MAURIZIO SERRA
LA FRANCIA DI VICHY
Una cultura dell’autorità
Le Lettere
MAURIZIO SERRA
LA FRANCIA DI VICHY
Una cultura dell’autorità
Le Lettere
I
MEA CULPA E RISCATTO*
Oggetto di questa ricerca non è né la storia delle dottrine politiche
che si manifestarono in Francia alla vigilia del secondo conflitto mondiale, né quella del regime di Vichy. Su entrambi questi argomenti
l’indagine critica ha fornito, specie negli ultimi anni, un panorama
d’impressionante estensione quantitativa, anche se di variabile livello.
Queste pagine sono state scritte allo scopo di ripensare alcuni termini del rapporto tra cultura e autorità, con riferimento, prima, ad alcune costanti ideologiche nella destra francese, prevalentemente all’opposizione durante la Terza Repubblica; poi, ad un esempio storico di
cultura autoritaria al potere.
Lo Stato francese di Vichy – nella sua fase maggiormente autonoma (1940-42), ma anche dopo l’occupazione totale tedesca, fino alla
sua dissoluzione pratica (1942-44) – può costituire tale esempio per
almeno due motivi.
In primo luogo, per le sue ristrette dimensioni geografiche e temporali, ancor che non sia possibile esimersi dal considerare qui anche
quella parte del Paese occupata già a partire dal 1940. È un vantaggio
metodologico non indifferente che consente di interpretare i caratteri
della «rivoluzione nazionale» vichysta in modo più sintetico rispetto a
quanto non consentano altre culture autoritarie maggiormente estese,
e con ciò più suscettibili di variazioni. In secondo luogo, per la fitta
(ma critica) relazione tra potere politico e cultura istituzionale che ha
contraddistinto l’evoluzione moderna della Francia come di poche altre nazioni. Ad essa la «rivoluzione nazionale» volle imprimere una direzione peculiare, intensificandola ma depurandola di ogni aspetto critico. I testi ideologici di Vichy illustrano questi caratteri; su di essi, più
* I libri citati in queste note con titolo in lingua francese, in tutti i casi in cui non
sono seguiti dall’indicazione del luogo di edizione si devono intendere pubblicati a
Parigi.
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LA FRANCIA DI VICHY
che su quelli apparsi dopo il 1945, si è preferito documentare questa ricerca, anche per la scarsa divulgazione che hanno avuto in Italia.
Non spetta certo all’autore esprimersi sulla validità o meno di questo contributo. Ma egli confida che il lettore vi riconosca la sua ambizione di esaminare le motivazioni dei personaggi indagati, nell’assoluto disinteresse per talune animosità che quel periodo tuttora suscita
in ambienti francesi, italiani, e di ogni altro paese che abbia conosciuto fenomeni analoghi. D’altra parte, lo scopo che un autore deve proporsi è che i limiti stessi della sua ricerca servano, più degli eventuali
risultati, a favorire interrogazioni intellettuali e morali in chi al suo lavoro abbia voluto accostarsi.
1. La contraddizione politica del regime
Nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1940 l’ottantaquattrenne maresciallo Pétain costituì l’ultimo gabinetto della Terza Repubblica francese;
esso ebbe una durata di soli venticinque giorni. Spettò a questo gabinetto – riunito, come il precedente, a Bordeaux, per sottrarre la sovranità formale dello Stato all’implacabile avanzata tedesca – di stipulare l’armistizio con la Germania, il 22 giugno, e quello con l’Italia,
il 24. L’uomo che, nell’opinione popolare, aveva salvato, già sessantenne, la Francia a Verdun nel 1916, si accingeva, secondo una larga
parte di quell’opinione, a salvarla una seconda volta, evitando un disastro totale. Fu a Rethondes, nella foresta di Compiègne, che venne
sottoscritto l’armistizio con la Germania, identico, per luogo e regìa,
a quello dell’11 novembre 19181. In tal modo, la Francia divenne il
1
«Uomo di Verdun» non fu chiamato Pétain solo dalla difesa in occasione del suo
processo, nel luglio-agosto 1945. Cfr. le testimonianze di due giurati: DELATTRE,
J’étais premier juré au procès Pétain, in «Histoire pour Tous», aprile 1964, pp. 492-499
e PIERRE-BLOCH, Un témoignage sur le procès Pétain, in «Le Monde», 23-24 maggio
1976. Da notare che all’apparizione della testimonianza del secondo è seguita una
querela da parte del primo, che già era stato condannato in appello per aver pubblicato la propria testimonianza del 1964 (cfr. «Le Monde», 26 novembre 1976). Cfr. ancora Rb. ARON, Procès et condamnation du Maréchal Pétain, in Les grands dossiers de
l’histoire contemporaine, Librairie Académique Perrin, 1962, pp. 239-266. Riferimenti al ruolo di Pétain nella prima guerra mondiale, oltre a quelli che saranno citati nel
capitolo quarto, si trovano in Le procès du Maréchal Pétain, Compte rendu sténographique, Editions Albin Michel, 1945, 2 tomi (pochissimi i riferimenti alla politica culturale; numerosi gli errori materiali: Auphand per Auphan, Tourneur per Turner;
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primo ed ultimo paese occupato da Hitler con l’avallo di un armistizio legale.
