Quaderni di astronomia 2

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‹ quaderni di astronomia ›
2
SEMPRE
PIÙ LONTANO
Dall’esplorazione di Marte
alle onde gravitazionali
a cura di
PIERO BIANUCCI
SOMMARIO
‹ quaderni di astronomia ›
Introduzione
ANNI 2000: IL BIG BANG DELL’ASTRONOMIA
Sezione 1
PIANETI A PERDITA D’OCCHIO
La storia dell’acqua su Marte
Otto modi per andare alla conquista di Marte
Giove: svanisce il mito della Grande Macchia Rossa
Su Giove e Saturno piovono diamanti?
Rosetta e la cometa, ultimo atto
La prima visita di una sonda a Plutone
Famiglie di transnettuniani
Esopianeti con le future sonde Cheops e Plato
Sezione 2
LUCI DALL'UNIVERSO
Nuova stella nella costellazione del Delfino
Prima le stelle o le galassie?
Quei mostri voraci di stelle
Sezione 3
QUANTI UNIVERSI? INFINITI, NATURALMENTE
L’universo, cent’anni di crescita vertiginosa
Radiazione gamma, messaggi dal “fondo”
Multiversi, cammelli e fiocchi di neve
I 7 grandi enigmi dell’universo
Universo estremo, i record al di là dell’immaginabile
Ritratto dell’universo da bambino
Storia di una scoperta dal cinguettio alla certezza
Onde gravitazionali, la caccia si sposta nello spazio
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‹ INTRODUZIONE ›
ANNI DUEMILA
IL BIG BANG DELL’ASTRONOMIA
C
he la produzione scientifica
cresca in modo esponenziale con un raddoppio ogni
pochi anni è noto dalla metà
del secolo scorso. Lo scoprì
l’inglese John De Solla Price (19221983), studioso dell’informazione,
allineando tutti i volumi della prima rivista accademica moderna,
gli Atti della Royal Society, dal 1665
al 1850. Lo spazio occupato dalle
annate nello scaffale di John Price
mostrava chiaramente la crescita
vertiginosa. Price ne dedusse che le
conoscenze scientifiche hanno uno
sviluppo esponenziale, ed era vero:
senza saperlo aveva fondato una
nuova scienza che si chiama “scientometria”. Cioè la disciplina che studia la quantità e soprattutto la qualità della produzione scientifica.
Il numero degli astronomi e astrofisici oggi in attività supera quello
di tutti i loro colleghi vissuti fino
alle soglie del 2000. Quindi, rispetto alle altre scienze, astronomia e
astrofisica non fanno eccezione:
anche in questo campo la produzione di scoperte e nuovi studi aumenta esponenzialmente.
“le Stelle” insegue la ricerca cercando di selezionare gli eventi più
importanti. Ogni tanto però è utile,
anzi, necessario, allungare lo sguardo oltre l’orizzonte della cronaca e
tentare una panoramica più ampia.
Fare un bilancio, per quanto provvisorio. È quanto facciamo in questo
“Quaderno” dopo avere sfogliato
gli ultimi cinque anni della raccolta
del mensile “le Stelle”, stando attenti non solo alle conquiste fatte ma
4 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
anche ai progetti futuri destinati a
portare nuove conoscenze.
Il panorama senza dubbio non può
essere completo. Essenzialmente,
l’idea è di offrire al lettore alcune
linee di tendenza della recente ricerca astronomica, che spesso è intrecciata con l’astronautica e con le
tecnologie estreme applicate nelle
sonde spaziali.
Siamo partiti da casa nostra, cioè
dal Sistema solare. Il primo incontro è con Marte, intramontabile
enigma e meta obbligata della prossima esplorazione spaziale da parte di un equipaggio di astronauti.
Dai pianeti si passa alle stelle. Nella
vastissima offerta dei temi disponibili, abbiamo dovuto limitarci a
pochi casi curiosi ma senza rinunciare a quell’ultimo fascinoso stadio dell’evoluzione stellare che è
rappresentato dai buchi neri.
Il “Quaderno” si conclude, come logica esige, con la cosmologia. È qui,
probabilmente, che si stanno facen-
do i progressi più travolgenti. La
radiazione cosmica di fondo misurata con altissima precisione dal satellite europeo Planck ha permesso
di verificare e precisare il modello
standard del Big Bang nella sua versione inflazionaria. Le onde gravitazionali per la prima volta registrate
con l’antenna interferometrica
LIGO hanno aperto una nuova finestra sul cosmo. Ma ancora più sconvolgenti dei primi istanti del cosmo
sono le ultime teorie che ci parlano
di “multiverso”, cioè di grappoli di
universi che, germogliando da instabilità quantistiche, si perdono in
numeri immensi, inimmaginabili.
Basti dire che certe versioni della
teoria delle superstringhe prevedono l’esistenza di 10 elevato alla
500 universi. Per rendersi conto di
quanti siano, ricordiamo che l’universo noto contiene complessivamente “solo” 10 elevato alla 82 particelle elementari.
Piero Bianucci
‹ SEZIONE 1 ›
PIANETI A PERDITA D’OCCHIO
C
inquant’anni fa, quando lo
“Sputnik” aprì l’era dei satelliti artificiali (3 ottobre
1957), i pianeti del Sistema
solare erano dischetti sui
quali anche con i migliori telescopi
si distinguevano pochi particolari: quasi niente su Mercurio, nubi
globali su Venere, calotte bianche
e ombreggiature su Marte, fasce
chiare e scure su Giove e Saturno,
sfumature verdi e azzurrine su Urano e Nettuno. A buon diritto i pianeti del Sistema solare facevano parte
dell’astronomia. Un’astronomia in
gran parte misteriosa.
Poi sono arrivate le sonde spaziali.
Tutti i principali corpi del Sistema
solare, compresi asteroidi, comete
e più di cento satelliti, sono stati
fotografati da vicino ad alta o altissima risoluzione. Oggi la superficie
di questi corpi, quanto a profondità delle nostre conoscenze, può
tranquillamente rientrare nella
geografia.
Sempre cinquant’anni fa si dubitava persino che altre stelle oltre
al Sole potessero avere dei pianeti. Una nuova tecnica nel 1995 ha
permesso a Michel Mayor e Didier
Quéloz di scoprire il primo pianeta
extrasolare intorno alla stella 51 Pegasi. Questa e altre tecniche più efficienti in una ventina di anni hanno
fatto salire a più di cinquemila il numero degli esopianeti individuati.
Alcuni sono abbastanza simili alla
Terra per dimensioni e ambiente.
Si è così aperta una possibilità di ricerca mirata di forme di vita aliena
e di eventuali segnali intelligenti in
arrivo dallo spazio.
Un’altra opportunità offerta dalla
scoperta di tanti pianeti è quella di
capire meglio la formazione dei sistemi planetari e di estendere il concetto di “pianeta”. La casistica oggi
nota di cinquemila esopianeti (alcuni alquanto più massicci di Giove,
altri con massa terrestre, roventi e
gelidi, gassosi e rocciosi, vicinissimi
o lontani dalla loro stella) è destinata
ad ampliarsi enormemente nei prossimi anni. Succede in planetologia
qualcosa di simile a ciò che avvenne quando dal Cinquecento in poi,
con le grandi esplorazioni, il numero
delle specie animali note crebbe in
modo impressionante.
In questo “Quaderno” sono raccolti
alcuni articoli che riportano gli ultimi progressi nella conoscenza del
Sistema solare, dall’enigma dell’acqua di Marte, allo svanire della Macchia rossa di Giove, dal bilancio della missione “Rosetta” intorno alla
cometa Churyumov-Gerasimenko
all’osservazione ravvicinata di Plutone offerta dalla missione americana “New Horizons”, fino alle future
missioni per scoprire nuovi esopianeti. Senza dimenticare che, dopo
le sonde, nell’esplorazione del Sistema solare ora tocca direttamente
ad equipaggi umani. Naturalmente
incominciando da Marte.
Foto: NASA/JPL-Caltech
‹ quaderni di astronomia n.2 › 5
‹ SEZIONE 1 ›
1
STORIA DELL’ACQUA
SU MARTE
L
a NASA “ha scoperto acqua
su Marte” così tante volte
negli ultimi vent’anni che
alcuni editori hanno proibito ai loro autori di ritornare
a parlare dell’argomento. L’acqua
su Marte, oggi, si trova facilmente:
è possibile anche con un piccolo
telescopio. Le bianche calotte polari sono fatte anche di acqua ghiacciata, come pure sono costituite da
cristalli di ghiaccio le deboli nubi
biancoazzurre. Di fatto, l’acqua si
trova ovunque nel Sistema solare.
