Quaderni di Engramma • 03 • novembre 2012
Pensiero in azione
Bertolt Brecht, Robert Wilson, Peter Sellars:
tre protagonisti del teatro contemporaneo
Daniela Sacco
Edizioni Associazione Culturale Engramma
Quaderni di Engramma
Collana diretta da Monica Centanni
ISBN 978-88-98260-02-7
www.engramma.org
Sommario • 03
5 Presentazione
7 Pensare per immagini. Il principio drammaturgico del montaggio.
A partire dal Kriegsfibel di Bertolt Brecht
25 Una partitura (post)drammatica.
Per una lettura di Einstein on the Beach di Robert Wilson
40 “C’è una nuvola in un pezzo di carta”.
Attualità del mito nel teatro di Peter Sellars
53 La creazione del frammento. Kafka Fragments di Peter Sellars
61 Appendice
“There is a cloud in a piece of paper”.
The actuality of the myth in the theater of Peter Sellars
Presentazione
Questo volume raccoglie alcuni contributi dedicati al teatro contemporaneo e
in particolare a tre maestri della scena internazionale, europea e statunitense:
Bertolt Brecht (1898-1956), Robert Wilson (1941), Peter Sellars (1957)*.
Pur nella distanza storica e culturale che separa le loro poetiche e le loro esperienze, i tre autori possono essere accomunati per un particolare modo e una
precisa intenzione nella costruzione della messa in scena: l’impronta della composizione per montaggio, e la restituzione tragica e mitica della materia della
rappresentazione teatrale. Nelle riflessioni sui tre casi presi in esame, il montaggio – termine preso a prestito, nella sua accezione tecnica, dall’arte cinematografica e traslato a definire un dispositivo più generale – si propone come
un metodo privilegiato della drammaturgia contemporanea, già a partire dalle
Avanguardie, di cui Brecht, Wilson, Sellars, ciascuno a suo modo, ereditano e
interpretano le premesse teoriche e gli stilemi compositivi. E proprio il montaggio, adottato come meccanismo mitopoietico nel teatro definito ‘postdrammatico’ nella fase della cosiddetta ‘postmodernità’, rappresenta bensì la struttura compositiva del ‘pensare per immagini’ propria della visione del mondo
del Novecento, ma appare sorprendentemente affine alle modalità compositive
delle prime forme teatrali, sorte in Grecia nel V secolo a.C, al teatro che è stato
definito ‘predrammatico’.
Seguendo il filo di questa riflessione si è cercato di indagare in che termini il
teatro contemporaneo, con l’intento dichiarato di trascendere il dramma moderno considerato come una forma decaduta e imborghesita di tragedia, riesca
ad esprimere al meglio la sua tensione teoretica e le proprie valenze originali
quando adotta la forma e il senso del tragico antico, e cosa della sensibilità e
della visione del mondo propria del Novecento lo rende possibile.
Brecht, Wilson, Sellars condividono la volontà di superare la rappresentazione
come mimesis: nella loro poetica non si tratta più di riprodurre l’imitazione di
una realtà pensata come separata dal soggetto, secondo la concezione propria
* Il saggio Pensare per immagini, sul Kriegsfibel di Bertolt Brecht, è stato già pubblicato in “La
Rivista di Engramma”, n. 100 (ottobre 2012); il saggio Una partitura (post)drammatica, su Einstein
on the Beach di Rober Wilson, è stato pubblicato in “La Rivista di Engramma”, n. 98 (maggiogiugno 2012); l’intervista a Peter Sellars, nella versione italiana e inglese, è stata pubblicata in “La
Rivista di Engramma”, n. 87 (gennaio-febbraio 2011) e n. 91 (luglio 2011); il saggio La creazione
del frammento, sui Kafka Fragments di Sellars, è pubblicato per la prima volta in questo volume.
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Presentazione
del dualismo moderno, ma di affermare il senso e la ragione propri della poiesis:
senso e ragione originali, e purtuttavia consonanti con la produzione drammaturgica tragica antica.
Bertolt Brecht, a cavallo tra la prima e la seconda riforma del teatro novecentesco, si fa promotore di un teatro epico che è tragico nella misura in cui è
dialettico, ed è mitico nella misura in cui interrompe attraverso il montaggio la
narrazione storica. Un teatro quindi tragico e mitico nella volontà di smarcarsi
dal teatro drammatico inteso come forma decaduta di tragedia. Una modalità
drammaturgica che risulta particolarmente evidente sia attraverso l’analisi di
un’opera non propriamente teatrale – il Kriegsfibel, messo in relazione all’evento
tragico della Seconda guerra mondiale – sia dalla scrittura dell’Antigone des
Sophokles.
Robert Wilson e Peter Sellars, entrambi esponenti di una cultura americana
esemplare per l’approccio visibile al sensibile, a una distanza epocale dal predecessore europeo costituiscono due casi indicativi di ri-creazione di mythos
in due versioni, complementari e apparentemente antitetiche, della creazione
di storie secondo il principio aristotelico della mimesis praxeos. Ma Wilson e
Sellars – per i quali si propongono qui le letture di Einstein on the Beach e
dell’eclettico Kafka Fragments – rilanciano anche il principio compositivo della
frammentazione e ‘polverizzazione’ in scena delle storie secondo il principio
della nuda visibilità scenica – quell’opsis, che ancora Aristotele nella Poetica
indicava come elemento essenziale caratterizzante del dramma rispetto a tutti
gli altri generi poetici.
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Pensare per immagini. Il principio drammaturgico del montaggio.
A partire dal Kriegsfibel di Bertolt Brecht
D’accordo con Arnold Hauser si può affermare che “il ‘Novecento’ comincia
dopo la Prima guerra mondiale, cioè fra il 1920 e il 1930, come l’ ‘Ottocento’ era
cominciato solo con il 1830”, ossia con quella che è stata nominata ‘la rivoluzione di luglio’, o seconda rivoluzione francese (Hauser [1953] 1967, 451). Le
guerre, in forma diversa rispetto al frangente storico in cui si collocano, registrando profonde crisi sociali, dischiudono quindi una cesura rispetto al passato
e corrispondono alla nascita di una nuova visione del mondo. Il ‘pensare per
immagini’ sembra essere il tratto saliente della visione del mondo che permea la
trasformazione della coscienza nel XX secolo a seguito della fine della modernità illuministicamente intesa. La prima e la Seconda guerra mondiale – le tragedie del Novecento – segnano infatti una frattura nel passaggio dalla visione del
mondo della modernità a quella che è stata definita ‘postmodernità’. Si è assistito
cioè alla crisi della forma metafisica di pensiero che improntata sulla supremazia
del logos sul mythos ha predominato come paradigma concettuale nella cultura europea dall’antichità fino al XIX, e, di seguito all’emersione di un pensiero diversamente improntato all’immagine: un ‘pensiero per immagini’ appunto,
che, in una terminologia ancora influenzata da un’ottica evoluzionistica, indica
l’ambito del ‘prelogico’ o del ‘prediscorsivo’, come ad esempio è stato definito da
Olaf Breidbach e Federico Vercellone (Breidbach, Vercellone 2010). La fine del
pensiero metafisico è accompagnata alla crisi del concetto di identità e unità
trascendentale che lo ha governato nelle sue declinazioni filosofiche e religiose
e nell’episteme della scienza moderna. Nel passaggio tragico dalla distruzione di
un ordine – il caos – alla creazione di un nuovo ordine – il cosmos – attraverso un
inedito o rinnovato paradigma gnoseologico dell’immagine, ad essere stravolto
è anche il modo di intendere il rapporto tra le parti e l’intero, a sua volta riflesso
in un diverso modo di percepire lo spazio e il tempo. Il rapporto tra particolare
e universale, unità e molteplicità si ridefinisce rispetto all’approccio consolidato
dal pensiero logico filosofico tendente a ridurre il molteplice nell’unità e nell’identità. Nel pensiero improntato all’immagine, il rapporto tra l’uno e i molti è
rovesciato: non è l’unità che contiene il molteplice ma il molteplice che contiene
al suo interno l’unità e l’identità. E questo avviene di riflesso a una ricollocazione
dell’uomo nel mondo che si smarca dall’impostazione dualista moderna secondo
cui il rapporto uomo-mondo è basato fondamentalmente sulla frattura cartesiana tra io e non io, res cogitans e res extensa.