Oltre, beninteso, all’inversione delle parti, era diverso lo spirito
con il quale la popolazione attualmente sconfitta attendeva la cessazione delle ostilità. Al sentimento del «Dolchstoss», sorto nella maggioranza dei tedeschi nel 1918, faceva riscontro una Francia del 1940
«anestetizzata», che «aveva subito la più brutale e totale disfatta della sua storia»2.
Il governo francese rifiutò di considerarsi militarmente sconfitto
dall’Italia3, il cui esordio militare era stato negativo. Si parlò di «coup
de poignard dans le dos»: così l’ambasciatore François-Poncet tradusse il «Dolchstoss» a Ciano, che gli comunicava la dichiarazione di
guerra. Tuttavia diverse personalità della politica e della finanza speravano in un atteggiamento di Mussolini che moderasse i tedeschi. Significativo, al riguardo, l’orientamento della grande stampa d’informazione, prima e dopo l’inizio della belligeranza italiana, il 10 giugno
1940: On s’y attendait... s’intitolò, il giorno dopo, il fondo del «Petit
Parisien», il più grande quotidiano della Terza Repubblica. Di tono
ben diverso, l’appello che il direttore dello stesso giornale avrebbe inviato, alcuni mesi dopo, al Duce, per sollecitarne l’appoggio, data anche una controversia di gestione. Quanto alla stampa di destra,
dall’«Action Française» a «Gringoire», da «Candide» a «Je Suis Partout», essa aveva sperato fino all’ultimo in un rinsavimento dell’Italia,
nonostante le via via crescenti pretese mussoliniane4.
Vansitart per Vansittart; ecc.) e in FABRE-LUCE, Le mystère du Maréchal. Le procès Pétain, Genève, Les Editions du Cheval Ailé, 1945, passim. Nel dopoguerra, diverse
opere hanno inteso ridimensionare i meriti di Pétain in quel conflitto: cfr., ad esempio, MARQUIS D’ARGENSON, Pétain et le pétinisme. Essai de psychologie, Créator, 1953,
pp. 55 ss.; contra generale SERRIGNY, Trente ans avec Pétain, Plon, 1959, spec. pp. 27138.
2 Cfr. rispettivamente PAXTON, La France de Vichy, prefazione di S. Hoffmann, Le
Seuil, 1973, pp. 227-228 e MICHEL, Vichy. Année 40, Laffont, 1966, p. 21. Cfr. anche
HOFFMANN, Vérité et sévérité, in «Le Monde», 12 aprile 1973. Per l’armistizio legale
cfr. BOURDERON, Le régime de Vichy était-il fasciste?, in «Revue d’Histoire de la 2e
g.m.», luglio 1973, pp. 24-25, e gli interessanti paragoni ivi con i casi danese, bulgaro
e romeno.
3 A Vichy, a quanto risulta, Pétain accennerà una volta sola all’Italia, durante un
discorso programmatico di politica estera, in termini piuttosto neutri.
4 AMAURY, Le Petit Parisien, PUF, 1972, tomo II, pp. 1316-1322; MILZA, L’Italie
fasciste devant l’opinion française, Armand Colin, 1967, pp. 185-234. Alla liberazione
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LA FRANCIA DI VICHY
Questi orientamenti accomodanti furono propri di vari dirigenti
del sorgente regime. Laval, nominato vice-presidente del Consiglio
da Pétain, confidò il suo piano, ad armistizio fatto, al giornalista italiano Mirko Giobbe: «Passare da Roma per raggiungere Berlino. È
così che vedo l’Europa. La Francia e l’Italia dovranno unire i loro interessi e fare insieme da contrappeso alla Germania»5.
Di fatto accadde l’inverso e, alle smodate richieste del Duce, fu il
Führer a reagire cautamente; tant’è vero che non concesse all’Italia
di occupare la Tunisia, grande nodo strategico del Mediterraneo,
commettendo uno degli errori probabilmente più gravi dell’intero
conflitto.
Quanto alle condizioni imposte dai tedeschi, nell’opinione degli
stessi storici francesi, erano «dure ma non disonoranti» né privavano
il paese di «un certo numero di risorse non disprezzabili». Esse tendevano ad evitare che la flotta e l’Impero potessero servire la resistenza inglese o preparare una resurrezione militare della Francia stessa,
ma il governo di Vichy conservava la titolarità di entrambi. Clausole
molto particolareggiate erano inserite nel protocollo, onde impedire
che il materiale bellico prendesse la via della Gran Bretagna o dei
suoi Dominions. Le forze armate – ivi comprese, oltre alle tre armi
principali, le forze di sicurezza – erano ridotte a centomila uomini.
Veniva abolita la coscrizione militare e i tedeschi si riservavano il diritto di internare le truppe ex nemiche all’atto del cessate il fuoco.
duri furono i giudizi sulla corruzione di certa stampa d’anteguerra: cfr. ad es. CAMUS,
Critique de la nouvelle presse, in «Combat», 31 agosto 1944, ora in Essais, La Pléiade,
1965, pp. 263-265. Sulla «fatale légende du coup de poignard» cfr. Bloch, L’étrange
défaite, Armand Colin, 1957, pp. 167-168. Due recenti ricostruzioni storiche dell’attacco mussoliniano alla Francia sono quelle di ALFASSIO-GRIMALDI, 10 giugno 1940.
