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LA CINA
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L'incontro con l'occidente e le guerre dell'oppio
Gli inglesi contrabbandieri d’oppio Fino agli inizi dell’Ottocento i rapporti economici tra la
grande monarchia cinese e gli europei erano stati episodici e limitati. Gli europei erano “barbari”
che restavano al di fuori della sovranità imperiale; a essi era consentito soltanto intrattenere limitati
rapporti commerciali con la Cina nella base di Macao, concessa ai portoghesi, e nel porto di Canton,
frequentato soprattutto dalle navi della Compagnia inglese delle Indie orientali. Il commercio con la
Cina costituiva invece un problema assai delicato per i mercanti europei.
Le cineserie si vendevano molto bene in Occidente ed erano fonte di notevoli profitti, ma in una
condizione di squilibrio, perché la Cina comprava poco o niente dall’Europa e gli europei
dovevano saldare il loro commercio pagando con metalli preziosi. Per aggirare questo ostacolo i
mercanti inglesi iniziarono a servirsi di un prodotto ufficialmente proibito in Cina, allo scopo di
ottenere in cambio tè e altri prodotti locali: l’oppio, una sostanza ottenuta da una varietà dei
papaveri, dotata di straordinaria efficacia antidolorifica e con effetti depressivi e inebrianti, ma
pericolosamente portata a diventare una droga che produceva dipendenza.
La East India Company prese a utilizzare le terre indiane sottomesse al suo dominio per
estendervi la coltura del papavero e, riuscendo ad aggirare i controlli imperiali, allargò il mercato
della droga in Cina. Dopo alcuni decenni di lenta crescita, questo conobbe un enorme sviluppo fra il
1820 e il 1838, con la decuplicazione delle importazioni cinesi di oppio.
Il governo cinese e il flagello della droga La diffusione dell’oppio pose le autorità cinesi di fronte
agli stessi dilemmi che assillano qualunque società o stato colpito dal flagello delle droghe. La
prima strategia adottata fu il proibizionismo assoluto, ma ebbe inevitabilmente l’effetto di far
aumentare il prezzo dell’oppio e, attraverso i consistenti agi che esso offriva di accrescere i canali
del commercio clandestino e le occasioni di corruzione per gli stessi funzionari incaricati della
repressione Quando l’apparato di corruzione e criminalità che faceva da base al consumo dell’oppio
divenne preoccupante quanto e più della stessa diffusione della droga, si cominciò a discutere
dell’opportunità di allentare i divieti, per eliminare almeno quei mali accessori.
Alla fine di un lungo dibattito interno al governo la linea proibizionista continuò a prevalere.
Inviato con pieni poteri dall’imperatore, nel marzo 1839 giunse a Canton il commissario
straordinario Lin Zexu, che decise di servirsi di mezzi drastici per stroncare il commercio
proibito. Le agenzie dove si trovavano i mercanti europei, quasi tutti inglesi, furono circondate
dalla polizia cinese e costrette a consegnare tutto l’oppio in loro possesso; 20000 ceste di droga
furono quindi date alle fiamme. Di fronte alle rozze proteste e alle provocazioni degli inglesi, i
funzionari imperiali adottarono misure sempre più dure, fino alla minaccia dell’espulsione.
La prima guerra dell’oppio A ciò seguirono, fra il novembre 1839 e l’estate 1842, alcuni episodi di
scontro armato per mare e per terra (fino agli atti di banditismo compiuti dagli inglesi contro il
porto fluviale di Nanchino), che vennero battezzati “guerra dell’oppio” L’immagine positiva della
Cina, da lungo tempo coltivata in Europa, come paese della saggezza e della buona
amministrazione, cominciò subito a venir meno di fronte alla lesione degli interessi economici. I
cinesi diventarono dei “barbari” che non rispettavano la proprietà privata e che non sapevano vedere
i vantaggi del libero commercio. Quando infine il governo cinese fu costretto a cedere, a Nanchino
venne stipulato un trattato che prevedeva la cessione alla Gran Bretagna dell’isola di Hong Kong e
l’apertura al commercio straniero di quattro porti oltre a quello di Canton, uno dei quali (Shanghai)
sarebbe diventato con il tempo una grande metropoli. L’anno successivo i mercanti europei
ottennero che le loro installazioni fossero sottratte alla sovranità cinese, godendo del privilegio di
extraterritorialità.
