Teoria dell`enunciazione - lettere.uniroma1.it

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L’enunciazione
Corso di Filosofia del linguaggio (prof. Stefano Gensini)
Dipartimento di Filosofia, Università “La Sapienza”
Filomena Diodato
Discorso e testo come unità della linguistica
Sebbene una linguistica del DISCORSO e del TESTO sia sempre esistita,
l’attenzione per la dimensione della testualità matura tardi negli studi linguistici
contemporanei.
Nella prima metà del Novecento il consolidamento dello STRUTTURALISMO
LINGUISTICO nella sua versione più ortodossa, privilegiando lo studio della
lingua come LANGUE, ha trascurato l’aspetto della testualità e più in generale la
dimensione della lingua in uso.
Successivamente, lo sviluppo della LINGUISTICA GENERATIVA di Chomsky ha
ulteriormente sfavorito lo sviluppo di una linguistica testuale, enfatizzando la
dimensione sintattica della lingua e quindi riconoscendo nella FRASE l’oggetto di
analisi della disciplina.
Non si può dire che il Novecento abbia completamente ignorato un approccio più
globale alla comunicazione e dunque alla lingua in uso.
Proprio l’esigenza di rendere conto del linguaggio in uso ha condotto a una
duplice SVOLTA PRAGMATICA, sia sul versante linguistico, con lo sviluppo
della LINGUISTICA DEL DISCORSO e poi della LINGUISTICA DEL TESTO,
sia sul versante filosofico, con la nascita della FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
ORDINARIO, soprattutto attraverso la nozione di ATTO LINGUISTICO
(Austin, 1962) e la definizione di SIGNIFICATO COME USO (Wittgenstein,
1953), che hanno avuto un peso importante sugli studi più strettamente
linguistici.
Austin, J. L., How to do things with words, Oxford University Press, 1962; tr. it. Come fare
cose con le parole, Marietti, Genova 1987.
Wittgenstein, L., Philosophische Untersuchungen, Oxford: Blackwell, 1953; tr. it. Ricerche
filosofiche, Einaudi, Torino 1967.
Nel rispetto della diversa evoluzione dei due filoni della linguistica del
discorso e della linguistica del testo non consideriamo sinonimi i termini
DISCORSO e TESTO, come nella lingua comune, né li differenziamo sul
piano diamesico (non è detto, infatti, che TESTO si riferisca a un’entità
comunicativa scritta e DISCORSO a una performance orale) o estetico (non
è detto nemmeno che la nozione di testo si applichi alle sole opere
letterarie).
Spesso, in analogia con le coppie fonema/fono, morferma/morfo,
frase/enunciato, lo scarto tra le due nozioni è rapportato alla dicotomia
langue/parole: il testo sarebbe un’occorrenza comunicativa complessa
astratta, quindi relativa alla langue, mentre il discorso consisterebbe in una
‘attualizzazione’ del testo, quindi relativa alla parole.
Più correttamente, testo e discorso sono due nozioni complementari che si
riferiscono entrambe alle modalità attraverso le quali il sistema linguistico si
realizza nella varietà delle pratiche comunicative, sebbene la linguistica del
discorso approfondisca le dimensioni della messa in discorso della lingua (cioè
il fenomeno dell’enunciazione) e la linguistica del testo sembri più attenta ai
meccanismi generali della produzione e della comprensione testuale, cioè
alle proprietà del testo.
Linguistica del discorso
Tra gli anni Quaranta e Settanta del secolo scorso, nell’ambito dello
strutturalismo linguistico matura una revisione della vulgata saussuriana
filologicamente più attenta alla ricostruzione del pensiero del linguista
ginevrino.
Si assiste, in particolare, alla messa in discussione della DICOTOMIA
LANGUE/PAROLE, intesa da Saussure come un principio metododologico e non
ontologico. Ciò porta, specialmente sul versante francese, con ÉMILE
BENVENISTE, allo sviluppo della LINGUISTICA DELLA PAROLE o DEL
DISCORSO, attenta ai meccanismi della “messa in funzionamento” della lingua
da parte dei parlanti.
