:
l’azione del campo gravitazionale galattico e inoltre gli incontri con le nubi molecolari
giganti presenti nella Galassia. Questi ultimi, seppure rari (uno ogni 3 108 anni),
hanno un grande effetto sulle orbite delle comete interne, determinando una critica
variazione della loro velocità.
Per tenere conto del flusso osservato di comete nuove, Oort stimò, mediando
sull’intera età del Sistema Solare, che la popolazione di questa nube cometaria dovesse
essere di circa 2 1011 oggetti; assumendo una massa cometaria media di 1013 kg, la
massa totale della nube dovrebbe essere di 2 1024 kg, corrispondente circa a 0.3 M
(Festou et al., 1993a). Successivi modelli dinamici hanno prodotto una stima
leggermente superiore del numero di oggetti all’interno della nube.
Per buona parte dell'ultimo mezzo secolo l'ipotesi di Oort ha spiegato
adeguatamente dimensioni e orientazione delle traiettorie seguite dalle comete di
lungo periodo. Le osservazioni astronomiche dimostrano infatti che questi corpi
giungono nella zona occupata dai pianeti provenendo da direzioni casuali, come ci si
aspetterebbe se le comete avessero origine in una regione sferica come appunto la
nube di Oort. Viceversa, l'ipotesi di Oort non poteva spiegare le orbite delle comete di
breve periodo, che normalmente hanno semiassi maggiori più piccoli e che sono solo
leggermente inclinate rispetto all'eclittica.
La maggior parte degli astronomi riteneva che le comete di breve periodo
percorressero in origine orbite immense, orientate in maniera casuale (come fanno
oggi le comete di lungo periodo), e che fossero state portate nella loro attuale
configurazione orbitale dagli effetti gravitazionali (“cattura gravitazionale”) dei
pianeti, soprattutto di Giove. Non tutti i ricercatori però erano d'accordo con questa
ipotesi. In effetti Joss (1970) ha fatto notare che la probabilità di un tale tipo di cattura
gravitazionale è così bassa da non potere in alcun modo spiegare il gran numero di
comete di breve periodo oggi esistenti. Successivamente Duncan et al. (1988) hanno
mostrato che le comete di breve periodo devono essere state catturate a partire da
orbite non molto inclinate rispetto all'eclittica e che con ogni probabilità queste comete
provengono da una fascia appiattita di corpi situata immediatamente oltre l'orbita di
Nettuno. A tale fascia è stato dato il nome di “fascia di Edgeworth-Kuiper” (d’ora in
poi denominata in questa dispensa “fascia E-K”) in onore dei due scienziati che per
primi ne avevano suggerito l'esistenza.
5.2 La fascia di Edgeworth-Kuiper
Il primo passo per provare la reale esistenza della fascia E-K si ebbe nel 1992
con la scoperta di un oggetto di 180 km di diametro, designato 1992QB1, che si trova
15
su un’orbita stabile e pressocchè circolare a circa 44 UA dal Sole, cioè ben oltre
l’orbita di Plutone. Da allora oltre 1200 oggetti di questo tipo, denominati con
l’acronimo KBO (“Kuiper Belt Objects”), sono stati scoperti nella regione transnettuniana. Si tratta di corpi prevalentemente ghiacciati del tutto simili alle comete,
dalle quali differiscono solo dal punto di vista dinamico. Per la loro collocazione
spaziale tali oggetti sono anche chiamati TNO (“TransNettunian Objects”), nome in
verità più generico con il quale si indicano anche i corpi della nube di Oort.
L’acronimo KBO risulta, pertanto, più preciso.
Valutazioni teoriche eseguite da Stern (1995) e da Luu e Jewitt (1996)
indicano che tra 30 e 50 UA dovrebbero essere presenti circa 4 104 oggetti con
diametro maggiore di 100 km (v. tab. 2). Secondo Stern e Campins (1996) tali oggetti
dovrebbero essere addirittura 7 104. Oltre a questi, osservazioni effettuate con il
Telescopio Spaziale Hubble, operante al limite delle sue possibilità (Cochran et al.,
1995), hanno anche individuato la presenza di numerosi oggetti di dimensioni
comprese tra 10 e 20 km (pari a quelle tipiche dei nuclei cometari attualmente noti).
Dalla tab. 2 si nota che il numero totale di corpi di questo tipo, presenti tra 30 e 50 UA
dovrebbe ammontare a diversi miliardi (Duncan et al., 1995; Stern, 1995). In realtà la
fascia E-K non si arresta a 50 UA dal Sole ma si ha ragione di credere che si estenda
fino a grandi distanze dal Sole collegandosi con la parte più interna della nube di Oort.
