Genetica e aspetti neurofunzionali della

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Capitolo 5
Genetica e aspetti
neurofunzionali
della schizofrenia
Per tutto il corso dell’ultimo secolo, la ricerca sulle cause e sulla fisiopatologia della schizofrenia, nonostante i progressi non indifferenti a livello di trattamento, non ha portato
a risultati soddisfacenti. Un’importante finestra di indagine su questi aspetti si è aperta
negli ultimi due decenni grazie ai progressi fatti dalla ricerca genetica e dalle relative
applicazioni nello studio dei disturbi mentali e della schizofrenia in particolare.
Le indagini sull’ereditarietà della schizofrenia iniziano durante i primi anni del Novecento a Monaco sotto la guida di Emil Kraepelin, i cui risultati sono pubblicati da Ernst
Rüdin nel 1916 (“Zur Vererbung und Neuentslehung der dementia praecox”, 1916)
(Kendler e Diehl, 1993). Tuttavia, con l’affermarsi del nazionalsocialismo, tali ricerche
vengono in seguito utilizzate come basi per l’elaborazione dei concetti di eugenetica e
igiene razziale, con conseguenze nefaste, tali da portare psichiatri tedeschi come Karl
Leonhard a smettere di porre diagnosi di schizofrenia, per evitare di mettere a rischio la
vita dei propri pazienti.
Sebbene il genocidio del popolo ebreo da parte dei nazisti durante la Seconda Guerra
Mondiale sia ben noto a tutti, il contemporaneo progetto di “eutanasia sociale” dei
pazienti psichiatrici lo è molto meno. Si è tentato di stimare il numero di persone con
diagnosi di schizofrenia che furono sterilizzate e uccise dai nazisti, nonché di valutarne
l’effetto sulla successiva prevalenza e incidenza di schizofrenia. Si stima che furono sterilizzati o uccisi tra 220.000 e 269.500 soggetti schizofrenici. Questo totale rappresenta
una percentuale tra il 73% e il 100% di tutte le persone con schizofrenia che vivevano in
Germania tra il 1939 e il 1945. Gli studi sulla prevalenza della schizofrenia in Germania
condotti in periodo post-bellico riportavano, come c’era da aspettarsi, tassi molto bassi.
Nonostante tutto, i tassi di incidenza di schizofrenia in Germania restavano inaspetta111
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tamente alti. Il genocidio nazista dei pazienti psichiatrici rappresenta il maggiore atto
criminale nella storia della psichiatria, basato inoltre su quelle che oggi sappiamo essere
teorie genetiche errate, dal momento che non ha avuto nessun apparente effetto a lungo
termine sulla successiva incidenza di schizofrenia (Torrey et al., 2010).
Gli studi familiari e su gemelli effettuati nella seconda metà del secolo scorso e volti
a indagare le modalità di trasmissione del disturbo hanno rivelato un elevato grado di
ereditabilità, con una concordanza fra gemelli monozigoti di circa il 50% (ben lontani dal
100% caratteristico di una malattia a trasmissione mendeliana), notevolmente superiore
rispetto a quella fra gemelli dizigoti e fratelli (Cardno et al., 1999). Tuttavia, la ricerca
dei geni o delle alterazioni responsabili non ha portato a risultati troppo soddisfacenti,
sottolineando l’esistenza di un modello eziopatogenetico molto più complesso, in cui
oltre ad alterazioni genetiche classiche si aggiungono variazioni epigenetiche (l’epigenetica studia l’attività di regolazione ed espressione dei geni che modificano il fenotipo
dell’individuo senza alterarne il genotipo) e l’influenza di alcuni fattori ambientali come
sofferenze perinatali, migrazione e urbanizzazione, abuso di cannabis (Kristensen e
Cadenhead, 2007; Tandon et al., 2008; van Os e Kapur, 2009).
Il riconoscimento del ruolo svolto dai fattori genetici e ambientali nello sviluppo della
malattia rende necessaria la riconcettualizzazione del fenomeno “schizofrenia”, che
alla luce dei suddetti dati, può essere oggi visto come un disturbo, o meglio ancora un
insieme di disturbi, a carattere neuro-evolutivo. Tutte le variazioni genetiche riscontrate
nei pazienti schizofrenici interferiscono con geni coinvolti in meccanismi di crescita,
maturazione e plasticità neuronale. Le interazioni fra ambiente e genoma, in particolare durante momenti cruciali della crescita, come i primi periodi di vita o l’adolescenza,
andranno a influenzare in maniera sostanziale lo sviluppo del cervello e, di conseguenza,
la sua funzionalità (Caspi et al., 2005; van Os e Kapur, 2009; Bossong e Niesink, 2010).
Secondo questo modello, la presenza di una suscettibilità genetica, data dalla presenza
di alterazioni a livello di alcuni loci, rende alcuni soggetti particolarmente sensibili a tali
influenze ambientali e li pone a rischio per lo sviluppo non solo di schizofrenia ma anche
di altre patologie, come per esempio il disturbo bipolare.
