1 “Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo H. conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando” (E. FLAIANO, Diario notturno) “L’amministrazione è l’aspetto più concreto dello Stato, quello in cui esso si mostra ogni giorno ed a mezzo dell’amministrazione lo Stato interferisce nella vita dei singoli” (COMMISSIONE PER LA RIFORMA DELL’AMMINISTRAZIONE [commissione Forti], La legge generale sulla pubblica amministrazione, 1948) 2. Semplificare, sburocratizzare, comunicare: le frontiere del cambiamento 2.1. L’ipotesi dello Stato “leggero” Nella competizione tra Stati sono diventati decisivi (oltre alla salute dell’economia) alcuni fattori “collaterali”. Primo tra essi il rendimento delle amministrazioni pubbliche: il peso rappresentato da un fisco incapace di far pagare le tasse a tutti e, quindi, oppressivo con quelli che non riescono a sfuggirgli; il freno per lo sviluppo costituito da servizi pubblici inefficienti; il costo aggiuntivo per il sistema produttivo dato da procedure sovrabbondanti e tortuose; l’handicap di una produttività degli addetti inferiore a quella dei nostri partners europei. Tutti oneri di una macchina amministrativa inadeguata, per qualità delle prestazioni, ai costi sopportati dai cittadini e dalle imprese. . Non a caso il tumultuoso processo di riorganizzazione degli apparati pubblici 2 - osservato nelle sue tendenze di fondo - è connotato dall’esigenza di pervenire ad uno Stato “leggero” (che faccia meno cose, facendole meglio) ed insieme più funzionante. Questo tentativo di superare le pesantezze tradizionali della macchina amministrativa si incrocia con la scelta - resa politicamente attuale dalle pressioni verso una dislocazione meno accentrata dei poteri pubblici - di pervenire alla revisione di parti rilevanti della Carta costituzionale. Tutto il processo implica riposizionare le amministrazioni su un diverso asse nei rapporti centro/periferia e nazionale/locale. Ciò in un quadro di sempre più ampia globalizzazione dei mercati e di integrazione dei paesi dell’Unione europea. Punto d’arrivo nel gennaio 2002: l’Europa della moneta unica. Stazioni intermedie: sfoltimento dei compiti dei poteri pubblici, decentramento delle attività amministrative, semplificazione delle procedure. “Merce” da consegnare all’arrivo: uno Stato leggero e, insieme, ben funzionante. Per l’Italia non aver mancato questo appuntamento dell’ingresso nella moneta unica europea è già motivo di grande soddisfazione. In Europa, però, oltre che esserci occorre restarci. Per farlo – anche questo rientra tra le indispensabili ovvietà – il ruolo degli apparati pubblici è fondamentale. Il vero enigma presente in questo intricato puzzle è costituito dall’esigenza inderogabile - anche se non da tutti avvertita - che i poteri pubblici non evaporino del tutto. La progressiva privatizzazione dei grandi servizi a rete ed, in prospettiva, anche delle piccole aziende municipalizzate; la privatizzazione dell’impiego pubblico; il ridimensionamento (previsto) di molti apparati amministrativi sono indubbiamente una risposta necessaria allo Stato ingombrante (ed ingombrato) che ereditiamo da centotrent’anni di storia unitaria. Occorre, però, che l’État modeste (invocato da Michel Crozier anni fa come paradigma dello Stato “moderno”) non diventi uno 3 Stato inesistente. Sarebbe una versione attualizzata delle pubbliche amministrazioni dei primi decenni repubblicani tanto mastodontiche dimensionalmente quanto evanescenti nella capacità di fornire risultati apprezzabili. Occorre, al contrario, capire come “parametrare” al nuovo profilo dimensionale e funzionale dei poteri pubblici una diversa collocazione della burocrazia che non ne sacrifichi in modo irreparabile il patrimonio tradizionale, ma ne innovi l’identità. Il problema ha assunto rilievo (ed urgenza) per due ragioni convergenti: la accresciuta sensibilità sociale in tema di diritti e partecipazione; l’appannamento del ruolo delle burocrazie. Il primo fenomeno si è tradotto in una costante pressione nei confronti degli apparati e dei servizi pubblici; il secondo ha fatto perdurare la tradizionale carenza di dialogo con la collettività. Ai cittadini che chiedono di avere “voce” nell’amministrazione continua a “contrapporsi” un sistema amministrativo poco abituato a dialogare e con scarsi strumenti specifici per comunicare. Alla radice di tale impaccio vi è la tradizionale cultura del controllo che ha pervaso (ed in larga parte pervade ancora) i modelli di comportamento delle burocrazie, alle quali è stata quasi del tutto estranea - fino a tempi relativamente recenti - una cultura del servizio nella quale fosse “incorporata” la capacità di comunicare e dialogare con i cittadini. Il paradosso insito in tale situazione era già stato colto alla metà degli anni Cinquanta da Alcide De Gasperi, il quale osservava: “Per un complesso di ragioni politiche, sociale ed economiche, lo Stato è venuto assumendo nel corso degli ultimi decenni una somma di funzioni che ne fanno in realtà il protagonista della vita collettiva. E’ inconcepibile che in questa condizioni esso, a differenza degli agenti privati, non sia fornito di strumenti di comunicazione con la pubblica opinione”1. I vizi profondi del sistema amministrativo italiano (formalismo esasperato 4 delle procedure, lentezza inusitata delle decisioni, irrazionalità organizzativa, cattiva distribuzione geografica degli addetti, scarsa produttività media) vengono – come si sa – da lontano. Precisamente da quella “stretta accentratrice” avutasi nell’ottobre 1861 e sancita normativamente dalla legge di unificazione amministrativa del marzo 1865. Il modello accentrato di derivazione napoleonica – basato nella capitale sui ministeri ed in provincia sui loro uffici periferici - ha avuto numerosi rimaneggiamenti (soprattutto in età giolittiana e durante il ventennio fascista) senza, però, perdere mai completamente le stimmate originarie. Per oltre cento anni ad un continuo predicare l’esigenza del decentramento facevano da contraltare scelte che confermavano (o, addirittura, rafforzavano) il centralismo amministrativo. Così fino agli anni settanta, allorché la nascita delle regioni a statuto ordinario rese politicamente improrogabile un ampio decentramento di funzioni (e di poteri) alle regioni. La regionalizzazione – avvenuta tra il 1972 ed il 1977 - è stata la prima svolta significativa in un sistema amministrativo che era passato, senza soluzione di continuità, dalla dittatura fascista alla democrazia. Ciò, naturalmente, fu salutato all’epoca con grande entusiasmo ed accese molte speranze di un rapido superamento del vecchio modello di Stato. La svolta – come si è sperimentato nei due decenni successivi - è stata tale soltanto a metà a causa di numerose cause concomitanti. Alle difficoltà di molte regioni di gestire in maniera adeguata i nuovi compiti (segnatamente quelli di programmazione e di coordinamento delle attività affidate agli enti locali) si è aggiunta la tendenza degli apparati centrali dello Stato a “recuperare terreno” attraverso la sotterranea riconquista di attività formalmente passate in sede locale. Con la nascita delle regioni e con il passaggio ad esse di consistenti funzioni 5 amministrative è iniziato un processo che ha avuto la svolta nel 1990 con il nuovo ordinamento locale. Da quel momento il ridisegno dell’amministrazione pubblica è proseguito senza soste. In questo quadro di modifiche continue la legge 59 del 1997 ha rappresentato un evento di rilievo, poiché ha