La forma del pensare eminentemente visiva, attraverso cui si articola questo
mutato rapporto tra uomo e mondo e tra particolare e universale risulta essere
leggibile strutturalmente attraverso il meccanismo compositivo del montaggio.
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Termine novecentesco preso a prestito dal cinema – nuova arte che significativamente inaugura il XX secolo – e traslato a significare un dispositivo più generale,
il montaggio appare allora come il principio costruttivo e il dispositivo compositivo del pensare per immagini. Nella misura in cui il Novecento risolve il dualismo moderno è affine a quel pensiero che viene prima del dualismo: il pensiero
antico, per cui la conoscenza è profondamente veicolata dal paradigma visivo ed
è nella sua natura tragica e mitica, come tragica è la cifra del secolo scorso.
Si potrebbe tracciare una costellazione molto ampia di intellettuali e artisti che
nel secolo scorso, in ambiti disciplinari diversi, hanno denunciato la crisi della
modernità introducendo una visione del mondo alternativa a quella che la modernità stessa sottende, permeata da un rinnovato valore gnoseologico attribuito
all’immagine. È però nel contesto teatrale che è possibile riconoscere il pensare
per immagini – e il meccanismo che lo informa, il montaggio – nella sua peculiarità profondamente drammatica, e quindi tragica. Questa riflessione parte nello
specifico da un’opera che ha preso forma nella temperie tragica della Seconda
guerra mondiale: il Kriegsfibel di Bertolt Brecht, ossia il ‘sillabario’, l’Abicí della
guerra, come è stato tradotto nella prima edizione italiana pubblicata da Einaudi
nel 1972. Si tratta di un’opera significativa per molteplici aspetti: oltre che per il
frangente storico in cui viene creata, anche per la forma che la contraddistingue e
per il fatto che, pur non essendo un lavoro teatrale, è rivelativa del metodo teatrale
del suo autore. È inoltre un’opera interessante da considerare alla luce delle riflessioni teoriche e al mutato atteggiamento di Brecht nei confronti dei classici e del
mito dopo l’esperienza dell’esilio avvenuto durante la Seconda guerra mondiale.
Come ha argomentato Georges Didi-Huberman, il Kriegsfibel può essere considerato a tutti gli effetti un caso di ‘forma Atlante’ se posto a confronto con
l’esemplare supremo del Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg (Didi-Huberman 2009). Il sillabario composto da Brecht è di fatto un atlante fotografico sul
tema della guerra che nella struttura tematica sembra seguire cronologicamente
lo svolgimento del conflitto mondiale: dalla guerra di Spagna alla controffensiva
degli Alleati al ritorno dei prigionieri. Pubblicato per la prima volta nel 1955 nella Berlino Est, dopo una serie di rimaneggiamenti e non poche battaglie contro
tentativi di censura, il Kriegsfibel viene invero composto molto prima, nel contesto
tragico dell’esilio che tiene Brecht lontano dall’impegno attivo ed esclusivo in
teatro per ben quindici anni, dal 1933 al 1947. L’esilio, cominciato il 28 febbraio
del 1933, il giorno dopo l’incendio del Reichstag, a seguito dell’avvento al potere
di Hitler e del partito nazionalsocialista in Germania, durerà fino al 1947 e lo
porterà a vivere per periodi di tempo diversi a Praga, Parigi, Londra, Mosca, in
Danimarca, a Stoccolma, in Finlandia, a Leningrado, di nuovo a Mosca e infine
negli Stati Uniti, passando da Los Angeles a New York, per poi tornare a Zurigo
e infine a Berlino. Rientrato in Germania, nel 1948 Brecht si stabilisce definitivamente nella Berlino Est dove riprende a lavorare e fonda il Berliner Ensemble.
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La struttura compositiva di questo particolare atlante segue il meccanismo
dell’assemblaggio associativo di immagini e testi e risulta fatto secondo lo stesso metodo dell’Arbeitsjournal, a cui si dedica Brecht durante tutto il periodo
dell’esilio (Brecht [1938-42; 1942-55] 1976). Il Diario di lavoro, a cui Brecht
ricorrerà in modo più programmatico anche per studiare e costruire alcune
messe in scena, è un montaggio di testi di varia natura e di immagini altrettanto varie che ritaglia e incolla seguendo il flusso associativo del suo pensiero.
Nel considerare il Kriegsfibel un’opera significante nell’orizzonte del ‘pensare per
immagini’ tre sono gli aspetti su cui posare l’attenzione: l’appartenenza al contesto della guerra; la sua peculiarità formale; il legame metodologico e insieme
poetico e compositivo con il lavoro drammaturgico dell’autore.
Il lavoro sul singolare abbecedario è quindi il frutto della condizione di esiliato
in cui è costretto Brecht, per lo più senza la possibilità di lavorare in teatro, senza denaro e in contesti culturali e linguistici estranei, ovvero in una condizione
assolutamente precaria in cui “non era in grado di fare altro che ritagliare immagini della stampa e comporre qualche ‘piccolo epigramma’ di quattro versi”
(Brecht 1940, cit. in Didi-Huberman 2009, 31). Brecht è ‘esposto alla guerra’,
con tutta la fragilità e i limiti che questa esposizione comporta, ma anche, per
converso, con il guadagno dell’accentuazione di facoltà di pensiero diverse da
quelle utilizzate in condizioni di normalità; questa ‘esposizione alla guerra’ ha
infatti rappresentato per Brecht “un sapere, una presa di posizione e un insieme di scelte estetiche assolutamente determinanti” (Didi-Huberman 2009, 13).
Assieme alla riduzione del testo in frammenti in cui si riflette anche una certa
fragilità del logos, della capacità razionale di fare ordine sugli eventi tragici che
lo investono, si accompagna dall’altra un ‘acutizzarsi della vista’ che, nel pathos
del momento, si esprime nella necessità di parlare per immagini. L’epigramma
è la forma poetica che Brecht desume dall’antichità classica per commentare
la selezione di immagini apposte nel Kriegsfibel, e che nell’insieme andranno a
formare quello che ha definito un “Fotoepigramm”. Il fatto che storicamente in
origine l’epigramma sia un’iscrizione legata per lo più a contesti funebri rende
la scelta obbligata ancora più pertinente rispetto alla tragicità degli eventi su
cui riflette. Il montaggio è il meccanismo compositivo con cui Brecht tesse le
relazioni tra gli elementi, testi e immagini, e si rivela “un metodo di conoscenza
e una procedura formale nata dalla guerra, che prende atto del ‘disordine del
mondo’” (Didi-Huberman 2009, 86).
Brecht è ‘esposto’ alla guerra così come lo era stato, e con modalità forse ancora
più destabilizzanti, Aby Warburg. Sono numerosi i “sismografi sensibilissimi”,
per riprendere un’espressione di Warburg (cfr. A. Warburg, Burckhardt e Nietzsche
[1927], tradotto in italiano a cura di M. Ghelardi in Jacob Burckhardt, Friedrich W.