Le lune dei pianeti esterni sono fatte soprattutto di ghiaccio d’acqua,
come pure le comete e gli oggetti
trans-nettuniani. L’acqua è chimicamente legata nei minerali che
compongono gli asteroidi e nelle
rocce dei pianeti.
C’è pure acqua ghiacciata sulla superficie della Luna e di Mercurio.
Ma se l’acqua è comune, perché allora siamo affascinati dall’acqua su
Marte?
Il fatto è che la maggior parte delle
persone non è molto interessata
all’acqua ghiacciata, all’acqua legata ai minerali, all’acqua ad alta pressione racchiusa sotto spesse croste
di ghiaccio. A noi interessa l’acqua
liquida che scorre, fa vortici, si accumula, erode, scioglie minerali,
facilita le reazioni chimiche. Oltre
alla Terra, Marte è l’unico luogo
dove l’acqua ha fatto praticamente
tutte queste cose: scorrere, nevicare, erodere colline, riempire bacini,
supportare la chimica, compattare
sedimenti in rocce. Queste rocce
sedimentarie conservano l’eviden-
6 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
Quante volte la NASA ha scoperto
l’acqua su Marte? Vediamo di fare un po’
di chiarezza. È importante capire perché
oggi la superficie del pianeta appaia
così arida
La superficie di Marte è oggi un arido deserto. Ma 3 miliardi di anni fa dovette essere coperta
da grandi bacini di acqua, soprattutto nell’emisfero nord, come illustrato in questa figura.
1
La storia dell’acqua su Marte
za che miliardi di anni fa l’acqua era
molto attiva su Marte.
Ma poiché Marte non è la Terra,
nascono alcune domande cruciali.
L’acqua liquida su Marte persistette
per milioni di anni o più sotto forma di mari od oceani? La sua presenza diede la possibilità alla vita
di nascere e, per un certo periodo,
svilupparsi? Se l’acqua liquida fu
persistente su Marte, e non si trova evidenza di vita da quelle parti,
cosa significa? Queste domande
hanno motivato la moderna esplorazione marziana.
NEANCHE UNA GOCCIA
DA BERE
Al giorno d’oggi Marte, freddo e arido, è un pianeta inospitale. La sua
pressione atmosferica è così bassa
(meno dell’1% di quella terrestre al
livello del mare) che l’acqua in un
contenitore aperto sulla sua superficie evaporerebbe prima ancora di
tramutarsi in ghiaccio. Ma l’acqua
può essere trovata quasi dappertutto su Marte, non solo sulle calotte polari.
La maggior parte della riserva di
Water ice
64%
32%
16%
8%
4%
2%
MARTE UMIDO. Questa mappa dello spettrometro per neutroni della sonda 2001 Mars Odissey
mostra la localizzazione del ghiaccio d’acqua sulla superficie. Come previsto, c’è molto ghiaccio a
latitudini elevate, ma gli scienziati sono rimasti sorpresi anche della relativa elevata abbondanza
di ghiaccio nel sottosuolo equatoriale.
acqua marziana è nascosta nel
sottosuolo, ghiacciata in uno strato
globale. In molti posti il ghiaccio si
trova a grande profondità, ma nelle
vaste pianure piatte settentrionali è
a pochi centimetri dalla superficie.
La sua presenza è indicata dal terreno superficiale poligonale. Ulteriori
evidenze di ghiaccio vicino alla
superficie sono venute dalla sonda
NASA 2001 Mars Odyssey, che ha
individuato grandi quantità di idro-
geno nascosto nell’ultimo metro di
suolo superficiale.
Questa scoperta convinse la NASA
a lanciare nel 2007 su Marte il lander Phoenix. Quando il braccio
meccanico di Phoenix riprese i piedi del lander nel quinto giorno dopo
l’atterraggio, gli scienziati scoprirono che i retrorazzi avevano messo
allo scoperto uno strato piatto di
ghiaccio bianco. Sebbene gli scienziati si aspettassero di trovare del
SEGNI DI GHIACCIO. A sinistra: la Robotic Arm Camera della sonda
Phoenix ha ripreso questa foto della lastra piatta di ghiaccio presente
a pochi centimetri di profondità.
Come sulla Terra, anche alle latitudini elevate di Marte il terreno
assume spesso una struttura poligonale. Il ghiaccio forma questi
poligoni attraverso complessi processi legati al modo con cui l’acqua
ghiaccia, si scioglie ed esercita pressione sul terreno circostante.
Questa immagine è stata ripresa dalla camera ad alta risoluzione
(HiRiSE) a bordo della sonda orbitale Mars Reconnaissance Orbiter.
‹ quaderni di astronomia n.2 › 7
1
La storia dell’acqua su Marte
Questa immagine della Context camera a bordo della sonda MRO mostra una struttura di 3 km
che assomiglia molto ai pingo che si trovano nelle regioni artiche della Terra. I pingo sono montagnole
di ghiaccio coperte da polvere e rocce.
STRUTTURE DI GHIACCIO. Questa immagine HiRiSE mostra un flusso di materiale
simile a quello di un ghiacciaio su fianchi del grande vulcano Arsia Mons.
ghiaccio, la vista di questo ghiaccio
così puro risultò comunque sorprendente e ispirò loro di denominare il deposito ‘Holy Cow!’. Inoltre,
la sonda MRO (Mars Reconnaissance Orbiter) ha individuato 18 crateri
freschi con il centro reso bianco-azzurro da depositi di ghiaccio puro.
Quando i ricercatori ripeterono le
osservazioni a mesi o anni di distanza, scoprirono che il ghiaccio o
era evaporato o era stato coperto da
depositi di polvere.
Il ghiaccio è così diffuso sotto le pianure marziane settentrionali che
il lander del Viking 2 – che toccò il
suolo alla latitudine di 48° N – sarebbe stato in grado di studiarlo, se
solo gli scienziati avessero saputo
che si trovava lì. Il Viking 2 avrebbe
8 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
sicuramente incontrato il ghiaccio,
se da Terra fosse arrivato il comando di scavare fino a 10 centimetri di
profondità. Come dire che, dopo un
viaggio di centinaia di milioni di km,
probabilmente il Viking 2 si fermò 10
cm prima, facendo sì che la scoperta
di ghiaccio superficiale venisse rimandata di un quarto di secolo.
Altre strutture su Marte indicano la
presenza di ghiaccio d’acqua vicino
alla superficie. Formazioni glaciali
tipo morene e pinghi (idrolaccoliti)
sono sparsi in terreni sia settentrionali sia meridionali. È difficile sapere se si tratta di strutture ancora
attive, ma la loro relativa scarsità di
crateri da impatto suggerisce che il
ghiaccio era in movimento in tempi
geologicamente recenti.
1
La storia dell’acqua su Marte
GULLIES. Immagini ad alta risoluzione prese da sonde orbitali hanno mostrato numerosi
canali di deflusso sulle pareti verso il Sole di crateri e canyons. Gli scienziati stanno ancora
discutendo la loro origine, ma molti geologi pensano che essi si formino quando una riserva
sotterranea di acqua scende all’improvviso verso il basso, creando una mini valanga mescolata con
sedimenti. Queste immagini sono state ottenute dalla camera HiRiSE a bordo della sonda MRO.
Ma evidenze di acqua liquida sono
difficili da trovare. Anno dopo anno,
si vedono piccole strutture canaliformi (‘gullies’) che si formano sulle
pareti scoscese rivolte verso sud di
canyon e crateri. Vengono scavati
da acqua che scende a valle? Non
tutti gli scienziati ne sono convinti.
Alcuni suppongono che si formino
dove il suolo ricco di sali deprime il
punto di congelamento dell’acqua,
formando soluzioni che fondono a
temperatura più bassa. Il lavoro più
recente in merito suggerisce che
non siano necessarie queste soluzioni saline: queste scanalature si
formano quando, e solo quando, lo
strato di suolo soprastante si trovi
o superi la temperatura di congelamento dell’acqua. Ma anche se
le ‘gullies’ fossero sorgenti attuali
di acqua liquida su Marte, si tratta
comunque di fenomeni transitori, di piccole dimensioni e basati
sull’esistenza di soluzioni acquose
ipersaline, ben lontani da un luogo
accogliente per la vita.
UN PASSATO UMIDO
GHIACCIO CHE SCOMPARE. Queste due immagini HiRISE sono state riprese a 15 giorni di
distanza nel 2008. L’immagine di sinistra mostra due crateri a media latitudine che hanno esposto
del ghiaccio fresco (macchie blu). Ma il ghiaccio vaporizza col tempo, lasciando solo polvere sul
fondo dei crateri (a destra). I crateri sono larghi solo 4 metri e profondi 50 centimetri.