La cosiddetta prima guerra dell’oppio, che impegnò alcune navi inglesi e, nell’ultima fase,
qualche migliaio di uomini, è stata vista spesso come uno scontro ormai impari fra un decrepito
impero asiatico e una potenza europea che aveva realizzato la rivoluzione industriale. In realtà il
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trattato di Nanchino si limitava a creare alcune aperture commerciali analoghe a quelle già esistenti
a Macao a favore dei portoghesi; gli europei continuavano ad avere poche merci che potessero
interessare i cinesi e infatti, ancora per diversi anni, essi si limitarono a introdurre quasi soltanto
casse di oppio.
La rivolta dei taiping L’avvenimento che fece da premessa a una svolta ben più radicale nei
rapporti fra Cina ed Europa fu la più grande rivolta contadina della storia cinese, cominciata nel
1850 e nota come rivolta dei taiping (i fautori della “grande pace”). Alle sue origini concorse
anche il trattato di Nanchino, in quanto essa venne promossa dai barcaioli e dai trasportatori della
regione di Canton, rovinati dal trasferimento a Shanghai del commercio con gli europei. Ma per le
proporzioni raggiunte, che coinvolsero un territorio abitato da decine di milioni di persone, la
rivolta va ricondotta principalmente ai problemi interni del paese e alla sua situazione di profondo
malessere. L’impoverimento dei contadini, dovuto alla crescente pressione demografica, e il
carattere sempre più oppressivo della dinastia Qing spiegano in gran parte la rivolta. Essa
assunse tuttavia caratteri sociali e culturali tali da farne un fenomeno di estrema complessità.
I ribelli intesero infatti instaurare non solo un nuovo stato, al quale diedero il nome di Taiping
tianguo (“Regno celeste della grande pace”), ma anche una nuova società, caratterizzata da
accentuati tratti comunisti, dal rifiuto di gran parte della cultura tradizionale (dall’inferiorità della
donna all’acconciatura a treccia dei capelli degli uomini), dal sincretismo religioso (che faceva
propri anche alcuni tratti del cristianesimo) .I ribelli taiping occuparono Nanchino, che divenne la
loro capitale, e furono sbaragliati soltanto dopo una lunga guerra che si protrasse fino al 1864. Negli
stessi anni altre regioni cinesi furono agitate da ribellioni di contadini, di minoranze etniche e
religiose, in particolare musulmane. Le guerre civili e la repressione delle rivolte costarono alla
Cina 20 milioni di morti.
Fu in questo contesto che si svolse la seconda guerra dell’oppio, voluta e ricercata dagli inglesi e
giustificata con deboli pretesti. La guerra cominciò nell’ottobre 1856 e vide nella prima fase un
grande dispiegamento di forze da parte degli inglesi e dei francesi il brutale bombardamento di
Canton. Vedendo la possibilità di raggiungere risultati più soddisfacenti della sola legalizzazione del
commercio dell’oppio, inglesi e francesi proseguirono le ostilità e giunsero nell’agosto 1860 al
barbaro saccheggio di Pechino e alla vandalica distruzione del palazzo imperiale. Sottoposto alla
minaccia dei taiping, il governo imperiale dovette fare altre concessioni ai vincitori (e anche agli
Stati Uniti e alla Russia) e lasciare che la Cina si aprisse completamente al commercio
occidentale, sottomettendosi a decenni di umiliazioni e soprusi.
