Democrazia, giudaismo e idolatria
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Democrazia, giudaismo e idolatria
di Raniero Fontana
The debate on the Torah and democracy, very much alive today in Israel, is part of the
ongoing opposition between tradition and modernity. In this short paper, possible formulas,
options, and strategies are indicated for carrying out such a confrontation from the point
of view of the Torah. In particular, the rabbinical and Talmud culture, a culture that highly
values discussion and a good argument, is solicited in a democratic and modern sense.
Il dibattito su Torah e democrazia è un’espressione specifica del più
generale confronto tra tradizione e modernità.1
I valori della modernità cozzano contro i valori della tradizione. Dagli
esiti di questo duro confronto dipende la configurazione della società israeliana, presente e futura: Stato ebraico o stato degli ebrei; Stato ebraico e
democratico; Torah e/o democrazia?
Facendo eco alle tesi di Samuel P. Huntington,2 si può negare categoricamente ogni possibile compatibilità tra ebraismo e democrazia in
nome di una diversa appartenenza religiosa e culturale, di una estraneità
sostanziale, di una inimicizia totale, essendo la seconda il caratteristico
prodotto di una civiltà occidentale e cristiana.3
Oppure, più possibilisti, si può non escluderla a priori, per quanto
problematica essa sia, non mancando ovviamente di indicare i dovuti e
sempre utili distinguo.
1
Un confronto che coinvolge parimenti tradizioni religiose diverse dal giudaismo. Vedere il
cristianesimo come eccezione, quasi che la democrazia fosse parte del suo DNA, è piuttosto dubbio.
È anzi ipotizzabile che la resistenza verso la modernità di altre tradizioni religiose incoraggi tra i
cristiani di diverse chiese e denominazioni un atteggiamento emulativo, di maggiore riserva nei suoi
confronti, se non di esplicito rifiuto. Suscitando un sentimento di nostalgia (invidia?) per certe forme
di tutela e di mediazione che appaiono ancora capaci di incarnare e di imporsi come forme e come
figure dell’assoluto.
2
Cfr. S.P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New
York 1996.
3
Cfr. M. NISAN, Toward a New Israel. The Jewish State and the Arab Question, New York
1992, in particolare p. 155; Per Eidelberg, Israele è un paese malato di demophrenia (democrazia +
schizofrenia), uno stato patologico grave dovuto alla sua occidentalizzazione. Israele sarebbe vittima
del virus occidentale, il quale, come scrive Huntington, «una volta inoculato in un’altra società, è
difficile da scacciare. Esso si conserva, ma non è fatale. Il paziente sopravvive, ma non è più lo
stesso»; P. EIDELBERG, Demophrenia. Israel and the Malaise of Democracy, Lafayette (LA) 1994, p.
154. La conseguenza di un simile contagio è una società lacerata, un paese affetto da «una schizofrenia
culturale che diventa il suo carattere proprio e durevole» (ibidem).
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1.
Raniero Fontana
Torah e democrazia
Esiste una retorica antidemocratica tra i religiosi e una retorica antireligiosa tra i secolaristi. In un clima di diffidenza reciproca, di timori
di prevaricazione, di kulturkampf, è difficile non sottoscrivere l’augurio
seguente: «Vorrei vedere il pubblico laicista parlare di giudaismo e il
pubblico religioso parlare di democrazia».4 È lo stesso autore di queste
parole, il rabbino Yoel Ben-Nun, a offrire l’esempio personale di un
impegno in questo senso. Contro il rischio paventato dai suoi interlocutori
laici di una teocrazia in Israele, egli sostiene il concetto di separazione
dei poteri come parte integrale della legge religiosa. Egli denuncia come
impropria dal punto di vista della stessa halakhah la volontà dei rabbini
di governare il paese direttamente o indirettamente. Separazione da non
confondersi però con quella tra Stato e religione a cui ha portato il processo di secolarizzazione occidentale. Lo stesso dal punto di vista della
giurisprudenza. La compatibilità di un sistema giuridico civile accanto a
quello religioso è una necessità prevista dalla Torah. Un simile doppio
sistema non è perciò debitore nei confronti della modernità. Egli vede
anche l’attuale subordinazione storica della legge ebraica a quella britannica