Questa riconcettualizzazione mette in luce due importanti aspetti. Da un lato sottolinea
come a essere “ereditata” non sia la patologia in toto, ma solo specifiche alterazioni neurobiologiche che aumentano la vulnerabilità del soggetto nei confronti dell’espressione di
determinate dimensioni sintomatologiche, in presenza di fattori ambientali stressanti;
dall’altro lato invece, in virtù delle importanti sovrapposizioni a livello genetico, neurobiologico e clinico porta a riconsiderare profondamente la dicotomia kraepeliniana,
ovvero quella distinzione netta fra disturbo bipolare e schizofrenia che ha permeato la
psichiatria per tutto il secolo scorso (Craddock e Owen, 2010).
L’utilizzo di queste nuove conoscenze permetterà quindi in un futuro non lontano di
cominciare a trattare “le schizofrenie” soprattutto a livello prodromico, quando la sintomatologia è ancora aspecifica ma è già possibile modificare incisivamente la traiettoria
del disturbo e migliorare considerevolmente la prognosi del paziente, come già avviene
in parte nel trattamento dei disturbi dello spettro dell’autismo.
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Impatto della genetica
nella schizofrenia: alterazioni
del neurosviluppo e coinvolgimento
del sistema immunitario
Durante il corso degli anni, vari studi di linkage (che cercano l’associazione fra una determinata regione cromosomica e la trasmissione del tratto fenotipico in questione attraverso successive generazioni) hanno individuato svariati segmenti genomici che potrebbero essere correlati alla schizofrenia, tuttavia la maggior parte di essi contiene più geni
e non è specifica per questo disturbo (Zhang e Malhotra, 2013).
Nell’ultimo decennio, molti ricercatori hanno esteso le proprie indagini andando ad
analizzare la presenza di variazioni di singoli nucleotidi (Single Nucleotide Polimorphisms, SNP) all’interno di geni target o a livello di tutto il genoma (Genome-Wide Association Study, GWAS), scoprendo molte varianti genetiche potenzialmente coinvolte
nell’eziopatogenesi del disturbo (International Schizophrenia Consortium, 2008).
Un altro tipo di variazioni genetiche spesso riscontrate sono le cosiddette copy number
variations (CNV), ossia variazioni della sequenza genomica che implicano la duplicazione
o la delezione anomala di alcuni tratti di DNA, causandone alterazioni della normale
organizzazione in doppia copia. Questo tipo di mutazioni sembra avere un effetto
causale quantitativamente più rilevante rispetto ai sopra menzionati SNP, tuttavia anche
in questo caso non vi è specificità per un unico disturbo (Insel, 2010) (Box 5.1).
Tuttavia, nonostante i risultati spesso contraddittori di molti studi, il coinvolgimento di
alcuni geni è stato molto spesso dimostrato, almeno in una buona parte degli individui
affetti.
BOX 5.1
EREDITARIETÀ DEI DISTURBI SCHIZOFRENICI
• Non viene trasmesso il disturbo, ma probabilmente solo alterazioni a carico di alcuni
circuiti neuronali che, in combinazione con fattori ambientali, aumentano la suscettibilità del soggetto alla comparsa delle relative dimensioni sintomatologiche.
• La riconcentualizzazione della schizofrenia come un insieme di patologie, probabilmente diverse, del neurosviluppo, pone l’accento sull’importanza del monitoraggio
dei soggetti a rischio e della diagnosi precoce.
• Alcune delle evidenze suggeriscono un coinvolgimento del sistema immunitario nella fisiopatologia del disturbo.
• Le alterazioni genetiche finora documentate sono state riscontrate anche in pazienti
affetti da disturbo bipolare, mettendo in discussione la dicotomia kraepeliniana che
ha permeato la psichiatria del secolo scorso.
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Nel 2000, un importante studio familiare (Millar et al., 2000) ha messo in luce l’associazione fra disturbo bipolare e schizofrenia in soggetti con una particolare traslocazione a
livello del cromosoma 1. Studi successivi hanno poi dimostrato come questa mutazione
andasse a interrompere la sequenza di un gene, denominato poi DISC1 (Disrupted In
Schizophrenia-1), i cui prodotti sembrano essere coinvolti in meccanismi citoscheletrici
e di plasticità neuronale. Tuttavia, nessun particolare polimorfismo è risultato specifico
e il coinvolgimento di DISC1 sembra conferire maggior suscettibilità non solo per la schizofrenia, ma anche per la depressione maggiore e in particolare per il disturbo bipolare,
con cui sembra condividere molte delle più importanti correlazioni genetiche finora individuate (Hennah et al., 2009; Chubb et al., 2008).
Studi di linkage hanno trovato un’associazione fra un aumentato rischio di andare
incontro a schizofrenia e alterazioni a livello di NRG1, un gene presente sul cromosoma
8 (Li et al., 2006). I prodotti della trascrizione di questo gene sono coinvolti in svariati
meccanismi, quali crescita e migrazione neuronale, plasticità sinaptica e comunicazione
intercellulare. Uno studio effettuato su topi geneticamente modificati per NRG1 ha
evidenziato funzionalità ridotta dei recettori NMDA (N-metil-D-aspartato) per il glutammato, coinvolti molto probabilmente nell’eziopatogenesi della schizofrenia (Bjarnadottir
et al., 2007). Nonostante siano stati individuati numerosi polimorfismi a livello di NRG1,
nessuno di questi sembra essere però specifico per schizofrenia, anche se potrebbero
risultare utili per individuare i soggetti a rischio, come dimostrato da uno studio in cui
i portatori (ad alto rischio) di un determinato SNP hanno successivamente effettuato la
transizione a un quadro di schizofrenia franca (Kéri et al., 2009).