La grande migrazione dei coolies Il caos economico e sociale e le vere e proprie stragi provocate
dalla rivolta dei taiping e dalla sua repressione precipitarono milioni di contadini cinesi nella più
assoluta miseria. Per molti di loro l’emigrazione fuori dalla Cina rappresentò più un modo di
sopravvivere che non una scelta Cominciato nel 1849 il flusso migratorio cinese passava
essenzialmente attraverso la base portoghese di Macao e assunse presto il carattere di un vero
traffico di schiavi proprio mentre quello in partenza dall’Africa era giunto alle sue battute finali.
Per ottenere il trasporto verso il luogo di destinazione, infatti, i contadini poveri cinesi
(comunemente detti coolies) erano costretti ad accettare una condizione di schiavitù teoricamente
provvisoria, ma facile a prolungarsi nel tempo. Gli ingenti guadagni che questi nuovi mercanti di
schiavi potevano così ottenere aggiunsero presto al flusso più o meno volontario dei coolies l’azione
di bande che agivano per rapire o razziare candidati all’emigrazione forzata In principio la
destinazione dei coolies fu la costa del Perù; qui essi venivano impiegati nella raccolta del guano,
un fertilizzante naturale costituito dalle deiezioni di uccelli marini e molto richiesto in Europa prima
che cominciasse l’era dei concimi chimici. In seguito, i cinesi furono addetti alla ricerca dell’oro in
California e, negli anni sessanta, alla costruzione del tronco occidentale della ferrovia
transcontinentale destinata a unire il versante pacifico e quello atlantico degli Stati Uniti. L’esodo
cinese, che coinvolse nella seconda metà dell’Ottocento parecchie centinaia di migliaia di persone,
rallentò nel corso degli anni settanta nella direzione americana, ma altri rami rimasero attivi verso la
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zona del canale di Panama, l’Australia e, soprattutto, i paesi del Sud-est asiatico.
La crisi dell'impero
La dinastia manciù (Qing), al potere in Cina dalla metà
del Seicento, dal tempo delle guerre dell’oppio (1839-60) aveva cercato di opporsi alla pressione
imperialistica delle potenze europee negoziando la loro penetrazione commerciale, senza
pregiudicare l’integrità dello stato e l’autonomia della monarchia nella gestione degli affari interni.
Aveva cioè cercato di resistere, senza però mettere in atto misure in grado di superare le debolezze
strutturali dell’Impero. La sua economia rurale, nella quale si combinava un’agricoltura
abbastanza sviluppata con una rete di manifatture e un sistema commerciale in grado di sostenere
un relativo sviluppo urbano, era abbastanza simile a quella dell’Europa preindustriale e a quella del
Giappone prima della rivoluzione Meiji. Essa però non era in grado di competere con l’economia
industriale europea né al suo interno emersero forze in grado di fare imboccare alla Cina la via dello
sviluppo realizzatosi in Giappone a contatto con l’Occidente.
Alcuni storici ritengono che questo processo non si realizzò perché la pressione imperialista
dell’Europa fu molto più intensa che in Giappone, ma anche perché l’economia rurale cinese era
meno dinamica di quella giapponese del periodo Tokugawa; altri propendono a credere che la causa
principale del fenomeno risiedesse nell’inefficienza e nello sfaldamento dell’organizzazione
statale manciù, incapace di riformarsi. In Cina, infatti, il funzionamento della macchina statale era
affidato, come negli antichi imperi di due millenni prima di Cristo, a poche grandi famiglie di
funzionari, i mandarini, che miravano a conservare tutti i privilegi derivanti dalla loro posizione
sociale, senza introdurre alcun elemento di modernizzazione.
Le interferenze europee in Cina Gli scarsi tentativi di riforma si infransero contro gli intrighi di
corte e le poche industrie che riuscirono a impiantarsi vennero sottratte alla gestione dei primi
gruppi imprenditoriali borghesi e affidate a funzionari corrotti e incapaci. La staticità
dell’organizzazione sociale di fronte alla pressione imperialista dell’Occidente divenne un vincolo
e una remora che impediva ogni cambiamento, anche perché il costo della macchina imperiale in un
periodo di declino economico faceva crescere il debito pubblico statale, in larga parte finanziato
dalle stesse potenze coloniali.