Nel passato Marte era molto differente dal pianeta di oggi, e se
ne trovano testimonianze un po’
dappertutto. Come la Luna e Mercurio, Marte possiede un terreno
antico e craterizzato, specialmente per quanto riguarda l’emisfero
meridionale, dove è presente un
gran numero di crateri da impatto
sovrapposti. I crateri sono la testimonianza del tempo in cui l’intero Sistema solare subì un intenso
bombardamento da parte di comete ed asteroidi impazziti.
Ma guardando la Luna, Mercurio
e Marte, si notano testimonianze
‹ quaderni di astronomia n.2 › 9
1
La storia dell’acqua su Marte
di storie abbastanza differenti. Gli
altopiani craterizzati della Luna
sono cambiati poco dalla loro formazione. La superficie craterizzata
di Mercurio è stata inondata da immense colate laviche e poi fessurata dalla contrazione del pianeta.
Per contro, gli altopiani meridionali
di Marte sono stati intaccati da valli
dendriformi.
A prima vista, il sistema di valli di
Marte assomiglia ai sistemi fluviali
terrestri. Ma quando gli scienziati,
esaminando le immagini Viking,
ne hanno fatto uno studio meticoloso, le valli sono apparse molto antiche dal punto di vista geologico.
Le valli hanno pochi rami laterali,
e ci sono ampie aree senza nessuna
valle. Molti geologi concludono che
queste strutture vennero prodotte
da rare emissioni di acqua sotterranea. Forse qualche grosso impatto
occasionale ha aumentato per breve tempo la densità dell’atmosfera
marziana, favorendo per alcuni
anni un riscaldamento per effetto
serra, con pioggia e attività fluviale:
L’EROSIONE DELL’ATMOSFERA MARZIANA
L’attuale atmosfera marziana è arricchita in deuterio (idrogeno pesante),
un isotopo dell’idrogeno che contiene nel nucleo un protone e un
neutrone, mentre l’idrogeno comune contiene solo un protone.
Le misure isotopiche più recenti, fatte da Curiosity, mostrano per il
deuterio un arricchimento di 5 volte rispetto al caso terrestre.
L’idrogeno leggero sfugge più facilmente dall’atmosfera dell’idrogeno
pesante, per cui l’arricchimento in deuterio ci dice che Marte deve
aver perso nel tempo gran parte della sua atmosfera. La sonda MAVEN
(Mars Atmosphere and Volatile EvolutioN), entrata nell'orbita marziana
a settembre del 2014, sta aiutando a definire con precisione quanta
acqua venne persa nello spazio.
ben prestò, però, l’aria è tornata rarefatta, facendo tornare Marte freddo e secco come prima.
Nuovi dati però hanno cambiato
questa visione. Mappe basate su immagini della sonda 2001 Mars Odissey mostrano che le valli sono legate
a reti di drenaggio fortemente ramificate, con canali sempre più piccoli
man mano che aumenta la distanza.
La loro complessità è simile a quella
delle reti fluviali terrestri.
È interessante notare che la maggior parte di queste reti di valli flu-
VALLI FLUVIALI. Valli strette e ramificate sono comuni nelle regioni equatoriali di Marte.
Prevale l’idea che esse siano state scavate da fiumi alimentati da pioggia circa 3,5 miliardi di anni
fa. Questa immagine è stata ripresa dalla camera THEMIS della sonda 2001 Mars Odissey.
10 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
viali appaiano essersi formate in
un breve tempo, forse 200 milioni
di anni. E questi 200 milioni di anni
si collocano relativamente tardi,
dopo che Marte ebbe subito la maggior parte dei suoi impatti maggiori, attorno a 3,8-3,6 miliardi di anni
fa. Evidentemente qualcosa di diverso dagli impatti fu responsabile
del clima caldo che generò la rete
delle valli.
IL CICLO DELL’ACQUA
I climatologi, tentando di spiegare
perché Marte, nel lontano passato, era caldo e umido, si imbattono
nel cosiddetto paradosso del Sole
giovane debole. Secondo gli attuali modelli di evoluzione stellare, il
Sole doveva essere del 30% più debole quando era giovane, anche se
nel contempo produceva più radiazione ultravioletta che avrebbe dovuto strappare via una atmosfera
marziana ricca di CO2 .
Ma se la rete di valli fluviali si formò
davvero più tardi, dopo il grande
bombardamento tardivo, allora il
problema del Sole ‘giovane’ si attenua perché questo avvenne dopo
che il Sole incominciò a emettere
più energia.
I vulcani marziani giganti della regione di Tharsis potrebbero aver
aiutato Marte a diventare umido.
La regione di Tharsis è un enorme
complesso di vulcani e colate di
lava formatosi in miliardi di anni.
OUTFLOW CHANNELS (canali di deflusso). Dopo che si prosciugarono le valli fluviali, Marte sperimentò occasionali catastrofiche inondazioni che
scavarono canali di deflusso larghi e profondi come Kasei Valles, qui ripresa dalla stereo-camera ad alta risoluzione della sonda orbitale Mars Express.
Quando i grandi impatti si attenuarono, il vulcanesimo prese a dominare la geologia marziana. Il confine tra questi due periodi geologici
si colloca a circa 3,8 miliardi di anni
fa. In questa epoca marziana intermedia, le eruzioni vulcaniche
iniettarono nell’atmosfera enormi
quantità di gas, soprattutto acqua,
anidride carbonica e anidride solforosa. Questi gas potrebbero aver
reso più densa l’atmosfera proprio
quando un aumento della luminosità solare stava scaldando Marte.
Quando i vulcani di Tharsis erano
attivi, l’atmosfera di Marte si irrobustì in maniera superiore a quanto il
Sole riusciva a distruggerla. L’acqua
cominciò a precipitare come neve
o pioggia. Dove pioveva e la neve
fondeva, l’acqua corrente intaccava il suolo di Marte. I sedimenti
trasportati dall’acqua erosero velocemente gli ambienti che erano
stati butterati da impatti ed erano
caduti in condizioni di estrema aridità. L’acqua corrente trasportava a
valle i sedimenti e riempì i crateri
come il Gusev e il Gale formando
laghi che poi, tracimando, inondarono aree situate più in basso. Alla
fine l’acqua raggiunse il grande bacino incavato situato nella regione
settentrionale di Marte, e forse lo
Esiste davvero
un oceano marziano?
Una prova sono le
linee di costa attorno ai
bassopiani settentrionali
riempì formando un vero e proprio oceano. E fu proprio in questa
situazione che si innescò un ciclo
di feedback positivo. Bacini pieni
di acqua producevano aria umida
che, quando trasportata a quote
maggiori e a temperature inferiori,
cadeva come pioggia o neve.
Esistette davvero un oceano boreale marziano? Una prova importante
è rappresentata da linee di costa
(una specie di improvvise interruzioni di pendenza) tutto attorno
ai bassopiani settentrionali. I geomorfologi hanno anche mappato
la quota di depositi a forma di delta
alla fine delle valli ed hanno trovato
che la maggior parte si trova a quota simile: un indizio del fatto che
si riversaserro tutti in un singolo
oceano. Ma molti scienziati non
sono del tutto convinti; la questione se Marte abbia mai avuto, per un
tempo prolungato, un oceano boreale, rimane molto controversa.
PARADISO PERDUTO
Anche nel caso in cui Marte sia stato
un tempo un paradiso, questo ambiente ospitale è poi andato perduto.
L’attività delle valli fluviali si è attenuata nel tempo. Quando il nucleo si raffreddò e solidificò, il campo magnetico che Marte dovette avere un tempo
si estinse e la densa atmosfera primordiale fu portata via dal vento solare.
L’erosione prodotta dall’acqua cambiò meccanismo, passando dalla
rete di valli fluviali ad un tipo di
formazione completamente differente: i canali di deflusso. I canali
di deflusso (outflow channels) sono
enormi, larghi fino a 150 chilometri
e lunghi fino a 2000, e sembra siano
stati scavati dalla fuoriuscita catastrofica di enormi quantità d’acqua.
Si formarono soprattutto nel medio periodo marziano, ma alcuni si
sono formati anche più di recente.
A differenza delle valli fluviali, i canali di deflusso richiedevano probabilmente un clima gelido. Una
spessa criosfera di ghiaccio superficiale potrebbe aver intrappolato
sotto pressione grandi quantità di
acqua liquida. Un impatto o un’infiltrazione di magma vulcanico
potrebbe aver improvvisamente
creato, per rottura o fusione, un
passaggio verso la superficie di una
‹ quaderni di astronomia n.2 › 11
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La storia dell’acqua su Marte
grossa quantità di acqua pressurizzata di un lago sotterraneo. Questo
è particolarmente vero per gli altopiani meridionali di Marte; impatti
craterici intaccarono la crosta, rendendola molto porosa, quindi in
grado sia di accumulare molta acqua, sia di rilasciarla in un sol colpo
in catastrofiche inondazioni.