Il giorno della follia, Laterza, 1974, pp. 13-126 e 445-492 e di MACK SMITH, Le guerre
del Duce, Laterza, 1976, pp. 297-309. La non belligeranza e poi l’intervento dell’Italia
sono osservati da un intellettuale dell’Ecole Française de Rome, futuro ministro di Vichy, in CARCOPINO, Souvenirs de sept ans, Flammarion, 1953, pp. 101-148.
5 Cfr. La Vie en France sous l’Occupation. 212 documents réunis par M. et Mme
René de Chambrun, Hoover Institute, Stanford University Press, ed. fr. Plon, 1957,
tomo III, pp. 1367-1368. La parzialità di questa raccolta, curata dalla figlia e dal genero di Laval e sostanzialmente dedicata ad una apologia dell’operato di questi, ha
provocato diverse rettifiche storiche sulle quali cfr. più avanti. Le dichiarazioni a
Giobbe, che costituirono un capo d’accusa al suo processo, sono ridimensionate e
parzialmente rettificate nell’autodifesa postuma dell’uomo politico. Parla Laval, ed.
it. Garzanti, 1948, pp. 21-29; cfr. altresì Le procès Pétain, cit., I, pp. 317-322.
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Questa misura – tipica più di una capitolazione che di un armistizio – rafforzava lo strumento di persuasione nei confronti del nuovo
regime, rappresentato dall’enorme numero di prigionieri militari, in
mano al vincitore.
Caratteristica fondamentale dell’armistizio era la divisione del paese in due zone principali: l’una, centro-settentrionale (Parigi compresa), occupata dai tedeschi, che vi installarono di fatto una loro amministrazione; l’altra, centro-meridionale, detta «libera», smilitarizzata
e priva di sbocchi sull’Atlantico e la Manica. Da notare che, in sede
di ripartizione territoriale, i tedeschi perfezionavano le posizioni acquisite sul campo, il giorno della richiesta di armistizio. La zona libera divenne, con le misure costituzionali del 10 e 11 luglio, l’«Etat
Français de Vichy»6.
Vi era poi una zona di occupazione italiana, concentrata intorno a
Mentone, di trascurabile estensione giacché Hitler aveva imposto a
Mussolini di limitarla ai territori effettivamente conquistati (cosa che
aveva personalmente evitato di fare, per la zona nord). Di fronte alle
proteste francesi, che contestavano anche l’effettività di quelle modestissime conquiste, Mussolini reagì con una fatua politica d’italianizzazione, che generò ulteriori tensioni. Non va, però, dimenticato che
l’occupazione italiana fu, per molti aspetti, decisamente liberale. In
particolare, il rifiuto reiterato di applicare la legislazione antisemitica
tanto della zona nord quanto di Vichy, e quello, correlato, di evitare
consegne di profughi e rifugiati, testimoniarono dei sentimenti umanitari degli occupanti italiani, anche nelle loro velleità imperialistiche.
Non è escluso che Mussolini vi scorgesse anche vantaggi propagandistici e quelli, pratici, derivanti da un eventuale appoggio all’Italia della influente comunità ebraica tunisina. Sta di fatto che la zona italiana, allargata dopo il novembre 1942, giunse ad accogliere una popolazione israelitica di circa cinquantamila persone, quasi il triplo di
6
DUROSELLE, Histoire diplomatique de 1919 à nos jours, Dalloz, 1966, p. 310; MIop. cit., pp. 77 ss.; RENOUVIN, Les crises du XXe siècle, tomo II, Hachette, 1958,
pp. 252-262 e 269-282. Per una cronologia dell’armistizio cfr. anche SHIRER, La caduta della Francia, ed. it. Einaudi, 1971, pp. 1007-1066 e CATOIRE, La direction des services de l’armistice, DSA, a Vichy, Berger-Levrault, 1955, passim. Per una delle migliori tavole cronologiche del periodo 1938-44 – con particolare riferimento a Vichy – cfr.
AZÉMA, De Manich à la Liberation, 1938-44. Nouvelle Histoire de la France contemporaine, Le Seuil, 1979, pp. 362-391.
CHEL,
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LA FRANCIA DI VICHY
quella originaria7. Le cose cambiarono dopo il ritiro degli italiani, nel
settembre 1943. Giuridicamente, decadde la convenzione d’armistizio franco-italiana, ma non quella franco-tedesca, sebbene fosse stata
subordinata alla sottoscrizione dell’altra.
Infine, gli estremi dipartimenti settentrionali, il Nord ed il Pas-deCalais, potenziali teste di ponte da o per la Gran Bretagna, costituirono una zona vietata per motivi militari. Non a caso, essi furono posti
alle dipendenze amministrative del comando militare tedesco di Bruxelles. Fu l’unico territorio francese, forse, in cui l’occupante si dedicasse, fin dal 1940, ad una sorta di «polonizzazione» economica, cioè
ad una sistematica spoliazione delle risorse, sia pure rafforzando la
dipendenza operaia dal padronato industriale e agricolo. Quanto
all’Alsazia e alla Lorena, esse vennero senz’altro incorporate al Reich.
Una zona riservata venne creata tra questi territori annessi e la zona
nord. Per le spese di guarnigione delle truppe tedesche e come riparazione della campagna del maggio-giugno venivano fissate delle
clausole finanziarie esorbitanti, calcolate, per di più, ad un tasso di
cambio addottorato.