tentato di aggredire i nodi strutturali dell’inefficienza del sistema amministrativo. L’uso, nella legge, del termine “conferimento” implica, di per sé, uno spostamento di visuale rispetto alle riforme degli anni settanta. Nel “modello” Bassanini il criterio della sussidiarietà diventa il punto focale della riorganizzazione delle funzioni pubbliche. “Per la prima volta dopo centotrenta anni – dichiarava il ministro nelle relazione presentata al governo nel giugno 1997 – il Parlamento italiano ha rovesciato il principio fondamentale sul quale si regge il nostro sistema amministrativo. Siamo passati cioè, con largo consenso, da un sistema amministrativo poggiante essenzialmente sull’amministrazione statale a un sistema che, all’opposto, poggia essenzialmente sulle regioni e sulla autonomie locali”. Sulla scorta delle deleghe concesse dal Parlamento c’è stato un intenso lavorio che ha portato all’approvazione sia dei decreti delegati per il trasferimento delle funzioni a regioni ed enti locali, sia delle norme che hanno completato il processo di privatizzazione dell’impiego nelle pubbliche amministrazioni. Nel frattempo, è continuata l’attività di snellimento delle singole procedure e l‘individuazione delle ulteriori semplificazioni da realizzare. Al momento si può dire completata l’opera di impianto delle regole fondamentali. Abbastanza si è fatto per provvedere con norme di dettaglio all’individuazione dei meccanismi sui quali intervenire. Sono, invece, ancora in fase iniziale le trasformazioni operative. La circostanza non deve meravigliare e nemmeno deludere. Il processo di modernizzazione di una macchina complessa come quella 6 amministrativa è necessariamente lungo. I lavori sono in corso: il piano regolatore è stato approvato, la progettazione esecutiva è a buon punto, ora occorre costruire le case. Con l’approvazione dei provvedimenti delegati siamo, ovviamente, soltanto al primo (obbligatorio) passaggio verso lo Stato “leggero” evocato più volte da Franco Bassanini. Altri passi – indispensabili – occorrerà fare. Ma questo è noto, non soltanto agli addetti ai lavori. Si apre una fase delicatissima, nella quale sarà necessario che regioni ed enti locali siano messi in grado di “reggere” l’impatto delle nuove funzioni e gli apparati centrali siano ridisegnati, conferendo loro compiti di indirizzo e coordinamento. Facile da dire, molto meno da fare. Soprattutto perché non mancheranno le controspinte (delle quali si sono già avute delle avvisaglie). Molti enti locali rischiano, infatti, di soccombere al peso delle funzioni da svolgere. Di contro, la possibilità che lo snellimento degli apparati centrali si riveli soltanto fittizio non è del tutto irrealistica. Decisive, in questo passaggio, si riveleranno, da un lato, la “maturità” autoregolativa delle regioni e dei enti locali e, dall’altro, la capacità delle burocrazie statali di non ostacolare il processo di decentramento. L’attenzione ora dovrà essere necessariamente puntata sulla “fase due” del processo di modernizzazione. Il primo passaggio è stato contrassegnato in questi anni (a partire dalla legge-delega varata dal governo Amato) da una forte iniziativa di governo. Abbiamo avuto un periodo “giacobino” nel quale l’esecutivo si è assunto l’onere di predisporre un disegno generale di riforma e sottoporlo alle Camere. Ora occorre ottenere la più alta partecipazione nell’opera di attuazione delle leggi che hanno ridisegnato il sistema amministrativo. Per evitare la resistenza delle burocrazie pubbliche è indispensabile coinvolgerle il più possibile nei processi di modernizzazione. Anche per averne “in cambio” un prezioso contributo di 7 esperienze e di conoscenza. 2. 2. Misurare, confrontare, migliorare 400 milioni di certificati, in buona parte per adempimenti fiscali. Una spesa di 23.000 miliardi. In queste cifre, poco più di un anno fa, Confidustria riassumeva il costo per le imprese dei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Una “tassa occulta” – si è detto più volte – che penalizza il sistema produttivo rispetto a quello di altri paesi. Ma anche – occorre aggiungere – costi, in qualche misura, dovuti per garanzia della legalità. Il mondo delle imprese, non da oggi, lamenta la eccessiva gravosità dei cosi sopportati per far fronte agli adempimenti amministrativi previsti dalle norme. Il presidente di Assolombarda ha indicato, nel 1999, in 150 milioni la spesa sostenuta annualmente da un’impresa medio-piccola per i rapporti con le pubbliche amministrazioni. Alcuni anni fa le stime del centro studi di Confindustria facevano ascendere tali oneri al 2,24% del costo del lavoro. Proprio sulla “misura” (e, quindi, sulla “giusta misura”) dei compliance cost di natura amministrativa (gli oneri sostenuti dai privati per adeguarsi alle norme) che occorre interrogarsi, partendo da un dato e da un apparente paradosso. L’elemento di fatto è costituito dalla scarsa capacità delle amministrazioni pubbliche di assicurare alle imprese ed ai gestori di attività commerciali servizi di efficienza almeno pari a quelli forniti dalle organizzazioni omologhe di altri paesi. E, quindi, di ridurre all’indispensabile i costi sopportati per gli adempimenti amministrativi. Con la conseguenza di creare agli imprenditori un handicap notevole nei confronti dei competitori esteri. Che tale situazioni debba, al più presto, essere modificata è ovvio, poiché 8 costituisce un presupposto per la competitività non soltanto delle imprese, ma del paese. Il paradosso risiede nella circostanza che in Italia i governi hanno impegnato risorse anche cospicue per sostenere le imprese o per incentivare la scelta ad investire. L’intero cinquantennio repubblicano è stato costellato di interventi di varia natura ed efficacia volti a favorire investimenti produttivi. Ciò nonostante, il sistema amministrativo, invece di fungere da elemento di spinta, ha finito per agire come freno allo sviluppo. Colpa, evidentemente, dell’insufficiente rendimento delle amministrazioni pubbliche, più abili a complicare che a semplificare gli adempimenti richiesti alle imprese. Quindi a togliere con una mano quello che dava l’altra. Non a caso, in un’intervista rilasciata pochi giorni dopo l’insediamento del governo D’Alema, il presidente di Confindustria individuava nello sradicamento delle incrostazioni burocratiche uno degli obiettivi che accomunavano l’esecutivo ed il mondo d’impresa. La consapevolezza dell’esigenza di ricalibrare le istituzioni amministrative sembra, al momento, l’elemento che permette di sperare in un cambio di marcia. Due, in particolare, gli aspetti innovativi. Da alcuni anni il mondo d’impresa ha abbandonato le posizioni di totale condanna dell’amministrazione pubblica: le associazioni degli imprenditori hanno avviato un’attiva collaborazione con il Dipartimento delle funzione pubblica, compiendo analisi puntuali sulle richieste e le esigenze delle imprese rispetto al funzionamento degli uffici pubblici. Nel contempo, le regole sono cominciate a cambiare in modo radicale: le modifiche introdotte nella nostra legislazione dalle “leggi Bassanini” hanno inciso sul sistema di adempimenti richiesti alle imprese, attraverso un cospicuo disboscamento normativo. Registrare questi mutamenti è importante, non perché essi abbiano risolto i problemi (che continuano ad essere pesanti), ma perché indicano una inversione di rotta rispetto al passato. Ma non tutto, come è noto, dipende dal centro. La partita si 9 gioca su più tavoli ed il suo esito dipenderà in larga