come un segno palese di non indipendenza politica. Il rabbino Yoel BenNun riconosce una funzione fondamentale alla volontà popolare, tanto cara
ai democratici, nella scelta della forma di governo, evitando con cura di
formulare la questione dell’autorità popolare in termini esclusivi e assoluti:
«Se uno formula la questione in termini assoluti, cioè o l’Onnipotente o
il popolo è sovrano, è chiaro che uno Stato ebraico democratico non può
essere accettabile».5
Si intravede la proposta di una democrazia religiosa, la democrazia della
Torah. Una democrazia compatibile con l’ebraismo nella misura in cui ne
rappresenta un suo aspetto interno. È quanto scrive esplicitamente un altro
importante rabbino israeliano, Aharon Lichtenstein.6 Non sorprende che
proprio la vaghezza della controversa espressione a Jewish and democratic
state consenta a religiosi e non di coabitare sotto il medesimo tetto. Una
soluzione buona poiché permette sia agli uni sia agli altri di comprenderla
diversamente, ciascuno a suo modo. Lo stesso rabbino Lichtenstein scrive:
«Io la interpreto come voglio io e tu la interpreti come vuoi tu».7
Il principio maggioritario, si sa, è un principio fondamentale in un
processo democratico mirato a trovare a workable solution. Come tale,
4
Y. BEN-NUN, The Separation of Authorities as a Religious Ideal, in J.E. DAVID (ed), The
State of Israel: Between Judaism and Democracy, Jerusalem 2003, p. 160.
5
Ibidem, p. 159. La separazione dei poteri è un tema al quale questo rabbino assai noto
in Israele ha dedicato molta attenzione. Si veda, per esempio: Y. BEN-NUN, Un regime democratico
secondo la Torah, in Derekh Eretz, Religione e Stato, Jerusalem 2001, pp. 297-349 [ebr.].
6
Cfr. A. LICHTENSTEIN, On Halakhah, Humanism and the Rule-of-Law, in J.E. DAVID (ed),
The State of Israel, pp. 105-121.
7
Ibidem, p. 115.
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è un principio coerente con la natura sperimentale della democrazia. La
regola maggioritaria è però tutt’altro che estranea alla Torah.8 Essa è anzi
un principio guida del procedimento halakhico.9 Ora, interrogato sul principio maggioritario, Israel Meir Lau, ex-rabbino capo di Israele, conclude:
«Per voi è democrazia, per noi è legge».10 Poche parole, ma sufficienti a
ribadire come le aspirazioni democratiche di una comunità convenzionale
non possano identificarsi con quelle di una comunità d’alleanza. Dal punto
di vista della libertà, quest’ultima ne concede meno di quanto la democrazia promette. Sol Roth suggerisce che il massimo di libertà e il minimo
di interferenza non corrisponde affatto all’ideale sinaitico bensì all’ideale
proprio di una democrazia contrattuale.11 La distinzione fondamentale
tra ebraismo e democrazia è, a suo dire, la seguente: «Il giudaismo è
covenantal, vale a dire una società orientata al dovere, e la democrazia è
contractual, vale a dire una società orientata ai diritti».12
La precedenza sui valori democratici sarà sempre accordata a valori
specifici, più ebraici e meno universali. Poiché l’individualismo erode il
senso di appartenenza al popolo ebraico tanto quanto l’universalismo di un
ideale di fratellanza estesa all’intero genere umano. L’egalitarismo non rende
giustizia al senso di un’identità nazionale legata a una libera e personale
iniziativa divina. Di conseguenza, se dal punto di vista della Torah, pur
tra esitazioni e riserve, la democrazia viene comunque riconosciuta, essa
lo è soltanto come una realtà de facto. Shalom Rosenberg usa la formula
seguente, filosofica e più sofisticata: a posteriori democracy.13 O così o
così, l’avverbio resta.
2.
David Hartman e la tradizione liberale
Nel suo saggio On Liberty, uno dei classici del pensiero liberale, il
filosofo John Stuart Mill ha dedicato un lungo capitolo, il secondo, alla
libertà di pensiero e discussione. A sua conclusione, il filosofo inglese
riassume il tutto in quattro punti principali. Li riportiamo per intero:
«1) Se un’opinione qualsiasi è costretta al silenzio, tale opinione, per quanto ci è
dato sapere con certezza, potrebbe essere vera. Negare ciò equivale a presumere la
nostra infallibilità.
2) Sebbene l’opinione messa a tacere sia un errore, essa potrebbe contenere, e molto
spesso contiene, una porzione di verità; e quindi, poiché raramente o mai l’opinione
8
9
10
Cfr. Es 23,2.