Nel giro di qualche decennio dopo le guerre dell’oppio, l’intero commercio cinese cadde nelle
mani degli stati europei, in particolare della Gran Bretagna, che si impegnarono sia a investire
ingenti capitali nella costruzione delle infrastrutture, sia a fare crescere una prima base produttiva
industriale, in particolare nella Manciuria meridionale.
Questa situazione di equilibrio resistette fino a quando le potenze occidentali, che stavano
realizzando la spartizione dell’Africa, tentarono di passare al controllo diretto del territorio cinese,
dividendosi di fatto la Cina in zone d’influenza. Alla fine dell’Ottocento, questa suddivisione era
ormai un fatto compiuto. La Cina, strangolata dall’indebitamento con le banche occidentali e reduce
dalla disastrosa sconfitta nella guerra con il Giappone (1894-95), cui aveva dovuto cedere la
Corea e Formosa, non era più in grado di contrastare la penetrazione delle grandi potenze europee.
L’esistenza di queste aree d’influenza costituiva il primo passo verso lo smembramento coloniale di
questo immenso paese. Solo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che dopo la guerra contro la Spagna,
con l’acquisizione delle Filippine e dell’isola di Guam, erano diventati una potenza coloniale nel
Pacifico, si opponevano alla perdita dell’unità territoriale e politica della Cina. Gli Stati Uniti infatti
miravano soprattutto a garantirsi una penetrazione economica nel Celeste impero, come avevano
fatto le potenze europee.
La rivolta dei boxer In questo contesto il rischio di una riduzione della Cina a colonia aveva
suscitato la formazione di un ampio schieramento conservatore e nazionalista, a carattere
xenofobo che aveva trovato ampio sostegno nella popolazione. Sull’onda di questo sentimento
collettivo si erano formate numerose società segrete che identificavano nella cacciata degli stranieri
dal suolo cinese la condizione fondamentale della restituzione alla Cina della sua dignità di paese
libero e della sua autonomia culturale. Tra queste società, la più importante fu quella degli yihequan
Declino e scomparsa del Celeste impero
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affiliati all’antica società ginnica e di arti marziali dei “Pugni della giustizia e dell’armonia” da cui
derivò il termine inglese boxer. Essa divenne il centro promotore di un progetto insurrezionale
antioccidentale che mirava anche alla caduta della dinastia regnante, ritenuta corrotta e ormai nelle
mani degli stranieri.
Il moto insurrezionale si estese rapidamente, con sanguinose aggressioni ai missionari e ai
convertiti, dall’originario Shandong sino alla capitale Pechino (1900), ove il governo imperiale
cercò di deviarne la violenza contro gli europei residenti nella capitale, assediando le loro legazioni
(20 giugno-14 agosto) e dichiarando guerra alle potenze straniere, le quali, dal canto loro, avevano
già occupato i forti di Dagu nei pressi di Tianjin.
Il corpo di spedizione internazionale inviato subito in Cina al comando del generale tedesco von
Waldersee, di cui faceva parte anche un contingente italiano, ebbe rapidamente il sopravvento sulle
truppe cinesi e sulle bande dei boxer. Entrato a Pechino si abbandonò a feroci quanto indiscriminati
massacri e devastazioni (compreso l’incendio del palazzo imperiale) con la distruzione o la
dispersione di un vastissimo patrimonio culturale e artistico. Con il protocollo del 1901 la Cina fu
costretta a nuove concessioni e al pagamento di un’indennità di 450 milioni di sterline. I profondi
disaccordi politici tra gli occidentali impedirono, ancora una volta, la spartizione coloniale della
Cina e la caduta della dinastia imperiale, ma ormai il paese era al collasso.
