Il Principio di Indeterminazione di Heisenberg

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Il Principio di Indeterminazione di Heisenberg
…raccontato ai miei colleghi.
- Incontro tra docenti per la condivisione della cultura -
Liceo Scientifico “Giordano Bruno”
Torino, 22 novembre 2010
Lorenzo Galante
1
Vorrei parlarvi del Principio di Indeterminazione facendo insieme a voi una serie di esperimenti
che vi conducano verso una comprensione il più completa possibile. Sui libri dedicati alla
meccanica quantistica tale principio è spesso affrontato con pagine simili a queste:
2
Non è per spaventarvi. Credo sia importante, anche solo come curiosità, mostrarvi quale sia il
linguaggio che i fisici usano quando parlano tra loro. L’incontro di oggi sarà quasi interamente
dedicato a spiegarvi cosa significhino queste due pagine.
3
1° passo (battimenti acustici).
Facciamo suonare due diapason che emettano note leggermente diverse (per ottenere ciò è
sufficiente prendere due diapason indentici e porre una massa di qualche grammo su una delle due
braccia di un diapason). Ascoltiamo il suono puro (una sola frequenza, La, 440 Hz) del primo
diapason (libero da masse aggiuntive) che vibra da solo, ascoltiamo il suono puro del secondo
diapason (frequenza leggermente inferiore, circa 435 Hz). Il suono di ciascun diapason è percepito
dal nostro orecchio come un’onda sinusoidale di pressione. Il nostro orecchio sente una variazione
sinusoidale nel tempo della pressione. Il microfono attaccato alla scheda audio di un pc ci permette
di visualizzarla
.
Adesso facciamo suonare contemporanemente i due diapason leggermente ‘scordati’ . Quel che
percepisce il nostro orecchio (la somma delle onde) è un suono che a tratti è presente e in certi
istanti scompare. Ancora una volta il microfono consente una visualizzazione dell’onda nel tempo
percepita dal nostro orecchio.
Questo esperimento ci svela un piccolo “segreto” matematico:
se vogliamo far sparire un’onda in certi punti è necessario lavorare con
una somma di onde di frequenza diversa. Potremmo anche dire che
sommando onde di 2 frequenze diverse si può giungere ad un onda che
iniza ad essere “impacchettata” (o se preferite concentrata) all’interno di
certe zone.
4
Nota1: i battimenti acustici sono usati dai musicisti per esempio per accordare una
chitarra.
Nota2: le formule di prostaferesi della goniometria descrivono perfettamente il
fenomeno dei battimenti.
2° passo (luce laser vs doppia fenditura)
Adesso vogliamo mostrarvi un esperimento che ci farà riflettere sulla natura della luce.
Prendiamo un fascio di luce laser e dirigiamolo verso una doppia fenditura. Immaginiamo che la
luce sia un insieme di particelle una dietro l’altra - come una successione di proiettili - e
chiediamoci cosa ci aspettiamo di vedere sullo schermo. Per rispondere è sufficiente immaginare
cosa si vedrebbe su un muro posto dietro una doppia finestra se da fuori qualcuno sparasse contro
le finestre con una mitragliatrice. Dovremmo osservare due rose di punti separate, la prima formata
dai proiettili passati attraverso la fenditura di destra, la seconda da quelli passati attraverso quella di
sinistra. Quindi, se la luce fosse composta da tanti piccoli proiettili, sullo schermo dovremmo
vedere 2 rose di punti luminosi.
Adesso eseguiamo veramente l’esperimento. Quello che si osserva non è quanto avevamo
previsto… non osserviamo due macchie, ma tante zone di luce separate da zone di buio. Possiamo
concludere che in questo epserimento la luce non si stia comportando come una successione di
proiettili. Quello che stiamo osservando può essere spiegato ipotizzando che la luce sia un’onda.
Consideriamo, infatti, un’onda che esca dalla prima fenditura e un’onda che esca dalla seconda e
supponiamo che si incontrino in un certo punto dello schermo. La prima onda seguirà un percorso
diverso dalla seconda quindi non è detto che giungano nel punto di incontro rivolte alla stessa
maniera. Potrà accadere che una sia rivolta in su e l’altra in giù – in tal caso le onde sommandosi si
annulleranno e daranno vita alle zone di buio – ma potrà anche accadere che entrambe arrivino
rivolte verso l’altro – in tal caso le onde si rafforzeranno e daranno vita alle zone di luce.