Nietzsche, Carteggio, 2002), che direttamente o indirettamente hanno sofferto sulla loro pelle la tragedia dei due conflitti mondiali e hanno restituito tale sofferenza
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al mondo in forma di creazioni artistiche o intellettuali in cui l’immagine ha un
valore gnoseologico profondo. Volendo rimanere nella metafora del ‘sismografo sensibilissimo’ che accomuna per affinità elettive Warburg, Jacob Burckhardt
e Friedrich Nietzsche si potrebbe aggiungere ai tre anche Carl Gustav Jung –
virtuosamente legato sia al pensiero dello storico dell’arte che del filosofo – per
cui la composizione di Das rote Buch, Il libro rosso, un libro in forma di scrittura
drammatizzata e immagini di creazione dello stesso autore, è profondamente segnata dallo scoppio della Prima guerra mondiale (Sacco 2011). Ma si potrebbe
aggiungere anche Ernst Jünger, autore di un ‘sillabario per immagini’, composto
da foto relative alla Prima guerra mondiale, che significativamente titola Il mondo
mutato. Sillabario per immagini del nostro tempo: Die Veränderte Welt: eine Bilderfibel
Unserer Zeit (Schultz, Jünger 1933). Anche in questo caso la scelta della parola
sillabario o abbecedario, associata all’evento della guerra, risulta essere rivelatrice
di un azzeramento della sintassi, quindi del raggiungimento di un punto zero
della significazione del mondo a cui segue una rinominazione elementare.
Il disordine del mondo come effetto della conflagrazione della guerra è colto
nel segno dall’immagine della ‘guerra cubista’ tratteggiata da Gertrude Stein
in Picasso. La riflessione sul cubismo condotta dalla scrittrice è l’occasione per
distinguere la cultura ottocentesca da quella novecentesca: la differenza essenziale tra i due mondi è compresa nel fatto che se i pittori dell’Ottocento avevano bisogno di un modello da guardare, quelli del Novecento si sbarazzano del
modello, perché “l’assioma secondo cui le cose vedute con gli occhi sono le sole
cose reali aveva perso ogni significato” (Stein [1938] 1959, 19). Ciò che cambia
nelle generazioni, osserva Stein, è “il modo di vedere ed essere veduti”, la gente
rimane la stessa ma a cambiare è la “composizione della generazione”; ossia il
cambiamento, leggibile nel mondo, ad esempio delle strade, del modo di essere
trasportati nelle strade, del modo in cui le strade sono frequentate, è questo che
determina la ‘composizione’. Allora, riflettendo sulla Prima guerra mondiale,
Stein osserva come:
La composizione della guerra 1914-1918 non era la composizione delle guerre precedenti. Questa composizione non era una composizione in cui c’era un
uomo al centro, circondato da una massa di altri uomini; era una composizione
senza né capo né coda, una composizione in cui un angolo contava quanto un
altro angolo: la composizione del cubismo, insomma. (Stein [1938] 1959, 21)
Il cubismo è la forma artistica capace di riflettere il fenomeno di distruzione
proprio dell’evento guerra, così come alla fine degli anni ‘10 il dadaismo berlinese usava i fotomontaggi per mettere in scena “il disordine di una cultura ridotta in frantumi dalla catastrofe della Prima guerra mondiale” (Somaini
2011, XIII). La frantumazione corrisponde al decoupage che è sempre sotteso al
montage: il meccanismo del montaggio utilizzato nella creazione pittorica dei
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cubisti come in quella fotografica dei dadaisti implica intrinsecamente la sua
operazione inversa, ossia lo smontaggio, la scomposizione in parti, in frammenti che vengono successivamente ricomposti, montati appunto.
L’immagine della “guerra cubista” di Stein è raccolta da Stephen Kern per leggere nella Prima guerra mondiale un sintomo dei radicali cambiamenti che,
complici le nuove tecnologie, hanno investito i modi di pensare e di esperire lo
spazio e il tempo tra Ottocento e Novecento (Kern [1983] 1988). Nell’impossibilità di individuare una tesi unica che racchiuda tutti questi cambiamenti,
Kern riconosce tra le nuove idee emergenti: “l’idea della simultaneità”, “l’affermazione di una pluralità di tempi e spazi”, e in particolare “l’affermazione della
realtà del tempo privato” e “il livellamento di gerarchie spaziali tradizionali”,
a cui segue una rivalutazione fondamentale dello spazio non più inteso come
semplice contenitore ma significante in ogni sua parte. La filosofia di Bergson
(la durata – durée – che implica un rapporto continuo tra passato e presente e
dischiude al tempo personale) e il cubismo (la non gerarchia tra i piani rappresentati) sono soltanto due tra i molti esempi che esprimono queste novità.
Kern pone questo livellamento delle gerarchie tradizionali in parallelo con il
progressivo sgretolamento della società aristocratica, l’ascesa della democrazia
e la dissoluzione della distinzione tra lo spazio sacro e lo spazio profano della
religione. Con il livellamento delle gerarchie tradizionali è messo in discussione il fondamento metafisico implicito che le sosteneva, e le istituzioni sociali,
politiche e religiose fondate su di esso. Di riflesso, le immagini della frontiera,
della trincea e della ‘terra di nessuno’, proprie del vissuto della guerra mondiale,
restituiscono la frammentazione e la distruzione dell’idea di unità e identità che
l’evento tragico rende tangibile: “La frammentazione psicologica sperimentata
nella terra di nessuno durante la guerra non era altro che una serie di forme
ridotte a pezzi – confini nazionali, sistemi politici, classi sociali, vita familiare,
relazioni sessuali, sensibilità umane” (Kern [1983] 1988, 383). Sono immagini
della frammentazione del vecchio mondo, immagini che registrano la frantumazione della sintassi tradizionale e aprono alla nuova sintassi che trova il suo
meccanismo compositivo nel montaggio, nella costruzione a partire da frammenti. Kern osserva ad esempio l’impressionante analogia tra un cambiamento
strutturale della strategia delle battaglie, ossia ‘la difesa in profondità’ anziché il
mantenimento della ‘linea del fronte’ (dove “l’intero esercito incalzava in unità
ammassate sotto un unico comando”) e lo spostamento in pittura dal singolo
punto di fuga prospettica alle prospettive molteplici del cubismo: “In guerra
e in pittura l’idea della linea perse la sua inviolabilità come una frontiera che
separa due regni distinti. Le due arti assunsero una composizione nuova che incorporava le ambiguità e i contorni irregolari della realtà. I cubisti avevano cercato una nuova unificazione del valore estetico dell’intera superficie pittorica; la
guerra riunì elementi disparati di classe, rango, professione e nazione livellando
le distinzioni gerarchiche tradizionali” (Kern [1983] 1988, 388). Osservazione
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che potrebbe stimolare una riflessione sul montaggio come ‘forma simbolica’
del pensiero della ‘postmodernità’, così come lo è stata, nella definizione che ne
ha dato Panofsky (Panofsky [1924/1932] 1999), la prospettiva nel Rinascimento per la modernità.
Ma sono molti gli autori che, alla pari di Kern, hanno prediletto una lettura
della guerra come fenomeno da osservare dal punto di vista degli effetti mentali: assieme a Hereward Carrington (1918), Charles Carrington (1929), Eric J.
Leed (1979), per fare qualche esempio, più di recente Antonio Gibelli (Gibelli
[1991] 1998) che, in un contesto storicistico, a partire dalle testimonianze di
medici, psichiatri e psicologi, ha studiato la trasformazione delle strutture mentali come conseguenze degli effetti traumatici provocati dalla guerra. Il vissuto
della guerra suscita, attraverso l’esperienza percettiva disgregata e scomposta, la
moltiplicazione e la frammentazione delle immagini visive e sonore del mondo.