La repubblica in Cina In questa fase di declino irreversibile, emerse all’interno della società cinese
un insieme di forze che, a differenza del passato, colsero la necessita di coniugare la riscossa
nazionale antimperialista con un vasto progetto di modernizzazione civile, in grado di coinvolgere
la sterminata massa dei contadini poveri. A capo di queste forze si trovò il medico Sun Yat-sen
(1866-1925) che, oltre a definirne la base programmatica, le organizzò in una vasta rete cospirativa
contro la dinastia manciù. Nel 1911 questa vasta azione politica esplose in una sollevazione
popolare a Nanchino che dichiarò decaduta la dinastia imperiale, detronizzando l’ultimo
imperatore, il piccolo Pu Yi.
Sun Yatsen proclamò la repubblica di cui venne eletto presidente da un assemblea rivoluzionaria.
Ma questo atto rimase senza un seguito politico effettivo: il governo di Sun Yatsen non riuscì a
tenere sotto controllo il progressivo sfaldamento dell’immenso impero e passò la mano a un
governo militare, che però si rivelò ben presto altrettanto debole. In questa situazione di interregno
Sun Yatsen si concentrò sulla creazione del primo partito politico della Cina repubblicana, il
Guomindang.
Ma il cammino si sarebbe rivelato più lungo del previsto e alla vigilia della Grande guerra la Cina
era ormai in preda a un processo di disgregazione messo in atto dai vecchi capi militari delle diverse
province cui il governo militare non era in grado di opporre nessuna resistenza.
I partiti cinesi
Anche in Cina la guerra ebbe effetti dirompenti. In un paese che dalla
caduta della dinastia manciù e dall’instaurazione della repubblica (1912) era in preda a un’endemica
guerra civile, la decisione di Francia e Gran Bretagna di non riconoscergli quel ruolo di vincitore
che era stato invece accordato al Giappone, ebbe l’effetto di fare esplodere il nazionalismo. A
Versailles, infatti, nonostante avesse partecipato alla Grande guerra dalla parte dell’Intesa, la Cina
venne trattata alla stregua di una colonia e venne privata dei diritti sulla regione dello Shantung a
vantaggio del Giappone. Ciò provocò una forte reazione da parte dei gruppi nazionalisti più
consapevoli (formati in particolare da studenti universitari), i quali, anche sotto l’influenza della
recente esperienza russa, si mobilitarono per reagire a quella nuova “umiliazione nazionale”. Il
nuovo nazionalismo cinese, al quale aderì anche Sun Yat-sen (1866-1925), il fondatore della
repubblica mirava a trasformare le basi economiche e sociali della Cina, dove circa 2 milioni di
operai, sottoposti a un duro sfruttamento da parte delle industrie straniere, si aggiungevano ai
milioni di poveri contadini tenuti quasi in servitù da notabili e proprietari. Al nazionalismo si
aggiunse, dunque, il marxismo: il primo era necessario per tenere unito il paese, il secondo per
riformare radicalmente l’economia e i rapporti sociali. Sun Yat-sen fondò su queste basi il
La Cina dopo la guerra
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Guomindang, il “partito del popolo”, ovvero il Partito nazionalista, con l’intento di farne lo
strumento attraverso il quale costruire la nuova Cina. Il programma del partito aveva al suo centro
l’autonomia della Cina, retta da istituzioni democratiche che dovevano promuovere l’uguaglianza,
oltre che la libertà. Nel 1921 fu rieletto alla presidenza della repubblica. Cominciava la lotta contro i
ceti privilegiati, i “signori della guerra” e gli imperialisti stranieri.
Nazionalisti e comunisti in Cina Il Guomindang si organizzò sul modello del Partito bolscevico
russo, mentre i contatti fra il governo repubblicano e Mosca si facevano sempre più stretti e cordiali.