L’aspetto imprtante da cogliere è il seguente:
l’osservazione di zone di luce separate da zone di buio si può
spiegare solo ipotizzando che la luce sia un’onda.
Due onde provenienti da due fenditure
diverse si incontrano in un punto dello
schermo. Una è rivolta verso l’alto,
l’altra verso il basso: la loro
sovrapposizione darà assenza di luce in
quel punto (buio).
5
Nota0: il laser è una sorta di diapason ottico: produce luce di una determinata
lunghezza d’onda cioè luce monocromatica (l’equivalente di un suono puro in
acustica). Inviando luce bianca sulle due fenditure non osserveremmo l’effetto
dell’interferenza.
Nota1: è importante evidenziare che nelle zone buie dello schermo stiano arrivando
fotoni (stia arrivando luce).
Nota2: la sovrapposizione di due o più onde in un punto dello spazio si chiama
interferenza. (se le onde si rafforzano l’interferenza è detta costruttiva, altrimenti
distruttiva).
3° passo. Elettroni vs grafite
Avete osservato il comportamento ondulatorio della luce tramite l’esperienza precedente.
Adesso eseguiremo un esperimento analogo a quello effettuato con la luce, effettuandolo con la
materia. Invieremo un fascio di elettroni verso una successione di fenditure realizzate sfruttando il
reticolo cristallino della grafite (nuclei di carbonio separate da distanze fisse). In questa sfera
abbiamo una sorgente di elettroni che vengono lanciati ad alta velocità verso un bersaglio di polvere
di grafite. La grafite è formata da atomi i cui nuclei sono disposti in posizioni fisse Lo schermo
fluorescente si illuminerà nelle zone in cui arriveranno gli elettroni, resterà buio dove gli elettroni
non saranno giunti. Cosa si vede? Possiamo notare figure analoghe a quelle dovute alle interferenze
luminose, infatti ci sono zone di luce intervallate da zone di buio, proprio come accadeva con il
laser. Nell’esperimento precedente, per spiegare l’alternanza di luce e buio della luce rossa del
laser, avete ipotizzato che la luce fosse un’onda. Qui accade qualcosa di analogo siamo quindi
portati a pensare che gli elettroni siano delle onde.
Nota0: questo è l’esperimento di Davisson e Germer (1927). Loro utilizzarono un cristallo di
Nickel al posto della grafite. Confermò l’ipotesi sulla natura ondulatoria della materia ipotizzata da
De Broglie nel ’25.
Nota1: tutte le particelle (e anche le relative antiparticelle) manifestano lo stesso comportamento
ondulatorio manifestato dagli elettroni in un esperimento analogo a quello di Davisson e Germer
(protoni, neutroni, quark, muoni, pioni, ecc.. ).
Nota2: fino a quando la particella non interagisce con altre particelle possiamo pensare che si
comporti come un’onda (per cui nell’ambito della meccanica quantistica essa è descrtitta da un
funzione d’onda – cioè una funzione oscillante – che ne descrive la probabilità di trovare la
particella in un certo istante e in una certa posizione dello spazio). Quando la particella interagisce
con la materia, per esempio collide su uno schermo (lo schermo fluorescente dell’esperimento che
abbiamo visto, p.es.) si comporta come una particella (collasso della funzione d’onda).
Gli elettroni in questo eperimento manifestano un comportamento ondulatorio. Esistono tuttavia
situazioni in cui essi si comportano come particelle. Il funziamento di rivelatori Geiger o a
scintillazione, si basa sul modello corpuscolare delle particelle. La fotocellula dell’ascensore
funziona perché una particella di luce che copisce un fotodiodo cede energia convertita in segnale
elettrico. E’ questo il principio di complementarietà della meccanica quantistica: tanto discusso
negli anni venti dalla scuola di Cophenhagen. In breve eistono due punti di vista utili per dare una
descrizione completa di una particella. Questi non sono adottabili contemporaneamente.