parte proprio dalle scelte delle amministrazioni regionali e locali. Infatti, lo “Stato leggero” prefigurato dalle riforme in corso tende sia a spostare in sede locale la risoluzione dei problemi, sia a diminuire consistentemente il carico complessivo di relazioni tra amministrazione pubblica e privati. Ciò, oltre a ridurre gli obblighi, spinge il sistema sociale e le imprese a rafforzare la loro capacità autonoma. Spinge a fare a meno dello Stato “paterno”. Naturalmente, le riforme non producono automaticamente cambiamento. Deve cambiare l’atteggiamento delle amministrazioni pubbliche e deve modificarsi, nel contempo, l’attitudine degli imprenditori. Meno certificati, procedure più snelle, tempi accorciati – ma anche maggiore sicurezza per le imprese e le persone - favoriscono certamente l’insediamento ed il consolidamento delle attività produttive, non lo producono automaticamente. Sta agli imprenditori cogliere i segnali di cambiamento per decidere le loro strategie di azione. Al riguardo il confronto tra governo, imprenditori e sindacati dei lavoratori sul “patto sociale” ha offerto una conferma tanto degli intendimenti di tutti a lavorare per lo sviluppo, quanto della persistenza di diffuse preoccupazioni. Un’amministrazione che funzioni: nel nostro paese è un auspicio che si avvicina all’utopia. Almeno questa è l’opinione corrente. Al punto da sconfinare in luoghi comuni: tanto abusati quanto difficili da sconfiggere. Che vi siano amministrazioni più funzionanti di altre è circostanza nota. Altrettanto risaputo è che, in alcune parti d’Italia, la qualità media dei servizi pubblici è largamente migliore che in altre. In corridoi contigui di uno stesso ministero o in uffici situati in strade adiacenti di una stessa città vi sono strutture pubbliche molto diverse tra loro per funzionalità 10 ed efficienza Le amministrazioni pubbliche, benché si tenda a dimenticarlo, sono tutt’altro che un unicum. Nella storia del nostro Stato unitario è sempre esistito un “filo rosso” costituito da esperienze di grande efficienza: fu così con il “taylorismo della scrivania”, negli anni Venti, e con la spinta alla meccanizzazione di alcune amministrazioni negli anni Cinquanta. Poi, come è noto, vi sono stati momenti nei quali l’intero sistema pubblico – come, ad esempio, in età giolittiana – seppe rispondere con efficacia alle esigenze di cambiamento della società civile. Anzi, in alcuni casi, le anticipò o ne fu promotore. Le contrapposizioni tra cultura del controllo e cultura del risultato, tra gestione dell’amministrazione intesa come esercizio del potere o come etica del servizio sono una costante delle vicende dei nostri apparati pubblici. E’ che i tentativi di innovazione e di cambiamento sono stati, alla lunga, sempre battuti. Costituiscono da sempre la faccia nascosta della luna. Per capire la ragioni di tale situazione occorre operare una distinzione e fare un’ipotesi. La distinzione è elementare: una cosa sono le amministrazioni che non funzionano, altra cosa sono le burocrazie incapaci e corrotte. Senza buone capacità ed intelligenze gli apparati pubblici funzioneranno sempre male, ma buoni impiegati da soli non producono buona amministrazione. L’andamento delle organizzazioni pubbliche è, infatti, fortemente condizionato da tre fattori: qualità (e quantità) delle leggi, livello della guida politica, status (sociale ed economico) dei funzionari. L’ipotesi “storiografica” è che, a partire dagli anni Settanta, si sia prodotto un rapido degrado, innescato dalla legge sull’”esodo” dell’alta dirigenza nel 1973, dalla inefficienza di molti apparati regionali, nonché dalla esacerbata risposta delle strutture ministeriali alla perdita di funzioni. Negli anni ottanta un comando politico senza altro progetto che la conservazione del potere ha contribuito al declino di funzionalità del settore pubblico (declino non soltanto di efficienza, ma anche di 11 valori etici r professionali). Il tutto mentre le rapide trasformazioni indotte dalle tecnologie e la globalizzazione dei mercati stavano cambiando il mondo ed avevano, più che mai, bisogno di apparati pubblici in grado di assecondare lo sviluppo sociale. Da alcuni anni vi è stata una forte inversione negli indirizzi governativi ed una, conseguente, radicale innovazione normativa, che ancora non si è trasformata in miglioramenti generalizzati della qualità dell’attività delle pubbliche amministrazioni. In siffatta situazione è ancor più meritorio che la sperimentazione, partita in questi anni, sia stata veicolo di un modo diverso di fare (e di essere) amministrazione pubblica. Gli insegnamenti che si possono trarre dalla vicenda sono molteplici: - le norme per estendere i casi di amministrazione efficiente ci sono, si tratta di renderle operanti; - la sperimentazione e l’emulazione si sono dimostrate un’arma vincente; - occorre ridare fiato agli elementi migliori, svecchiando i vertici senza decapitarli; - è decisivo puntare sull’innovazione: tanto valendosi delle tecnologie quanto rafforzando e presidiando funzioni e segmenti innovativi. Il futuro – è stato osservato a proposito delle prospettive di modernizzazione del sistema pubblico – “bussa [….] con insistenza alle porte della fortezza amministrativa"2. L' immagine – ancorché suggestiva – rischia di offrire una visione unilaterale del problema: come se, di fronte a potenti processi di innovazione, soltanto (e tutti) gli apparati pubblici fossero graniticamente immobili. Non è così. L’amministrazione, come si è detto, sta cambiando. In più, al suo interno, sono sempre maggiormente evidenti le diversificazioni tra segmenti che stanno 12 sperimentando il nuovo e pezzi che restano arroccati nella difesa di un vecchio ordine (procedure, atteggiamenti, cultura). E’ un processo in chiaroscuro, certamente. Un mosaico nel quale le vecchie tessere sono difficili da rimuovere e le nuove non sempre si collocano bene. Nel quale è spesso difficile vedere un disegno compiuto (o forse, più semplicemente, il disegno non c’è ancora). Ma il cambiamento c’è ed è palpabile, specialmente se si va a guardare “dal di dentro” come funzionano le macchine. Certe macchine. Cambiamento che avanza faticosamente, con tante contraddizioni. Con ritorni indietro a volte preoccupanti. Con l’ovvia altalena di esaltazioni immediate e delusioni cocenti. Ma c‘è molto fermento, molta voglia di rendere l’amministrazione più vicina ai cittadini ed ai loro bisogni. Cambia il sistema pubblico. Non con le leggi, che da sole non bastano. Ma grazie alle leggi, che permettono di fare o di “stanare” quelli che si oppongono alle innovazioni. Per cogliere il senso dei processi in atto sono indicativi alcuni esempi di trasformazioni in corso. Il progetto di un nuovo modello di scuola, emergente dalle riforme di questi anni, ha come fulcro il principio dell’autonomia. Esso implica, come è noto, capacità di gestire risorse, che verranno assegnate anche sulla base della qualità dell’attività svolta e del numero di allievi che sceglieranno di iscriversi ai singoli istituti. A guidare le istituzioni scolastiche presidi “dirigenti” per i quali è in corso un processo formativo senza precedenti (per ampiezza e per quantità di risorse impegnate). La gestione manageriale delle scuole avrà come controfaccia un’organizzazione periferica del ministero dell’Istruzione più snella. Nel frattempo si stanno mettendo a punto programmi più aggiornati. Il fine ultimo è un sistema scolastico in grado di formare in maniera adeguata i giovani per l’inserimento nel