Queste inondazioni potrebbero
aver riempito temporaneamente
il bacino settentrionale di Marte,
anche se si trattò di acqua di breve
durata. In appena un paio d’anni
quest’acqua potrebbe essere ri-filtrata nel sottosuolo, ghiacciata o
evaporata nell’atmosfera, da dove
precipitò di nuovo come pioggia,
neve o ghiaccio, ritornando a far
parte della criosfera.
Anche i rover della NASA hanno trovato prove del fatto che Marte continuò a produrre rocce sedimentarie
anche dopo che il suo clima caldo e
umido era ormai terminato. Tutte le
rocce sedimentarie viste da Spirit e
la maggior parte di quelle viste da
Opportunity si formarono dopo il
periodo marziano più antico e umido. Le rocce sedimentarie richiedono normalmente acqua per formarsi. Molte delle rocce sedimentarie di
Marte contengono minerali la cui
struttura cristallina ingloba molecole d’acqua o il radicale idrossile
(OH). Che cosa potrebbe aver favorito la deposizione di questi sedimenti e la loro successiva cementificazione sul posto? La risposta
potrebbe avere a che fare con cambiamenti del clima marziano.
MILANKOVIC VA SU MARTE
Il clima della Terra passa da più caldo a più freddo in successioni di decine di migliaia di anni, note come
cicli di Milankovic dal nome dello
scienziato serbo Milutin Milanko-
CURIOSITY TROVERÀ TESTIMONIANZE DI VITA SU MARTE?
Molti osservatori sostengono apertamente che Curiosity potrebbe trovare testimonianze fossili di vita marziana. Purtroppo, anche se Marte un tempo brulicava di
vita, è improbabile che Curiosity riesca ad accorgersene.
Da un lato, non ha strumenti capaci di osservare fossili
individuali di dimensioni microbiche, anche perché la
loro conservazione è un problema: come su Marte,
anche sulla Terra è molto raro trovare tracce di antiche forme di vita in rocce di 4 miliardi di anni. Dall’altro, siccome la geologia di Marte si è quasi bloccata
miliardi di anni fa, le sue antiche rocce sono in condizioni molto migliori di quelle terrestri.
Da quando si sono formate, le rocce marziane sono
state meno modificate dal calore o dalla pressione. Al
cratere Gale, Curiosity sta esaminando rocce antiche
come quelle dove sono state trovate le prime forme
di vita terrestre. Queste rocce testimoniano condizioni
che potrebbero essere state calde e umide. Sono il
tipo di rocce che potrebbero conservare gli ingredienti da cui deve essere nata la vita sulla Terra.
Anche nella probabile eventualità che non trovi tracce
di vita su Marte, Curiosity sta comunque studiando
rocce che sono cambiate poco durante miliardi di anni
e che registrano le condizioni geologiche e climatiche
in cui nacque la vita terrestre. Non c’è nessun posto,
sulla Terra, dove sia possibile fare questo. La nostra
migliore speranza per comprendere come andarono
le cose quando la vita nacque sulla Terra, va rivolta,
ironicamente, su un altro pianeta. Sebbene siamo
curiosi di Marte in quanto intrinsecamente interessante, alla fin fine lo studiamo perché è il posto migliore per rispondere ad una domanda fondamentale:
come ha fatto la vita a nascere sulla Terra?
12 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
Curiosity sulla roccia chiamata “John Klein”
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La storia dell’acqua su Marte
vic che sviluppò l’idea negli anni
20. L’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre, così come la sua
precessione, e l’eccentricità dell’orbita, variano di una piccola entità
che determina quanta energia solare raggiunge la Terra durante le
stagioni a differenti latitudini. I cicli
di Milankovic chiaramente influenzano il clima della Terra: variazioni
nella composizione isotopica di ossigeno e carbonio e nell’attività delle piante, e avanzata e ritirata dei
ghiacciai sono tutti fenomeni strettamente correlati con la quantità di
irraggiamento solare predetto dalla
teoria di Milankovic.
Marte conosce cicli di Milankovic
estremi. La sua orbita può cambiare al punto da essere del 50% più
lontana dal Sole all’afelio rispetto
al perielio. E senza la presenza di
una grande luna che ne stabilizzi
l’inclinazione dell’asse di rotazione,
l’asse di Marte si è a volte inclinato
fino ad essere orizzontale. Di fatto, l’attuale modesta inclinazione
dell’asse di rotazione marziano di
soli 25° è poco usuale. Marte passa
la maggior parte del suo tempo con
un’inclinazione relativamente alta,
di 40-50°. Durante questi periodi, la
maggior parte del pianeta si crogiola continuamente nella luce solare
per metà anno e si immerge nella
notte per l’altra metà. Le cappe polari non possono esistere in questa
situazione; piuttosto, durante ogni
anno, si formano depositi di ghiaccio entro una banda che circonda
l’equatore. Variazioni climatiche
spostano la riserva marziana di
ghiaccio d’acqua avanti e indietro
dai poli all’equatore. In certi momenti, quindi, le condizioni possono permettere al ghiaccio di fondere più facilmente del normale
creando alcune delle strutture periglaciali presenti alle alte latitudini
marziane.
Una volta ogni tanto, in condizioni
decisamente più clementi di oggi, il
deposito di neve presso l’equatore
può fondere per formare brevi flussi di acqua liquida. Questo può avvenire solo durante brevi intervalli
nel ciclo di Milankovic, quando l’asse di Marte è molto inclinato, la sua
orbita ha la massima eccentricità e
gli equinozi si verificano con Marte
all’afelio o al perielio. Poi, e solo poi,
per appena poche settimane, ogni
giorno si forma un po' d'acqua, che
filtra giù dentro il terreno e, più probabilmente, ghiaccia o vaporizza
entro la giornata.
La polvere marziana trasportata
dal vento è ricca di minerali altamente solubili, tipo solfati e cloruri.
La breve umidificazione può sciogliere questi minerali e poi incollare i granuli di sabbia assieme grazie
all’azione cementificante dei minerali stessi.
Mucchi di polvere e sabbia trasportata dal vento si congelarono col
tempo, mantenendo la posizione
che avevano in passato, quando le
stravaganti variazioni orbitali di
Marte si sincronizzarono per dar
luogo a un clima passeggero che
permettesse alla neve di sciogliersi.
CURIOSITY SEGUE L’ACQUA
Nelle rare condizioni climatiche
che permettono alla neve di sciogliersi ovunque su Marte, il cratere
Gale è uno dei posti dove ci si dovrebbe aspettare di trovare acqua.
Ma la liquefazione di acqua dovrebbe essere stato un evento eccezionalmente raro, in un ambiente
iper-arido, che accadeva solo una
volta ogni parecchie migliaia di
anni. È ben difficile che questo ambiente abbia conservato segni di
antiche forme di vita, se mai questa
vita è esistita.
Il rover Curiosity della NASA ha
già trovato prove di un ambiente
anche più umido. Quando Curiosity ha iniziato ad attraversare la superficie interna del cratere Gale, ha
individuato rocce con incastonati
ciottoli arrotondati, troppo grandi
per essere stati trasportati e smussati dal vento. Queste rocce devono
essere state a contatto con flussi di
acqua molto veloci.
I primi depositi sedimentari perforati nel sito di John Klein vennero
deposti probabilmente da acqua
stagnante o in lento movimento.
Molte di queste rocce sono state bagnate almeno una volta da quando
si sono solidificate. Acqua sotterranea satura di sali dovette attraversarle, lasciando la sua impronta
sotto forma di venature ripiene di
gipso (solfato di calcio). Non è chiaro se quest’acqua venne dall’alto,
filtrando verso il basso dal lago che
riempiva il cratere, oppure dal basso, quando le rocce erano sepolte a
grande profondità.
Il team di Curiosity sta lavorando
per rispondere a questa domanda.
L’idea attuale è che la parte più bassa della montagna che si trova al
centro del cratere Gale risalga all’era delle valli fluviali, quando Marte
era caldo e umido. La parte più alta
si formò in seguito ed è probabilmente costituita da sabbia trasportata dal vento poi cementificata.
Le rocce intermedie dovrebbero
essere una testimonianza del periodo di transizione, quando Marte
passò da condizioni ospitali a condizioni iper-aride.
Il cratere Gale è quindi un posto le
cui rocce probabilmente conservano testimonianza di tutti i tipi di climi che Marte ha avuto nel passato.
Quando Curiosity salirà sulla montagna al centro del cratere attraversandone i vari strati, c’è la speranza
che le sue osservazioni riescano a
provare o smentire la nostra attuale comprensione del clima passato
di Marte.