E ciò avviene con il concorso delle tecnologie e di nuove forme di comunicazione, di rappresentazione, nuove forme di riproduzione e manipolazione delle
immagini, assunte anche dalle correnti artistiche dell’avanguardia, dalla pubblicità e in generale nella comunicazione sociale. In quest’ottica discontinuità
e dissociazione sono associate all’esperienza della guerra sia come effetto che
come sintomo di un diverso rapportarsi dell’uomo alla realtà.
Quindi, come anche il Kriegsfibel di Brecht mostra, la risposta formale al conflitto della guerra è il montaggio, ossia un dispositivo creativo che implica in sé il
principio del conflitto, della discordia, della disgregazione e della composizione
per frammenti. Dal punto di vista formale a strutturale le pagine del Kriegsfibel
sono nel complesso un montaggio di frammenti poetici, immagini tratte dalla
stampa e didascalie, di modo che ciascun ‘quadro’ è composto da una foto che
può avere o meno la relativa didascalia, e da un epigramma posto a commento.
Come ha osservato Didi-Huberman, il meccanismo compositivo è regolato
da rapporti dialettici tra le componenti in gioco, così come, pur nella diversa
articolazione compositiva, accade nelle tavole warburghiane. Perciò nel testo
si condensano e interagiscono dialetticamente piani differenti: l’evento storico
che il drammaturgo intende riportare, l’immagine fotografica del giornale che
lo immortala, assieme alla didascalia esplicativa, che di per sé rappresenta già
un’interpretazione, e il suo commento poetico. L’effetto che ne consegue è una
visione assolutamente inedita degli accadimenti in corso durante la guerra.
Accade quindi che il montaggio, strumentale alla composizione di tutti questi
elementi, disarticola la percezione abituale dell’evento, o la percezione che passa
la cronaca o il dettato storico e costruisce un nuovo ordine di senso. Interviene
cioè una comprensione nuova che attraverso il montaggio smonta l’ordine spaziale e temporale delle cose che vengono così sottratte alla loro ‘origine’, al loro
primo contesto di appartenenza, poste in una nuova collocazione, rispetto a un
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nuovo contesto e così inserite in un “reticolo di relazioni”, come lo ha definito
Didi-Huberman, con gli altri elementi in cui si intrecciano dialetticamente.
Brecht legge la polarità spesso già espressa intrinsecamente nell’immagine e la
rende esplicita o amplifica nel testo di commento giustapposto alla didascalia. Si
potrebbero fare molti esempi: tra le immagini più cariche di ambiguità tra quelle
scelte da Brecht certamente è da considerare quella che compare nel quadro n. 52.
Si tratta di una foto
apparsa su “Life” che
ritrae soldati dormienti all’interno di buche
scavate nella terra. La
didascalia del giornale
descrive “soldati esausti” (“Erschöpfte Soldaten”) che “colgono
l’occasione di farsi un
sonnellino al sole” (“ein
kurzes Schläfchen in
der Sonne zu machen”)
Quadro n. 52.
all’interno di tane scavate con le loro stesse mani e, noncuranti del fuoco tedesco, dormono a terra “senza nessun riparo”
(“schlafen ungeschützt auf dem Erdboden”). Brecht coglie l’evidente risvolto macabro dell’immagine, un aspetto che appare totalmente ignorato dalla didascalia:
le pose più o meno naturali dei soldati, infatti, pur appartenendo a delle persone
dormienti, stimolano immediatamente l’idea della morte. Le tane scavate somigliano piuttosto a delle fosse e i corpi stesi a terra sembrano dormire un sonno
di morte. L’epigramma infatti parla di tombe, e
l’ultimo verso condensa in una frase il destino di
morte dei soldati in guerra: “Ma se non dormissero, non sarebbero svegli lo stesso” (“Doch wären
sie, nicht schlafend, auch nicht wach”).
Quadro n. 9.
Il quadro n. 9 è composto con un’immagine senza
didascalia e come si legge dall’epigramma si tratta di una foto della città di Roubaix scattata dopo
un bombardamento. La ragione della scelta appare
evidente nel profondo contrasto che trasmette l’immagine e nel commento che lo esplicita: si tratta di
una città devastata dal bombardamento ma le rovine, i frammenti sono composti nel massimo ordine;
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l’immagine della deflagrazione e della ricomposizione sono sovrapposte polarmente. Per questo l’epigramma recita: “Non ci fu mai tanto ordine a Roubaix. Ha
trionfato, assoluto è il suo potere” (“Nie herrschte solche Ordnung in Roubaix.
Sie hat gesiegt, sie herrscht jetzt absolut”).
Il quadro n. 23 si compone di una foto che
ritrae Hitler durante un
discorso tenuto “in una
fabbrica di armi vicino
a Berlino”, così infatti
è indicato il luogo nella didascalia in cui sono
citati anche i personaggi che compaiono al suo
fianco. Il riferimento
alla fabbrica di armi è
Quadro n. 23.
giustificato dalla presenza di enormi cannoni alle spalle del dittatore ed è da questo dettaglio – innocuo nella didascalia – che
scaturisce l’epigramma di commento. Qui rispetto al parlare del Führer, “uno dei
suoi grandi discorsi” (“eine seiner großen Reden”) – come è scritto nella didascalia
della foto – e al “parlare di tempi nuovi” (“reden von der Zeitenwende”), come
scrive Brecht nel primo verso, fa da contrappunto la minaccia muta dei cannoni
dietro di lui; i cannoni muti, come si legge nella composizione, sono idealmente
puntati su chi guarda: “puntati su di voi: sono le opere delle vostre mani che vedete”
(“Doch hinter ihm, seht, Werke eurer Hände: Große Kanonen, stumm auf euch
gericht”). Assieme alla minaccia per quello che verrà è comunicato anche il senso
di responsabilità per chi condivide il destino di guerra: le armi sono il frutto del
lavoro del popolo.
La composizione del Kriegsfibel rivela come per Brecht la Polarität è un elemento fondamentale (Didi-Huberman 2009, 51-59) così come per Warburg la
polarità e la polarizzazione sono il fulcro del suo approccio morfologico all’immagine (Pinotti 2001, 177). Nella dialettica tra testo e immagine è quest’ultima
a catturare per prima lo sguardo e a direzionare la vista stimolando l’attenzione
tanto per il dettaglio quanto per la visione d’insieme. È proprio la peculiarità
del darsi visivo dell’immagine a imporre la necessità di considerarla mai irrelata
ma continuamente connessa al contesto: l’immagine apre alla relazione, e alla
multidirezionalità della prospettiva. A direzionare il movimento di lettura del
quadro è la polarità semantica provocata dalla giustapposizione degli elementi
in gioco, riconoscibile proprio dallo sguardo d’insieme capace di cogliere visivamente immagine e testo in modo sinottico.
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Didi-Huberman, in riferimento al Bilderatlas Mnemosyne, riprendendo una affermazione di Saxl secondo cui nell’Atlante si avrebbe una “dimostrazione ad
oculos”, osserva come questa dimostrazione non ha “la forma di un sillogismo
classico: non riduce il diverso all’unità di una funzione logica” (Didi-Huberman
[2002] 2006, 424). Quindi è il primato della vista, non dell’argomentazione logico discorsiva, che guida il senso e il significato della disposizione e della lettura
di tale disposizione. E attraverso la vista si configura propriamente la forma di
conoscenza mediata dal montaggio: in esso si dispiega la complessità, la molteplicità non riconducibile a univocità che la tensione polare continuamente rifrange.