mondo del lavoro. Autonomia, competitività e orientamento ai risultati sono gli elementi chiave del processo di 13 innovazione. Il caso della scuola non è isolato: la “concorrenza” interna al sistema pubblico sta interessando da alcuni anni anche il sistema universitario e la sanità. I risultati sono ancora lontani da un livello medio soddisfacente, ma la strada è quella giusta. Analogamente si può dire per la trasformazione del sistema delle Camere di commercio, avviata negli anni ottanta e giunta a conclusione un decennio più tardi. La (ritrovata) autonomia, un maggiore “peso” delle forze sociali, la responsabilizzazione operativa dell’apparato amministrativo sono i connotati delle camere riformate: oggi esse sono, effettivamente, una delle punte avanzate del sistema pubblico. Un modello di “nuova statualità” che facilita i rapporti tra istituzioni ed impresa. Non a caso sullo stesso terreno si è sviluppato uno dei processi di maggiore interesse delle riforme in corso: la realizzazione dello sportello “unico” per le attività produttive. L’esigenza di pervenire ad uno snellimento delle estenuanti trafile alle quali erano costretti tutti coloro che intendevano iniziare (o modificare o chiudere) un’attività produttiva era inderogabile. Secondo un’inchiesta promossa alla fine del 1998 dall’Anci-Ancitel3, meno del 40% dei comuni aveva attivato lo sportello unico, ma i progetti messi in cantiere prevedono che si arrivi, entro il 1999, ad una quota doppia rispetto all’anno precedente. Anche in questo caso si tratta di un percorso faticoso, del quale si possono tanto enfatizzare le difficoltà quanto indicare i progressi, sia pur lenti. E’ significativo, infatti, che – mentre la metà dei comuni interpellati riconosce di non aver avviato una riflessione sugli impatti organizzativi dell’adozione dello sportello unico – un’analoga percentuale sottolinea l’esigenza che esso dovrà fornire servizi non soltanto amministrativi, ma di consulenza e di 14 marketing territoriale. Come l’innovazione proceda a salti e talvolta anche a tentoni lo dimostra il caso della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani. Altra frontiera “calda” dei rapporti tra amministrazioni locali e cittadini. I dati della Federambiente indicavano, al 1998, una situazione fortemente squilibrata. La percentuale di rifiuti a raccolta differenziata va, infatti dal 27.8% di Ferrara all’1,8% di Palermo, dal 26,4% di Milano al 3,7% di Roma. Assai difforme anche il gradimento dei cittadini. Due su tre gli utenti soddisfatti a livello nazionale, ma con significative differenze per aree: mentre in Emilia-Romagna il loro numero supera l’80% e nel nord-est il 75%, nel sud e nelle isole la quota scende al 57,9%. Nel settore sono stati avviati tentativi per coinvolgere gli utenti. A Padova, in un’azienda speciale del comune (AMNIUP), ogni abitante può portare materiali ricliclabili. In cambio di una determinata quantità di rifiuti si hanno biglietti per il cinema. Ennesima variazione del principio: se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna. Un modo originale di coinvolgere i cittadini, spronandoli ad avere un atteggiamento di maggiore collaborazione con l’amministrazione locale. La logica dell’iniziativa è molto chiara, così come la sua bontà: nessun sistema di controllo riuscirebbe a garantire che tutti separino i rifiuti solidi prima di smaltirli. Occorre utilizzare un tasto diverso: favorire la partecipazione dei cittadini. Per favorire il risparmio delle risorse e la tutela dell’ambiente oggi è necessario offrire incentivi: tra qualche tempo non sarà più necessario. I casi sopra descritti stanno tutti dentro un insieme di regole, tecniche, processi. Le prime sono, sostanzialmente, le norme. Le seconde sono costituite, fondamentalmente, da strumenti operativi (come le reti informatiche) e da una serie di “indicatori” (costi/benefici, misurazione dell’attività, valutazione dei costi). A 15 presidiare l’azione di confronto e analisi vi sono sia “autorità” pubbliche (come l’AIPA) titolari delle funzioni di coordinamento e indirizzo in materia, sia organi (come il CNEL) che hanno attivato gruppi di lavoro per la misurazione dell’attività amministrativa. A ciò si deve aggiungere l’apporto fornito da associazioni o da società di consulenza che, sempre più spesso, analizzano l’andamento dei pubblici servizi (si pensi, al riguardo, ai rapporti annuali del Censis o dell’Eurispes). I processi, naturalmente, sono l’elemento fondamentale nel quale si collocano i tentativi di innovazione. Il nuovo assetto delle amministrazioni regionali e locali, non meno di quelle centrali, fa da sfondo alla sperimentazione. Del pari, l’accresciuta autonomia decisionale dei dirigenti pubblici – unita alla maggiore discrezionalità dei politici nella scelta dei vertici burocratici – è stato un elemento che ha favorito tanto la differenziazione quanto la sperimentazione. Nell’insieme il processo di cambiamento è. In questi ultimi anni, proseguito in modo visibile (almeno agli addetti ai lavori). Una “marcia lenta ma costante”4 nella quale è emersa una duplice modalità di risposta. Molti dirigenti (specialmente negli apparati centrali) continuano a privilegiare la logica della “competenza” (“questo è mio”, o “faccio soltanto quello che mi compete”). Altri – più di quanto si creda (soprattutto in ambito locale) – hanno cominciato a ragionare in termini di risultati e di “prodotti”. La maggiore dinamicità (media) delle amministrazioni locali si spiega con il maggiore impatto dell’attività rispetto alle collettività. La gran parte degli apparati centrali è, al contrario, meno esposta (almeno direttamente) alla pressione dei cittadini. L’inerzia deriva anche da questo fattore. Un elemento di ostacolo alla diffusione di metodi innovativi nelle gestione delle amministrazioni pubbliche è dato dalla stessa necessità di verificare il rendimento dei pubblici dipendenti e l’efficacia della loro azione. “controllare il rendimento – si è 16 detto – produce conflitti”5. Ciò è vero proprio nei contesti organizzativi (come le amministrazioni pubbliche) nei quali si era tradizionalmente affermata l’assenza di meccanismi di valutazione. Di qui non soltanto una serie di tentativi finiti praticamente nel nulla (si pensi alla misurazione dei “carichi di lavoro”), ma anche le difficoltà a far decollare nuovi strumenti come i nuclei di valutazione o gli uffici di controllo interno. Mentre si tenta di calibrarne compiti e modalità di funzionamento sono già molte le critiche che si levano sulla loro reale utilità. 