6
4° passo. Il principio di indeterminazione di Heisenberg
Ed ora veniamo al dunque, cioè al Principio di Heisenberg. Le particelle manifestano un
comportamento ondulatorio. Le onde però non sono confinate nello spazio. Pensate all’onda pura:
la sinusoide. Questa parte da -  e arriva a +  . Una particella descritta da questa onda sarebbe
localizzata ovunnque, ovvero non localizzata. Dobbiamo allora chiederci come sia possibile
localizzare un’onda. L’esperimento svolto con i due diapason offre lo spunto risolutivo. Per
impacchettare un’onda occorre sommarne tante con frequenze diverse. Nell’esperimento ne
sommavamo solo due, tuttavia è possibile sommarne tante quante si vuole e, con la tecnica
matematica del calcolo integrale, se ne possono sommare infinite. Sommandone due non si ottiene
una buona localizzazione, i pacchetti si ripetono all’infinito. Il filmato che adesso vi mostro vi fa
invece vedere cosa accade se sommo infinite onde con tutte le frequenze comprese in un certo
intervallo di valori. Il film è una sequenza di onde ottenute sommando su intervalli di frequenza
sempre più ampi. Sull’asse orizzontale rappresentiamo lo spazio in cui può trovarsi la particella
sull’asse verticale la probabilità di trovarla in una certa posizione. Qui sotto vedete 4 fotogrammi
del filmato. Nel primo sommiamo le infinite onde che hanno frequenze comprese in un certo
piccolo intervallo: l’onda inzia a scomparire ai bordi e a localizzarsi al centro. Nel secondo
sommiamo le infinite onde con frequenze comprese in un intervallo più grande del precedente: la
localizzazione è migliore. Il picco centrale che comunica dove sarà probabile trovare la particella
ha una base più stretta. La localizzazione migliora via via che ampliamo l’intervallo di frequenze
che sommiamo.
Probabilità
0.4
x
0.3
0.2
0.1
Posizione
0
-0.1
X
p
Probabilità
x
0.4
-200
-100
0
100
200
0.3
0.2
0.1
Posizione
0
X
p
-0.1
Probabilità
0.4
-200
-100
0
100
x
200
0.3
0.2
0.1
Posizione
0
X
p
-0.1
-200
0.4
-100
Probabilità
0
100
200
x
0.3
0.2
0.1
0
Posizione
X
p
-0.1
-200
-100
0
100
200
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L’esperimento di Davisson e Germer permise di capire che la frequenza delle onde con cui
descriviamo la probabilità di trovare una particella sia legata strettamente all’impulso p (prodotto
m*v, massa per velocità) della particella stessa.
Cosa conlcludiamo allora?
Se desideriamo localizzare una particella nello spazio siamo
costretti ad ammettere che essa sia descritta da onde con tutti gli
impulsi (frequenze) comprese in un certo in intervallo. Più è vasto
l’intervallo di impulsi considerati più stretta e precisa è la
localizzazione spaziale della particella. Con un minimo di attenzione ci
si può rendere conto che stiamo enunciando il principio di
indeterminazione di Heisenberg. Se vogliamo essere certi che la
particella si trovi in una regione x ristretta si spazio siamo costretti ad
associare alla particella impulsi compresi in un vasto intervallo p.
Minore x implica maggiore p!
Il linguaggio matematico sintetizza il tutto con questa semplice
relazione:
p  x   .
Importante osservare che l’affermazione: ”la particella è descritta da una somma di onde cn tutti
gli impulsi p compresi in un intervallo p” significa che la particella possiede contemporaneamente
tutti gli impulsi di quell’intervallo. Allo stesso modo se la localizzazione della particella è all’interno
di un intervallo ampio x, possiamo pensare che la particella sia contemporaneamente in tutte le
posizioni dell’intervallo (un po’ come se fosse distribuita nello spazio).
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Il Principio al lavoro.
Non trovo corretto parlare del principio di indeterminazione di Heisenberg per mettere in luce
limiti della fisica. La fisica ha limiti, non c’è dubbio. Ma non è il principio di indeterminazione a
creare problemi ai fisici. A quanto sappiamo oggi il principio è una legge di natura che “regola”
tutto ciò che accade nel mondo atomico e subatomico. Non hanno senso affermazioni volte a
convincere che la fisica sia limitata dal fatto che non si potrà mai determinare la velocità e la
posizione di una particella con precisione. La natura sembra funzionare così, la fisica cerca di
descrivere la natura attraverso leggi che servano a comprendere l’evoluzione di numerosi altri
fenomeni. In questo senso il principio funziona benissimo. Molte spiegazioni di fenomeni che
avvengono nel nostro universo poggiano sull’indeterminazione di Heisenberg. In altre parole siamo
tutti fieri del principio in questione, anche se in alcuni manuali si vuol far passare che ci si debba un
po’ vergognare dell’indeterminazione. Se avessero ragione tali manuali allora dovremmo anche
vergognarci delle reazioni termonucleari che avvengono del nucleo del nostro sole, o del fatto che
gli oggetti possano cadere verso il centro della Terra.