Ciò indusse la componente più radicale del movimento rivoluzionario cinese, di estrazione
marxista, a fondare nel 1921 il Partito comunista cinese, che pur aderendo al Guomindang
costituiva tuttavia una realtà autonoma. Il giovane Mao Zedong (1893-1976) ne divenne subito uno
dei capi di spicco. Gli obiettivi di comunisti e nazionalisti, riuniti nel Guomindang, erano diversi: i
primi volevano la rivoluzione sociale, attraverso la quale cambiare il volto della Cina; i secondi
puntavano all’unificazione nazionale sotto un governo moderno e borghese. Le contraddizioni fra le
due anime della nuova Cina esplosero dopo la morte di Sun Yat-sen (1925), il capo indiscusso della
democrazia cinese, principale fautore del fronte unito fra nazionalisti e comunisti I movimenti
popolari fomentati dai comunisti furono duramente repressi dalle forze armate nazionaliste guidate
dal principale erede di Sun Yat-sen, Chiang Kai-shek (1887-1975), offrendo all’ala destra del
Guomindang l’opportunità per sbarazzarsi degli scomodi alleati marxisti. Sostenuti da Usa e Gran
Bretagna, i nazionalisti riuscirono a unificare il paese (1928) e a porre le basi per un suo sviluppo
economico.
L'espansione del comunismo
Le modalità dell’indipendenza indiana restarono dal punto di
vista politico e ideologico un caso unico nel contesto asiatico della decolonizzazione, perché gran
parte dei movimenti anticolonialisti furono influenzati dal comunismo.
La forza del comunismo come guida dei movimenti d’indipendenza ebbe uno straordinario
sostegno dalla nascita della Repubblica popolare cinese nel 1949, che da molti punti di vista
potrebbe essere inserita tra i nuovi stati nati dalla decolonizzazione, perché dalla caduta dell’Impero
(1911) la Cina non aveva conosciuto una vera e propria unità territoriale. Con la vittoria del Partito
comunista guidato da Mao Zedong era nato il più grande stato comunista del mondo con quasi 600
milioni di abitanti e un peso geopolitico tale da modificare gli equilibri dell’intera area.
All’indomani della sconfitta del Giappone, le forze nazionaliste conservatrici guidate da Chiang
Kai-shek, forti dell’appoggio americano, ruppero l’unità d’azione con i comunisti, che era stata alla
base della resistenza all’invasione giapponese, riaprendo la guerra civile. La condotta della guerra
aveva però rafforzato le forze comuniste, che si erano radicate profondamente nel paese, tanto da
apparire ormai come l’unica vera forza nazionale. Tra il 1946 e il 1949 i comunisti avanzarono da
nord e conquistarono una provincia dopo l’altra. L’amministrazione e l’esercito di Chiang erano in
completo disfacimento: corruzione e inettitudine ne minavano le fondamenta e privavano il governo
ufficiale di ogni sostegno popolare e di ogni prestigio. Interi reparti dell’esercito passavano nelle
file comuniste, finché nell’autunno del 1949 l’intera Cina fu sottoposta all’autorità dei comunisti,
con l’eccezione dell’isola di Formosa (odierna Taiwan) dove riuscì a rifugiarsi Chiang Kai-shek
con i suoi seguaci, dando vita a uno stato autonomo, la Repubblica di Cina. Il 1° ottobre del 1949
venne proclamata la Repubblica popolare cinese. Questa vittoria esercitò un’indubbia influenza sui
ceti intellettuali e nazionalisti di molte colonie spingendoli a coniugare il nazionalismo con il
comunismo, come accadde in Malesia, in Vietnam, in Indonesia. Cina e India si presentavano
dunque come due vie alternative per la decolonizzazione una democratica, l’altra comunista.
Eppure avevano in comune lo stesso slancio modernizzatore che caratterizzava i nuovi gruppi
dirigenti. In entrambi i casi la legittimazione ottenuta riposava sulla capacità di traghettare nel giro
di pochi anni questi colossi demografici da una condizione di arretratezza spaventosa, che trovava
elementi di comparabilità con l’Europa preindustriale - un ritardo quindi di duecentocinquanta anni
-, a livelli di vita decisamente moderni. Le dinamiche economiche dei primi anni del XXI secolo
La rivoluzione comunista in Cina
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dimostrano che il progetto è stato realizzato con successo.