2.3. Far bene e farlo sapere: l’esigenza di comunicare Nei processi di riforma del sistema pubblico le tecniche di controllo e di gestione, nonché i meccanismi di valutazione stanno assumendo un’importanza sempre più ampia. In tale contesto vi è “lo spazio per collocare in una logica funzionale il senso della comunicazione, senza la quale non si fanno servizi utili, non si promuove accesso alle istituzioni e neppure si assicura l’efficacia dei provvedimenti”6. La necessità di affrontare il tema della comunicazione pubblica e istituzionale emerge, infatti, tanto in relazione alle informazioni possedute e/o utilizzate dai poteri pubblici, quanto in rapporto all' esigenza di favorire la partecipazione dei cittadini (consentendo un reale accesso ai documenti amministrativi e fornendo loro informazioni sui servizi resi dalle amministrazioni pubbliche ed in generale sui servizi di pubblica utilità). Sotto il primo profilo basta riflettere sulla circostanza, apparentemente banale, che i poteri pubblici costituiscono - nelle società contemporanee - il più mastodontico bacino di informazioni. Ciò ha molteplici ricadute nei rapporti tra i 17 cittadini e amministrazioni: molte informazioni, riguardando direttamente la sfera personale, necessitano di particolare tutela; nel contempo, il possesso aggiornato di tali informazioni permette ai poteri pubblici di assumere decisioni più mirate; d' altra parte, per gli stessi cittadini, è possibile accedere ad un gran numero di dati in possesso delle amministrazioni pubbliche. Quanto all' esigenza di favorire - attraverso forme di comunicazione promosse e/o gestite dai poteri pubblici - la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica basta rilevare, a titolo puramente esemplificativo, due aspetti. Il principio di accesso ai documenti amministrativi scardina il fondamento della tradizionale segretezza dell' azione amministrativa. La "trasparenza", come principio ispiratore della legge 241, presuppone strumenti organizzatori per renderla operante. La molteplicità delle attività svolte dalle amministrazioni pubbliche, ovvero da gestori di pubblici servizi, è tale da rendere indispensabili specifiche azioni mirate a chiarire ai cittadini: le modalità di esercizio e di fruizione del servizio; la sua estensione (temporale, spaziale, ecc.). Emerge, così, un’esigenza specifica delle amministrazioni pubbliche nel processo di modernizzazione: migliorare il rapporto con i cittadini anche attraverso adeguate azioni di comunicazione. Esigenza che si è modificata di pari passo con l’evoluzione delle funzioni pubbliche. Nella seconda metà dello scorso secolo, allorché lo Stato aveva funzioni essenzialmente “d’ordine”, il problema non si poneva: i pubblici poteri non dialogavano con gli “amministrati” (i “sudditi”), ma esercitavano semplicemente il loro potere di imperium. La comunicazione era, sostanzialmente, unidirezionale e si esprimeva in ordini e divieti con relative 18 sanzioni. Il messaggio implicito era che lo Stato “sorvegliava” perché nulla turbasse il buon andamento del vivere civile. Coerente a tale impianto delle funzioni statali era la quasi totale assenza della comunicazione, in quanto spiegazione dell’operato dei poteri pubblici. Il binomio logico (e normativo) imporre/vietare aveva, infatti, come unico risvolto l’obbligo di garantire l’informazione “legale” delle norme (gazzetta ufficiale, albo pretorio). L’assunzione da parte dello Stato della gestione di alcuni servizi essenziali per la collettività ha mutato il quadro di riferimento. Nei primi tre decenni del Novecento sono nate le aziende di Stato (Ferrovie, Telefoni, Poste) e si sono moltiplicate le aziende municipalizzate a livello locale. La nuova frontiera dell’azione dei poteri pubblici non ha, però, condotto a modifiche sostanziali dell’atteggiamento verso gli utenti dei servizi. Benché emergesse l’esigenza di politiche di comunicazione ed informazione, lo Stato ha continuato ad essere un comunicatore invisibile. O incomprensibile: si pensi alle difficoltà di decifrare i messaggi (scarsi, peraltro) rivolti agli utenti dei servizi di trasporto e di comunicazione. In questa fase il binomio gestione (pubblica) fruizione (collettiva) non ha modificato in modo significativo l’atteggiamento dei poteri pubblici che hanno continuato ad essere un comunicatore assente. Una radicale svolta si è avuta - come è noto - con il fascismo che ha usato in modo massiccio la comunicazione istituzionale come strumento delle politiche di regime. La gestione pubblica (servizi pubblici, assistenza, previdenza) diventava veicolo di “influenza”, mentre la fruizione collettiva (in 19 quel contesto) favoriva il consenso nei confronti dell’azione di governo. L’uso manipolativo dell’informazione di Stato ha, naturalmente, favorito la scelta dei governi repubblicani di tenere bassa (fino alla pratica invisibilità) la soglia della comunicazione istituzionale. Lo spettro del “minculpop” ha impedito lo sviluppo di forme di comunicazione di pubblico interesse. Negli ultimi decenni la prefigurazione - contenuta nell’articolo 98 della Costituzione - di un’amministrazione al servizio dei cittadini ha ulteriormente modificato il ruolo (possibile) della comunicazione nel settore pubblico. Le costanti difficoltà nel tradurre in fatti l’ideale dell’amministrazione “per i cittadini” ha contribuito a mettere questa in “mora”: la collettività chiede in modo sempre più pressante che gli apparati pubblici sappiano fornire informazioni e riescano a facilitare il rapporto tra i cittadini ed uffici pubblici. In breve, che sappiano comunicare. Questa complessiva carenza è determinata dallo scarto tra un fatto (la comunicazione è divenuta una funzione pubblica) e la mentalità complessiva degli operatori pubblici, che non sono per lo più in grado di far fronte a questa esigenza emergente. L’amministrazione non sa comunicare: troppo spesso “dimentica” di farlo, altre volte lo fa male. Corollario di questa situazione è la cattiva stampa di cui godono gli apparati pubblici. Le non rare buone iniziative assunte dagli uffici pubblici non trovano adeguato spazio nei mezzi di comunicazione di massa. La cattiva stampa della quale godono le amministrazioni pubbliche è frutto tanto della loro scarsa funzionalità, quanto della superficialità delle opinioni espresse dai mass-media. Il tutto tende a produrre una spirale perversa: a dispetto di miglioramenti presenti in 20 parti del sistema pubblico e nonostante gli sforzi degli addetti, qualunque esempio di disfunzione dell’amministrazione finisce per riprodurre all’infinito lo stereotipo dell’inefficienza burocratica. Al riguardo occorre chiedersi come mai l’osservazione (giusta) delle disfunzioni delle amministrazioni pubbliche abbia condotto ad un così radicato pregiudizio contro gli impiegati pubblici. E come mai tali giudizi negativi siano quasi sempre così generalizzati. Dall’altro, occorre provare a individuare quali possano essere le strade per invertire la tendenza. Il miglioramento della qualità dei servizi resi, o la semplificazione procedurale di un adempimento, o ancora la maggiore velocità di risposta ad una richiesta (o altro ancora, in combinazione) devono essere, ovviamente, gli elementi di partenza. Altrettanto importante è informare in modo costante ed esauriente i cittadini. Migliorare la soglia della qualità è il presupposto per una comunicazione efficace e convincente. Sia gli studiosi di comunicazione, sia gli scienziati di organizzazione hanno “codificato” i nessi, spesso particolarmente complessi, tra i due aspetti nel rapporto tra far bene e farlo sapere. Formula, di per sé, soltanto definitoria, ma in grado di evocare l’intreccio dei problemi. Se si assume tale schema logico come punto di arrivo del ragionamento, si può provare ad indicare – in via del tutto esemplificativa – due tipi di presupposti: la cause dell’immagine degradata delle burocrazie pubbliche e del funzionamento degli apparati; gli elementi sui quali intervenire per migliorare il giudizio degli utenti nei riguardi del sistema pubblico. Le prime – nell’immaginario collettivo – sono, fondamentalmente, l’inamovibilità e l’irresponsabilità dei funzionari, nonché il carattere “monopolistico” di gran parte delle funzioni pubbliche. La sicurezza del “posto fisso”, il fatto di non 21 essere chiamati a rispondere dei risultati dell’attività svolta, la consapevolezza della mancanza di alternative per il cittadino hanno come conseguenza la scarsa produttività