Utilità del Principio di Heisenberg.
Vedremo adesso come il principio di Heisenberg sia estremamente fruttuoso per spiegare
fenomeni molti importanti. Tutti i temi trattati nel seguito si poggiano sull’indeterminazione che
vige in meccanica quantistica.
Stabilità dell’atomo.
Gli elettroni “ruotano” intorno al nucleo. Gli elettroni sono cariche elettriche. Cariche elettriche
accelerate emettono onde elettromagnetiche. Gli elettroni sono accelerati verso il nucleo
(accelerazione centripeta) altrimenti addio orbite limitate. Mettiamo insieme tutte queste
affermazioni e cosa concludiamo? Tutti gli elettroni atomici devono emettere onde e.m. e quindi
perdere continuamente energia. Ma se un elettrone perde energia si avvicina inesorabilmente al
nucleo. Allora come spieghiamo la stabilità degli atomi o se preferiamo come spieghiamo la nostra
esistenza? Se l’atomo collassasse su se stesso la nostra forma di vita non potrebbe esistere.
L’elettrone non può collassare sul nucleo perché se lo facesse la sua posizione sarebbe
perfettamente determinata e la sua incertezza sulla velocità sarebbe infinitamente grande.
L’elettrone allora potrebbe avere velocità infinitamente elevata e questo richiederebbe energia che
di fatto non possiede.
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Interazioni fondamentali [3]
Due elettroni che viaggiano in una certa direzione si respingono. Classicamente diremmo che tra
di loro agisce una forza di repulsione coulombiana. La descrizione classica soffre di un grave
difetto, noto con il nome di ‘problema dell’azione a distanza’(già notato da Isaac Newton). In breve,
come è possibile che i due elettroni si
scambino una forza senza toccarsi?
Oggi l’interazione è descritta in termini di
particelle virtuali (anche detti “bosoni
intermedi” per motivi che, per ora, è bene
trascurare). Cosa sono le particelle virtuali e
come risolvono il problema dell’azione a
distanza?
Oltre al principio di indeterminazione
posizione – impulso esiste un principio di
indeterminazione energia - tempo che lega
fra loro l’incertezza sull’energia
all’incertezza sul tempo:
E  t  
[due elettroni interagiscono scambiandosi una particella
virtuale].
Per intervalli di tempo t molto piccoli l’indeterminazione sull’energia E è molto grande.
Indeterminazione molto grande su E significa che in quel t può comparire una grande energia dal
nulla. Questa energia (grazie all’equivalenza energia-massa) si può poi manifestare come particella
(detta virtuale). E’ questa particella, indicata con la lettera gamma nel disegno, che “mette in
contatto” i due elettroni portando l’informazione della loro interazione. Nel caso dell’interazione
elettromagnetica la particella virtuale scambiata è il fotone. Ogni interazione fondamentale (ne
esistono 4) ha una sua particella virtuale che permette la propagazione dell’interazione. (forze
nucleari deboli : particelle Z+, Z-, W0 – Cern, Rubbia Van der Meer; forze nucleari forti: gluoni;
forza gravitazionale: gravitone?).
Il limite di Bekenstein
Consideriamo una certa regione di spazio di raggio R in cui si trovi una certa quantità di materia
e una certa energia finita (energia a riposo). Lavoriamo nello spazio delle fasi cioè su un piano
cartesiano (posizione x, impulso p). Ogni particella presente nella regione considerata avrà una
collocazione nello spazio delle fasi, ma la sua collocazione, in virtù del principio di
indeterminazione, non sarà determinata da un punto, bensì da un rettangolo di base x e altezza p.
Ogni rettangolo dello spazio delle fasi rappresenterà uno stato in cui può trovarsi una o più
particelle. La regione di spazio in esame è limitata quindi la posizione sarà limitata; l’energia nella
regione è finita quindi l’impulso è limitato. Segue che l’area ncessaria per descrivere il sistema
nello spazione delle fasi sia limitato. Avendo un’area limitata nello spazio delle fasi suddivisa in
10
aree non nulle di rettangoli il numero di stati in cui può trovarsi il sistema è finito e calcolabile. Tale
limite prende il nome di limite di Bekenstein. In particolare gli stati in cui può trovarsi un essere
1045
umano sono al massimo 10
. Sembra quindi che un essere umano debba necessariamente
essere considerato una macchina a stati finiti[1].