Ponendo una proporzione esplicativa si potrebbe affermare che il montaggio sta
al pensiero fantastico/immaginale come la logica sta al pensiero razionale. Nel
primo caso le particelle elementari che vengono composte dal montaggio sono
immagini che, intese come frammenti, rinviano sempre ad altro, accostate tra di
loro per giustapposizione, secondo legami associativi guidati da un principio di
polarità semantica di modo da creare una rete di rapporti non univoci. Nel secondo caso le particelle elementari sono concetti, quindi astrazioni che sussumono
una molteplicità sensibile in una unità di segno, legati tra loro secondo rapporti
univoci di consequenzialità logica, tali da garantire la non equivocità del senso.
L’associazione tra immagini e testi avviene quindi in virtù di un rapporto di
giustapposizione permesso da una dimensione e collocazione spaziale. Significativamente Jean-Luc Nancy, introducendo il concetto di ‘spaziatura’ (Nancy
[1996] 2001), usa la giustapposizione di parole per indicare il rapporto tra “essere singolare e plurale” che si può pensare solo dopo la fine di ogni ontologia
metafisica, svelando però in questo modo quale sia il limite della significazione
discorsiva rispetto alla potenza della collocazione spaziale, visiva. La giustapposizione di parole riproduce il meccanismo di segmentazione dell’immagine
in inquadrature semplicemente poste l’una accanto all’altra – senza che vi siano
quindi segni interpuntivi o congiunzioni – come è proprio del linguaggio cinematografico. “Essere singolare plurale” è a tutti gli effetti un montaggio di parole accostate, dove l’intervallo, lo spazio tra le parole è fondante, perché l’assenza
di determinazione sintattica garantisce il significato che il filosofo francese intende comunicare: “ ‘essere’ può essere verbo e sostantivo, ‘singolare’ e ‘plurale’
possono essere aggettivi o sostantivi, si può scegliere la combinazione che si
vuole – marcano al tempo stesso un’equivalenza assoluta e la sua articolazione
aperta, impossibile da racchiudere in un’identità”. Qui in discussione è l’essere
che agli albori della filosofia ha fondato il principio di identità e non contraddizione, e che è stato posto come sostanza preesistente all’esistenza; l’essere che
intende svelare Nancy è “singolarmente plurale e pluralmente singolare” e “non
preesiste al suo singolare plurale”. Nella spaziatura c’è allora la co-essenzialità
dell’essere, quella “spartizione in guisa di assemblaggio”, dove la relazione è
fondante, il ‘con’ fa essere, non è semplicemente aggiunto all’essere.
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Significativamente è in riferimento a Brecht che è stato introdotto per la prima
volta da Roger Planchon nel contesto teatrale il concetto di ‘scrittura scenica’,
indice del mutato rapporto con lo spazio proprio del teatro novecentesco. Ossia
lo spazio inteso non come semplice contenitore ma come campo di segni; secondo Planchon per Brecht “la rappresentazione forma al contempo una scrittura
drammatica e una scrittura scenica; ma questa scrittura scenica – ed è stato il
primo a dirlo […] – ha una responsabilità uguale alla scrittura drammatica e, in
definitiva, un movimento sulla scena, la scelta di un colore, di una decorazione,
d’un costume, etc., impegna una responsabilità totale” (Planchon [1961] 2003).
E la nuova spazialità auspicata in realtà già dalle Avanguardie Storiche – per non
parlare di Artaud – è riflesso di una trasformazione della visione del mondo che
coinvolge tutti gli ambiti disciplinari. Come ha osservato Michel Foucault – tra i
primi a mettere l’accento sulla questione negli anni ‘60 – se “la grande ossessione
che ha assillato il XIX secolo è stata la storia […] forse quella attuale potrebbe
essere considerata l’epoca dello spazio” (Foucault [1967/1984] 2001, 19).
Nel metodo di composizione per montaggio che dà forma al Kriegsfibel si può
leggere il portato sovversivo del teatro che Brecht, fondando, ha definito ‘epico’. Collocandosi a metà strada tra la prima e la seconda riforma del teatro
novecentesco, il regista e drammaturgo riforma il teatro a partire dalle stesse
premesse poste dall’Avanguardia Storica. A essere messo in discussione è, come
per Artaud, la distanza accumulata dal teatro rispetto alla vita, l’incapacità di
parlare del e al tempo presente, e quindi l’attaccamento a stilemi obsoleti per
quanto alla moda. Sotto accusa è l’estetizzazione del teatro, il suo vuoto formalismo, e l’obiettivo è resuscitarne la forza politica, la capacità di impatto
sulla società appiattita a una fruizione neutralmente disinteressata e finalizzata
semplicemente allo svago e al divertimento. Di qui, in nome di un realismo
socialista, le accuse di Brecht al teatro decaduto – di cui fanno parte anche le
messe in scena dei classici – che nella bellezza formale della facciata nasconde
un contenuto stantio e riflette delle immagini falsate della vera realtà. Il teatro
per il regista e drammaturgo tedesco ha il potere e il dovere di trasformare il
pubblico e con il pubblico il mondo. Brecht però, a differenza di Artaud che
parte dalle stesse premesse critiche per rovesciare il sistema che vuole combattere, fa i conti con il sistema che cerca di trasformare convivendoci, standoci
dentro e operando in esso. Quindi non intende negare la ‘rappresentazione’
– quella estrinsecazione della violenza del pensiero metafisico occidentale che
Derrida ha letto nel tentativo della sua destituzione fatto da Artaud (Derrida
[1966] 2002, 301) – ma la mette in scena e così la svela, la smaschera attraverso
il meccanismo di straniamento proprio del teatro epico.
Brecht, alla drammaturgia che provoca l’immedesimazione dello spettatore
nei personaggi imitati dagli attori, oppone una drammaturgia in cui il meccanismo dell’immedesimazione viene annullato nell’effetto di ‘straniamento’:
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il ‘Verfremdungseffekt’ teorizzato negli scritti sul teatro ed elemento fondante
del teatro epico. La finzione nel teatro secondo Brecht deve essere dichiarata
ed esplicitata per stimolare la distanza critica dello spettatore. Quindi, differentemente da Artaud la rappresentazione non è negata con l’intenzione di
recuperare uno stato che la precede – quella “Parola prima delle parole” che è
poi la voce del mito e della tragedia – ma è esibita, messa in scena, esplicitata,
dimostrata e messa in crisi attraverso l’effetto dello straniamento. Brecht attua proprio quello “spezzare il linguaggio” che si era proposto Artaud (Artaud
[1935] 1997, 132) per riformare la cultura occidentale attraverso il teatro e lo
fa scegliendo i drammi storici come trame privilegiate delle sue messe in scena.
Artaud e Brecht, come eredi delle Avanguardie Storiche, sembrano spartirsi i
domini rispettivamente del mito e della storia, come orizzonti di senso del teatro che intendono riformare, sostenendo il primo l’ipotesi tragica e il secondo
l’ipotesi epica (Longhi 1999, 2001).
Così facendo, Brecht, con la consapevolezza di non poter parlare alla sua epoca
prescindendo da essa, rivoluziona il teatro a partire dal sistema, lo mette in scena e lo spezza al suo interno. L’esito ultimo di questa operazione sarà scoprire
la natura eminentemente dialettica del teatro, e della vita che nel teatro trova
espressione. Allora la Storia, come una delle principali forme di rappresentazione,
come narrazione che nel sistema occidentale più di altre ha preso il posto della
narrazione del mito e che ha il suo momento culminante nello storicismo ottocentesco, è condotta da Brecht sulla scena nella forma epica, ed è spezzata per
essere ricondotta al presente del dramma. A permettere questo spezzettamento, la frantumazione della narrazione storica nella forma dello straniamento è il
meccanismo del montaggio.