e la insoddisfacente qualità delle prestazioni dei dipendenti pubblici. Questi elementi sono stati largamente messi in discussione dalle riforme amministrative degli ultimi anni. Dalla legge 241 del 1990 che ha determinato l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di indicare i responsabili dei procedimenti ed ha fissato anche termini per la loro conclusione. Alla riforma del pubblico impiego del 1993 (e le successive modifiche) che ha introdotto con forza il principio della responsabilità gestionale per i dirigenti pubblici, inserendo anche elementi per la valutazione delle prestazioni degli impiegati. Dalla direttiva del 1994 con la quale è stato fissato l’obbligo per i gestori di pubblici servizi di emanare le rispettive “carte dei servizi”, vere e proprie forme di obbligazione con determinazione degli standards qualitativi delle prestazioni. Alle norme che cominciano a rendere possibile l’uso di incentivi economici significativi a favore di coloro che lavorano di più e meglio. E non si tratta soltanto di principi e regole fissati nelle leggi. Molti passi avanti sono stati fatti – particolarmente negli enti locali – nella concreta attività quotidiana. I comportamenti effettivi di molte amministrazioni pubbliche (o di segmenti di esse) sono cambiati. A volte in modo radicale. La circostanza, ovviamente, rafforza – anziché eliminare – l’esigenza di chiedersi come mai ciò non si sia tradotto (o si sia tradotto in maniera marginale) in miglioramento delle “quotazioni” delle amministrazioni pubbliche. Al riguardo, gli elementi sui quali è utile interrogarsi sono tre. Il primo è dato dalla persistenza di un forte scarto tra livelli medi di funzionalità degli apparati pubblici e percezione collettiva. Esso, a sua volta, tende a perpetuare la tendenza 22 alla generalizzazione nei giudizi da parte degli utenti. Entrambi, inoltre, sono facilitati dal deficit di capacità di comunicazione da parte delle amministrazioni pubbliche. I tre aspetti sono, ovviamente, connessi. Il primo è determinato, in larga parte, dalla natura stessa del “luogo comune”, tanto più difficile da debellare, quanto più ha radici nel sentire collettivo. L’abuso di giudizi generalizzanti si spiega, a sua volta, come prodotto di pigrizia mentale ed, insieme, come frutto di osservazione superficiale. Infine, le carenze nella comunicazione da parte delle amministrazioni pubbliche dipendono, come è noto, da fattori molteplici: incertezza nelle politiche di comunicazione, conseguenti difficoltà a definire strategie, problemi di caratura professionale, comunicazione, poca attitudine scarsa cultura (ed del abitudine) marketing, a confezionare insufficiente prodotti distinzione di tra comunicazione politica e comunicazione di servizio. Provare a ragionare sulle connessioni tra “opacità” dell’immagine delle burocrazie, persistenza di stereotipi e livelli di funzionalità delle amministrazioni pubbliche può, forse, contribuire a capire – in una fase di intensa trasformazione del sistema amministrativo – quali strumenti e quali strategie adottare per migliorare il rapporto (non facile) tra cittadini e pubblici poteri nel nostro paese. Come pura indicazione di massima si può sottolineare l’esigenza di tener conto di due elementi. Da un lato delle crescenti aspettative dei cittadini e delle imprese (sia come singoli sia in forma organizzata): la customer satisfaction come presupposto e obiettivo dell’attività dei pubblici servizi. E, parallelamente, della progressiva scomparsa del carattere “autoritativo” delle attività pubbliche e della conseguente (seppur tendenziale) parificazione tra cittadini e pubblici poteri. L’esigenza, in altri termini, di 23 far scendere lo Stato dal “piedistallo” come tratto caratteristico del nuovo rapporto tra amministrazioni e cittadini. . Per i pubblici funzionari l’impatto con i problemi posti dalla trasformazione dell’amministrazione comporta – in termini di recupero di immagine – una forte capacità di rinnovamento. Tre le frontiere sulle quali far valere una dimensione professionale che rinnovi il profilo delle dirigenze pubbliche. Frontiere definibili in tre endiadi: identità/ruolo, identificazione/visibilità, appartenenza/consapevolezza. Ognuna di esse rinvia, evidentemente, ad una capacità. Rispettivamente: saper essere – sulla base della qualità delle prestazioni fornite – uno degli “attori” del cambiamento in corso nell’amministrazione; essere “riconosciuti” come soggetti attivi della trasformazione; fare e saper essere “corpo”. Recuperare identità è, infatti, processo strettamente connesso all’esigenza di rivendicare autonomia ed alla correlata necessità di assicurare responsabilizzazione. E’ questo il circuito dal quale può emergere la capacità di collaborare in modo attivo alla riuscita dei tentativi di modernizzare il sistema amministrativo nel nostro paese. In tale contesto gli sforzi condotti dalla pattuglia di coloro che occupano gli avamposti della comunicazione negli apparati pubblici hanno avuto qualcosa di eroico. Sono a diverse migliaia gli operatori che - tra Uffici stampa ed Uffici relazioni con il pubblico - presidiano il settore vitale del contatto diretto tra amministrazione, cittadini e mezzi di comunicazione di massa. La crucialità del loro ruolo è tanto evidente che non occorre sottolinearla. Può essere utile ribadire come - nel reticolo delle ipotesi di modernizzazione del settore pubblico - le funzioni di comunicazioni abbiano un rilievo primario per il risultato complessivo dell’operazione. Né pleonastico sembra il richiamo ad un elemento di elevata criticità costituito dall’incertezza che si avverte nei pubblici dipendenti. In particolare i dirigenti - 24 chiamati ad una più incisiva partecipazione - sembrano in larga parte smarriti e poco inclini ad occupare gli “spazi” che le norme offrono. Più preoccupati che decisi a fornire i contributi che la situazione di trasformazione esige. A rendere ancora l’orizzonte della comunicazione pubblica è l’assenza di un riferimento normativo che configuri meglio le funzioni delle strutture di comunicazione (URP, uffici stampa) e, soprattutto, che focalizzi in maniera più articolata le figure professionali necessarie per il loro funzionamento. Il tutto in presenza di una crescente domanda da parte dei cittadini, innescata proprio dalle iniziative meritorie sviluppate in questi ultimi anni da numerose amministrazioni pubbliche. Di fronte alla accresciuta pressione sociale, nonché di fronte all’obiettivo bisogno di legittimazione di tutti coloro che - a volte in modo pionieristico e volontaristico - hanno aperto una breccia di dimensioni consistenti nella tradizionale separatezza degli apparati pubblici rispetto ai cittadini ed alle loro esigenze, la perdurante mancanza di una legge-quadro sulla comunicazione pubblica costituisce indubbiamente un fatto grave. Gli uffici relazioni con il pubblico (dove esistono) sono un avamposto delle amministrazioni pubbliche e (dove funzionano bene) anche un reale interlocutore dei cittadini. Ma la loro diffusione è ancora troppo limitata: secondo i dati del dipartimento della Funzione pubblica (risalenti alla metà del 1997) essi erano stati istituiti, in meno del 15% degli apparati pubblici, con la consueta disparità territoriale (oltre il 50% nel Nord). Alla limitata diffusione degli uffici si aggiunge un aspetto particolarmente preoccupante (nonché indicativo della mentalità con la quale il problema viene affrontato): ben il 40% delle amministrazioni che aveva provveduto ad