Emily Lakdawalla
Tratto da Sky&Telescope,
traduzione a cura di Cesare Guaita
‹ quaderni di astronomia n.2 › 13
‹ SEZIONE 1 ›
2
OTTO MODI PER ANDARE
ALLA CONQUISTA DI MARTE
Durata del viaggio, rischi, costi e obiettivi scientifici, politici o
commerciali impongono scelte diverse. Una missione del tipo
“bandiera e impronte” come quello dell’Apollo 11 sulla Luna
sembra la scelta più probabile. Ma sarebbe anche la migliore?
A
ndare su Marte è un sogno
antico, che ha preso la forma di racconti e romanzi
e, negli ultimi 70 anni, di
progetti più o meno realizzabili. Certo, oggi nessuno può più
sognare di addormentarsi in una
grotta nel deserto e svegliarsi sul
pianeta rosso, e tantomeno di riuscire a salvare e poi a sposare una
bellissima principessa marziana.
Queste cose potevano accadere al
capitano Carter, grazie alla fantasia
di Edgar Rice Burroughs, ideatore
di Tarzan, oltre che della serie marziana iniziata con l’ancora godibilissimo Sotto le Lune di Marte.
Oggi sappiamo che andare su Marte
è terribilmente difficile, che richiede una tecnologia ancora da sviluppare, ma per la quale abbiamo
tutte le basi, e soprattutto che non
potremmo incontrarvi nessuna
principessa, tutt’al più – e saremmo
già fortunati – qualche microrganismo. Ma, principesse o no, sicuramente qualcuno tenterà l’avventura nel XXI secolo.
La minima distanza tra la Terra e
Marte è di circa 60 milioni di km
ma, dato che entrambi i pianeti si
muovono lungo orbite ellittiche
14 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
UN MESE O UN ANNO?
Andare su Marte è
terribilmente dif ficile,
ma qualcuno
tenterà l'impresa
nel XXI secolo
intorno al Sole, per la maggior parte del tempo la distanza è molto
maggiore. Per di più, nel Sistema
solare non ci si può muovere in linea retta e, almeno con la nostra
tecnologia attuale, la traiettoria più
economica, in termini di energia, è
una semi-ellisse, tangente alle orbite dei due pianeti, la cosiddetta
ellisse di Hohmann. La durata del
viaggio lungo la traiettoria di minima energia è di 260 giorni (quasi 9
mesi, anche se cambia leggermente a seconda della data del lancio)
e l’opportunità di lancio si verifica
ogni poco più di due anni. Aumentando l’energia di lancio, cioè la
quantità di propellente bruciato, si
può ridurre il tempo di viaggio fino
a un valore che, per la propulsione
chimica, è di circa 225 giorni (sette
mesi e mezzo).
Le missioni di andata e ritorno per
Marte sono essenzialmente di due
tipi. Il primo è quello delle missioni
“a soggiorno breve”, dette anche in
opposizione.
Nelle missioni di questa classe si
rimane su Marte per circa un mese,
e poi si deve iniziare il viaggio di
ritorno, che però non può essere
effettuato direttamente data la posizione relativa dei due pianeti. È
quindi necessario passare vicino a
Venere, entrare nel suo campo gravitazionale per guadagnare energia
e poi puntare verso la Terra. Il viaggio di ritorno così si allunga e soprattutto si passa in una zona dove
le radiazioni del Sole sono molto
più forti. In totale, si trascorrono più
di 500 giorni nello spazio per stare
soltanto un mese sul pianeta rosso.
Le missioni del secondo tipo sono
dette “a soggiorno lungo”, o in congiunzione. Il viaggio di ritorno è
molto simile a quello di andata, e
quindi è più rapido di quello delle
missioni precedenti e soprattutto
si mantiene tutto fuori dall’orbita
terreste. Si sta tanto tempo su Marte (quindici mesi) e relativamente
poco nello spazio. Per le missioni
2
Otto modi per andare alla conquista di Marte
TEMPI TRASCORSI IN VIAGGIO E SU MARTE
IN MISSIONI DI VARIO TIPO
Soggiorno breve
(opposizione)
Andata
Soggiorno
Ritorno
Totale
Totale nello spazio
224
30
291
545
515
con propulsione chimica non ci
sono alternative: su Marte o ci si sta
un mese o più di un anno!
Nelle missioni in congiunzione è
possibile ridurre il tempo di viaggio, aumentando corrispondentemente il tempo trascorso sul pianeta, a costo di aumentare l’energia e
quindi il propellente da trasportare. Ma con la propulsione chimica
c’è poco da fare: ridurre il tempo di
viaggio a meno di sette mesi e mezzo vuol dire aumentare a dismisura
la massa di propellente da portare
in orbita intorno alla Terra e quindi i
costi. Uno dei parametri fondamentali per il progetto della missione è
la massa totale da portare in orbita
(in gergo IMLEO, Initial Mass in Low
Earth Orbit), un indice diretto del
costo della missione. Questo indice
diviene proibitivo se si intende ridurre il tempo di viaggio.
Soggiorno lungo
(congiunzione)
Minima energia
Veloce
224
150
458
619
237
110
919
879
461
260
Se si passa dalla propulsione chimica a quella nucleare le cose cambiano radicalmente. Il tempo di viaggio può ridursi a cinque mesi con
un notevole aumento del tempo
trascorso su Marte: meno tempo a
non fare nulla tranne inzupparsi di
radiazioni nello spazio e più tempo
a esplorare Marte. E questo anche
con sistemi di propulsione nucleare del tipo di quelli sviluppati e
provati al banco negli anni 1970. Se
poi si sviluppano propulsori nucleari ancora più avanzati, termici o
elettrici, i tempi di viaggio possono
ancora diminuire, ma soprattutto
ci si svincola da finestre di lancio
strettamente determinate. Non che
si possa andare e venire quando si
vuole ma, all’aumentare delle prestazioni del propulsore, si è sempre
meno dipendenti dalle posizioni
dei due pianeti.
Missioni a soggiorno breve (in opposizione) e a soggiorno lungo (in congiunzione).
SCOPO DELLA MISSIONE
I due tipi di missione indicati possono essere utilizzati per realizzare
obiettivi differenti. In particolare
si possono avere, in ordine di complessità crescente:
1. Missioni senza atterraggio (flyby).
Si tratta della missione più semplice, ed è quella proposta dalla
Inspiration Mars Foundation per
la crociera spaziale di due persone. Dato che si passa “semplicemente” vicino al pianeta e si
torna indietro, il ritorno scientifico è abbastanza ridotto anche
se, a causa della lunghezza che
comunque è pur sempre di 500
giorni (circa 17 mesi), l’equipaggio
assorbe una notevole dose di radiazioni. Ha senso solamente se
si prevede di non poter sviluppare alcun sistema di propulsione
avanzato e si ha un budget molto
limitato.
2. Missione di sola andata. Si tratta
di missioni di colonizzazione, in
cui gli astronauti-coloni partano
già con la prospettiva di non tornare sulla Terra. È l’alternativa
scelta da Mars One e, anch’essa,
ha senso solamente in uno scenario di budget molto ridotto e
quindi di utilizzo di una tecnologia del tipo di quella odierna.
3. Missione breve su un satellite di
Marte (possibilmente Phobos),
oppure in orbita intorno al pianeta. Gli astronauti atterrano sul
satellite, o entrano in orbita intorno a Marte, cosa molto più semplice che atterrare sul pianeta, e
di lì controllano a distanza i robot
che esplorano la superficie. Dopo
un mese ripartono verso la Terra,
possibilmente lasciando ai robot
il compito di continuare l’esplorazione. È un tipo di missione proposta dai russi negli anni 1970 e
1980 e ha il vantaggio di portare
‹ quaderni di astronomia n.2 › 15
2
Otto modi per andare alla conquista di Marte
uomini nelle vicinanze del pianeta da dove possono telecomandare robot in grado di fare cose
che robot telecomandati dalla
Terra non potranno mai fare. È
un tipo di missione che ha senso
se la tecnologia resta quella attuale, sia per quanto riguarda la
propulsione che per l’intelligenza artificiale, e si ha comunque
un budget molto limitato.
pena possibile ritiene che missioni di questo tipo debbano essere
rinviate a un futuro più lontano.
Altri, al contrario, ritengono che
sia opportuno aspettare sino a
quando si sia sviluppata una tecnologia che permetta missioni
di questo tipo che, tra l’altro, permettono di ridurre drasticamente la dose di radiazioni assorbita
dall’equipaggio.
4. Missione lunga su un satellite di
Marte (possibilmente Phobos)
oppure in orbita intorno al pianeta. Come le missioni di tipo 3, ma
con una permanenza su Phobos
o in orbita di 15 mesi invece che
di uno.
8. Missioni per la creazione di una
base e missioni di colonizzazione. Si tratta di missioni successive alla prima, che porteranno
ad una vera colonizzazione del
pianeta.