Cfr. Baba Metzia 59a-b.
I.M. LAU, A Jewish State by Democratic Means, in J.E. DAVID (ed), The State of Israel,
p. 44.
11 Cfr. S. ROTH, Judaism and Democracy, in «The Torah U-Madda Journal», 2 (1990), pp.
61-69, in particolare pp. 62-67.
12 Ibidem, p. 65.
13 Cfr. S. ROSENBERG, Democracy and Halakhah - A Philosophical Perspective, in J.E. DAVID
(ed), The State of Israel, p. 214.
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Raniero Fontana
generale o prevalente su qualsiasi argomento rappresenta l’intera verità, è solitamente
dalla collisione di opinioni contrarie che la parte restante di verità ha qualche possibilità di emergere.
3) Anche se l’opinione accettata è non solo vera, ma è l’intera verità, qualora tuttavia
non possa essere vigorosamente e apertamente contestata – come di fatto non lo è –,
essa sarà sostenuta dalla maggior parte di coloro che l’accettano alla stregua di un
pregiudizio, con scarsa comprensione dei suoi fondamenti razionali.
4) Per di più, il significato stesso della dottrina rischia di perdersi o di indebolirsi e
di essere privato del suo effetto vitale sul carattere e sulla condotta: allora il dogma
diventerebbe una pura formula, inefficace per la realizzazione del bene e di ostacolo
allo sviluppo di ogni autentica e profonda convinzione derivante dalla ragione o
dall’esperienza personale».14
Senza volerne fare approfondita esegesi, i punti forti di questo sommario sono immediatamente riconoscibili. D’autorità non si può imporre
né una verità né il silenzio. La libertà di espressione è sacrosanta. Essa
è la condizione prima per l’emergere di una verità di cui saremo sempre
e necessariamente debitori verso gli altri. Questo è il senso esatto da
dare a una democrazia intesa in termini di conversazione comune. La
partecipazione delle minoranze è essenziale alla sua conduzione. Se così
non fosse, si trasformerebbe la conversazione democratica in un tirannico
monologo della maggioranza. Parafrasando il filosofo Eric Weil, possiamo
concludere che si crea violenza allorché si esclude la partecipazione altrui
alla costruzione del discorso.
Mostrare fino a che punto i maestri di Israele abbiano riconosciuto certi
elementi importanti della cultura liberale resta uno degli scopi di David
Hartman. Con sensibilità non meno rabbinica che moderna, questo rabbino
ortodosso e professore universitario ha insistito sulla natura interpretativa
della tradizione ebraica, sul suo carattere di ongoing conversation, sul
dinamismo di una cultura che è per eccellenza una cultura della discussione, tarbut ha-mahloqet.15 Proprio quest’ultima è stata anzi il cavallo di
battaglia del suo Istituto gerosolimitano per tanti anni, prima di assumere
una veste più moderna sotto la rubrica «pluralismo e tolleranza»:
«Quando sono venuto in Israele e ho parlato di pluralismo ho subito scoperto che
non tutti gli ebrei hanno letto On Liberty di John Stuart Mill. Così ho deciso che
fosse il mio masochistico destino spiegare alla mia gente che l’esperienza ebraica in
America aveva prodotto alcuni importanti valori degni di considerazione».16
Per David Hartman, è la stessa tradizione religiosa ebraica che può e
deve essere il «luogo naturale» di espressione dei valori della modernità.
Egli ha elaborato una antropologia d’alleanza che si accorda per tanti
aspetti con il carattere sperimentale della democrazia:
14
J.S. MILL, Sulla libertà, trad. it., Milano 2003, p. 173.
Cfr. D. HARTMAN, Sub specie humanitatis. Elogio della diversità religiosa, Reggio Emilia
2004. Si veda inoltre R. FONTANA, Tarbut Ha-Mahloqet – una cultura della discussione, in «Cahiers
Ratisbonne», 2 (1997), pp. 118-136.