istituire l’ufficio di relazione 25 con il pubblico non ha adottato alcuna misura di pubblicizzazione dell’iniziativa. I rischi insiti in una situazione del genere sono evidenti. Li ha sottolineati, nel marzo scorso, il ministro per la Funzione pubblica, Piazza, il quale – dopo aver sottolineato che agli URP è affidato nell’amministrazione pubblica “quel medesimo delicato compito di raccordo che nell’azienda privata si sviluppa tra il settore commerciale e il settore della produzione” – ha osservato: “il processo di istituzione degli URP, infatti, procede in modo lento. Molti uffici riescono a malapena a fornire informazioni e a ‘facilitare’ il rapporto con i cittadini. sporadiche sono le attività rivolte all’analisi e alla ricerca sulle esigenze degli utenti. Rara è la capacità di promuovere campagne di ‘servizio’”7. La preoccupata analisi lascia aperto il campo a molte incognite. In primo luogo è plausibile pensare che la spinta iniziale (dovuta alle norme del decreto legislativo 29 del 1993) sia destinata ad esaurirsi. In secondo luogo gli uffici relazioni con il pubblico si trovano nella scomoda posizione di ricettori delle lamentele dei cittadini senza adeguata possibilità di incidere sull’andamento dei servizi. Se gli URP non riusciranno ad assumere un ruolo effettivo nel favorire il miglioramento degli standards operativi delle pubbliche amministrazioni, rischia di colare a picco tutto l’impianto delle riforme tese a rendere trasparente l’attività dei pubblici servizi. Le due gambe sulle quali esso deve camminare sono, infatti, una di tipo procedurale (garantito dalle norme della legge 241 del 1990) ed una di tipo strutturale, costituita da uffici che 26 sappiano essere interfaccia reale tra domande dei cittadini e risposte (in termini di risultati) dell’organizzazione pubblica. Se cade il baluardo costituito dagli URP, il processo di innovazione subirà impacci notevoli e forse subirà una definitiva battuta di arresto. La crescita professionale di quanti lavorano in strutture di comunicazione pubblica (URP, uffici stampa) e la selezione di quanti vi accederanno nel prossimo futuro è, con tutta evidenza, un fattore decisivo. Si tratta di un problema di non facile soluzione che deve contemperare due esigenze: riconoscere ruolo e competenza professionale di coloro che già operano in strutture di comunicazione (si stima che siano tra i 15 ed i 20 mila), fornire “certezze” sui requisiti professionali necessari a svolgere tali attività. Occorre, quindi, valutare e valorizzare competenze esistenti e, contemporaneamente, fissare “profili” professionali nei quali inserire tutti quelli che fanno (o dovranno fare) comunicazione. Occorre, altresì, prendere coscienza che le pubbliche amministrazioni necessitano di professionisti della comunicazione. Cruciale, al riguardo è il raccordo con le università in molte delle quali si è avuto un forte sviluppo di corsi e facoltà indirizzati a queste professioni. Non meno importante - tanto per chi già è nell’amministrazione quanto per quelli che stanno per entrarvi - è l’azione formativa. Che deve essere mirata e non generica e deve tendere a specializzare quadri ed operatori. 27 2.4. linguaggio e potere: oscurità delle leggi e del lessico burocratico Montesquieu – nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois - ammoniva: “le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia”8. L’osservazione è una metafora dell’essenza stessa del potere e del rapporto tra questo ed i cittadini. Il tema - come è noto - ha continuato a riproporsi nel tempo: Lenin auspicava uno Stato nel quale potesse governare anche la cuoca; nel lessico dei nostri anni la “casalinga di Voghera” è assurta ad emblema estremo del cittadino “medio” al quale va commisurata la comunicazione pubblica. Ciò, da un lato, conferma quanto profondo sia stato (e sia) il solco tra istituzioni e cittadini e, dall’altro, conduce a chiedersi quali siano i “codici” specifici della stesura dei testi legislativi. E per quali ragioni essi siano, normalmente, poco comprensibili e, spesso, inutilmente complicati. In generale, esiste un rapporto preciso tra chiarezza delle norme e livello di fiducia tra legislatore, da un lato, e giudici e funzionari, dall’altro. La “diffidenza” degli estensori delle norme verso i suoi interpreti, conducendo ad un’esagerata minuziosità, determina un circolo vizioso, il cui risultato ultimo è l’esasperazione dei vincoli contenuti in ogni disposto legge. Peraltro, la richiesta di stringere le maglie delle norme può anche provenire dagli stessi interpreti. In Italia, ad esempio, il fenomeno è stato favorito dalla tendenza delle burocrazie pubbliche a mettersi al riparo dalle pressioni politiche predisponendo esse stesse, negli uffici legislativi dei ministeri, norme di dettaglio che riducessero gli spazi interpretativi e rendessero “obbligata” una attuazione automatica della legge. La certezza del diritto (principio 28 cardine degli ordinamenti moderni) si è tramutata spesso in un groviglio fittissimo di prescrizioni legislative, per loro natura di difficile modifica. E, quindi, in una tendenziale paralisi operativa delle amministrazioni pubbliche. Leggi confuse e scritte male, quindi, come causa di un disordine normativo giunto a livelli di evidente gravità. Particolare incidenza ha, tale fenomeno, sulla legislazione amministrativa. L’entità del fenomeno si può, a titolo di puro esempio, desumere da due importanti leggi tese alla razionalizzazione degli apparati pubblici: la legge 23 ottobre 1992 n. 421 e la legge 24 dicembre 1993 n. 537. La prima benché composta di pochi articoli - ha un impianto estremamente articolato, con prescrizioni minutissime e particolareggiate, al punto che il solo articolo 2 (relativo al pubblico impiego) occupa circa 6 pagine della Gazzetta ufficiale. Circostanza ancor più significativa se si tien conto che - trattandosi di una legge di delega - le norme si limitano ad indicare criteri direttivi. A sua volta la legge 537 del 1993 (Interventi correttivi di finanza pubblica), collegata alla “legge finanziaria” del 1994, è composta di 17 articoli e ben 331 commi. La legislazione (in particolare quella amministrativa) è divenuta - come hanno evidenziato, con analisi comparate, numerosi giuristi sempre più caotica. Fonte, quindi, di inevitabili sovrapposizioni normative e di crescente contenzioso, derivante dalla non facile interpretazione dei testi. Il fenomeno ha, naturalmente, riflessi immediati sul “lessico” burocratico. Di fronte alla impronta vagamente sociologica di molte leggi ed alla crescente tortuosità delle norme legislative i funzionari reagiscono, rifugiandosi in paradigmi di scrittura ancorati a schemi “tradizionali”. Tutto ciò favorisce forme di linguaggio a “circuito chiuso “ nelle quali gli unici veri danneggiati sono i componenti della collettività. Se l’oscurità delle leggi colpisce in maniera soltanto mediata e indiretta i cittadini (ovvero, il danno immediato riguarda un numero solitamente circoscritto di 29 persone), la poca comprensibilità dei “messaggi” delle amministrazioni pubbliche si traduce in un quotidiano disagio per una larga fetta della società civile, poiché le comunicazioni predisposte dalle amministrazioni pubbliche pervengono direttamente alla quasi totalità dei cittadini. Dal bando di concorso, alla multa, dalla bolletta telefonica ai modelli per il pagamento delle imposte, sono assai poche le forme di comunicazione dirette ai cittadini sufficientemente chiare ed, insieme, esaurienti. Al riguardo