Il tempo di Planck
Il tempo di Planck costituisce un limite inferiore alla misura di tempi. Non è possibile misurare
tempi più piccoli del tempo di Planck, cioè inferiori a circa 10-44 s (10 miliardesimi di miliardesimi
di miliardesimi di miliardesimi di miliardesimi di secondo). Da dove nasce questa impossibilità?
Dal principio di Indeterminazione di Heisenberg e dalla relatività generale.
L’idea di base è la seguente: se misuriamo intervalli temporali t molto piccoli tra due eventi
(causalmente connessi) questi sono separati da una distanza spaziale L molto piccola (L = ct).
Minori sono i t che intendiamo misurare, minori saranno le incertezze t necessarie (affinché la
misura abbia senso). Incertezze t sempre più piccole daranno vita (P. Indet. H.) a incertezze E
sempre maggiori. Queste grandi incertezze E sono associabili a regioni di spazio (L) sempre più
piccole (t e L sono proporzionali). Grande incertezza sull’energia in uno spazio ridotto può portare
alla formazione di un buco nero (se l’energia viene concentrata entro un certo raggio detto di
Schwartzshild). Da un buco nero non escono informazioni e non potremmo misurare distanze
temporali t tra eventi al suo interno.
Per questo motivo non potremmo sapere cosa accadde al nostro universo nei primi 10-44 s di vita.
Stabilità delle stelle (pressione di degenerazione)
Supponiamo di avere un gas di elettroni liberi. Per il principio di indeterminazione px  x  
(lo stesso varrà lungo la direzione y e z), quindi il volume occupato da un elettrone nello spazio
delle fasi sarà proporzionale a  3. Se la densità di elettroni è di n elettroni al metro cubo, il volume
1
spaziale occupato da un elettrone sarà 1/n. Qundi l’incertezza sulla posizione sarà x  3 , per
n

  3 n . Questa incertezza sull’impulso genera una pressione
l’indet. di H. si avrà allora p 
x
che si aggiunge alla normale pressione (si ricordi che la pressione è dovuta al trasferimento di
impulso negli urti). [2]
L’energia del vuoto [4]
Sfruttando il principio di indeterminazione è possibile assegnare un’energia al vuoto. Consideriamo
uno spazio vuoto, cioè uno spazio privo di materia e ove, per esempio, il campo elettromagnetico
sia nullo. La fisica teorica descrive il campo em come un insieme di oscillatori (se proprio si vuole
immaginare qualcosa si può pensare ai dei pendoli o a delle masse appese ad una molla) posti in
ogni punto dello spazio. Il campo em in un punto è uno stato eccitato dell’oscillatore posto in quel
punto (pendolo che oscilla con grande ampiezza). Per il principio di indeterminazione lo stato di
minima energia di un pendolo non è quello in cui il pendolo è fermo in posizione verticale. Se così
fosse la sua posizione sarebbe nota senza incertezza e l’indeterminazione sul suo impulso andrebbe
ad infinito, quindi l’oscillatore avrebbe energia infinita. Lo stato di minima energia di un oscillatore
quantistico è uno stato in cui “il pendolo” oscilla con una piccola ampiezza. Quindi il vuoto
11
elettromagnetico, che è definito come lo stato di più bassa energia del campo em, ha una sua
energia diversa da zero. Si può poi dimostrare che l’energia del vuoto è negativa e che potrebbe
essere proprio questa energia la responsabile dell’attuale accelerazione nell’espansione
dell’universo.
.
Bibliografia.
[1] Frank J. Tipler, “La fisica dell’immortalità. Dio la cosmologia e la risurrezione dei
morti”, Mondandori, 1995, Milano. (pag. 31-32)
[2] P. Monaco, “Introduzione all’astrofisica”, Il testo di quest'opera _e pubblicato sotto una
Licenza
Creative
Commons.
(disponibile
http://physics.infis.univ.trieste.it/~monaco/dispense.pdf).
in
rete
all’indirizzo:
[3] Braibant, Giacomelli, Spurio, “Particelle e interazioni fondamentali”, Springer,
2010.
[4] S. Hawking, “L’universo in un guscio di noce”,
[5] C. Rossetti, “Istituzioni di fisca teorica”, Levrotto & Bella, 1984 , Torino
12
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