Qual era lo scopo perseguito dal vincitore? Consentire a un governo del tutto inoffensivo ma nominalmente autonomo di imporsi a
una popolazione più restìa, certo, a venir direttamente sottoposta
all’occupante? A questa tesi classica, molto verosimile, si aggiungono
recenti ricerche, condotte in gran parte negli archivi tedeschi; ai sensi di queste ultime, la Germania, salvo beninteso l’azione militare,
non avrebbe esercitato alcuna influenza determinante sulla nascita di
Vichy. Non è qui il luogo per riprendere tale dibattito, ma le due impostazioni possono essere considerate in buona misura complementari: Hitler avrebbe fatto delle concessioni alla Francia per meglio
controllarla e staccarla dalla Gran Bretagna, contemporaneamente
obbligando quest’ultima a predisporre misure avverse al governo di
Pétain (come l’attacco di Mers El Kebir, che provocò la rottura diplo-
7 Sull’occupazione italiana e gli ebrei, cfr. POLIAKOV, La condition des Juifs en
France sous l’occupation italienne, Centre de Documentation Juive Contemporaine,
1946; DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, 19723, I ed. 1961,
pp. 392-402; PAXTON, op. cit., pp. 179-80; JÄCKEL, La France dans l’Europe d’Hitler,
prefazione di A. Grosser, ed. fr. Fayard, 1968, p. 366; tenente colonnello LOI, L’esercito italiano di fronte alle persecuzioni razziali, in «Revue Internationale d’Histoire Militaire», n. 39, 1978, pp. 276-289.
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matica tra i due ex alleati). D’altra parte, il nuovo regime si trovò in
grado di attuare quei provvedimenti sovrani, non considerando però
lo scarso peso che, nella realtà, potevano avere. In sostanza, l’autorità di Vichy sorgeva su di un equivoco: poiché, se è vero che, internamente, veniva a disporre di un certo margine di azione, non poteva
manifestarsi, internazionalmente, che a patto di una collaborazione,
sempre più impegnativa, con la Germania. E ciò finiva coll’inficiarne
anche il prestigio interno, col passare del tempo, in misura più drammatica, forse, di quanto non avrebbe provocato un’immediata occupazione totale8.
Pétain ricevette, a larghissima maggioranza, i pieni poteri da un
parlamento agonizzante e menomato. Infatti, non solo venticinque
parlamentari – alcuni di primo piano, come Daladier e Mandel – si
erano imbarcati per il Nordafrica, ma una legge retroattiva del febbraio 1940 impedì ai parlamentari comunisti di partecipare al voto. Il
10 luglio, Thorez e Duclos, a nome del comitato centrale del PCF,
pubblicarono un «appello al popolo di Francia», avverso tanto a Vichy che alla Terza Repubblica, ed al quale i comunisti daranno risalto nelle polemiche del dopoguerra sulla data d’inizio della loro resistenza armata9.
Il 6 luglio, ventisei senatori avevano presentato un progetto di
compromesso costituzionale. Esso prevedeva la revisione delle leggi
del 1875 e accordava i pieni poteri a Pétain, ma lo incaricava altresì di
preparare, in collaborazione con le competenti commissioni, una co-
8 Nel primo senso cfr. MICHEL, La guerra dell’ombra. La resistenza in Europa, ed.
it. a cura di G. Bianchi, Mursia, 1973, pp. 42-44; ID., Aspects politiques de l’occupation
de la France par les Allemands (juin 1940-décembre 1944), in «Revue d’Histoire de la
2e g.m.», aprile 1964, p. 3; ID., Vichy. Année 40, cit., pp. 36-56. Nel secondo senso cfr.
JÄCKEL, op. cit., pp. 126 ss. e PAXTON, op. cit., pp. 143-146. Sulle clausole militari
dell’armistizio e sulla zona italiana cfr. MICHEL, Aspects politiques, cit., pp. 1, 4-5; sulla zona vietata cfr. DEJONGHE, La reprise économique dans le Nord et le Pasde-Calais,
in «Revue d’Histoire de la 2e g.m.», luglio 1970, pp. 83-110, in part. pp. 83-86 e LÉVY,
Pour une étude régionale des deux zones, resoconto apparso sul numero di luglio 1973
della stessa rivista, pp. 119-120.
9 Cfr. THOREZ, Oeuvres Choisies, Editions Sociales, 1966, tomo II, pp. 193-202.
Paxton cita il «Ni Pétain ni De Gaulle!» di cui già scrisse Angelo Tasca e nega, al solito in modo molto polemico, che i rapporti tra i comunisti e gli altri gruppi della resistenza, specie i gollisti, migliorassero prima del 1942 (op. cit., pp. 49-51, 215 ss.). Era
anche l’opinione (nascosta) di molti tedeschi secondo ABETZ, Histoire d’une politique
franco-allemande, 1930-50, ed. fr. Stock, 1953, p. 306.
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LA FRANCIA DI VICHY
stituzione da sottoporre all’accettazione del paese, non appena le circostanze lo avessero permesso. Secondo l’ex ministro degli Esteri,
Paul-Boncour, uno degli ideatori del progetto, Pétain avrebbe privatamente accettato di ottenere così «i pieni poteri ma non il potere costituente». Egli avrebbe però posto come condizione l’assenso di Laval, il quale sarebbe riuscito a sabotare questo ed ogni altro progetto
che attenuasse il carattere puramente autoritario del nuovo regime.