Il più grande oggetto transnettuniano attualmente noto è 136199 Eris, dal
diametro prossimo ai 2400 km, ossia poco più grande di Plutone. Per questo motivo
tale oggetto è stato proposto da alcuni autori come il decimo pianeta del Sistema
Solare. Tuttavia, allo scopo di evitare il “proliferare” di nuovi pianeti, a causa delle
probabili future scoperte di corpi transnettuniani di dimensioni confrontabili o
maggiori di quelle di Eris, l’Unione Astronomica Internazionale (IAU) ha
recentemente adottato una nuova definizione di pianeta. In base alla risoluzione n. 5A
della Assemblea Generale dell’IAU, tenuta a Praga nell’agosto del 2006, si definisce,
appunto, pianeta un corpo che soddisfa alle seguenti tre condizioni:
1) orbita intorno al Sole;
2) è sufficientemente massiccio da assumere una forma regolare quasi sferica;
3) ha “ripulito” le zone limitrofe alla sua orbita (nel senso che nel suo processo di
formazione ha inglobato, eliminandoli, tutti i corpi un tempo presenti in queste zone).
Si definisce, invece, pianeta nano o planetoide ogni corpo celeste che soddisfa
le prime due condizioni, ma non la terza. A questa categoria appartengono Plutone
(che perde così il suo status di “pianeta”), Eris e Vesta. Ciò in quanto le orbite dei
primi due sono all’interno della fascia E-K, mentre il terzo oggetto orbita nella cintura
degli asteroidi, e quindi nessuno dei tre è stato in grado di ripulire da altri corpi le zone
limitrofe alla sua orbita.
16
Tab. 2 - Valutazioni del numero e della massa totale degli oggetti con varie dimensioni presenti nella
fascia E-K. La massa di tale fascia relativa alle prime due classi di oggetti (valori tra parentesi) è stata
-3
valutata in questa dispensa assumendo una densità media di 1 g cm ed una dimensione media pari
a 3 km e 10 km per la prima e la seconda classe, rispettivamente. (Rif. Bibl.: (1): Stern, 1995; (2):
Duncan et al., 1995); (3): Cochran et al., 1995; (4): Luu e Jewitt, 1996).
Dimensione,
D
Semiasse maggiore
orbitale, a
Numero di
oggetti
Massa
Rif.
Bibl.
1 km D 6 km
1 km D 20 km
30 UA < a < 50 UA
30 UA a 50 UA
1010
5 x 109
(0.2 M )
(3.5 M )
1
10 km D 20 km
D > 100 km
30 UA a 40 UA
30 UA a 50 UA
> 2 x 108
3.5 x 104
0.02 M
0.03 M
3
2
1, 4
Oltre ad Eris ed a Plutone, altri KBO di notevoli dimensioni sono 2005 FY9
(nome provvisorio Easter Bunny, che dovrebbe raggiungere i 1700 km di diametro),
2003 EL61 Santa (dal diametro di circa 1600 km), 90377 Sedna (con un diametro
stimato tra 1200 e 1800 km) e 50000 Quaoar (dal diametro di quasi 1300 km). Eris,
Plutone e 2003 EL61 sono anche dotati di satelliti; quest’ultima non è una circostanza
rarissima nella fascia E-K, in quanto ben 29 KBO sono binari o multipli (TransNeptunian Objects Web Site, 2006). Tuttavia il più interessante tra questi oggetti è
forse Sedna, innanzitutto perché è il più lontano corpo della fascia E-K finora
conosciuto; in effetti la sua orbita fortemente eccentrica, caratterizzata da un semiasse
maggiore di circa 530 UA (e di conseguenza un periodo di 12000 anni), lo porta ad
una distanza minima di 76 UA dal Sole con un afelio a circa 980 UA. Sedna è inoltre
interessante a causa del suo colore decisamente rossastro (dopo Marte è il più rosso
oggetto del Sistema Solare).
Osservazioni di Quaoar compiute con lo spettrometro CISCO accoppiato al
telescopio giapponese Subaru di 8 m, sito alle Hawaii, hanno recentemente permesso
di ottenere uno spettro di questo oggetto così remoto. Tale spettro, mostrato in fig. 6,
conferma che Quaoar è effettivamente costituito di ghiaccio d’acqua cristallino e che
pertanto ha la stessa natura dei nuclei cometari.