16 Cfr. D. HARTMAN, Sub specie humanitatis, p. 205.
15
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«La natura sperimentale della democrazia impone ai suoi devoti una disciplina che
non è semplice da accettare, cioè la disciplina di mai chiedere più di una parziale
realizzazione di scopi e ideali».17
Questo modo democratico di agire e di pensare, the democratic way
of life, esclude il perfezionismo e la compiutezza. Ma, per Hartman, è
proprio il realismo talmudico che insegna a benedire anche in presenza
di una realizzazione incompleta.18 La prosaicità stessa della democrazia,
la promessa di una trascendenza relativa, richiama la sua preferenza per
il carattere prosaico dello stesso Sinai.19 Sion, infatti, con la sua poesia e
la sua mistica, postula una possibilità di senso oltre la condizione storica
presente. Ma si può vivere una vita piena di significato anche senza tutele
celesti né assoluti sui quali fondarla. Simile avversione per le certezze
dogmatiche e assolute è tipica dell’uomo democratico e caratterizza il
suo state of mind. Per questo la democrazia sembra essere destinata a
urtarsi presto o tardi con il dogmatismo religioso tradizionale, poiché essa
appare come «una funzione della relatività della verità e dei valori».20 In
regime democratico la verità si presenta come relativa.21 Se così non fosse,
la democrazia non potrebbe essere ciò che è, una coraggiosa avventura
nell’ambito delle relazioni umane.22
3.
Cultura talmudica e democrazia
Senza dibattito non esiste democrazia. Senza di quello neppure esiste
il Talmud. Nella cultura rabbinica la discussione è centrale.23 I suoi presupposti assiologici e i suoi meccanismi di funzionamento risultano di
estremo interesse e di grande stimolo per una riflessione da condurre in
seno alla democrazia. Gli interrogativi epistemologici che solleva sono
attuali e pertinenti. Se la controversia sia buona o cattiva, se la discussione
sia il sintomo di una società malata o in buona salute, se sia tutto negoziabile nel corso del dibattito, sono solo alcuni esempi. Essi spaziano dal
perché sia necessario passare attraverso la discussione allo statuto di una
verità che la suppone. Se poi le risposte risultano discordanti, è perché la
17 T.V. SMITH - E.C. LINDEMAN, The Democratic Way of Life. An American Interpretation, New
York 1951, p. 119.
18 Cfr. b.Berakhot 20b (Rav Avira). Sull’uso di questo testo da parte di Hartman, si veda
R. FONTANA, David Hartman: un maestro da scoprire, in «Synaxis», 23 (2005), 3, pp. 101-107, in
particolare p. 107.
19 Cfr. b.Sukkah 5a.
20 S. ROSENBERG, Democracy and Halakhah, p. 208.
21 Cfr. M. LANGER, Democracy, Religion, and Zionist Future in Israel, in «Judaism», 36 (1987),
4, pp. 400-415, in particolare p. 401.
22 Cfr. T.V. SMITH - E.C. LINDEMAN, The Democratic Way of Life, p. 146. Definire la democrazia un’avventura, coraggiosa per di più, quando di mortale sembra oggi restare soltanto la noia,
può sembrare strano. Cfr. P. BRUCKNER, La mélancolie démocratique. Comment vivre sans ennemis?,
Paris 1990.
23 Cfr. D. DISHON, La cultura del dibattito in Israele, Tel Aviv 1984 [ebr.].
154
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tradizione stessa si compone di voci in conflitto tra loro. La verità è una
in cielo e molteplice sulla terra.24 Questo carattere pluralista della verità
incoraggia uno scambio, masa u-matan, serio e responsabile di opinioni
e punti di vista. È tipico della scuola talmudica educare al confronto
reciproco, all’esercizio critico dell’intelligenza, alla verifica costante della
propria posizione. Dal dibattito la verità emerge più chiara:
«Dal dibattito si chiarirà la verità così come attraverso il dibattito tra Hillel e Shammai
si è chiarito che la halakhah segue la scuola di Hillel».25
Se si è deciso di seguire la scuola di Hillel non è stato certo a motivo
dell’intervento divino a suo favore.26 La ragione della scelta è piuttosto
nei tratti umili e modesti di una scuola che non pensa la verità come suo
esclusivo possesso.27 Parte di essa è perciò da cercare anche negli insegnamenti della scuola rivale, essi pure da studiare e citare. Secondo l’adagio
talmudico «sia queste che quelle sono parole del Dio vivente».28
L’adagio talmudico si applica alla controversia tra Hillel e Shammai
considerata come il paradigma di una controversia positiva. È positiva
una controversia condotta non per interessi privati, egoistici, ma le-shem
shamaim, per una buona causa.29
Non è sempre facile districare le reali intenzioni dei contendenti.