DESTINAZIONE
5. Missione breve sulla superficie
di Marte. Sarebbe una missione
di tipo “bandiera e impronte”, per
certi versi analoga alle missioni
Apollo per la Luna. Il suo difetto
è che si sta molto poco tempo sul
pianeta e l’esplorazione è molto
limitata. Alcuni sostengono che
la prima missione dovrà necessariamente essere di questo tipo,
demandando a missioni successive il vero lavoro sul pianeta.
Marte è un pianeta, più piccolo della Terra, ma pur sempre molto grande. L’espressione “missione su Marte” è fuorviante: i luoghi da visitare
sul pianeta sono molti e una singola
missione può dirigersi solamente
verso uno solo. Peraltro, in generale si può affermare che i luoghi più
interessanti sono anche i meno accessibili, nel senso che atterrare in
zone interessanti dal punto di vista
geologico, e soprattutto astrobiologico (possibilità di esistenza di vita),
può essere difficile. Si dovrà scendere in località pianeggianti e non
troppo difficili e poi raggiungere
luoghi interessanti usando veicoli
in grado di muoversi sulla superficie del pianeta.
La prima missione dovrà essere
diretta verso un punto che garantisca un atterraggio e una gestione
logistica della base più semplici
possibile, anche se la vicinanza ad
un punto di interesse scientifico,
possibilmente raggiungibile con un
veicolo, è importante. Il problema è
scegliere la destinazione per i viaggi successivi e anche qui ci sono
due alternative possibili: dirigersi
sempre verso lo stesso luogo, oppure visitare punti diversi, distanti
magari migliaia di chilometri uno
dall’altro. Atterrare sempre nello
stesso punto vuol dire accumulare molto materiale utile e costruire
pezzo per pezzo una vera e propria
base. Inoltre, in questo caso, non
tutte le missioni devono portare sul
pianeta un generatore di potenza
e uno o più veicoli, e quindi si può
utilizzare il carico utile in modo
più razionale. Una volta che una
missione ha portato una serra, le
coltivazioni possono essere seguite
per molti anni, ipotizzando che, con
6. Missione lunga sulla superficie di
Marte. È la missione considerata
come la più conveniente in vari
studi della NASA. Sicuramente
gli astronauti hanno tutto il tempo di esplorare il pianeta. Più
complessa della precedente, ha
però un rapporto costi/risultati
più favorevole.
7. Missione lunga con propulsione
avanzata. Grazie alla propulsione nucleare, il viaggio dura cinque mesi (o anche meno nel caso
di propulsione nucleare “innovativa” rispetto a quella degli anni
1970) e la permanenza sul pianeta è molto più lunga. Chi sostiene
che si debba andare su Marte ap-
16 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
Due astronauti impegnati nell’esplorazione di una zona molto interessante di Marte, probabilmente la Valles Marineris, un sistema di canyon molto più grande del Gran Canyon del Colorado.
Si noti la nebbia in fondo al Canyon: la possibile presenza di umidità aumenta la probabilità di
trovare vita extraterrestre (NASA).
2
Otto modi per andare alla conquista di Marte
una missione lunga ogni due anni,
l’avamposto risulterà presidiato per
15 mesi ogni due anni e quindi la
base risulterà abbandonata per soli
nove o dieci mesi. Per di più, dopo
un po’ di tempo, qualcuno potrebbe
decidere di fermarsi sul pianeta per
due turni, mantenendo la base presidiata in continuità.
L’alternativa, che riscuote più adesioni presso gli scienziati, è quella
di dirigersi ogni volta verso una località differente, in modo da poter
studiare aspetti diversi del pianeta,
e avere più probabilità di trovare
quello che è un po’ il Sacro Graal
dell’esplorazione marziana: la vita
extraterrestre. In questo modo rimarranno sul pianeta molte basi
inutilizzate, e ogni volta bisognerà
portare sul pianeta tutto quello che
serve per la sopravvivenza e l’attività scientifica.
Chiaramente la prima ipotesi è più
orientata verso la colonizzazione del pianeta, la seconda verso
l’esplorazione scientifica. Esiste
tuttavia una soluzione di compromesso: missioni in località diverse,
poste a una distanza tale da essere
percorribile con veicoli di superficie. In questo modo, dopo un certo
numero di missioni, si avrebbe sul
pianeta una serie di piccole basi
che verrebbero visitate di tanto in
tanto dagli astronauti e si inizierebbe a creare una rete di piste con
traffico facilitato (piccoli lavori di
ingegneria civile per facilitare il
passaggio nei punti più difficili, radiofari per permettere il movimento anche di notte e in condizioni di
scarsa visibilità, ecc.).
Nella scelta delle località da esplorare bisogna tenere conto di un fattore importante: la contaminazione.
Generalmente si distingue tra due
tipi di contaminazione: la contaminazione “in avanti”, cioè la possibile
immissione nell’ambiente marziano
di elementi estranei, che lo possano
contaminare, e la contaminazione
“all’indietro”, cioè l’introduzione
nell’ambiente abitato dall’uomo e
poi sulla Terra, di elementi contaminanti di origine marziana.
La prima ha aspetti scientifici ed
etici; scientifici perché se si contamina Marte non si ha poi nessuna
certezza che eventuali forme di vita
trovate sul pianeta siano realmente
extraterrestri e non derivino da
quelle portate dalla Terra. Etici perché bisogna capire fino a quale punto è lecito trasformare un pianeta
con la nostra stessa presenza. Se
Marte è completamente sterile, non
ci sono grandi problemi dal punto di vista scientifico; ma il punto è
proprio quello: come si può essere
sicuri che Marte non ospiti forme
di vita? Anche se non ne troviamo,
ve ne potrebbero sempre essere
semplicemente dove non abbiamo
ancora cercato oppure potrebbero
essere così inconsuete che non le
abbiamo ancora riconosciute. Dal
punto di vista etico, le opinioni sono
molto varie, e vanno dal sostenere
che non è lecito portare alcuna modifica ad un pianeta extraterrestre
all’idea opposta che da sempre la
vita si è espansa in tutti i luoghi che
ha raggiunto. Se in questo modo si
causa l’estinzione della vita originaria di un altro pianeta, si tratta semplicemente di selezione naturale.
In un’ottica darwiniana, il problema non si pone neppure: dovremmo cominciare subito a terraformare Marte, cioè a trasformarlo
per adattarlo a noi, come qualche
miliardo di anni fa le alghe da cui
discendiamo hanno trasformato la
Terra e l’hanno resa abitabile.
L’idea oggi più comune è che il pianeta debba essere diviso in due
parti: una, quella che molto probabilmente non contiene forme di
vita, aperta all’esplorazione diretta
dell’uomo, e un’altra, che può contenere vita extraterrestre, in cui
possono entrare solamente robot
accuratamente sterilizzati control-
lati da lontano dagli esploratori
umani. Se anche queste zone si riveleranno sterili, piano piano tutto
il pianeta potrà essere aperto alla
colonizzazione e poi eventualmente “terraformato”.
Anche per quanto riguarda la contaminazione “all’indietro” vi sono opinioni contrastanti. C’è chi sostiene
che il problema non si pone neppure,
dato che forme di vita così differenti
non interferiscono tra loro (celebre
la frase noi non prendiamo le malattie delle piante e le piante non prendono il raffreddore), e chi invece sostiene che il problema è tanto grave
che qualsiasi interazione tra pianeti
diversi dovrebbe essere proibita.
Sicuramente bisognerà prendere le
dovute precauzioni, come si era fatto per le missioni Apollo: al ritorno
gli astronauti erano stati messi in
quarantena fino a quando non si era
raggiunta la certezza dell’assenza di
ogni possibile contaminazione.
Anche se la contaminazione biologica è estremamente improbabile,
bisognerà proteggersi da un altro
tipo di contaminazione pericolosa: la
polvere marziana è così fine da poter
provocare malattie all’apparato respiratorio, come, e peggio, di quelle
causate dal tanto temuto particolato
presente nelle nostre città. Lo stesso
problema, e per certi versi ancora più
grave, lo si dovrà affrontare anche
sulla Luna: sono allo studio sistemi
elettromagnetici che permettano di
fare precipitare la polvere dall’aria
che riempie i moduli abitati.