Un altro gene individuato grazie a studi di associazione è stato DTNBP1, codificante per la
proteina disbindina, implicata anch’essa in processi di crescita neuronale e trasmissione
sinaptica. Allo stesso modo di NRG1, sono molteplici le alterazioni a carico di questo
gene, che sembrano però essere correlate a deficit cognitivi, sia in pazienti schizofrenici
sia in controlli sani (Burdick et al., 2006; Zhang et al., 2010).
Il gene COMT (codificante la proteina catecol-O-metiltransferasi, coinvolta nel metabolismo di alcuni neurotrasmettitori, come la dopamina) è presente sul cromosoma 22 in
posizione q11. La delezione di questo gene è causa della sindrome velo-cardio-faciale
(sindrome di DiGeorge), che associa anomalie facciali a malformazioni cardiache, deficit
intellettivo e una sindrome psichiatrica molto simile alla schizofrenia. È inoltre uno dei
rari casi in cui una singola mutazione porta a sviluppare una condizione clinica di tipo
schizofrenico (Karayiorgou et al., 2010).
Successivi studi di associazione a livello dell’intero genoma (GWAS) hanno portato alla
luce ulteriori regioni di DNA potenzialmente implicate nella fisiopatologia della schizofrenia, come il gene ZNF804A o il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC).
ZNF804A, uno dei primi geni a essere individuato con tale metodica, è presente sul
cromosoma 2q32.1 ed è espresso in maniera estesa a livello del SNC, della corteccia,
dell’ippocampo e del cervelletto. È coinvolto in meccanismi di trascrizione del gene
COMT e interferisce quindi con il metabolismo della dopamina (Girgenti et al., 2012).
Più recentemente è stata dimostrata la presenza di alcuni polimorfismi a livello di tale
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gene associati a deficit verbali in soggetti affetti da disturbo dello spettro dell’autismo,
anche se sono necessari studi su campioni più ampi (Anitha et al., 2014).
Il coinvolgimento del MHC sul cromosoma 6p21.3-22 è invece uno dei risultati più replicati degli studi GWAS. È una regione con un’alta frequenza di ricombinazione e codifica per geni coinvolti in processi di neurosviluppo o di plasticità neuronale e relativi al
sistema immunologico, che forniscono le basi per l’ipotesi di una patogenesi (almeno in
parte) immuno-mediata della schizofrenia (Zhang et al., 2010) (Box 5.2).
A livello neurotrasmettitoriale, è stata evidenziata una ridotta funzionalità dei recettori NMDA e una ridotta sintesi dell’isoforma 67 dell’acido glutammico decarbossilasi
(GAD67), responsabile della sintesi dell’acido gamma-aminobutirrico (GABA) (Adell et
al., 2012; Pehrson et al., 2013). Questi correlano con le anomalie cognitive tipiche della
schizofrenia, soprattutto la memoria di lavoro (working memory) (Eggan et al., 2012).
In particolare, si evidenzia una riduzione nei livelli di proteine e di RNA messaggero
(mRNA) del recettore cannabinoide CB1 nella DLPFC dei soggetti schizofrenici: l’entità
di questa espressione alterata correla con quella dell’mRNA del GAD67, evidenziando
BOX 5.2
IL SISTEMA IMMUNITARIO NELLA FISIOPATOLOGIA
DEI DISTURBI SCHIZOFRENICI
• Sono molte ormai le evidenze a favore di un coinvolgimento del sistema immunitario
nei meccanismi fisiopatologia della schizofrenia. Studi epidemiologici e clinici sottolineano il ruolo di fattori di rischio di alcuni agenti infettivi per lo sviluppo di schizofrenia e nel liquido cerebrospinale di pazienti affetti sono stati riscontrati livelli aumentati
di citochine pro-infiammatorie (Müller, 2014). A livello genetico, invece, uno dei loci
più frequentemente coinvolti è in posizione 6p21.3-22, codificante per il MHC.
• L’associazione fra infiammazione cronica e schizofrenia è inoltre rafforzata dal riscontro di sintomi psicotici durante il corso di sclerosi multipla, infezioni virali da herpes virus e morbillo e processi autoimmuni come il lupus eritematoso (Müller, 2014).
• I meccanismi infiammatori a livello del SNC sono mediati da cellule microgliali, cellule
astrocitarie (in aggiunta ai linfociti T e B) e dalle citochine pro-infiammatorie da esse
rilasciate.
• Un’eccessiva e sregolata risposta infiammatoria a seguito di infezioni o altri stimoli
ambientali può da sola essere causa di danno cellulare oppure, molto più frequentemente, l’iniziale risposta a determinati agenti può portare a una sensibilizzazione
del sistema immunitario causando un rilascio aumentato e sproporzionato di citochine pro-infiammatorie in seguito alla ri-esposizione allo stesso agente, oppure anche
a fattori stressanti generici. L’importanza di tali meccanismi nella patogenesi della
schizofrenia è sottolineata da evidenze che mostrano come le interleuchine IL-1β
e IL-6 sembrino giocare un ruolo importante nello sviluppo dei sistemi di neurotrasmissione coinvolti nella patogenesi della schizofrenia (Winter et al., 2009), mentre il
riscontro di livelli aumentati di IL-8 nel plasma materno durante la gravidanza (indipendentemente dalla causa) sia stato associato a un maggior rischio di sviluppo del
disturbo nella prole (Brown et al., 2004).