La Bibbia è la prima a non nascondere le spesse ambivalenze dei protagonisti:
«Basta! Tutta la comunità è santa, ciascuno di loro, e YHWH è in mezzo a loro;
perché dunque vi innalzate sopra l’assemblea di YHWH?» (Nm 16,3).
Un’accusa tremenda, tanto più che proviene da uomini stimati. La
loro violenta eliminazione dovuta a un drastico e brutale intervento divino
non serve per restituire ai capi, cioè a Mosè e Aronne, una perfetta trasparenza finale. È interessante che la protesta di Core e dei suoi uomini
abbia incontrato in tempi assai più recenti le simpatie di coloro che in
nome di una democratica leadership religiosa si sono opposti una volta di
più alle prerogative di una classe particolare. Nel caso specifico, la classe
particolare è quella degli ebrei ortodossi, i nuovi eredi degli antichi privilegi sacerdotali, contro cui a protestare vivacemente erano ora i moderni
ebrei liberali. Nella rivolta di Core contro le rivendicazioni gerarchiche
avanzate dai preti si è visto così all’opera il genio essenziale del popolo
ebraico, il suo «impulso democratico».30
24
Cfr. Sal 62,12.
Rabbi Ovadia di Bertinoro su m.Avot 5,17.
26 Cfr. b.Eruvin 13b.
27 Cfr. D. DISHON, La cultura del dibattito in Israele, pp. 48-51.
28 Per uno studio tipologico delle varie interpretazioni post-talmudiche di questo celebre adagio
rabbinico, si segnala A. SAGI, ‘Elu va-Elu’. A Study on the Meaning of Halakhic Discourse, Tel Aviv
1996 [ebr.].
29 Cfr. m.Avot 5,17.
30 Cfr. A.H. SILVER, The Democratic Impulse in Jewish History, New York 1928, in particolare
pp. 11-12.
25
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155
La mancanza di discernimento sui motivi della controversia offusca la
trasparenza necessaria alla bontà della causa. Senza mai dimenticare però
come proprio quest’ultima, dal biblico Pinhas31 al contemporaneo Barukh
Goldstein,32 sia stata all’origine di una violenza esercitata le-shem shamaim.
Non vi è niente di meglio per scatenare la violenza che la certezza di essere
nel giusto. A volte la differenza tra la santificazione di Dio e l’idolatria
stessa è a dir poco sottile. E forse è proprio questo l’avvertimento più
importante che ci viene dall’episodio del vitello d’oro.33
Un invito insomma alla prudenza democratica. Meglio discutere di
cose sulle quali ci si può faticosamente accordare e mettere invece da
parte quelle per le quali ci si può facilmente scannare.
4.
Democrazia e idolatria
Se la guerra è dai rabbini confinata al bet midrash, alla casa di studio,
non per questo risulta meno reale.34 Intorno alla Torah si combatte, con
tanto di vinti e vincitori, come in tutte le guerre.35 A battersi tra loro per
la Torah sono dunque i maestri e i discepoli. E per quanto contestare un
maestro sia contestare la Shekhinah,36 che è la presenza immanente di Dio,
è normale che pure questo succeda:
«Anche se Rabbi Shimon ben Eleazar era il discepolo di Rabbi Aqiba, non fa problema il fatto che disputi con lui, poiché è quanto accade anche più avanti, quando
Rabbi disputa con Rabban Shimon ben Gamaliel, suo padre».37
È dunque la Torah che circoscrive e definisce lo spazio di un confronto legittimo tra maestri e discepoli, tra padri e figli. Legittimo lo è,
poiché produce l’effetto di umanizzare i contendenti. È infatti una guerra
che non si vince con la demonizzazione dell’altro:
«I nostri maestri hanno insegnato: ‘Tu le ripeterai’ (Dt 6,7) – questo significa che le
parole della Torah devono venirti spontaneamente alla bocca, in modo che, se ti è
posta una domanda, tu risponderai senza esitare, poiché è detto … ‘Come le frecce
nella mano di un guerriero, così sono i figli della gioventù’ (Sal 127,4); e inoltre:
‘Le tue frecce sono appuntite’ (Sal 45,6); e inoltre: ‘Felice è l’uomo che ne ha piena
la faretra. Essi non saranno confusi, quando tratteranno alla porta coi propri nemici’
(Sal 127,5). Cosa significa ‘alla porta coi propri nemici’? Disse R.Hijja b.Abba:
Persino il padre e suo figlio, il maestro e il suo discepolo, che si occupano di Torah
alla stessa porta, sono resi nemici l’uno dell’altro».38
31
Cfr. Nm 25.