RISORSE LOCALI
Non è possibile pensare di trasportare dalla Terra tutto ciò che può
essere utile per vivere su Marte,
in particolare nel caso di un soggiorno lungo. Ormai sappiamo che
su Marte c’è acqua e quindi che è
possibile ricavare ossigeno – sia
per respirare che per usarlo come
comburente – e idrogeno. L’idrogeno può essere usato direttamente
‹ quaderni di astronomia n.2 › 17
2
Otto modi per andare alla conquista di Marte
come combustibile, oppure per
produrre metano dall’anidride
carbonica di cui è essenzialmente
composta l’atmosfera. Dall’acqua e
dall’atmosfera di Marte si possono
così ricavare non solo le sostanze
necessarie per la vita, ma anche il
combustibile necessario sia per gli
spostamenti sul pianeta, sia per il
viaggio di ritorno o, almeno, per
raggiungere il veicolo di ritorno in
orbita intorno al pianeta.
L’unica cosa di cui gli astronauti
avranno bisogno è quindi l’energia necessaria per mandare avanti
l’impianto che produrrà ossigeno e
combustibile. In linea di principio
non è impossibile utilizzare un impianto fotovoltaico per produrre
energia elettrica dalla luce solare,
ma è decisamente sconsigliabile:
per prima cosa Marte è più lontano
della Terra dal Sole e quindi, a parità di superficie, l’energia ricavabile
è circa metà di quella ottenibile
sul nostro pianeta. Poi gli impianti
potrebbero funzionare solamente di giorno e sarebbe necessario
accumulare energia per la notte,
quando l’esigenza di usare energia
per riscaldarsi è massima. Infine, su
Marte ci sono forti tempeste di polvere, che oscurano il Sole per giorni
e non è facile mantenere i pannelli
solari puliti.
Un piccolo reattore nucleare può
risolvere tutti i problemi relativi
all’approvvigionamento di energia
in modo molto più semplice e sicuro e permette di avere una certa abbondanza di energia, indispensabile per tutte le esigenze di una base
soprattutto quando si inizierà a coltivare vegetali sia per il cibo che per
mantenere l’aria respirabile.
Un aspetto non ancora molto studiato è quello della manutenzione
della miriade di macchinari che
dovranno essere presenti su Marte,
dai sistemi di supporto vitale ai veicoli, dai sistemi per produrre aria
e combustibile ai sistemi di comu-
18 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
nicazione. Si tratta di attrezzature
spesso indispensabili per la sopravvivenza delle persone che sono su
Marte o almeno per lo svolgimento
dei compiti per i quali la missione
stessa è stata concepita.
Le tecnologie di rapid prototyping
o, come spesso si dice, di stampa tridimensionale, possono fornire un
grande contributo in questo senso:
se la base marziana è fornita di un
sistema di questo tipo e dei relativi
materiali, e se tutti i sistemi che verranno portati sul pianeta saranno
stati opportunamente progettati,
sarà possibile costruire direttamente sul posto le parti di ricambio,
che diverranno di volta in volta necessarie, senza bisogno di portarle
tutte insieme dalla Terra.
Se poi addirittura si troverà il modo
di ricavare le materie prime dal
pianeta, la base avrà una sorta di limitata autosufficienza e potrà evolvere verso una crescente indipendenza dal pianeta di origine.
I FATTORI UMANI
In una missione con persone a bordo, i fattori umani hanno un’importanza determinante, soprattutto
quando si tratta di una missione
così lunga. I problemi fondamentali
da affrontare sono la lunga permanenza in ambiente a gravità zero
(lo spazio) e bassa (la superficie di
Marte), l’esposizione prolungata
alle radiazioni e i fattori psicologici
e culturali.
Per quanto riguarda la bassa gravità, un problema che non è ancora
stato risolto è la reazione dell’organismo umano alla gravità ridotta:
sappiamo benissimo come si comporta in gravità terrestre e abbastanza bene in microgravità, grazie
a decenni di permanenze anche
prolungate in orbita terrestre. Abbiamo una limitatissima esperienza relativa alla gravità lunare grazie
alle poche ore trascorse sul nostro
satellite dagli astronauti delle mis-
sioni Apollo. Come l’organismo reagisca alla gravità marziana è ancora
un’incognita. In particolare, è sufficiente la gravità di Marte per ovviare agli inconvenienti riscontrati in
assenza di gravità?
Per ovviare alla microgravità in
viaggio si può far ruotare il veicolo
creando una sorta di gravità artificiale, ma questo costa moltissimo
in termini di complessità del veicolo e di massa da portare in orbita
terrestre.
La quantità di radiazioni assorbite
nello spazio profondo (fuori dalle
fasce di Van Allen) in una missione
così lunga è molto notevole, e anche la permanenza sulla superficie
del pianeta non è esente da rischi,
dato che Marte non ha un’atmosfera densa e una magnetosfera come
quelle della Terra.
Per giunta, in un viaggio così lungo è
praticamente certo che almeno una
volta l’equipaggio venga esposto
ad un’eruzione solare. Per mitigare
il problema si può per prima cosa
ridurre il tempo di viaggio, e qui
solamente la propulsione nucleare
può giocare un ruolo importante.
Dalle radiazioni ci si può riparare,
anche se non è facile: la schermatura passiva richiede una notevole
massa di materiale e per di più è
difficile ottenere una schermatura
dalle particelle ad alta energia, che
vengono sì fermate dalla schermatura, ma in questo processo si
producono radiazioni secondarie
non meno nocive. La schermatura
attiva, ottenuta creando una vera e
propria magnetosfera per il veicolo,
è estremamente promettente, ma
c’è ancora molto lavoro da fare per
arrivare a risultati soddisfacenti.
La protezione dalle eruzioni solari
è più facile, dato che è possibile realizzare un rifugio in cui l’equipaggio
può essere protetto per il periodo di
tempo limitato in cui il Sole emette
queste particelle particolarmente
pericolose. La schermatura dalle
2
Otto modi per andare alla conquista di Marte
radiazioni su Marte è più semplice,
dato che la regolite di cui è composto il suolo marziano è un ottimo
isolante dalle radiazioni e può essere usata per schermare gli habitat.
Inoltre, si ritiene che su Marte siano
presenti molti tubi di lava di grandi
dimensioni, caverne che permetteranno di ricavare ampi locali facilmente pressurizzabili e al riparo
dalle radiazioni.
Gli aspetti cognitivi, psicologici e
culturali sono molto importanti e
andranno studiati in dettaglio. Un
primo aspetto, che influenza tutta
la progettazione della missione, è il
numero minimo di persone che vi
partecipano. Se da un lato è possibile pensare che due o tre persone
possano, grazie a un addestramento interdisciplinare e all’uso di calcolatori e sistemi automatici, avere
le competenze necessarie per portare a termine i compiti indispensabili, dall’altro lato si ritiene che, per
motivi psicologici, il numero minimo di persone debba essere maggiore e probabilmente l’equipaggio
della missione dovrà essere composto da almeno sei persone.
La grande distanza, che non permette di colloquiare via radio con
la Terra, riducendo ogni contatto
ad una serie di monologhi, certamente peggiora le cose da questo
punto di vista.
TEMPI E COSTI
Le difficoltà nello stimare i tempi
necessari per portare a termine la
prima missione umana su Marte
sono notevoli. L’attuale impostazione delle agenzie spaziali e la
roadmap del gruppo di coordinamento ISECG prevedono una serie
di missioni robotiche prima, e con
equipaggio poi, per acquisire le informazioni mancanti e per mettere
a punto le tecnologie necessarie al
viaggio su Marte. Adottando una
strategia di questo tipo, si può stimare che siano necessari almeno
Insediamento marziano come quello proposto dalla società Space X per una colonia di 80.000
persone.
25 anni e che pertanto si possa pensare che un equipaggio umano non
arriverà su Marte prima della fine
degli anni 2030, o forse molto dopo
se non si riuscirà a coagulare la necessaria volontà politica.
Se si riuscisse a ottenere un consenso sul tipo di quello che si era sviluppato per le missioni lunari degli
anni 1960, non sarebbe impensabile ridurre i tempi ad un decennio e
pensare ad una missione alla fine
degli anni 2020; oggi però questo
appare molto improbabile da un
punto di vista politico.
D’altra parte alcuni soggetti privati
sembrano voler affrontare la sfida
di una missione umana su Marte in
tempi molto più brevi, fino a parlare dell’inizio o della metà degli anni
2020. La cosa non è tecnicamente
impossibile, se si pensa ad una missione basata sulla tecnologia attuale,
ma è dubbio che i soggetti proponenti siano in grado di passare dai progetti ad una realizzazione concreta.
Bisogna infine notare che nessuno
dei proponenti, pubblici e privati,
vede la missione umana su Marte
come un’impresa singola; tutti la
intendono come un primo passo
che dovrà condurre nel tempo alla
creazione di uno o più insediamenti sul pianeta rosso nella seconda
parte del XXI secolo e poi a una
vera e propria colonizzazione nel
secolo successivo.