poco importa, naturalmente, che esse vengano da un organo dello Stato come il ministero delle Finanze o da una società per azioni come TELECOM, poiché in entrambi i casi sono il riflesso di una pubblica funzione e, rispetto ad essa, i cittadini hanno eguale diritto di pretendere chiarezza e semplicità. Data la vastità delle comunicazioni provenienti da soggetti pubblici (o esercenti pubblici servizi) la chiarezza si presenta, in sintesi, come un vero e proprio diritto “di cittadinanza”. Al riguardo è auspicabile che in Italia si segua l’esempio degli USA, che hanno - in ben 37 dei 51 Stati dell’unione - norme che fissano livelli minimi di leggibilità delle leggi e delle altre comunicazioni dei poteri pubblici indirizzate ai cittadini. Dato per assodato che la comprensibilità del linguaggio dei pubblici poteri è un aspetto cruciale per migliorare i rapporti Stato/cittadini, ne deriva - come conseguenza - che la capacità di “parlar chiaro” delle amministrazioni pubbliche è un elemento fondamentale della loro credibilità. La chiarezza del linguaggio dei pubblici poteri è, essa stessa, uno degli standards qualitativi del loro agire. Le amministrazioni si giudicano, principalmente, da quel che fanno e da come lo fanno. Ma anche da come riescono a dar conto di quello che fanno. E’ innegabile che le pubbliche amministrazioni in Italia abbiano avuto (nel loro insieme) notevoli difficoltà ad adottare canoni di comunicazione adeguati alle esigenze della collettività. Il panorama è, negli ultimi tempi, in rapido mutamento. Ciò 30 nonostante, vale ancora la pena di interrogarsi sulle ragioni che hanno prodotto la tradizionale “chiusura” del linguaggio delle burocrazie. Le ragioni di tale fenomeno sono, sostanzialmente, di due tipi e rinviano, rispettivamente, alle logiche “autoritarie” dei pubblici poteri ed alle basi culturali delle burocrazie pubbliche. Il problema dello stile burocratico in Italia è stato fino ad ora largamente sottovalutato anche a causa della tradizionale “separatezza” dell’amministrazione pubblica rispetto ai cittadini, visti più come “sudditi” che come soggetti con i quali i poteri pubblici devono interagire in maniera paritaria. Il linguaggio oscuro è stata una delle conseguenze “logiche” di un’amministrazione autoritativa. A funzioni di “controllo” degli amministrati si addiceva un vocabolario per “iniziati”. Il basso livello di comprensione dei messaggi prodotti dagli uffici pubblici ha ricevuto, peraltro, indiretta legittimazione dal principio - vigente sostanzialmente fino a pochissimi anni fa nel nostro paese - della segretezza pressoché totale degli atti amministrativi. La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Di fronte ad un precetto normativo poco chiaro, il funzionario che deve predisporre una circolare o inviare una comunicazione scritta ad un cittadino tende a riprodurre - rendendole spesso ancor più oscure - le espressioni contenute nelle leggi. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità. La burocrazia è “tardigrafa” (secondo la penetrante espressione usata da Massimo Severo Giannini nel suo Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione) perché ciò è coerente con i modelli di organizzazione dell’attività. Soltanto se si incide profondamente su questi, sarà ipotizzabile anche pervenire a modelli di comunicazione (scritta, in questo caso) meno oscuri. 31 La “mentalità” autoritativa è l’altra causa dell’oscurità del linguaggio burocratico. Al riguardo si può ritenere fondato che i meccanismi di comunicazione della burocrazia obbediscano ad un preciso precetto: è bene che poche sappiano, che pochi capiscano. Sociologicamente tale atteggiamento è spiegabile con la sensazione dei funzionari pubblici di essere divenuti il “capro espiatorio” della crisi di funzionalità dei servizi pubblici. La burocrazia si sente sempre più tallonata dai cittadini e non può più far valere la tradizionale “superiorità” dell’amministrazione sugli “amministrati”. In secondo luogo, i funzionari scrivono avendo come universo di riferimento le norme (il “diritto positivo”) nelle quali la vita quotidiana dei cittadini - o, meglio, degli “amministrati” - ha un ruolo meramente accidentale. L’origine di tale mentalità è nella progressiva separatezza della burocrazia dalla società e nell’abitudine inveterata a muoversi negli oscuri meandri dell’amministrazione. A differenza dei funzionari francesi ed inglesi, che scrivono per il popolo - osservava Antonio Gramsci9 - quelli italiani scrivono per i loro superiori. Questo aspetto è, evidentemente, denso di implicazioni. Non vi è dubbio, infatti, che lo specialismo del linguaggio usato dalla burocrazia non può essere valutato alla stregua di uno dei tanti linguaggi “tecnici” di cui si nutrono le scienze. Questi sono giustificati perché diretti esclusivamente (o quasi) agli addetti ai lavori. Hanno, quindi, la funzione di dotare di astrazione e precisione analitica una comunicazione “interna”. Molto diversa è la questione, ovviamente, quando ci si rivolge alla generalità dei cittadini. Ancor più se essi hanno l’obbligo di “comprendere”. E’ quest’obbligo che fa nascere il diritto (speculare) alla comprensibilità. E, quindi, il dovere, per chi si rivolge ai cittadini-utenti, di usare un linguaggio chiaro. 32 In questa chiave l’iniziativa - assunta dal Dipartimento della Funzione pubblica nel dicembre 1993 - di enucleare le direttrici di un Codice di stile per le comunicazioni scritte in uso nelle pubbliche amministrazioni è stata certamente importante. Benché non privo di pecche (soprattutto perché sembrava tesa ad “imporre” ai funzionari una “nuova grammatica”), il tentativo è lodevole, poiché si connette strettamente alla filosofia generale delle riforme di questo scorcio di decennio: dare centralità al cittadino ed ai suoi diritti nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Se i funzionari pubblici cominceranno ad usare un linguaggio più comprensibile, si saranno fatti importanti passi avanti verso una concezione autenticamente democratica del ruolo degli apparati amministrativi. L’uso di modelli di comunicazione meno oscuri va vissuto dai funzionari pubblici come un “dovere morale” verso se stessi. E’ un modo per riprendersi una dignità fortemente intaccata dalla opinione corrente che i pubblici dipendenti siano, senza esclusione, dei perdigiorno. Su questo terreno nulla può sostituire, evidentemente, la capacità autonoma e l’azione della burocrazia tese a ripristinare un suo maggiore prestigio sociale. Si tratta di un percorso certamente non facile e, oltretutto, di non breve durata. Ma è l’unico percorribile. . 1 Citato in S. ROLANDO, Un’altra idea di questo Stato, Genova, Costa e Nolan, 1996, p. 34 M. FEDELE, Come cambiano, cit. p. 114 3 Ne dava notizia R. GALULLO, Due Comuni su tre ignorano l’impresa, in “Il Sole 24 Ore” del 2 novembre 1998 4 Così M. ROGARI, Un terzo della riforma giunto in porto, in “Il Sole-24 Ore”, 26 ottobre 1998 5 S. ROLANDO, La capitale umorale. Note su Milano e la Lombardia, Milano, Edizioni Milano metropoli, 1998, p. 39 2 33 6 S. ROLANDO, La capitale umorale, cit., p. 71 Cfr PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Dipartimento per l’informazione e l’editoria – Dipartimento della funzione pubblica, URP 12, marzo 1999, p. 5 8 MONTESQUIEU, Le leggi della politica (a cura di A Postigliola), Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 515 9 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere (a cura di V. Gerratana) , Torino, Einaudi, ……………….. 7