In Indocina, regione sottoposta a protettorato francese
dagli anni sessanta del XIX secolo, fermenti indipendentisti esistevano sin dagli anni trenta. Già nel
1931 sotto la guida di Ho Chi Minh (1890-1969) era stato costituito il Partito comunista del
Vietnam, con l’obiettivo di unire il problema dell’indipendenza nazionale a quello della giustizia
sociale. Soldati e contadini erano pertanto chiamati a collaborare e ad unirsi in una lotta comune,
rivolta al contempo contro il nemico esterno (i poteri coloniali) e il nemico interno (i grandi
proprietari terrieri e la grande borghesia). Agli occhi delle popolazioni colonizzate l’invasione
nazista della Francia nel giugno 1940, rappresentava un indebolimento della metropoli
colonizzatrice che poteva favorire le forze politiche e sociali impegnate nella lotta per
l’indipendenza. Si spiega così la fondazione, già nel 1941, del Fronte per l’indipendenza del
Vietnam (il Vietminh) su iniziativa del Partito comunista. A conclusione della guerra - cui in Asia si
giunse solo con la resa del Giappone, a seguito dei catastrofici bombardamenti atomici americani,
nell’agosto 1945 - Ho Chi Minh agì tempestivamente per impedire l’ingerenza delle potenze
vincitrici: già il 2 settembre il governo provvisorio procedette alla proclamazione dell’indipendenza
nazionale.
L’impegno militare francese La Francia non rimase immobile di fronte all’offensiva del Vietminh.
Con il sostegno degli alleati britannici i francesi lottarono per il mantenimento del controllo nel sud
del paese, respingendo i guerriglieri vietnamiti a nord. La situazione rimase a lungo tesa e instabile,
per poi sfociare in una vera e propria nuova guerra tra la locale popolazione francese, sostenuta
dagli alleati occidentali, e la popolazione autoctona. Nel 1949, ossia nel pieno della guerra fredda, il
Vietnam si trovava diviso tra la Repubblica democratica del Vietnam del nord (con capitale
Hanoi) e il Vietnam del sud costituito su iniziativa francese e guidato da Dao Bai, un vecchio
I movimenti indipendentisti in Indocina
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imperatore dell’Annam completamente
assoggettato
agli
intenti
politici
occidentali. Conformemente alla logica
imperante della guerra fredda, la
Repubblica del Vietnam fu riconosciuta da
Urss e Cina, mentre il Vietnam del sud
godeva del riconoscimento di Usa e Gran
Bretagna. Dopo anni di violenti scontri, la
guerra d’Indocina si concludeva, nel
maggio
1954,
con
la
sconfitta
dell’esercito francese a Dien Bien Phu.
Parallelamente, sul piano diplomatico si
era giunti al ristabilimento della pace con
la conferenza di Ginevra, che indicava
nel 17° parallelo la linea di confine tra i
due stati: Vietnam del Nord (con capitale
Hanoi) e Vietnam del Sud (con capitale
Saigon). Inoltre Laos e Cambogia erano riconosciuti Stati indipendenti e sovrani e il dominio
coloniale francese in Indocina aveva ufficialmente termine. La guerra si era conclusa, ma la regione
continuò a essere un focolaio di tensioni e instabilità fino al riaccendersi, solo dieci anni più tardi, di
un nuovo conflitto, questa volta contro gli Usa, la nuova potenza che avanzava pretese egemoniche
su quel territorio.
Gli Stati Uniti giocarono in effetti un ruolo decisivo nel processo di decolonizzazione dell’intera
area del Pacifico perché erano intenzionati a sostituire i vecchi stati coloniali europei nel controllo
di questo scacchiere nevralgico della guerra fredda. Con il controllo della Corea e del Vietnam del
sud, delle Filippine, del Guam e di Okinawa e soprattutto del Giappone sconfitto, gli Stati Uniti
miravano a costruire attorno alle coste continentali dell’Asia in mano alla Cina e all’Urss un
formidabile cordone difensivo, sostenuto da un imponente apparato militare, sia per contenere
l’espansione del comunismo in questa zona, sia per avere il pieno controllo dell’oceano Pacifico.
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