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116 Capitolo 5
come entrambi i tipi di trascrizione siano deficitari nella stessa popolazione di neuroni
GABA nella DLPFC dei soggetti con schizofrenia (Eggan et al., 2012).
Come già menzionato sopra, un’altro meccanismo di alterazione a carico del genoma
è rappresentato dalle CNV, che sembrano avere un effetto causale più esteso, anche se
ugualmente non specifico, rispetto alle altre variazioni già descritte. Inoltre, le CNV
sono molto frequenti in casi sporadici di schizofrenia, possono coinvolgere geni diversi
in individui diversi ed essere mutazioni de novo (Singh et al., 2009). Le più frequenti
CNV associate a schizofrenia (sia delezioni sia duplicazioni) si riscontrano in posizione
1q21.1, 3q29, 15q11.2, 15q13.3, 16p11.2, 16p13.1, 17p12, 22q11.21. Come nel caso di
altre patologie, delezioni e duplicazioni diventano più frequenti all’aumentare dell’età
dei genitori e, per quanto riguarda in particolare la schizofrenia, con l’età paterna (Malaspina et al., 2001). Nonostante sia stato ipotizzato un certo grado di sovrapposizione fra
disturbo dello spettro dell’autismo e schizofrenia rispetto a queste varianti, i dati sono
ancora incerti e non vi sono evidenze sufficienti (Crespi e Crofts, 2012) (Tab. 5.1).
Recentemente, sono aumentate le evidenze riguardo al fatto che fattori ambientali
possano alterare l’espressione dei geni attraverso meccanismi epigenetici, ovvero
modificazioni chimiche del DNA che influiscono sulla traduzione e trascrizione senza
alterarne la struttura. Queste potrebbero essere potenzialmente molto rilevanti, in
Tabella 5.1 Genetica dei disturbi schizofrenici
Allele
Copy number variant
Associazione genetica
Genoma
Genome-wide
association study
Genotipo
Ereditabilità (h2)
Studio
di linkage
Fenotipo
Polimorfismo
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Una delle più varianti di un gene
Un tipo di variazione della sequenza del genoma (duplicazioni o
delezioni) che porta ad alterazioni della normale organizzazione
in doppia copia del corredo genetico (es. cromosoma
soprannumerario)
Associazione fra una determinata variante genetica e un tratto
fenotipico o una malattia
L’intero insieme di informazione genetica che un organismo
possiede
Uno studio che valuta l’associazione fra un tratto fenotipico e il
corredo genetico prendendo in considerazione un numero
molto elevato di varianti genetiche (fino a 1 milione). Non sono
necessarie ipotesi a priori sul gene interessato
Costituzione genetica di un individuo
Definisce la proporzione della variazione fenotipica in un tratto
attribuibile a effetti genetici
Tipo di studio epidemiologico che cerca un’associazione fra una
regione cromosomica e la trasmissione di un particolare tratto
fenotipico attraverso più generazioni
Le caratteristiche osservabili di una cellula o un individuo, che sono
il risultato del prodotto trascrizionale di un gene
La presenza di più di 2 varianti dello stesso gene, con frequenza
dell’allele meno comune di almeno 1% nella popolazione
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Genetica e aspetti neurofunzionali della schizofrenia
Alterazione
espressione genica
Fattori ambientali
Infezioni
Ipossia
Cannabis
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Stress
Alterazione
del neurosviluppo
Prenatale
Perinatale Adolescenza
Alterazione
della connettività e dei
circuiti neuronali
Suscettibilità genetica
Compromissione della
processazione delle
informazioni
(SNP, CNV, epigenetica)
DTNBP1, NRG1, COMT, DISC1, ZNF804A ecc.
Modificazione delle
funzioni cognitive,
dell’affettività e del
comportamento
FIGURA 5.1 Suscettibilità genetica e fattori ambientali.
particolare per i disturbi psichiatrici. Esempi di questi meccanismi sono la metilazione
del DNA, modificazioni a carico degli istoni e regolazioni post-trascrizionali tramite
RNA non codificante. Al momento, tuttavia, i dati disponibili in pazienti affetti da
schizofrenia e disturbo bipolare non sono sufficienti per dare un’interpretazione
univoca del ruolo dell’epigenetica nell’eziopatogenesi e nello sviluppo di tali disturbi;
la maggior parte degli studi non è replicata e coinvolge un numero molto ristretto di
pazienti, il corredo epigenomico “normale” non è del tutto conosciuto e le tecniche di
indagine molecolare necessarie sono ancora in via di sviluppo. Tuttavia, rappresenta
una delle branche più interessanti e dotate di ampie possibilità di sviluppo nel futuro
(Pishva et al., 2014) (Fig. 5.1).