Recenti studi sulla struttura della fascia E-K indicano che quest’ultima è
costituita da una fascia principale, un disco diffuso ed un disco diffuso esteso
(Gladman, 2005). La fascia principale è la zona con la più alta densità di oggetti; essa
è posta immediatamente al di là dell’orbita di Nettuno e si estende fino a 56 UA. Tale
fascia possiede due componenti: una costituita da corpi (i cosiddetti “KBO classici”)
con orbite di piccola eccentricità e bassa inclinazione e l’altra cui appartengono oggetti
(detti “Plutini”) posti su orbite, simili a quella di Plutone, più eccentriche e più
inclinate. Il disco diffuso è costituito invece da oggetti con orbite molto eccentriche
17
caratterizzate da perieli, prossimi all’orbita di Nettuno, posti tra 30 e 38 UA ma con
afeli tra 100 e 3000 UA. Infine gli oggetti del disco diffuso esteso hanno afeli nella
stessa zona di quelli dei corpi del disco diffuso, ma con perieli posti oltre le 38 UA.
Questo disco diffuso si collega alla parte interna della nube di Oort che, al contrario di
quella esterna, dovrebbe essere piuttosto appiattita, estendendosi fino a 1000-2000 UA
dal Sole (v. fig. 7).
Fig. 6 – Spettro in riflessione dell’oggetto Quaoar nel vicino IR (in nero), confrontato con lo spettro del
ghiaccio d’acqua (in rosso). I larghi minimi intorno a 1.5 e 2.0 m indicano la presenza di ghiaccio
d’acqua in superficie. La più stretta banda a 1.65 m indica che tale ghiaccio ha una struttura cristallina
piuttosto che amorfa. I tratti neri orizzontali indicano le regioni spettrali dove l’atmosfera terrestre
assorbe maggiormente (da Jewitt e Luu, 2004).
18
Fig. 7 - Rappresentazione schematica delle estreme regioni del Sistema Solare (da Gladman, 2005). In
(a) sono mostrate le orbite, proiettate sul piano dell’eclittica, dei seguenti oggetti: Giove (J), Saturno
(S), Urano (U), Nettuno (N), due membri della fascia principale di E-K (uno (C) appartenente ai KBO
classici ed uno (P) appartenente al gruppo dei Plutini), nonché un membro del disco diffuso (SD). In (b)
si vedono le orbite di un oggetto del disco diffuso (SD) e di uno del disco diffuso esteso (E). Infine in
(c) è mostrata la nube di Oort.
19
Simulazioni al calcolatore accoppiate con osservazioni astronomiche (Duncan
et al., 1995), hanno inotre evidenziato la notevole carenza di corpi con orbite di bassa
inclinazione rispetto all' eclittica e con semiassi maggiori prossimi a 36 UA e tra 40 e
42 UA. Deboli instabilità dinamiche (dovute a risonanze tra il periodo orbitale dei
corpi della fascia e quello di Nettuno) possono aver rimosso dalla fascia E-K
oggetti con caratteristiche orbitali di questo tipo, spingendoli verso l’interno del
Sistema Solare. Tali oggetti hanno così dato luogo alle comete della famiglia di Giove
come pure a corpi, noti collettivamente con il nome di “Centauri” che, al contrario
delle comete, non penetrano mai nelle parti interne del Sistema Solare. Lo
svuotamento di queste regioni è ancora in atto, così come pure il processo di
allontanamento dei corpi dalle zone più interne della fascia, quelle cioè più prossime a
Nettuno (Duncan et al. 1995).
Poiché i processi di trasporto dinamico, che portano gli oggetti della fascia E-K
su orbite che intersecano quelle planetarie, sono essenzialmente indipendenti dalla
massa dell’oggetto trasportato, ci si aspetta che il gruppo di corpi (di dimensioni che
vanno da quelle delle comete della famiglia di Giove a quelle dei Centauri) che
orbitano tra i pianeti giganti, sia sufficientemente rappresentativo dell’intera
popolazione degli oggetti presenti nella fascia E-K tra 30 e 50 UA, da cui tale gruppo
deriva. In particolare studi di evoluzione dinamica delle orbite nella fascia E-K
predicono che all’equilibrio la popolazione di oggetti su orbite che intersecano quelle
dei pianeti sia lo 0.01% della popolazione di corpi della fascia E-K (Stern e Campins,
1996). Pertanto una popolazione costituita da circa 5 105 (o forse 106) comete e da
qualche Centauro con diametro maggiore di 100 km dovrebbe essere in orbita tra i
2
pianeti giganti .