Colono israeliano autore di una strage di musulmani palestinesi in preghiera.
33 Cfr. Es 32. Cfr. D. DISHON, La cultura del dibattito in Israele, pp. 41-44.
34 Cfr. R. FONTANA, La ‘Guerra della Torah’. Considerazioni sul Bet ha-midrash, in «Studi
Fatti Ricerche», 68 (1994), pp. 12-14.
35 Cfr. m.Berakhot 1,5.
36 Cfr. b.Sanhedrin 110a.
37 B.Baba Metzia 4b (tosafot: en nishbaim al kefirat).
38 B.Qiddushin 30b.
32
156
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Le parole della Torah sono frecce appuntite nelle mani di un abile
guerriero. Parole divenute con lo studio tanto familiari da non dover essere
prima cercate e raccolte per essere infine scagliate. La rapidità della reazione, la precisione della risposta, assicurano la vittoria sul nemico.39 Ma
è solo dalla fine che si potrà sapere se la guerra che si è combattuto sia
stata veramente per la Torah e non per qualcos’altro. Il passaggio talmudico
perciò aggiunge: «Essi [i nemici] non si muovono di là [dalla porta] fino
a quando non si sono amati gli uni gli altri».
L’ultima parola di una controversia condotta per la Torah spetta
sempre all’amore. L’odio sarebbe il segno sicuro di una guerra condotta
per egoismo o volontà di potere. È la Torah a dare il tono di una guerra
che si vuole insomma diversa da tutte le altre. Non che si riapra con
questo uno spazio per il compromesso. Si chiede di amare l’altro, il che
non è poco, ma non di negoziare le proprie convinzioni né tantomeno di
essere d’accordo. Si chiede quel che basta per creare comunque uno spazio
importante di coabitazione comune.40 Per garantire la coesione sociale e
civile di una comunità d’alleanza.41 Per partecipare a una ongoing conversation che non prevede figure nuove rispetto a quelle paradigmatiche della
tradizione: padri e figli, maestri e discepoli.42 Tratti che non si addicono
a una conversazione democratica che è rivolta all’esterno e che non è
circoscrivibile a tali figure tradizionali.
Dal punto di vista dell’ethos democratico, sorprende che il dinamismo
che attraversa il mondo della Torah venga descritto in termini militari.
«Guerra e democrazia sono incompatibili».43 Nella cultura democratica
la discussione è finalizzata al compromesso. È solo quando quest’ultimo
è considerato impossibile che al dialogo subentra allora la guerra. L’utilizzo creativo del compromesso è qualcosa di fondamentale per la vita
democratica:
39 Volersi mettere in difficoltà l’un l’altro, non accogliere quanto l’altro dice, commentano,
secondo Rashi (ad loc.) il termine nemico.
40 L’interesse per la pace, shalom, che è un valore inclusivo, controbilancia l’interesse per la
verità, emet, che è invece un valore esclusivo. Cfr. Zc 8,19. Lo stesso Talmud racconta di come uomini
e donne delle due celebri scuole concorrenti di Hillel e Shammai si sposassero tra loro nonostante le
gravi divergenze in materia di halakhah. Cfr. j.Yebamot 1,6.
41 Si veda l’invito del rabbino conservativo Rivon Krygier rivolto alle varie componenti dell’ebraismo contemporaneo a dar prova non solo di tolleranza ma di pluralismo. Egli evoca a questo
scopo la cultura del dibattito e il clima di fraternità che essa è in grado di generare in seno alla
comunità religiosa. Cfr. R. KRYGIER, Entre concorde et discorde. De la fécondité de la controverse
d’après les sources rabbiniques, in R. KRYGIER (ed), La loi juive à l’aube du XXI siècle, Paris 1999,
pp. 85-113. La controversia le-shem shamaim è in questo senso il paradigma fondamentale di un
dialogo essenzialmente interno, «giudeo-ebraico» (p. 112). La «guerra della Torah» non è insomma
rivolta all’esterno. Una sorta di grande jihad, di combattimento interno – non tanto a se stessi quanto
alla comunità di riferimento - distinto dal piccolo jihad, rivolto invece all’esterno.