Antitetica è l’impostazione che Laval, nei suoi appunti dal carcere, ha
dato dello stesso episodio. Comunque sia, si giunse al progetto di legge costituzionale del 9 luglio, firmato dall’ultimo presidente della
Terza Repubblica, Lebrun, e da Pétain stesso, quale maresciallo di
Francia, presidente del Consiglio. Il gruppo dei 26 ottenne solo l’affermazione di principio che chiude l’articolo unico: «La costituzione
verrà ratificata dalle Assemblee create da essa stessa».
Il 10 luglio si ebbe il voto dell’Assemblea Nazionale, convocata fin
dal 7 in seduta plenaria e straordinaria. Essa comportava 932 seggi,
ma le assenze anzidette ridussero i presenti e votanti a 667. A favore
del progetto presentato si espressero 569 parlamentari, tra cui, motivo di grave turbamento per Léon Blum, ben 52 socialisti. 18 furono
le astensioni e 80 i voti contrari, minoranza composta per lo più da
socialisti e radicali, ma anche da uomini di destra, cioè da tutte le tendenze politiche. La carica presidenziale venne conseguentemente
soppressa, non senza che il maresciallo dichiarasse a Lebrun: «Io non
sono il vostro successore, perché comincia un regime nuovo»10.
Si era così consumata quella che un intellettuale definì, nel suo diario di quei giorni, «l’ebbrezza di sacrificio della Terza Repubblica».
10 SHIRER, op. cit., p. 1116; MICHEL, Vichy. Année 40, cit., pp. 57-70 e 103-107; M.
MARTIN DU GARD, La chronique de Vichy, 1940-44, Flammarion, 1948, pp. 47 ss.;
PAXTON, op. cit., pp. 40, 182-183. Per le evocazioni divergenti citate nel testo cfr.
PAUL-BONCOUR, Entre deux guerres. Souvenirs sur la Troisième République, Plon,
1946, tomo III, pp. 122-303 e Parla Laval, cit., pp. 41-64. Per un eccellente riassunto
degli avvenimenti politici del 1939-40 cfr. BAUMONT, Gloires et tragédies de la Troisième République, Hachette, 1956, pp. 378-414; cfr. ancora AZÉMA, WINOCK, La IIIe
République, Calmann-Lévy, 1970, pp. 259-353. Il lettore italiano dispone dei testi costituzionali (compresa la costituzione del 30 gennaio 1944 cui si accennerà nel capitolo ottavo) in SAITTA, Costituenti e costituzioni della Francia moderna, Einaudi, 1952,
Appendice III: Ancien Régime e totalitarismo di Vichy. L’autore fa propria la partizione classica (prima e dopo il 1942), sostenendo che solo la seconda fase ebbe carattere
totalitario (pp. 410-446); cfr. anche la deposizione di LEBRUN, in Le procès Pétain, cit.,
I, spec. pp. 164-167.
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Ma, se erano evidenti le caratteristiche del regime quasi settantennale che cessava di esistere, non lo erano quelle del regime appena sorto. Vichy inaugurava con questa ambiguità istituzionale la serie di
ambiguità che avrebbero contraddistinto la sua storia. Un testimone,
interessato ma lucido, scrisse che «la Francia cessava di essere una repubblica per divenire una reggenza» a tempo indeterminato11.
Quale che fosse stata la personale azione di Pétain nell’ottenere il
potere, quali che fossero state le manovre non impeccabili che avevano portato il vecchio regime a cancellarsi in modo formalmente
impeccabile, il nodo della collaborazione non riguardava più un governo costretto all’armistizio, ma un regime politico legalmente costituito. Esemplare di questa realtà, anche se generico nei contenuti,
fu il colloquio tra Pétain e Hitler, il 24 ottobre a Montoire, preceduto due giorni prima da un abboccamento tra Laval, nominato delfino del maresciallo il 12 luglio, e il Führer. Da parte vichysta si approfondiva la contraddizione politica: se la Germania avesse vinto la
guerra, rifiutarle una collaborazione sempre più attiva avrebbe precluso ogni possibilità di recuperare territorio, prigionieri, autentica
sovranità nazionale. Ma, accordandogliela, quali garanzie effettive si
sarebbero avute in cambio? Se la Germania avesse incontrato difficoltà belliche, la collaborazione sarebbe divenuta più importante ai
suoi occhi: essa, forse, sarebbe stata disposta ad offrire tali garanzie
ma, data la superiorità sui propri alleati, si sarebbe trattato di un assoggettamento alla condotta di guerra del Führer, come cominciavano a dimostrare i casi italiano ed ungherese. Non solo: l’eventuale
sconfitta della Germania avrebbe comportato una seconda e fatale
sconfitta della Francia di fronte alla Gran Bretagna, sua originaria
alleata.