La LINGUISTICA DEL DISCORSO si occupa non dei prodotti dell’attività
linguistica (atti di parole, enunciati), bensì dell’atto stesso di produrre un
enunciato (enunciazione).
• Ch. Bally, Linguistique générale et linguistique française, 1932.
• E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, 2 voll. 1966-1974;
• R. Jakobson, “Commutatori, categorie verbali e il verbo russo”, 1957.
• Le ricerche di Benveniste (che si snodano dal 1946 al 1970) muovono
nell’ambito della linguistica saussuriana, allo scopo di superare l’insufficiente
dicotomia tra langue e parole. La sua attenzione cade su quegli elementi
linguistici, come i pronomi e i dimostrativi, che fanno parte del sistema come
forme (langue) ma trovano il loro senso solo nella situazione di discorso
(parole).
• Benveniste è interessato alla conversione del linguaggio in discorso, ovvero alla
situazione di enunciazione in cui il parlante, attraverso un atto individuale, si
appropria della lingua, mettendola in funzionamento e presentandosi al
contempo come soggetto. Il linguaggio diviene così il luogo della soggettività.
Le teorie dell’enunciazione:
• rappresentano una sfida a tutte le teorie “riduttive” dell’oggetto della
semiotica e della linguistica, rilevando i limiti della langue
saussuriana, del ‘codice’ strutturalista e della competence chomskiana;
• riabilitano fattori esclusi dall’analisi linguistica e semiologica di diretta
discendenza saussuriana (come il soggetto, la realtà esterna,
l’interlocutore, le caratteristiche della situazione comunicativa, le
coordinate spazio-temporali ecc.), permettendo di superare la
“chiusura del campo” predicata dallo strutturalismo linguistico più
ortodosso.
L’enunciazione riguarda la REALIZZAZIONE VOCALE, ovvero
l’individualità e irripetibilità degli atti linguistici, ogni volta unici in relazione
alle diverse situazioni comunicative e comporta una SEMANTIZZAZIONE
della lingua poiché i segni linguistici assumono senso pieno solo quando
usati da un parlante in un contesto di discorso.
Il segno deriva la sua denotazione e la correlazione con i suoi sostituti
paradigmatici dal sistema linguistico cui appartiene, indipendentemente
dalla circostanza in cui è usato (modo semiotico, concezione della lingua
come sistema semiologico), ma diventa PAROLA solo nel momento in cui è
usato all’interno di una frase, che comporta sempre il riferimento alla
situazione comunicativa e al locutore.
Se il segno SIGNIFICA, la parola COMUNICA: queste sono, per Benveniste,
le due modalità fondamentali della funzione linguistica.
•Benveniste, E., Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; tr. it. Problemi di
linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971.
•Benveniste, E., Problèmes de linguistique générale II, Gallimard, Paris 1974; tr. it. Problemi
di linguistica generale II, Il Saggiatore, Milano 1985.
Come nella teoria di Humboldt (1836), che considerava la lingua come energeia,
come discorso (Sprechen) e il linguaggio come il luogo dell’incontro tra diverse
soggettività, la teoria dell’enunciazione rende conto della socialità e della
dialogicità del linguaggio umano.
La teoria di Benveniste contiene una sorta di “argomento contro il linguaggio
privato” (Wittgenstein, 1953), quando afferma che ogni evento comunicativo
coinvolge almeno due figure poste una di fronte all’altra e comporta una continua
variabilità della situazione discorsiva a seconda del locutore che prende la parola.
L’enunciazione comporta sempre il riferimento al mondo, anch’esso elemento
integrante dello scambio comunicativo.
In questo modo si supera definitivamente il PRINCIPIO DI IMMANENZA
(Hjelmslev 1943): la linguistica del discorso rinnega la cancellazione del soggetto
parlante e l’antireferenzialismo dello strutturalismo più ortodosso, considerando i
PARLANTI e il RIFERIMENTO come momenti essenziali dell’attività linguistica
(Benveniste, 1970, tr. it. 1985, p. 99).