42 La stessa relazione maestro-discepolo, che costituisce la struttura portante della tradizione
orale, è una estensione spirituale della relazione padre-figlio. «Colui che insegna al suo compagno è
considerato come se lo avesse concepito, formato e messo al mondo» (t.Horayot 2,7). Il discepolo
trova nel maestro un nuovo padre e il maestro trova nel discepolo un nuovo figlio. Cfr. G. BLIDSTEIN,
Honor Thy Father and Mother. Filial Responsability in Jewish Law and Ethics, New York 1975, in
particolare pp. 137-157.
43 T.V. SMITH - E.C. LINDEMAN, The Democratic Way of Life, p. 129.
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157
«Il significato della democrazia è di essere una conversazione comune, una possibilità di arrivare a una comprensione reciproca e a un compromesso tra due posizioni
differenti … Tutto questo a partire dal mantenimento di una fiducia reciproca, che è
uno degli elementi centrali di un regime democratico, senza il quale è molto difficile
sostenere il gioco democratico».44
Dal punto di vista della democrazia, la cultura della discussione, una
volta descritta come guerra della Torah, milhamtah shel Torah, secondo
il modo rabbinico,45 rischia di perdere parte del suo appeal democratico.
D’altra parte, dal punto di vista della Torah, questa fondamentale disposizione al compromesso della democrazia, per il suo aspetto di rinuncia,
può rappresentare un problema. Il compromesso non è infatti una sintesi
superiore alle posizioni di partenza. La rinuncia è supposta essere una
componente necessaria. Senza di quella, il compromesso è irraggiungibile.
Su questo rapporto tra compromesso e rinuncia, così essenziale al modo
di vita democratico, invita a riflettere il passaggio talmudico seguente:
«‘Offrivano il mattino i vostri sacrifici e ogni tre giorni le vostre decime’ (Am
4,4) … Il versetto si riferisce al regno di Geroboamo: da che Geroboamo regnò su
Israele cominciò a sedurre Israele dicendo loro: Venite, rendiamo un culto straniero.
L’idolatria è watranit».46
Geroboamo è uno dei tre re di Israele a non avere parte al mondo
che viene.47 La Bibbia racconta dei templi che eresse sulle alture, dei
sacerdoti che scelse e del culto che istituì: «Questa cosa costituì per la
casa di Geroboamo il peccato che ne causò la distruzione e lo sterminio
dalla terra» (1Re 13,14).48 Egli seduceva Israele dicendo loro: «Vedete,
l’idolatria è watranit, poiché essa vi permette quanto la Torah proibisce».49
L’idolatria è per natura sua rinunciataria, permissiva, compiacente;50 watranit, appunto.
Nella misura in cui la democrazia è espressione di una modernità
che si vuole aperta e pluralista, permissiva e tollerante, parte della critica
rabbinica nei confronti dell’idolatria potrebbe interessarla. Sul mondo
moderno, sui suoi valori e costumi, democratici e liberali, scende in questo
modo l’ombra lunga del sospetto religioso:
«E su questa strada si avviarono i discepoli di Geroboamo, i primi fautori della
Riforma, avversari della nazione, della sua Torah e della sua Terra, al punto da negare
l’intera Torah; essi peccarono e causarono a molti di peccare, come Geroboamo figlio
di Nebat e i suoi amici».51
44
S.N. EISENSTADT, Paradoxes of Modern Democracy, Tel Aviv 2002, p. 55 [ebr.].
Cfr. b.Sanhedrin 93b. Il tema della guerra viene così riletto alla luce del valore più caratteristico dell’ebraismo rabbinico, il talmud Torah, lo studio della Torah.
46 J.Avodah Zarah 1,1.
47 Cfr. m.Sanhedrin 10,2.
48 Cfr. b.Sanhedrin 102b.
49 Cfr. Pené Moshe, ad loc.
50 Dio non è watran. Cfr. b.Baba Qamma 50a.
51 Cfr. Sefer ‘alé tamar su j.Avodah Zarah 1,1 (1983) [ebr.]. I fautori della Riforma presi qui
di mira sono gli ebrei riformati di oggi. A loro è rivolto l’attacco.
45
158
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Tutto ciò che non è ortodosso, per il tradizionalismo ebraico, è sospetto
di modernità. Essere insomma seguaci della modernità prima ancora che
della tradizione, sarebbe proprio questo l’imperdonabile peccato dei moderni
successori di Geroboamo, re di Israele.