Tutto ciò era complicato dall’aperta rivalità tra i due uomini politici più importanti, a Vichy, dopo il maresciallo. Laval era, probabil11 I due testimoni citati sono FABRE-LUCE, Journal de la France, Genève, Editions
du Cheval Ailé, 1946, tomo I, pp. 173-244 e 256-259 e DE MONZIE, Ci devant, Flammarion, 1941, pp. 256-264 e 275; ID., La saison des juges, Flammarion, 1943, pp. 3842, 100-101. Numerosissime le testimonianze sulle «Giornate di Luglio», cfr. ad es.
nelle Deposizioni di Jeanneney (I, pp. 190-3, 202-206), Blum (I, pp. 240-244), Herriot (I, pp. 330-332), Laval (I, pp. 515-524, 530-533), in Le procès Pétain, cit. Per il concetto di «Chef de l’état» cfr. ivi, I, pp. 11-24. Cfr. ancora: Ambasciatore KAMMERER,
La verité sur l’armistice, Editions Médicis, 1945, specialmente le parti dedicate a L’avènement du Maréchal Pétain (pp. 225-281) e L’armistice (pp. 285-330).
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LA FRANCIA DI VICHY
mente, più un classico «routier» di certo radicalismo repubblicano
opportunista che il filo-nazionalsocialista accanito, divenuto capro
espiatorio per eccellenza, alla liberazione. Il piano di Laval (ammesso che ne avesse realmente uno a lunga scadenza) consisteva forse in
una Francia anello tra la nuova Europa, il cui avvento gli pareva pressoché fatale, e l’Impero africano, redistribuito dopo la sconfitta inglese. L’ammiraglio Darlan, anglofobo convinto, sembrava credere,
dal canto suo, in una Francia che, ritrovata, quale che ne fosse il prezzo politico, la sua unità, avrebbe potuto trasformarsi in testa di ponte atlantica e navale di una nuova Europa, immune dalla potenza britannica.
Tutt’altro che esplicita era, poi, la posizione tedesca, specie nella
zona nord, dove l’ambasciatore Abetz era frequentemente in rivalità con l’amministrazione militare e quest’ultima era sorvegliata, a
sua volta, dall’apparato parallelo dei servizi d’informazione nazionalsocialisti. Abetz aveva frequenti contatti con personaggi che a lui
volevano appoggiarsi per prendere quota a Vichy, tra cui il giornalista De Brinon, divenuto «capo della delegazione francese nel territorio occupato», cioè ambasciatore di Vichy presso le autorità tedesche di Parigi, e uomini politici di estrema destra, quali l’ex sindacalista socialista Déat e l’ex membro del comitato centrale comunista
Doriot.
Pétain volle garantire un’artificiosa neutralità che, se congelava
sine die la contraddizione politica di fondo, non aumentava certo la
credibilità internazionale del regime. Mantenne un timido dialogo
con la Gran Bretagna (negoziati Hoare – De La Baume, missione
Rougier, accordi Halifax – Chevalier) ma Darlan, divenuto vice-presidente del Consiglio e nuovo delfino, dopo la prima caduta di Laval,
liquidò parte del mediocre capitale di autonomia strappato (o confermato) a Montoire, sottoscrivendo, nel 1941, i protocolli di Parigi, sostanzialmente anti-britannici.
Questa contraddizione politica non è, a nostro avviso, concettualmente lontana da quella che verrà esposta alla fine del presente capitolo, e che attiene ai rapporti tra il regime, gli intellettuali e il progetto vichysta di ri-educazione, che l’incerta natura di Vichy porterà ad
ambiguità analoghe. In entrambe le contraddizioni, politica e culturale, risalta – al di là degli enormi problemi contingenti che avrebbe
dovuto affrontare qualsiasi governo costituitosi sulla madrepatria
dopo la sconfitta del 1940 – la personalità non comune di Philippe
MEA CULPA E RISCATTO
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Pétain: da una parte, il suo intimo scetticismo, acutamente individuato, già nel 1939, in un memorandum dell’allora segretario di Stato
agli Esteri del Reich, Von Weizsäcker; dall’altra, il carattere accentratore, l’ambizione di vasti disegni che le circostanze inibivano, soprattutto il pathos sentimentale che si manifesta in tutti i suoi numerosi
messaggi e interventi pubblici12.
12 PAXTON, op. cit., pp. 66, 70, 77 ss., 115 ss. Per le diverse amministrazioni tedesche cfr. JÄCKEL, op. cit., pp. 96 ss. (la sola amministrazione militare comportava quasi seicento funzionari di grado superiore ed un centinaio di grado intermedio). L’ambasciatore Abetz si sofferma sulla diffidenza degli ambienti tedeschi (ma non sua) nei
confronti di Laval (op. cit., pp. 154 ss.). Analogamente, beninteso, molte delle testimonianze raccolte in La Vie en France, cit., passim. La concezione di un Laval asservito ai tedeschi è stata in primo luogo suggerita da alcuni difensori di Pétain, per i quali il maresciallo avrebbe subito la politica del suo capo di governo. Molti studiosi hanno, ancora recentemente, negato ogni autentica sovranità francese dopo l’agosto o, al
massimo, dopo il novembre 1942. È il caso di Rémond, nell’introduzione al volume
che riunisce i principali interventi ad un colloquio della Fondazione Nazionale di
Scienze Politiche a Parigi (Le gouvernement de Vichy, 1940-42. Institutions et politiques, Armand Colin, 1972) e di MICHEL, Pétain, Laval, Darlan: trois politiques?, Flammarion, 1972. Ma basta questo a definire Laval intimamente fascista, come ritiene
Miller? (Les pousse-au-jouir du Maréchal Pétain, prefazione di Roland Barthes, Le
Seuil, 1975; ed. it. presso l’editore Marsilio, 1978, con il titolo di Il fascismo alla francese, p. 154). Tenere distinte le motivazioni politiche dalle convinzioni ideologiche
sembra quasi una regola per i dirigenti di Vichy e, se si osservano solo le prime, non
si vede perché intimamente fascisti non dovrebbero essere considerati Pétain stesso o
Darlan (all’atto della firma dei protocolli di Parigi).