Infine, oltre che per indagare i substrati neurobiologici e le cause della schizofrenia, la
ricerca in campo genetico può risultare utile per cercare di capire la (non)risposta agli
attuali trattamenti farmacologici (farmacogenomica), in particolare nei casi resistenti
(Frank et al., 2014), la predisposizione verso certi effetti collaterali – come l’agranulocitosi indotta da clozapina associata a un particolare allele del locus HLA-DQB1 (Athanasiou et al., 2011), la sindrome metabolica e l’aumento di peso (Ellingrod et al., 2007) – e la
correlazione di alcune varianti genetiche (per esempio gene DRD3 per il recettore dopaminergico) all’insorgenza di discinesie tardive (Bakker et al., 2006, 2008; Greenbaum
et al., 2007). L’obiettivo è quello di riuscire, in futuro, ad adattare le terapie al singolo
paziente.
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118 Capitolo 5
Basi neurobiologiche
della schizofrenia: i contributi
di neurofisiologia e neuroimaging
Grazie ai progressi avvenuti in campo strumentale e metodologico nelle ultime due
decadi, sono ormai numerose le evidenze di alterazioni a carico del SNC, a livello sia
strutturale sia funzionale, in pazienti affetti da schizofrenia. Sebbene ancora non sufficientemente specifiche e sensibili per essere considerate marker diagnostici, tali alterazioni possono risultare utili nel monitoraggio dei soggetti a rischio e per individuare un
modello neurofunzionale del disturbo su cui poter lavorare anche a livello clinico.
I metodi di registrazione elettroencefalografica e di imaging funzionale (oltre ai relativi
metodi di analisi dei dati) sono le tecniche oggigiorno più utilizzate per indagare i correlati biologici dei processi cognitivi e delle manifestazioni psicopatologiche dei diversi
disturbi psichiatrici; queste tecniche possiedono caratteristiche diverse e complementari. La prima si avvale della registrazione dei potenziali elettrici generati dal cervello e
modulati dalle attività mentali, attraverso elettrodi posti sullo scalpo: permette quindi di
misurare la risposta a stimoli sensoriali o compiti cognitivi (potenziali evocati), la distribuzione spaziale dei potenziali, la connessione funzionale fra gruppi neuronali diversi
e più o meno distanti fra loro e la localizzazione dei probabili generatori del segnale
elettrico nello spazio tridimensionale. Il maggior pregio di tale strumento è la finissima
risoluzione temporale (nell’ordine dei millisecondi), che consente di osservare e misurare le variazioni del segnale elettrico in tempo reale e in scala con i processi cognitivi
sottostanti. Invece, la tecnica di imaging funzionale più studiata (oltre a PET e SPECT)
è la risonanza magnetica, che consente di utilizzare diverse metodiche per misurare le
variabili prese in questione, ovvero cambiamenti locali nell’ossigenazione del sangue
(Blood Oxygen Level-Dependent changes, BOLD) e della perfusione (Arterial Spin Labeling, ALS), la direzione dei tratti di materia bianca (Diffusion Tensor Imaging, DTI) e
la concentrazione di determinate molecole (Magnetic Resonance Spectroscopy, MRS)
nel tessuto cerebrale. Queste tecniche possiedono tutte un’ottima risoluzione spaziale,
nell’ordine dei millimetri, e una risoluzione temporale intorno al secondo. Negli ultimi
anni, l’utilizzo di tecniche di registrazione combinata EEG/fMRI ha consentito di sfruttare le caratteristiche di entrambe e di ottenere risultati molto interessanti.
Neurofisiologia
Gran parte delle attività mentali, come la processazione delle informazioni o l’esecuzione
di compiti, causa alterazioni dell’attività cerebrale registrabili attraverso l’utilizzo di un
elettroencefalografo. Quando questi cambiamenti seguono un particolare evento, sia
esterno sia non, si parla di potenziali evocati o evento-correlati; tali modificazioni sono
individuabili come potenziali distinti dall’attività spontanea sottostante. Potenziali registrabili a breve latenza dall’evento sono generalmente riferibili alla processazione dello
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Genetica e aspetti neurofunzionali della schizofrenia
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stimolo a livello sensoriale, mentre potenziali più tardivi sono invece correlati a processi
cognitivi più elaborati. Molte sono le alterazioni riscontrate negli anni in pazienti affetti
da schizofrenia, nelle componenti sia a corta sia lunga latenza.
La componente P50 è ritenuta un’espressione di meccanismi inibitori della processazione
delle informazioni in ingresso, poiché evidenzia la messa in atto una sorta di filtraggio
sensoriale (“sensory gating”). Viene generalmente studiata somministrando due stimoli
uditivi appaiati e nei soggetti sani l’ampiezza del secondo potenziale è ridotta rispetto
alla prima, riflettendo un meccanismo di soppressione. In soggetti schizofrenici tale
soppressione è spesso ridotta o addirittura assente (Bramon et al., 2004) e tale caratteristica è stata riscontrata sia nelle fasi prodromiche (Brockhaus-Dumke et al., 2008) sia nei
familiari, anche se in letteratura sono presenti dati discordanti (de Wilde et al., 2007).