L’operazione epica del teatro di Brecht consiste da un lato nello spezzare lo svolgimento cronologico dei fatti, quindi nel creare delle interruzioni nello svolgimento
storico, e dall’altro nel mettere in crisi l’effetto illusionistico della finzione rappresentativa. Rispetto a queste due operazioni, il montaggio ricolloca gli eventi tra
loro secondo un ‘reticolo di relazioni’ che ne stravolge totalmente la connotazione.
La trama portata sulla scena, come vede bene Benjamin nello scritto sul teatro
epico, è sottoposta all’atto dello “snodare le articolazioni fino al limite estremo”
(Benjamin [1939] 1966, 128). La sua interruzione crea discontinuità e anacronismi funzionali a una visione differente, nuova e inusuale, delle vicende che devono
provocare stupore, non immedesimazione. Attraverso questa percezione straniata
dell’evento si afferma il paradigma eminentemente politico del montaggio che
mette in crisi la visione abituale del dato di fatto per stimolare non tanto una identificazione dello spettatore ma una “presa di posizione” (Brecht [1931] 1975). Allo
stesso modo Benjamin intende “adottare nella storia” (Benjamin [1927-1940]
1986, 515) il montaggio per spezzarla, per interromperne la cronologia, per operare una rottura rispetto all’ordine temporale dello storicismo.
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Rispetto ai primi scritti sul teatro epico, permeati di pensiero storicistico, andrebbe in verità osservato il risvolto dialettico e tragico di cui si colora la teoria
di Brecht di ritorno dalla guerra, aprendosi a uno sfondo più tragico e mitico
che epico e storicistico. Il valore dialettico dell’operazione di straniamento è
infatti un’acquisizione più matura nella teoria di Brecht e risulta così fortemente improntata all’esperienza dell’esilio e della guerra. A seguito di questa
acquisizione il montaggio allora, anche rispetto all’uso che Brecht ne fa nel
Kriegsfibel così come nel Diario di lavoro, appare in tutto il suo portato di “gesto
drammaturgico fondamentale”, come lo ha definito Didi-Huberman (DidiHuberman 2009, 79). È il riconoscimento dell’elemento dialettico, che Brecht
matura significativamente solo dopo l’esperienza della guerra, a rendere pienamente il senso della drammaturgia brechtiana, e a caricare di un ulteriore senso
il teatro definito epico che è eminentemente dialettico nella misura in cui il suo
processo compositivo avviene attraverso il montaggio.
Il teatro dialettico intende mostrare quindi i conflitti e le contraddizioni, e la tecnica utilizzata per la scena sarà tutta finalizzata alla loro resa. Ad esempio Brecht
osserva come nel lavoro dell’attore devono comporsi procedimenti contrari: “L’attore ottiene i propri effetti ricavandoli dalla tensione, come pure dalla profondità,
dei due elementi in contrasto” (Brecht [1948] 1975a, 120), elementi che quindi
non devono sintetizzarsi o annullarsi tra di loro, ma mostrare il loro intersecarsi.
Secondo questo principio ad esempio un ruolo femminile sarà reso meglio da un
attore uomo, come il ruolo di un vecchio sarà reso meglio da un attore giovane o
il ruolo di un borghese da un attore abituato a recitare il ruolo del proletario. La
tensione polare tra gli elementi contrastanti che rende l’effetto dello straniamento
emerge dal conflitto degli stessi elementi che è mantenuto in scena. La contraddizione, l’ambiguità, la tensione polare, la complexio oppositorum definiscono la
dialettica del montaggio con cui vengono composti gli elementi in scena, e però
colorano di senso tragico e mitico il teatro epico che, rispetto a questi elementi,
può essere compreso pienamente nella sua accezione propriamente drammatica.
La definizione di montaggio che troviamo in uno scritto di Ejzenštejn del ‘29
(Ejzenštejn [1929] 1992), per prendere le distanze da quella dei suoi predecessori, rende il senso dello scarto tra epico e drammatico e permette di riconsiderare il valore ‘epico’ del teatro che Brecht rivendica rispetto al teatro
drammatico. Secondo Ejzenštejn infatti il montaggio non implica “un pensiero
composto da pezzi che si succedono bensì un pensiero che trae origine dallo
scontro di due pezzi indipendenti l’uno dall’altro (principio drammatico)”. Il
principio epico implica quindi il rapporto di ‘successione’, e rende il montaggio
‘descrittivo’, il principio drammatico invece implica il rapporto conflittuale, lo
scontro tra le parti e la loro ‘sovrapposizione’ che genera lo scontro.
Nello scarto tra successione e giustapposizione si condensa quindi lo scarto tra
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epico e drammatico e, si può evincere, di riflesso tra storico e mitico; e quindi
tra un tempo lineare che implica la successione cronologica di un prima rispetto a un poi e un tempo in cui si ha la giustapposizione di due tempi diversi:
in cui presente e passato sono considerati contemporaneamente. Nello stesso
scritto inoltre l’arte intesa nel complesso, coerentemente a una visione filosofica dialettica che si riconduce esplicitamente al pensiero di Marx ed Engels, è
intesa da Ejzenštejn come frutto di un conflitto: “l’arte è sempre conflitto, per
la sua missione sociale, per la sua natura essenziale, per la sua metodologia”.
E, qualche pagina dopo, il montaggio è considerato proprio come il meccanismo che quella metodologia è chiamato a regolare.
Se accettando la definizione di Ejzenštejn si considera la dialettica, il conflitto,
come la cifra del drammatico e non dell’epico, allora, nella misura in cui la dialettica è strumento del teatro epico, questo teatro è nel fondo drammatico. Di
fatto “la forma drammatica del teatro” rispetto alla quale Brecht, in uno schema
stilato in un saggio del 1930 (Brecht [1930-38] 1975), contrappone “la forma
epica del teatro”, è da riferirsi al dramma che ha dominato fino alla modernità
come forma decaduta di tragedia e contro cui si impone la rivoluzione del teatro novecentesco dalle Avanguardie Storiche in poi. In altre parole si comprende come il teatro epico di Brecht sia profondamente drammatico nella misura
in cui è tragico e dialettico. Se di ritorno dall’esilio Brecht utilizza l’accezione di
dialettico per qualificare ulteriormente il teatro epico, allo stesso tempo cambia
anche l’atteggiamento nei confronti dei classici e, rispetto all’adesione al realismo socialista, muta in favore di un recupero della funzione artistica del godimento estetico, che non è più vista in contrasto con la funzione eminentemente
politica del teatro, ma si presenta come un suo importante complemento.
In uno scritto del 1928 in cui, in forma dialogata riporta una discussione radiofonica con il critico e amico Herbert Jhering a proposito del contributo di
quest’ultimo sui classici, Brecht si domanda: “Se sono [i classici] morti, quando
sono morti? La verità è questa: sono morti in guerra – sono anch’essi vittime
della guerra” (Brecht [1929] 1975, 85). I classici sono tacciati di essere inattuali,
e, evidentemente, nella sua prospettiva, la guerra ha cambiato il mondo, e il
teatro che ripropone i classici alla maniera classica, secondo i dettami e l’ideale
che ha predominato fino all’Ottocento con la ragione illuminata, sembra essere ignaro di questo cambiamento. I classici non sono più efficaci e la critica a
essi è perfettamente in linea con la critica al naturalismo, al finto illusionismo,
all’estetismo, al teatro di cui si può fare solo un “uso culinario”. Il mutato atteggiamento nei confronti dei classici e delle loro messe in scena è leggibile
nella scelta artistica fatta da Brecht nel 1948, di ritorno dall’esilio americano, di
cimentarsi subito con un classico, e in particolare una tragedia greca: l’Antigone
di Sofocle con traduzione di Hölderlin, andata in scena il 15 febbraio del 1948
in Svizzera presso lo Staddtheater di Coira con il titolo Antigone des Sophokles.