Hjelmslev, L., Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse, 1943; trad. it. I fondamenti della teoria
del linguaggio, Einaudi, Torino 1968.
L’apparato formale dell’enunciazione
Alcuni elementi linguistici svolgono il ruolo di mettere il locutore in
rapporto costante e necessario con la propria enunciazione e
costituiscono l’apparato formale dell’enunciazione. Questi elementi
hanno due caratteristiche precipue:
a)
b)
ci deve essere un soggetto che assume e usa quelle forme linguistiche;
hanno una referenza variabile, fissata in relazione al locutore e alla
situazione di enunciazione.
Le forme linguistiche in esame sono:
1.
2.
3.
4.
5.
Gli indici di persona;
Gli indici dell’ostensione;
Le forme della temporalità;
Le forme dell’illocutività;
Le modalità.
Pronomi/nomi
•
“Struttura delle relazioni di persona nel verbo” (1946); “La natura dei pronomi” (1956);
“La soggettività nel linguaggio” (1958)
La teoria di Benveniste parte dall’analisi dei pronomi, e della deissi in generale;
alla funzione deittica del linguaggio (Zeigenfunktion) aveva dedicato molta
attenzione Karl Bühler nel volume Sprachtheorie (1934), che ha probabilmente
avuto influenza sui lavori del linguista francese.
Secondo Benveniste, l’enunciato che contiene un pronome appartiene al livello
pragmatico, come definito da Morris (1938). Difatti, mentre i nomi si riferiscono
a nozioni costanti e “oggettive” e appartengono alla “sintassi della lingua”, i
pronomi mutano la propria referenza in relazione a fattori quali il locutore e la
situazione dell’enunciazione. Il pronome non rimanda a una classe o a una
categoria concettuale definita, né a un individuo preciso, stabilito una volta per
tutte. I pronomi innescano un sistema di riferimenti interno al linguaggio,
mentre nei nomi il riferimento è rivolto all’esterno.
I pronomi di prima e seconda persona singolare (io, tu) sono categorie linguistiche
trascendentali; appartengono alla “situazione di discorso” e, più in generale, al “processo di
enunciazione linguistica”.
Tutte le lingue che possiedono verbi esprimono grammaticalmente la categoria della
persona.
Benveniste opera una distinzione tra la I e la II persona e la III persona; quest’ultima è una
non-persona in quanto non ha referenza variabile. Al contrario, la referenza di io e tu
dipende dal soggetto che prende in carico l’una o l’altra in una particolare situazione
enunciativa. Io e tu hanno un riferimento specifico, indicando i due attori dell’interazione
comunicativa; la III persona invece ha un riferimento indeterminato. Il diverso statuto della
III persona è testimoniato anche dal diverso trattamento grammaticale che riceve nella
maggior parte delle lingue (per es. io e tu non sono pluralizzati secondo processi
morfologici “normali”).
Secondo Benveniste, io e tu sono delle forme vuote, ovvero “indici” che non asseriscono
nulla al di fuori della situazione di discorso. Questa affermazione ha scatenato un dibattito
che ha corretto l’impostazione di Benveniste:
 Dal punto di vista della referenza, le forme deittiche sono “vuote” quindi prive di
referenza solo a livello di langue, mentre acquisiscono referenza piena nella
situazione di discorso.
 Dal punto di vista del significato, i deittici non sono “vuoti” ma uguali agli altri
segni: hanno infatti un significato convenzionale che può essere reperito nei
dizionari.
La presenza della deissi nelle lingue le rende più funzionali e più padroneggiabili
dall’uomo, risponde quindi a ragioni di economia cognitiva.
A questo scopo, i pronomi personali presentano 3 proprietà:
1.
unicità: l’io e il tu sono ogni volta unici; io è colui che parla, tu il
destinatario dell’atto linguistico in quella medesima condizione spaziotemporale;
2.
invertibilità: io e tu sono invertibili in un’altra situazione di discorso – io
e tu si definiscono in uno spazio non solo linguistico ma pragmatico;
3.
la terza persona designa un’entità esterna allo scambio comunicativo, che
non si pone come persona; in questo senso la terza persona è l’unica
mediante la quale una cosa può essere predicata verbalmente.