Nel memorandum di Von Weizsäcker si legge: «According to the Italian Ambassador (Attolico), Marshal P. is regarded as the advocate of a peace policy in France
[...] P. believes that even in the event of victory, France would not enjoy its fruits. If
the question of peace should become more acute in France, P. will play a role».
Dall’altra parte, Churchill lo chiamerà «That antique defeatist» (cfr. NICOLSON, Diaries and letters 1939-45, Collins, London 1967, p. 266. Il memorandum Weizsäcker,
siglato 1570/380093 si trova in «Documents on German Foreign Policy 1918-45», serie D, volume VIII, n. 363, p. 414). Diversa l’impostazione di Slama, che insiste sulle
garanzie delle frontiere del 1918 e sul mantenimento dell’Impero, che Pétain e Darlan avrebbero chiesto, durante la preparazione dei protocolli di Parigi, per il caso in
cui Vichy avesse dichiarato guerra agli alleati (cfr. Les yeux d’Abetz, in «Contrepoint»,
aprile 1973, pp. 119-125).
Da notare che il 22 ottobre 1941, in occasione del primo anniversario di Montoire, Pétain inviò al Führer un messaggio nel quale affermava: «La collaborazione franco-tedesca non ha dato tutti i risultati che Lei si aspettava e che io avevo sperato. Non
ha ancora proiettato una luce rassicurante nelle regioni oscure nelle quali un popolo
ferito si oppone alla sua infelicità». Messaggio sibillino quanti altri mai! In realtà, – secondo Michel (Aspects politiques, cit., p. 25), Hamilton (L’illusione fascista. Gli intellettuali e il fascismo, 1919-45, ed. it. Mursia, 1972, p. 241) e Warner (France, in Euro-
58
LA FRANCIA DI VICHY
2. Valutazioni di una disfatta
S’impone, ora, uno sguardo al paese. Difficile dire se la campagna del
giugno-luglio 1940 avesse maggiormente prostrato la situazione materiale o quella morale dei francesi. Fu un momento catartico che il
regime sfruttò, nelle sue conseguenze psicologiche, per assicurare la
propria autorità.
Le ricerche odierne hanno, generalmente, approfondito ma non
smentito quanto è stato tramandato da testimonianze di particolare
acutezza. L’inefficiente preparazione militare, riscattata da molte
azioni di eroismo, è benissimo rappresentata in Pilote de guerre di
Saint-Exupéry o negli Antimémoires di Malraux. Oggi, si conoscono
i dati d’insieme: il 10 maggio 1940 – all’inizio della campagna – i francesi disponevano di 91 divisioni, di cui 80 di fanteria e solo 31 in grado di operare in modo offensivo, e di 3100 mezzi blindati, di cui 2285
carri armati moderni. Nettissima era l’inferiorità aerea, determinante
in una guerra moderna: appena 400 caccia e un centinaio di bombardieri erano in linea, sui 1501 aeroplani previsti. Ma sono i testi letterari, più dei dati nudi, ad evocare potentemente l’atmosfera incerta
dei giorni che precedettero le fulminee battaglie13.
È interessante rilevare ciò che la disfatta significò per un uomo che
passerà subito alla resistenza, immolandovi la propria vita, e per un
altro che alla resistenza approderà dopo un’attiva fase al servizio del
regime. Entrambi hanno insistito, come farà Vichy, sul rapporto tra
cause militari della disfatta ed educazione, anche se con diverse conclusioni. Secondo il primo, l’intellettuale-militare Marc Bloch, l’incapacità degli alti gradi era patente ma derivava, prima che da errate
pean Fascism, edited by S.J. Woolf, London, Weidenfeld and Nicolson, 1968, p. 273)
né la Germania né Vichy volevano veramente la collaborazione. Una messa a punto
opportuna è quella dell’AZÉMA, De Manich à la Libération, cit., pp. 78-146 (in particolare p. 85 contro le tesi di un plagio perpetrato da Laval su Pétain).
13 SAINT-EXUPÉRY, Pilote de guerre, in Oeuvres, La Pléiade, pp. 303 ss., 330;
MALRAUX, Antimémoires, Gallimard, 1967, pp. 294-321. I dati militari del testo sono
quelli forniti dal generale DE COSSÉ-BRISSAC in L’armée allemande dans la campagne
de France de 1940 (vi si trovano, in utile confronto, dati francesi e tedeschi), in «Revue d’Histoire de la 2e g.m.», gennaio 1964, pp. 3-27. Cfr. anche gli interventi confluiti nel n. 11 della stessa rivista (benemerita per le ricerche su quel periodo storico)
intitolato a: La campagne de France (mai-juin 1940). Il clima della battaglia di Francia è ricostruito diffusamente dallo Shirer, allora corrispondente a Parigi (op. cit., pp.