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Senza entrare nello specifico dell’opera, interessa qui parlarne come segno del
mutato approccio di Brecht dipendente dal vissuto di guerra, e come esperienza
fondante anche per la più matura teorizzazione del teatro epico come teatro dialettico. Come ha osservato Olga Taxidou, è il concetto di frammento, di rovina
che connota la nuova attitudine di Brecht nei confronti dei classici (Taxidou
2007, 171). Nella Prefazione all’Antigone-Modell-Buch (Brecht [1949] 1975), il
‘libro-modello’ relativo alla messa in scena di Antigone, costruito con bozzetti e
foto delle prove secondo la modalità di montaggio di testi e immagini propria sia
del Kriegsfibel che del Arbeitsjournal, la rovina è pensata come quel che rimane
del vecchio con il pericolo sempre in agguato della sua restaurazione, ma è anche
il principio della possibilità della ricostruzione, ne catalizza la sfida, oltre che
rappresentarne la memoria storica. E significativamente, a simbolizzare questo
valore della rovina come frammento, sullo sfondo della scena dello spettacolo,
Brecht fa apporre “una grande fotografia di città ridotta in macerie”.
L’idea del frammento è intrinsecamente legata a quella di montaggio. Ne è parte
costitutiva, la particella elementare, e però allo stesso tempo rimanda alla composizione. La frantumazione è tutto quello che rimane del mondo precedente
distrutto, e i frammenti tratti dalle macerie possono trovare nella ricomposizione
una nuova combinazione, la promessa della possibile ricostruzione di un nuovo
mondo. Il teatro che è sopravvissuto alla guerra deve secondo Brecht rispondere
a quella ‘sete di novità’ che “il completo sfacelo materiale e spirituale ha indubbiamente prodotto nel nostro paese sventurato e provocatore di sventura” (Brecht
[1949] 1975, 237). Ed è, però, una sete di novità che deve fare i conti con il passato:
Il guaio delle rovine non è solo che va distrutta la casa, ma anche che il posto non
c’è più; e i progetti degli architetti, a quanto sembra, non si cancellano mai del
tutto; sicché con la ricostruzione riappaiono le vecchie infiltrazioni e i focolai di
malattia. Quella che è vita febbricitante afferma di essere vita sprizzante di energia: nessuno muove passi più decisi del tisico che ha perso ogni sensazione dalla
pianta dei piedi. […]. Può darsi perciò che, proprio in tempo di ricostruzione, fare
dell’arte progressiva sia tutt’altro che facile. Ma questa dovrebbe essere la sfida.
(Brecht [1949] 1975, 238 ‒ traduzione modificata).
Quindi l’Antigone che Brecht mette in scena di ritorno dall’esilio, a guerra conclusa, sembra avere la funzione e il valore di un phármakon come ha osservato Taxidou leggendo un’affinità con l’idea di teatro veleno/rimedio di Artaud.
La scelta di questa tragedia greca in particolare è dettata dalla convinzione che
Antigone incarni “la funzione della violenza al momento del crollo dell’autorità
statale” (Brecht [1949] 1975, 238), quindi l’argomento che solleva è percepito
come attuale. E però non c’è alcun intento filologico e alcuna intenzione di “evocare lo spirito degli antichi” ma lo scopo è “di far fare ad essa [l’opera] qualcosa
per noi” (Brecht [1949] 1975, 238). Lo studio e la preparazione dell’Antigone è
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significativamente contemporaneo alla scrittura del Breviario di estetica teatrale
(Brecht [1955] 1975), il primo testo teorico in cui sia espressa in modo maturo
un’accezione dialettica di teatro, e dove si coglie la peculiarità del metodo capace
di rendere la contraddittorietà dei processi sociali e umani in continua trasformazione. Le idee di contraddizione, polarità, di dialettica tra passato e presente sono
ricorrenti in tutto lo scritto. Allo stesso modo, nell’Antigone Brecht non intende
mettere in scena l’affermarsi di un potere su di un altro, o di una violenza su di
un’altra, ma la compresenza dialettica, irrisolta di due sistemi differenti che sussistono contemporaneamente in uno stato di guerra (Taxidou 2007, 174).
Anche rispetto alla contraddizione tra imparare, quindi mantenere la distanza dallo
spettacolo, e divertirsi, ossia lasciarsi immedesimare nella scena, Brecht ha in questi
anni mutato atteggiamento, la definisce infatti una contraddizione “da conservare
come un elemento importante” (Brecht [1955] 1975, 186). Quindi, anche questa
mutata posizione è indice di una ricollocazione del significato epico del teatro in
un’accezione propriamente drammatica, perché ciò che fa dramma nel teatro epico
di Brecht è il meccanismo dialettico reso possibile con il metodo del montaggio.
Assieme alla comprensione della natura intimamente dialettica del teatro, nell’Antigone-Modell-Buch, Brecht chiarifica anche il senso di intendere il rapporto con il
modello, e quindi di conseguenza anche il rapporto da intrattenere con i classici,
intesi nella nuova accezione. Modello è quanto c’è di “imitabile e inimitabile” al
tempo stesso, quindi quanto viene proposto per essere violato; il suo tradimento
instaura il rapporto dialettico con esso che è auspicabile di contro a un’epoca “che
sa applaudire solo l’‘originale’, l’‘incomparabile’ il ‘mai visto’: che non ammette altro
che l’ ‘unico’ ”. E aggiunge inoltre che “perché qualcosa possa essere utilmente imitato, bisogna che si faccia vedere ‘come si fa’ ”: quindi è il meccanismo creativo, il
metodo, a dover essere imitato, non la creazione, il prodotto. I classici, rispetto alla
precedente presa di posizione, non sono negati ma accolti diversamente.
Rispetto alle riflessioni sulla natura dialettica del teatro e alla scelta di mettere
in scena l’Antigone – una tragedia greca, un mito – il teatro epico di Brecht
non risulta quindi riconducibile tout court all’orizzonte della narrazione storica,
come la denominazione epica intende significare. Il teatro epico del regista e
drammaturgo tedesco è quindi tragico nella misura in cui è dialettico e interrompe attraverso il montaggio la narrazione storica. Ed è tragico e quindi mitico, nella misura in cui si smarca dal teatro drammatico inteso come forma decaduta di tragedia. Significativamente, la consapevolezza della natura dialettica, e
quindi tragica, del teatro epico avviene come conseguenza della messa in scena
di una tragedia greca. La scelta è dettata dall’esperienza della guerra che, come
ha riconosciuto James Hillman, è un fatto intellegibile solo con categorie mitiche, con categorie i cui strumenti interpretativi si compongono in immagini e
trascendono l’ordine esclusivamente razionale del discorso. La terribilità della
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sua natura richiede un salto di prospettiva, le categorie della storia non sono
sufficienti a renderne conto: allora “l’immaginazione diventa il metodo di elezione” (Hillman [2004] 2005, 19). Anche per questo si spiega il fatto che molti
artisti e intellettuali ne abbiano cercato la comprensione o il contenimento con
dispositivi composti in immagini. Il montaggio – meccanismo che plasma il
metodo artistico di Brecht – può essere riletto quindi alla luce di un pensare per
immagini. E si rivela così un meccanismo mitopoietico per eccellenza.