Difatti, la terza persona può essere adibita ad altri usi (forma di
cortesia/di disprezzo).
Correlazione di personalità/soggettività
Sulla base di quanto detto, Benveniste individua due correlazioni:
1. Correlazione di personalità, che oppone io/tu alla non-persona egli;
2. Correlazione di soggettività, che oppone la persona soggettiva io alla persona
non soggettiva tu.
(personalità)
+
-
(soggettività)
+
i
o
-
tu
egli
Linguaggio come luogo della soggettività
Secondo Benveniste, solo nel linguaggio e mediante il linguaggio l’uomo può
costituirsi come soggetto. Più precisamente, le espressioni della soggettività sono
nella lingua e aspettano che un individuo se ne appropri e le usi in un concreto
atto di enunciazione.
Forme che permettono l’espressione della soggettività non si trovano in altri
sistemi semiotici (tranne che nelle lingue segnate dei sordomuti), per cui il
linguaggio è l’unico luogo in cui il soggetto pone se stesso come io e pone
contemporaneamente un tu.
L’analisi della soggettività approda dunque alla conclusione che la lingua possa
essere assunta solo in condizioni di intersoggettività. Ciò rende conto della
natura eminentemente sociale e dialogica del linguaggio (si veda per es.
Humboldt 1936).
Parola/Frase
Secondo Benveniste, la parola e la frase si collocano a livelli distinti del linguaggio
e coprono funzioni differenziate.
La parola ha due funzioni:
▫ costitutiva (può essere scomposta in unità di livello inferiore);
▫integrativa (le parole si integrano in unità di livello superiore, la frase);
La frase ha due funzioni:
▫ costitutiva (può essere scomposta nei suoi elementi costituenti, le parole –
ma solo sul pano formale, non sul piano del senso);
▫ predicativa, che si realizza secondo 3 modalità (asserzione, interrogazione,
ordine);
▫ referenziale (la frase ha un senso e una referenza).
Nel passaggio dalla parola alla frase si passa dal livello della lingua a quello del
discorso, ovvero dalla lingua come sistema di segni al linguaggio come mezzo di
comunicazione. La comunicazione è infatti l’interazione tra locutori che sono in
gradi di co-riferirsi alle medesime situazioni.
Modo semiotico/modo semantico
Secondo Benveniste le due modalità riguardano le due funzioni principali della
lingua
•
•
significare (modo semiotico)
comunicare (modo semantico).
 Semiotico è il modo di significare proprio del segno linguistico, che ha un
senso garantito dalla lingua, indipendentemente dalla realtà extralinguistica.
 Semantico è il modo di significare proprio della frase, che implica costante
riferimento alle particolari situazioni di discorso. La modalità semantica
permette la comunicazione.
L’unità minima della dimensione semantica è la parola, a differenza della modalità
semiotica che ha come unità di base il segno. La dimensione semantica trova, però,
la sua espressione per eccellenza nella frase, che mette in primo piano non il
significato dei segni bensì l’intento, ovvero ciò che il locutore vuole dire, e che
implica sempre il riferimento alla situazione di discorso.
N.B. Questa distinzione non corrisponde a quella saussuriana tra langue e parole.
Referente discorsivo/referente oggettuale
• I segni nominali hanno un referente oggettuale, mentre i pronomi e
gli altri fenomeni pragmatici hanno un referente discorsivo.
• In realtà, anche i pronomi hanno un referente oggettuale (io designa
un oggetto, o meglio un soggetto, il soggetto che parla), solo che
questo secondo livello passa necessariamente attraverso la
mediazione del discorso.
• Il discorso è allora un mediatore necessario per stabilire la referenza
(sui-referenzialità).
Rapporto tra soggetto e enunciazione
(soggettività)
Il rapporto costante e necessario tra il locutore e la propria enunciazione
è garantito da una serie di indicatori linguistici, tra cui:
1.