La componente P300, o P3, è un potenziale positivo che insorge circa 300-500 ms; P3 è
composta da due componenti principali P3a eP3b e si ritiene che sia il riflesso di processi
riguardanti la valutazione cognitiva e la categorizzazione degli stimoli. P3b viene
frequentemente elicitata somministrando al soggetto stimoli target (uditivi o visivi)
con bassa probabilità di presentazione durante una serie di stimoli non target ad alta
frequenza (“oddball paradigm”) ed è di ampiezza massima sulle regioni parietali; P3a,
invece, è solitamente generata sulle aree fronto-centrali in risposta a uno stimolo non
frequente o saliente, ma senza che abbia necessariamente uno status di target. P300 è
stata una dei potenziali più frequentemente studiati e il riscontro di ampiezza ridotta
e latenza aumentata è stato frequentemente replicato (Bramon et al., 2004). Inoltre, vi
sono evidenze di come l’ampiezza di P3a sia maggiormente ridotta in pazienti con allucinazioni uditive rispetto a pazienti senza tali sintomi (Fisher et al., 2010), riflettendo
probabilmente una diminuita capacità di attribuire importanza a stimoli esterni, poiché
in quel momento i circuiti neuronali sono impegnati nella processazione dei fenomeni
allucinatori (Ford et al., 2012) (Fig. 5.2).
Un recente studio di potenziali evocati effettuato su un ampio campione di pazienti bipolari, schizofrenici e relativi familiari di primo grado ha individuato alterazioni condivise
e peculiari dei due disturbi, mettendo in evidenza come in entrambe le condizioni siano
presenti deficit nella processazione delle informazioni, a livello sia sensoriale (componenti precoci) sia cognitivo (componenti tardive). Inoltre, alcune delle variabili analizzate
sembrano avere le caratteristiche di marker di rischio genetico per i due disturbi: N100 e
P3b specifiche per schizofrenia e P200 per disturbo bipolare (Ethridge et al., 2014).
Attualmente si ritiene che le funzioni cognitive siano il risultato dell’attività coordinata
e di aree e circuiti neuronali distinti, oltre che di network distribuiti a livello di tutta la
corteccia. Il meccanismo fisiologico più adatto per consentire la comunicazione fra gruppi
di neuroni distanti, quindi la formazione di queste reti è la modulazione delle oscillazioni neuronali, nei diversi spettri di frequenza: le bande di frequenza più alte, come
beta e gamma, sembrano essere cruciali per la sincronizzazione a livello locale, mentre
le bande a frequenza più bassa stabiliscono connessioni fra aree corticali più distanti.
Una gran mole di dati suggerisce che l’alterazione delle oscillazioni possa avere un ruolo
centrale nella fisiopatologia della schizofrenia, sia durante l’esecuzione di compiti cogni-
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120 Capitolo 5
HC
Cz
–2,5
HP
NP
–2,0
–1,5
–1,0
–0,5
0
0,5
1,0
1,5
P3a
2,0
–50
0
50
100
150
200
250
300
350 [ms]
FIGURA 5.2 Media complessiva delle forme d’onda sottratte, che evidenzia la P3a
(misurata in μV) nei soggetti HC (controlli sani), HP (pazienti con allucinazioni) e NP
(pazienti senza allucinazioni). (Adattata da Fisher et al., 2010.)
tivi sia a riposo: in quest’ultima condizione, per esempio, è stato riportato un aumento
dell’attività a bassa frequenza e una diminuzione di quella ad alta frequenza (Boutros et
al., 2008; Rutter et al., 2009), nonché un vero e proprio rallentamento delle frequenze
naturali nelle zone prefrontali, come dimostrato da un recente studio di stimolazione
magnetica (Ferrarelli et al., 2012). Inoltre, alcune correlazioni individuate con alcuni
dei sintomi cardini della schizofrenia rafforzano tale ipotesi: per esempio, uno studio
condotto utilizzando stimoli uditivi a frequenza specifica ha rivelato che, in controlli
sani e in pazienti schizofrenici non allucinati, una stimolazione a 40 Hz induce modificazioni nella medesima banda di frequenza elettroencefalografica (gamma) ben diverse da
quelle che induce in pazienti allucinati, suggerendo che nei primi la stimolazione porti
all’attivazione di un network che rappresenta l’input sensoriale, mentre nei secondi sia
causa invece di interferenza con un’attività intrinseca patologica che starebbe alla base
dei fenomeni dispercettivi (Koenig et al., 2012).
In particolare, le oscillazioni nella banda gamma sono state frequentemente studiate
in quanto direttamente coinvolte in processi cognitivi alterati in pazienti schizofrenici,
come attenzione, memoria e processazione sensoriale (Benchekane et al., 2011); inoltre,
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fra i maggiori responsabili della generazione dei ritmi gamma sembrano esservi le popolazioni di interneuroni GABAergici parvalbumina-positivi (Sohal et al., 2009), il sottotipo di interneurone la cui funzione è stata più frequentemente riscontrata alterata in
pazienti schizofrenici (Lewis et al., 2005).