5-17 e 607-1006).
MEA CULPA E RISCATTO
59
presunzioni tattiche, da frustrazione corporativa. I militari formavano un «ambiente d’ordine» ricco, nella tradizione francese, di un prestigio che urtava con la mediocrità della loro condizione pre-bellica.
Bloch tratteggiava una casta in cui si erano formati sia Pétain che De
Gaulle o, in una certa misura, lo stesso Lyautey, uno dei padri dell’Impero. Da essa proveniva anche l’altro testimone, che riapparirà diffusamente nel capitolo sesto, il capitano Dunoyer de Segonzac, il militare-intellettuale che, nella disfatta, scoprì in sé e intorno a sé quelle
frustrazioni che Bloch aveva analizzato con alle spalle una maggior
consapevolezza culturale ma una minor esperienza specifica. Dunoyer rifiutava l’accusa di lassismo che personaggi del nuovo regime,
spesso per fini personali, andavano rivolgendo all’esercito, ma ne ammetteva l’inferiorità psicologica di fronte a un nemico animato «da
un ideale, da una mistica, una fede»14.
Pare che Pétain abbia poi affermato che la Francia era stata sconfitta perché gli ufficiali di riserva avevano avuto degli istruttori socialisti. A parte questo aneddoto un po’ semplice, non vi è dubbio che,
nel periodo tra le due guerre, egli era stato il più accanito avversario
di quella che, il 21 giugno 1936, nel discorso per il ventesimo anniversario della battaglia di Verdun egli aveva definito: «L’intellettualità
sovrabbondante che paralizza, in una certa misura, il nostro senso
dell’azione».
Non pare prematuro leggervi un prodromo della foga didattica
che sarà la costante del regime e del maresciallo. Perfino rivolgendosi agli scolari di Francia – come nel messaggio diffuso via radio
dall’istituto elementare di Périgny il 13 ottobre 1941 – egli ribadirà
questo concetto: «Dico a voi ciò che dicevo ai miei soldati nell’altra
guerra: coraggio»15.
Se dunque l’esercito, elemento per eccellenza monolitico dello
Stato, non aveva saputo opporsi al malessere collettivo, ne derivavano profonde conseguenze sull’organizzazione di un regime che non
14 Cfr. rispettiv. BLOCH, op. cit., pp. 50, 57, 142-143; DUNOYER DE SEGONZAC, Le
Vieux Chef. Mémoires et pages choisies, Le Seuil, 1971, pp. 58, 80.
15 Per l’aneddoto sugli ufficiali di riserva, cfr. PAXTON, op. cit., p. 153; per il discorso di Verdun; cfr. Maréchal PÉTAIN, Actes et écrits, Flammarion, 1974, p. 431
(Antologia curata dal principale difensore del maresciallo al processo, avvocato Isorni); per il discorso di Périgny cfr. Maréchal PÉTAIN, La France Nouvelle. Appels et
Messages (17 juin 1940-17 juin 1943), s. ed. (ma distribuita dal ministero dell’Informazione), 1944, pp. 155-157.
INDICE GENERALE
Prefazione di Francesco Perfetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
V
Introduzione di Maurizio Serra. Vichy e il collaborazionismo francese: un altro passato che continua a non passare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
5
»
47
»
73
PARTE PRIMA. SITUAZIONE DELLA DISFATTA
I.
Mea culpa e riscatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. La contraddizione politica del regime, 48; 2. Valutazioni
di una disfatta, 58; 3. Il circolo vizioso della «rivoluzione
nazionale», 66
II.
La ricerca dei numi tutelari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Aspetti dell’organizzazione culturale dell’occupante, 73;
2. Renan e la «Réforme», 78; 3. Proudhon, Barrès, Péguy,
85; 4. Maurras, 90
III. L’era della tentazione e dell’adesione . . . . . . . . . . . . .
» 101
1. Un’ideologia «anti», 104; 2. La motivazione contro-morale, 110; 3. Tentazione e conservazione, 118; 4. Estetica,
autorità e fascismo, 124
PARTE SECONDA. L’AUTORITÀ SUGLI INTELLETTUALI
IV. «L’occasion d’écrire en prose» . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 131
1. Verso una religione del capo, 131; 2. Autorità e libertà,
142; 3. I filosofi del re, 149
V.
Il ritorno all’irreale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 160
294
INDICE GENERALE
1. Carattere eretico per Pétain della cultura problematica,
160; 2. Educazione e istruzione, 166; 3. Espressioni autoritarie del «ritorno al reale», 177
PARTE TERZA. L’INTELLETTUALE COME AUTORITÀ
VI. L’élite naturale: il caso di Uriage . . . . . . . . . . . . . . . . .
p. 197
VII. Testimonianze delle élites . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 209
1. I «Cahiers de formation politique», 209; 2. «L’Echo des
Etudiants», 215
VIII. Accanto a Vichy: l’intellettuale e il collaborazionismo .
» 224
1. La seconda fase del regime, 224; 2. La «casa in fiamme»,
242
Considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 248
APPENDICE
Una rappresentazione anti-ideologica: Gilles di Pierre
Drieu La Rochelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 259
1. Il momento dell’espressione, 263; 2. Il momento antiideologico dell’ambientazione, 268; 3. Il corsaro e il druido,
273
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 283