Se parlare di tempi è difficile, stimare i costi lo è ancora di più. Con
i costi dei programmi gestiti dalle
agenzie spaziali, difficilmente si
potrà scendere sotto gli 800- 1000
miliardi di euro, naturalmente da
spendere in 20 anni. Per un’impresa di questo genere, una spesa di
50 miliardi all’anno, suddivisa tra
molte nazioni partecipanti, è tutto
sommato ragionevole e non eccessiva. Razionalizzando le spese si
potrebbe pensare di poter ridurre
questa cifra a 500 miliardi, cosa
molto ragionevole. I privati, che intendono andare su Marte in modo
autonomo, prevedono costi molto
più bassi arrivando a ipotizzare un
totale di qualche decina di miliardi, con un minimo di 6 nel caso di
Mars One. Non c’è comunque dubbio che l’aumento del volume globale dell’economia, tendenza che
si è confermata anche durante la
recente crisi, e i progressi tecnologici che permettono di ridurre i costi,
renderanno la missione su Marte
sempre più realizzabile non solo
dalle agenzie spaziali, ma anche da
organizzazioni private.
Giancarlo Genta
‹ quaderni di astronomia n.2 › 19
‹ SEZIONE 1 ›
3
GIOVE, SVANISCE IL MITO
DELLA GRANDE MACCHIA ROSSA
Già descritta da Hooke nel 1664, questa
enorme tempesta da alcuni anni sta
rimpicciolendosi e sbiadendo. Ma il telescopio
spaziale Hubble ci mostra nell’atmosfera
gioviana la nascita di nuove perturbazioni
L
a Grande Macchia Rossa, descritta per la prima volta da
Robert Hooke nel 1664 e poi
con maggiore precisione da
Giovanni Cassini nel 1665,
è una vasta tempesta anticiclonica di forma ellittica, con una zona
centrale rossastra circondata da
una “cornice” di un giallo pallido,
arancione e bianco. È una struttura localizzata a circa 20° al di sotto
dell’equatore di Giove, che perdura
quindi da almeno 350 anni e che è
oggetto di osservazioni continue
da oltre un secolo.
La sua latitudine è rimasta stabile
per tutto il tempo in cui sono disponibili osservazioni attendibili, variando tipicamente entro un grado,
mentre la sua longitudine varia costantemente. Questo enorme vortice è riconoscibile da terra anche
con un buon binocolo oppure con
un telescopio amatoriale. Per quanto riguarda il motivo per cui il colore rosso intenso si osservi solo nella
Grande Macchia Rossa, oltre che in
alcune zone molto più piccole del
pianeta, si ritiene che l’altitudine
giochi un ruolo chiave.
Osservazioni nell’infrarosso hanno
20 ‹ quaderni di astronomia n.2 ›
indicato che questa enorme struttura atmosferica è più fredda (e quindi, raggiunge altitudini maggiori)
della maggior parte delle altre nubi
presenti sul pianeta (con una temperatura che è inferiore a −160 °C); lo
strato più alto di nubi della Grande
Macchia Rossa si trova a circa 8 km
al di sopra rispetto alle altre nuvole
presenti nell’atmosfera di Giove. La
circolazione dei venti nella macchia
è antioraria ed è stata determinata fin dalla fine degli anni Sessanta
grazie ad un attento monitoraggio
delle strutture atmosferiche gioviane ed è stata confermata dalle immagini riprese dalle sonde Voyager
durante i loro fly-by del 1979.
Questa maggiore altezza, con ogni
probabilità, è responsabile sia dell’attivazione del meccanismo che è alla
base del suo arrossamento sia della
sua amplificazione, in quanto i venti che in essa spirano trasportano
particelle di ammoniaca ghiacciata
più in alto nell’atmosfera, dove sono
esposte ad un flusso più intenso di
luce ultravioletta solare. Inoltre, la
natura a vortice della macchia confina le particelle, impedendo loro di
disperdersi. Tutto ciò porta la colo-
razione rossastra sulla sommità delle nuvole ad assumere un’intensità
superiore a quella che ci si potrebbe
altrimenti aspettare.
Sul pianeta ricorrentemente compaiono numerose altre tempeste
di minore entità, indicate genericamente come ovali bianchi o bruni a
seconda del colore e generalmente
senza una particolare denominazione. Questi vortici non appaiono
mai nella regione equatoriale e sono
confinati nella zona in cui la velocità del vento aumenta dall’equatore
verso i poli. La loro vita è proporzionale alle loro dimensioni e varia da
pochi giorni a centinaia di anni: gli
anticicloni con diametro di 10006000 km permangono generalmente per un periodo di 1-3 anni; tali
strutture, che non scendono molto
in profondità, infatti, si estendono
solo per poche decine di chilometri
al di sotto dello strato nuvoloso visibile. Gli ovali bianchi sono in genere
composti da nuvole relativamente
fredde nell’alta atmosfera. Gli ovali
marroni sono invece più caldi, e si
trovano a una quota più bassa.
Dal 2000, la fusione di tre grandi
ovali bianchi, che erano stati osservati in continuazione dal 1940,
ha portato alla formazione di una
nuova grande tempesta che da allora è andata sempre più intensificandosi. Denominata ufficialmente
Ovale BA, è stata chiamata informalmente Piccola Macchia Rossa
o “Macchia Rossa Junior” quando,
dall’agosto 2005, ha iniziato a colorarsi di rosso. Anch’essa è situata
nell’emisfero meridionale di Giove.
3
Giove, svanisce il mito della Grande Macchia Rossa
La Grande Macchia Rossa come appare oggi (nell’immagine grande e nell’ultima in basso a destra) e come appariva nel 1995 (in alto a destra,
lunghezza: 20 000 km) e nel 2009 (al centro a destra, lunghezza: 18.000 km) in immagini ottenute dal Telescopio Spaziale Hubble (NASA/ESA/Z. Levay, STScI).
Le simulazioni suggeriscono che la
Grande Macchia Rossa possa assorbire tempeste più piccole, e in effetti
episodi del genere sono stati osservati al telescopio, ma anche che
tempeste più piccole si distacchino
da questa enorme struttura atmosferica. In particolare, all’inizio del
2008 fu osservata una piccolissima
formazione distaccatasi dalla Grande Macchia Rossa, denominata
Macchia Rossa Neonata, che all’inizio dell’ottobre 2008 fu riassorbita
nuovamente.
Le dimensioni dell’asse maggiore
della Grande Macchia Rossa sono
però diminuite in maniera praticamente costante a partire dagli
anni Trenta. Tra il 1979 e il 1980 la
sua estensione massima si era ridotta a circa 23 000 km, al tempo
del passaggio della sonda Voyager
2, per poi diminuire ulteriormente nel 1995 a 20 000 km. All’inizio
del 2004 le sue dimensioni erano
approssimativamente meno della
metà di quelle che aveva un seco-
lo prima, quando, sulla base delle
osservazioni condotte a fine ‘800,
si stima che la macchia raggiungesse una larghezza massima di circa
41 000 km, oltre il triplo del diametro terrestre. Adesso è più piccola che
mai: di poco superiore a 16 000 km.
La Grande Macchia Rossa sta quindi rimpicciolendosi, anche se negli ultimi tempi il ritmo della sua
decrescita è diminuito, mentre intorno ad essa si sono create nuove
turbolenze. Nonostante questo rallentamento, il diametro maggiore
della Macchia Rossa è attualmente
di 240 km inferiore a quello misurato nel 2014. In precedenza, la decrescita è avvenuta anche al ritmo di
circa 1000 chilometri all’anno.
Questi rilievi vengono eseguiti annualmente con il Telescopio Spaziale Hubble (HST), usando la Wide
Field Camera 3 (WFC3). Sebbene i
venti intorno ai bordi della macchia
soffino a circa 120 m/s (430 km/h),
le correnti all’interno di essa sono
molto meno intense, con pochi flus-
si in ingresso o in uscita. Il periodo
di rotazione della macchia è diminuito con il tempo, probabilmente
come conseguenza della costante
riduzione delle sue dimensioni. Le
osservazioni mostrano mulinelli
molto piccoli che si alimentano della tempesta e che potrebbero aver
alterato le dinamiche interne e l’energia della Grande Macchia Rossa
ed averne accelerato il cambiamento. Rimane comunque un mistero la
natura del meccanismo che sta alla
base di questo fenomeno.
Adesso, grazie a queste osservazioni, è stata realizzata una nuova mappa di Giove, che rivela importanti
cambiamenti nell’atmosfera del
pianeta gigante, dalla formazione di
una rara onda appena a nord dell’equatore, alla comparsa di una misteriosa struttura filamentosa che esce
dalla Macchia Rossa e che viene distorta da venti che spirano a velocità
che superano i 500 km/h. L’accurata
analisi delle immagini ottenute dal
telescopio spaziale ha permesso di
‹ quaderni di astronomia n.2 › 21
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