2.
3.
indici di persona (pronomi personali);
forme della temporalità;
indici dell’ostensione (ovvero termini che implicano un gesto
compiuto mentre è proferito il termine stesso, come i dimostrativi
che
a)
b)
riproducono la correlazione di personalità (io/tu);
si riferiscono agli oggetti in maniera co-estensiva
dell’enunciazione).
all’atto
Rapporto tra locutore e allocutore
(intersoggettività)
Nel momento in cui il parlante si pone come soggetto (io) pone
contemporaneamente un allocutore (tu). Il locutore dispone di una serie
di strumenti linguistici per influenzare il comportamento dell’altro,
come l’interrogazione, l’intimazione e l’asserzione.
Ne La soggettività nel linguaggio (1958), Benveniste anticipa la nozione di
verbo performativo, che svilupperà in altri suoi scritti (tra cui La
filosofia analitica e il linguaggio, 1963), dandone la seguente definizione:
Gli enunciati performativi sono enunciati in cui un verbo dichiarativo - ingiuntivo
alla prima persona del presente è costruito con un dictum. Così: ordino (comando,
decreto) che la popolazione sia mobilitata. È effettivamente un dictum, poiché ne è
indispensabile l’enunciazione espressa perché il testo abbia valore esecutivo [=
performativo].
Approfondimento: La teoria degli atti linguistici di Austin
La teoria degli atti linguistici (speech acts) di J. L. Austin (Come fare cose con le
parole, 1962, trad. it. 1987) si fonda sull’intuizione che non usiamo le parole solo
per descrivere stati di cose ma anche per compiere delle azioni, per fare delle cose.
Quando un parlante proferisce un enunciato (come La porta è aperta) non si limita
a descrivere uno stato del mondo ma compie un’azione (ordina di uscire, invita a
entrare, minaccia …).
Secondo questa teoria il linguaggio ha una funzione istituzionale e sociale.
Ogni atto linguistico comprende (almeno) tre aspetti:
1. L’ATTO LOCUTORIO corrisponde al proferimento di un’espressione
sintatticamente ben formata e dotata di significato (come La porta è aperta).
2. L’ATTO ILLOCUTORIO corrisponde al compimento di una delle tante azioni
che è convenzionalmente possibile compiere dicendo qualcosa (proferendo
un enunciato come La porta è aperta si può ordinare qualcosa, promettere
qualcosa, invitare qualcuno ….)
3. L’ATTO PERLOCUTORIO corrisponde alle conseguenze, agli effetti non
convenzionali e non prevedibili dell’atto illocutorio. (non sempre un ordine,
una promessa, un invito sono intesi come tali dall’interlocutore).
Per Austin, l’atto illocutorio corrisponde agli aspetti convenzionali dell’atto
linguistico: le regole del linguaggio associano convenzionalmente alle formule
linguistiche una FORZA ILLOCUTORIA. Alcuni atti linguistici sono, infatti,
governati da PROCEDURE CONVENZIONALI come “Ti presento …” per
presentare qualcuno, “Vi dichiaro marito e moglie” per celebrare un matrimonio,
“Battezzo …” per battezzare una nave o un bambino, ecc.
Altre volte la forza illocutoria è data dalle circostanze in cui l’atto viene proferito
(per es. La porta è aperta è un ordine, un invito o una minaccia a seconda del
contesto in cui l’atto è prodotto).
Per Austin, la FORZA ILLOCUTORIA è quel livello convenzionale per cui un atto
diventa valido se ratificato, se accettato dall’interlocutore: per es. un ordine è tale
solo se l’interlocutore lo accetta e lo esegue. L’atto linguistico ha successo solo
quando l’intenzione manifestata pubblicamente dal parlante viene riconosciuta
dall’interlocutore.
Austin sofferma la sua attenzione sui PERFORMATIVI, quei verbi che servono a
esplicitare l’intenzione comunicativa del parlante, come ordino, prometto,
dichiaro, ecc. Tuttavia, generalizza eccessivamente la sua teoria, affermando la
difficoltà di distinguere i performativi dai constativi ed estendendo la nozione di
performatività fino a renderla di difficile applicazione.