Tali alterazioni sono generalmente presenti già all’esordio del disturbo e sono in parte
geneticamente ereditabili (Uhlhaas e Singer, 2010), suggerendo l’ipotesi che almeno
una parte della vulnerabilità genetica per la schizofrenia sia attribuibile e si traduca in
una scarsa coordinazione temporale di importanti network neuronali. Infatti, alcuni dei
geni menzionati nei paragrafi precedenti (codificanti per disbindina e neuregulina, per
esempio) sono implicati nella modulazione delle trasmissioni glutammatergica e GABAergica, che sono a loro volta strettamente correlate alla generazione delle oscillazioni
neuronali (Lisman et al., 2008).
Oltre a indagare le dimensioni cliniche sopracitate, lo studio delle oscillazioni potrebbe
risultare molto utile per meglio comprendere il fenomeno di “corollary discharge”, chiamato in causa per spiegare alcune dimensioni sintomatologiche dello spettro schizofrenico. È stato spesso descritto negli animali e prevede un collegamento anatomico e
funzionale fra le regioni motorie e sensoriali, capace di consentire al soggetto di interpretare le azioni come proprie, grazie a una copia del segnale motorio che dalle prime
va alle seconde (“efference copy”): tale meccanismo, se alterato, potrebbe sottostare
ai processi deficitari di automonitoraggio tipici dei pazienti schizofrenici e all’attribuzione esterna di processi mentali autogenerati, come per esempio le allucinazioni (Ford
e Mathalon, 2008).
Recenti evidenze suggeriscono l’ipotesi che questo processo, vista anche la necessità di
una sincronia nell’ordine del millisecondo, possa essere mediato dalle attività oscillatorie
gamma (Chen et al., 2011).
Ulteriori alterazioni a livello elettroencefalografico sono state messe in luce non solo
studiando i potenziali evocati o le oscillazioni nelle varie bande di frequenza, ma anche
nella configurazione spaziale nel tempo della distribuzione dei potenziali elettrici. Differenti distribuzioni devono avere origine da diverse strutture neuronali, riflettendo
quindi anche differenti funzioni cognitive. La segmentazione del tracciato EEG in periodi
con topografia stabile mostra che il cambiamento non avviene in maniera continua, ma
che i pattern rimangono stabili per almeno circa 200 ms, per poi cambiare molto rapidamente: questi periodi sono stati chiamati microstati e si ipotizza che possano riflettere
l’attività dinamica dei network neuronali durante la processazione delle informazioni
(Lehmann, 1989; Strik e Lehmann, 1993; Koenig et al., 2002). In pazienti schizofrenici, sono state riscontrate durate ridotte di alcune classi di microstati e alterazioni nella
concatenazione delle diverse classi (Koenig et al., 1999; Lehmann et al., 2005): tali risultati concordano con le evidenze già citate che supportano l’ipotesi di come connessioni
funzionali alterate e processazione delle informazioni deteriorate possano costituire
alcuni dei substrati neurobiologici delle manifestazioni cliniche della schizofrenia (Tab.
5.2). Inoltre, la durata della stessa classe di microstati sembra essere ridotta in momenti
in cui i pazienti sperimentano allucinazioni uditive rispetto ai momenti in cui le disper-
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Talamo,
neocortex
Memoria,
plasticità sinaptica
Localizzazione
Funzione
Delta
(1-3 Hz)
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Memoria, plasticità
sinaptica,
sincronizzazione
a lungo raggio
Corteccia prefrontale,
c. sensoriale,
ippocampo
Theta
(4-7 Hz)
Beta
(13-30 Hz)
Gamma
(30-200 Hz)
Corteccia sensoriale, c. Corteccia, nuclei della Corteccia
motoria, talamo,
base e subtalamico
ippocampo,
formazione
reticolare
Percezione, attenzione,
Attenzione, inibizione, Filtraggio sensoriale,
memoria,
coscienza,
attenzione,
coscienza,
sincronizzazione
controllo motorio,
a lungo raggio
plasticità sinaptica
sincronizzazione
a lungo raggio
Alfa
(8-12 Hz)
Tabella 5.2 Bande di frequenza delle oscillazioni neuronali; regioni e funzioni
122 Capitolo 5
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cezioni non sono presenti; ciò rappresenta probabilmente una topografia relativa a
funzioni di monitoraggio errore-dipendente della processazione delle informazioni,
che, in caso di disfunzione (espressa in questa circostanza dalla durata ridotta e dalla
terminazione precoce del microstato in questione), potrebbe portare all’erronea attribuzione a sorgenti esterne di pensieri, generando i fenomeni dispercettivi (Kindler et
al., 2011). Risultati preliminari indicano poi un aumento della presenza di una classe di
microstati (precedentemente associata a un network neuronale in condizione di riposo
con funzione di attribuzione di salienza) in adolescenti affetti da sindrome da delezione
22q11.2 rispetto a controlli sani e un’associazione di questo reperto con sintomi positivi,
mettendo in luce un potenziale biomarker di rischio, se i dati dovessero essere confermati da studi longitudinali (Tomescu et al., 2014).