I Centauri sono una popolazione molto importante per gli studi sulla fascia EK. Difatti, a causa della loro maggiore vicinanza al Sole, i Centauri più grandi sono da
100 a 600 volte più brillanti degli oggetti più luminosi della fascia E-K, il che
permette studi dei Centauri più dettagliati di quanto sia possibile con gli oggetti della
fascia di Kuiper. Sfortunatamente, sebbene i Centauri siano più luminosi degli oggetti
della fascia E-K, essi sono ancora deboli in termini assoluti. Nonostante le grandi
lacune nelle nostre conoscenze sulle caratteristiche fisiche e chimiche di questa
popolazione unica, molte informazioni cominciano ad essere raccolte. Tali
informazioni sono compendiate nella tab. 3.
I tre Centauri che sono stati osservati nell’infrarosso mostrano sorprendenti
differenze di colore l’uno dall’altro. Difatti, mentre il colore intrinseco di 2060
Chirone è grigio (cioè neutro) in tutto l’intervallo spettrale da 0.3 a 2.5 m, l’altro
KBO, 5145 Pholus, che è simile per tipo di orbita e per dimensioni, è invece
(2): Si noti che Stern e Campins (1996) valutano invece tra 30 e 300 il numero di questi
Centauri di grosse dimensioni.
20
estremamente rosso. D’altra parte anche 1993HA2, sebbene più piccolo e su un’orbita
più grande, appare molto rosso rispetto a Chirone. Non è ancora chiaro sino a che
punto queste differenze tra i vari Centauri siano principalmente dovute a meccanismi
evolutivi (in contrapposizione a caratteristiche intrinseche); in ogni caso, come
abbiamo già visto, è fuori di dubbio che l’esposizione a lungo termine ai raggi cosmici
e alle radiazioni ultraviolette del Sole, possa inizialmente arrossare e poi annerire le
superfici contenenti sostanze organiche semplici, creando una mistura organica molto
complessa (Strazzulla e Baratta, 1992).
Tab. 3 - Caratteristiche fisiche dei Centauri (da Stern e Campins, 1996).
Oggetto
Diametro (km)
Albedo
visuale
Periodo
assiale
Indice di colore
V-J
Attività
2060 Chirone
5145 Pholus
1993HA2
1994TA
182 ± 10
185 ± 22
62
28
0.20
0.04 ± 0.02
0.05
0.05
5.92 h
9.98 h
1.13 ± 0.04
2.53 ± 0.06
2.07 ± 0.40
Si
No
No
No
1995DW2
1995GO
68
60
0.05
0.05
No
No
Tra i Centauri particolarmente interessante è Chirone, a causa delle sue grandi
dimensioni (stimate intorno ai 180 km) e della lunga storia dei suoi sporadici outburst.
In effetti Chirone, scoperto nel 1977 in prossimità dell’afelio e catalogato inizialmente
come asteroide, avvicinandosi al Sole ha manifestato intorno al 1989 chiari segni di
attività cometaria, mostrando una chioma allungata estesa 10 secondi d’arco; tuttavia,
in prossimità del perielio, sembra sorprendentemente aver interrotto tale attività,
ritornando ad uno stato quiescente di apparenza asteroidale. Attualmente non è noto il
motivo per cui questa attività sia stata rilevata solo su Chirone. Probabilmente questo
corpo è dinamicamente più giovane e quindi più attivo degli altri oggetti. In alternativa
gli altri oggetti potrebbero avere mantelli superficiali più spessi, o semplicemente
potrebbero non essere stati osservati abbastanza a lungo da scoprirne l’attività.
Secondo Stern (1995) le collisioni tra le comete e i detriti più piccoli si
verificano frequentemente e con elevate velocità all’interno della fascia E-K. Tuttavia
la frequenza di collisioni di corpi più piccoli con oggetti più grandi (R > 100 km),
quali ad esempio Eris, è così bassa che appare problematico spiegare come oggetti di
quella taglia abbiano potuto formarsi mediante collisioni binarie nel disco così come
21
oggi lo conosciamo. Alla luce di questa situazione appare probabile che la fascia E-K
attualmente osservata non sia molto rappresentativa dell’antica struttura dalla quale si
è evoluta. Questo suggerisce a sua volta l’interessante possibilità che la fascia E-K che
oggi osserviamo sia il risultato dell’evoluzione erosionale di un disco circumstellare
molto spesso che un tempo circondava il Sole, del tutto simile a quelli presenti intorno
a stelle come Pictoris, Lyrae e Piscis Austrini.
22
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