I performativi secondo Benveniste
Per Benveniste, i performativi hanno due caratteristiche in comune con la questione
dell’enunciazione; sono:
a) unici (sono atti linguistici enunciati in circostanze particolari, e ogni atto è un
nuovo atto);
b) sui-referenziali (cioè si riferiscono a una realtà che essi stessi costituiscono).
Un enunciato performativo deve contenere:
1.
un verbo che lo stesso atto compie (per es. nomino, dichiaro giudico costituiscono
rispettivamente una nomina, una dichiarazione, un giudizio);
2.
il verbo deve essere nella forma dell’indicativo presente alla prima persona
singolare.
Contrariamente ad Austin, Benveniste limita la nozione di performativo ad ambiti ben
precisi, distinguendola sia dall’imperativo sia da formule sfumate (come l’avviso “Cane
feroce”) che il filosofo inglese inglobava nella categoria della performatività. L’ambito in cui
si realizzano i performativi sono:
a)
Gli atti di autorità;
b)
Enunciati che pongono un impegno personale.
Anche Benveniste individua le condizioni di validità del performativo che funziona solo
nelle circostanze che lo rendono esecutivo.
Il performativo comprende due atti distinti:
a)
L’atto di dire;
b)
L’atto compiuto attraverso l’enunciazione.
Rapporto tra soggetto dell’enunciazione ed enunciato
(modalità)
Il soggetto può marcare il proprio enunciato indicando l’atteggiamento verso di
esso e verso ciò che esso esprime.
Ne La soggettività nel linguaggio (1958), Benveniste nota che alcuni verbi, come
supporre, presumere, sperare ecc. non indicano un’azione bensì un atteggiamento
(proposizionale).
Le modalità formali si suddividono in due classi:
a) Modi verbali che esprimono atteggiamenti (attesa, augurio, apprensione,
dubbio ecc); per es. il congiuntivo.
b) Espressioni fraseologiche che esprimono dubbio, incertezza, possibilità ecc.
La temporalità
Il presente è il tempo al quale si ancorano sia il passato che il futuro. Gli
altri tempi verbali si ancorano al presente il quale, a sua volta, si ancora al
linguaggio: il presente è “il tempo in cui si parla”.
Il presente linguistico non ha una realtà oggettiva esterna ma è
coestensivo alla situazione di enunciazione. In questo senso è suireferenziale, ovvero si riferisce a una realtà che esso stesso istituisce.
La lingua ha la capacità di concettualizzare il tempo (p. 41). Infatti,
Benveniste distingue tra:
a) Tempo fisico, che scorre in maniera lineare e irreversibile ed è
valutato in maniera soggettiva;
b) Tempo cronico, oggettivato e socializzato; è il tempo degli orologi e
del calendario;
c) Tempo linguistico, che è una forma di organizzazione
dell’esperienza. Il tempo linguistico è sempre il presente, che è
implicito in qualsiasi discorso.
Discorso e storia
Riguardo alla temporalità, Benveniste distingue tra enunciazione discorsiva o
discorso, quella in cui i fatti sono individuati rispetto al presente
dell’enunciazione e l’enunciazione storica (o storia), quella in cui i fatti sono
individuati senza riferimento al presente dell’atto enunciativo.
L’enunciazione storica presenta le seguenti caratteristiche (es. p. 39):
1)
Impiego del passato remoto (aoristo) come tempo base, a cui si ancorano l’imperfetto e il
piucheperfetto;
2)
Assenza di deittici;
3)
Esclusione delle forme pronominali di I e II pers.;
4)
Uso esclusivo della III pers. (assenza di persona).
L’enunciazione discorsiva presenta le seguenti caratteristiche :
1)
Uso del presente come tempo base, a cui si ancorano gli altri tempi, tranne l’aoristo;
2)
Uso dei deittici;
3)
Impiego delle forme pronominali di I e II pers.;
4)
Uso possibile della III pers. (non-persona).
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