Neuroimaging
Per quanto riguarda invece le tecniche di indagine relative a fMRI, negli ultimi anni è stata
ottenuta una gran mole di dati che ha messo in luce alterazioni significative in pazienti schizofrenici sia in condizione di riposo (resting state) sia correlate a diversi compiti cognitivi
o dimensioni psicopatologiche. Anche in questo caso, gli sforzi sono rivolti principalmente
nel cercare di ottenere marker di malattia sufficientemente sensibili e specifici, che permettano in particolare l’individuazione precoce dei soggetti a rischio. Recenti studi, infatti,
hanno evidenziato come alcune disfunzioni cognitive tipiche della schizofrenia possano
avere dei correlati biologici ben delineabili, che differenziano in maniera statisticamente
significativa i pazienti e i relativi familiari dai controlli sani (Di Giorgio et al., 2013): per
esempio, sottoponendo questi soggetti a un test cognitivo valutante la memoria dichiarativa durante lo scanning in risonanza funzionale, i ricercatori hanno messo in evidenza una
minore attivazione nelle regioni paraippocampali, oltre a una minor connettività funzionale fra l’ippocampo e alcune aree parietali, nei pazienti affetti e nei familiari rispetto ai
controlli. Questi risultati sembrano suggerire come un’alterata funzione (para)ippocampale durante la codificazione di nuovi stimoli possa essere un ipotetico endofenotipo legato
a un aumento del rischio per schizofrenia (Rasetti et al., 2014). Anche a livello strutturale,
recenti evidenze supportano l’ipotesi dell’esistenza di alcune alterazioni presenti già in
popolazioni ad alto rischio, in particolare riduzione di volume della materia grigia nelle
aree prefrontali, perisilviane (Koutsouleris et al., 2014) e temporolimbiche (Fusar-Poli
et al., 2012), anche se sono necessari ulteriori studi per stratificare al meglio i soggetti a
rischio. Le alterazioni strutturali a livello prefrontale sembrano essere le più pronunciate e
possedere anche correlati funzionali (Smieskova et al., 2013).
In soggetti con schizofrenia manifesta la mole di dati è ancora più grande. Si sono riscontrate alterazioni a livello di alcuni “resting state networks” (RSN), che rappresentano
aree cerebrali attive in condizioni di riposo, e in particolare a carico del “default mode
network” (DMN), ritenuto implicato in attività mentali autoreferenziali e nella processazione delle emozioni (Gusnard et al., 2001): in particolare un’iperattivazione (ovvero
una mancata soppressione durante attività mentali) e un’iperconnettività all’interno del
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DMN, che potrebbero essere implicati nella patogenesi di alcune dimensioni psicopatologiche del disturbo (Whitfield-Gabrieli et al., 2009). Un aumento di attività in tali RSN
potrebbe interferire poi con altri network deputati allo svolgimento di funzioni attive,
causando alterazioni nei meccanismi fisiologici e, di conseguenza, sintomi a livello
clinico.
Anche in questo caso, molte sono le correlazioni riscontrate fra le varie dimensioni psicopatologiche e dati di neuroimaging. In un recente studio, è stata riscontrata un’iperattività tonica (misurata con quantificazione del flusso sanguigno cerebrale locale) nel giro
temporale superiore sinistro in pazienti schizofrenici con allucinazioni uditive quando
confrontati con controlli sani, indicando un potenziale marker di tratto (Homan et al.,
2013). In un altro lavoro, invece, pazienti schizofrenici sottoposti a stimolazione magnetica transcranica per la terapia delle allucinazioni uditive hanno mostrato una riduzione
del flusso sanguigno cerebrale a livello della corteccia uditiva primaria, del giro cingolato
e dell’area di Broca sinistra in seguito al trattamento, correlato al miglioramento clinico.
In generale, l’analisi sia dei dati elettrofisiologici (Krug et al., 2013) sia di quelli ottenuti
attraverso tecniche di neuroimaging funzionale (Pettersson-Yeo et al., 2010) suggerisce
che alla base dei meccanismi patologici della schizofrenia (o delle schizofrenie) vi sia
un’alterata connettività fra network neuronali distinti, in termini di diminuita o aumentata interazione, a seconda del tipo di aree interessate e, quindi, a livello fenotipico, a
seconda del tipo di manifestazione clinica. Lo studio di questi aspetti del disturbo mira a
individuare dei marcatori biologici ben specifici e sensibili, che quindi potranno permettere al clinico, in un futuro ormai non troppo lontano, di individuare le aree disfunzionali, di adattare la terapia e di monitorare il trattamento, ma soprattutto di identificare
precocemente i soggetti a rischio e intervenire a tempo debito.
In sintesi
✓✓ I più recenti studi genetici hanno evidenziato alti tassi di ereditabilità per
la schizofrenia.
✓✓ Non si eredita il disturbo, ma le alterazioni genetiche che, in combinazione con fattori ambientali, determinano la vulnerabilità alla schizofrenia.
✓✓ Ci sono diversi geni candidati per la schizofrenia: DISC1, NRG1, DTNBP1,
COMT.
✓✓ È stato riscontrato un coinvolgimento del sistema immunitario: sono
presenti livelli elevati di citochine pro-infiammatorie e risposte infiammatorie eccessive e disregolate.
✓✓ A livello neurofisiologico, nei soggetti con schizofrenia si riscontrano alterazioni nella componente P50 e P300 e ulteriori anomalie nel tracciato
elettroencefalografico.
✓✓ A livello di neuroimaging, si evidenziano alterazioni delle aree paraippocampali e una riduzione di volume di materia grigia nelle aree prefrontali, perisilviane e temporolimbiche.
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