English abstract
The Kriegsfibel (War primer) is Bertolt Brecht’s reference work to recognize the montage as a device for composition that structurally mirrors the transformation of the world view of the twentieth
century, characterized by a way of thinking that can be defined ‘in images’, which is regulated by a
dramaturgic principle; a way of thinking, distinct from the modern rationalist way, which recovers
the gnoseological value of images and a new evaluation of space, as a consequence of the crisis of
metaphysical thinking. It is a significant work for several reasons. First, the historical moment in
which it is realized: the experience of the exile during the Second World War; second, because of its
characteristic form: a montage of texts and images; third, for the reason that, though not a theatrical work, it is however revealing of the theatrical method of its author. This work is also interesting
in relation to the change of Brecht’s consideration of classics and myth after the experience of war.
The decision to stage a Greek tragedy – the Antigone des Sophokles – on his return from the exile,
and the reflections about the dialectic nature of theater, are revealing of this shift and allow to think
back on the meaning of ‘epic’, term used by Brecht to define his theater. The epic theater can be
brought back to an horizon of mythical and tragic – rather than historical – thought, made of a dialectic and dramaturgic mechanism that, as Ejzenštejn noticed in his reflections about montage, implies not the succession but the conflict and the juxtapositions of parts (texts, images as fragments).
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E. Schultz, E. Jünger, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, a cura di M. Guerri,
Milano 2007.
Somaini 2011
A. Somaini, Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Milano 2011.
Stein [1938] 1959
G. Stein, Picasso, Milano 1959.
Taxidou 2007
O. Taxidou, Modernism and performance. Jarry to Brecht, New York 2007.
Warburg [1927] 1984
A. Warburg, Burckhardt e Nietzsche (1927), “Aut Aut”, 199/200 (gennaio-aprile 1984).
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Una partitura (post)drammatica.
Per una lettura di Einstein on the Beach di Robert Wilson
1976-2012: le due date scandiscono la distanza temporale che intercorre dalla
prima dello spettacolo Einstein on the Beach, andato in scena il 25 luglio del
‘76 al Festival d’Avignone, e la più recente ripresa che quest’anno porta l’opera
in tournée nelle principali scene internazionali, tra cui lo scorso marzo le due
repliche italiane al Teatro Valli di Reggio Emilia. Alla notizia della riedizione dello spettacolo, che ha segnato in modo indelebile la storia del teatro
musicale e non, la prima domanda è se per quest’opera il tempo è passato, se lo
spettacolo a 35 anni di distanza risulta vecchio, superato o nella migliore delle
ipotesi provoca una sensazione vintage. E la risposta corale – a giudicare dalle
innumerevoli recensioni che hanno registrato il suo passaggio – è no: Einstein
on the Beach è vivo, come lo era all’atto della sua creazione, e lo è senza essere
stato modificato, almeno nella struttura compositiva, di una virgola. Evidentemente, viene da pensare, quanto si ha modo di vedere in giro per il mondo
dell’universo teatrale contemporaneo non mostra qualcosa di più rispetto a
quello che a suo tempo ha significato quest’opera. Il codice di scrittura scenica
introdotto da Wilson rompendo con la tradizione è lo stesso codice che, assunto nel corso degli anni, riconosciamo variamente applicato nelle tante forme di teatro contemporaneo, spesso
definito d’avanguardia. Gli attori in
scena sono ovviamente diversi, gli
orchestrali anche, le coreografie, un
tempo firmate da Andy de Groat,
sono oggi affidate a Lucinda Childs
che nel ‘76 le eseguiva in scena, le
tecnologie utilizzate sono potenziate, ma la struttura e composizione
dell’opera rimangono invariate così
come la musica di Philip Glass. Ed è
proprio sulla struttura, su cui la musica viene a sua volta costruita in un
processo di riproduzione e amplificazione, che si concentra la peculiarità
ed eccezionalità dell’opera e l’indagine proposta qui di seguito, che non
intende essere una recensione allo
spettacolo ma proporre una riflessione di filosofia del teatro sullo spettacolo di Wilson.
Einstein on the Beach: bozzetto di struttura dell’opera.
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Daniela Sacco
Una partitura (post)drammatica
Le creazioni di Robert Wilson, e in particolare Einstein on the Beach, sono considerate tra i principali e primi esempi di teatro ‘postdrammatico’, la cui definizione è da attribuirsi anzitutto a Hans-Thies Lehmann. Quello che distingue
il teatro postdrammatico, collocato a partire dagli anni ‘70 del Novecento, da
quello drammatico, che indicativamente lo precede, è secondo Lehmann la non
dominanza del testo ridimensionato a elemento tra gli altri che concorrono alla
creazione dello spettacolo nel suo insieme. E per testo Lehmann intende in
primis la ‘favola’, la narrazione, che è considerata il cuore del teatro drammatico
ed è ricondotta alla mimesis praxeos secondo un’interpretazione della Poetica
di Aristotele consolidata dall’età moderna. Mimesis praxeos, ossia imitazione
dell’azione, che avviene secondo verisimiglianza e regole drammaturgiche
precise, rispettose dell’unità di tempo e di spazio e aderenti a una tracciato
logico. Il teatro postdrammatico, di fondo antiaristotelico, allora negherebbe
queste unità e sarebbe eminentemente caratterizzato dalla frammentazione,
dalla frattura logica e dall’inconsistenza delle trame che vengono totalmente
assorbite nella scrittura scenica, nella composizione globale dell’evento teatrale. Quindi nel passaggio dalle avanguardie storiche alle neoavanguardie degli
anni ‘50 e ‘60 fino alle esperienze postdrammatiche proprie della fine del XX
secolo, si assiste alla destrutturazione della tensione all’unità e alla totalità
unificata che il dramma – secondo una lettura modernista e logocentrica –
ottemperava nel rispetto delle regole logiche di composizione delle vicende
trasposte sulla scena. Nel teatro postdrammatico non si cerca più di realizzare
sulla scena la totalità coerente di una composizione costituita da parole, suoni,
gesti, azioni perché questi elementi vengono riorganizzati secondo un montaggio che tende alla frammentazione e si smarca dal criterio di unità e sintesi
propria del dramma moderno. Viene meno quindi la volontà di sviluppare una
vicenda oppure questa viene relegata in secondo piano di modo che la categoria
del nuovo teatro è ‘la situazione’, ‘l’insieme dinamico’ piuttosto che la vicenda.
Lehmann denuncia la totale equivalenza che la modernità ha posto tra teatro e
dramma e l’esclusione di altre realtà determinate di teatro oltre che, di conseguenza, l’occultamento della comprensione del fenomeno teatro in tutta la sua
complessità. Equivalenza che non solo ha portato l’esclusione del teatro contemporaneo postdrammatico, ma anche quello che definisce il teatro ‘predrammatico’, ossia la tragedia greca; per cui: “La tragedia antica, i drammi di Racine e la drammaturgia visiva di Wilson sono, certamente, delle forme di teatro.
Ma si può dire – se ci si basa sull’accezione moderna del dramma – che la prima
è di natura ‘predrammatica’, che i drammi di Racine sono indubitabilmente del
teatro drammatico, e che le ‘opere’ di Robert Wilson devono essere qualificate
come postdrammatiche”. Lehmann non entra nel merito della peculiarità del
teatro predrammatico, semplicemente lo qualifica come altro e storicamente
precedente rispetto al teatro drammatico, individuando un confine rispetto a
cui si collocano sia il teatro drammatico che il teatro postdrammatico. È però a
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Daniela Sacco
Una partitura (post)drammatica
partire dalla dichiarazione di questi confini che si pone un’interrogazione su ciò
che possono avere in comune le due forme di teatro, quella precedente e quella
successiva, nello smarcarsi entrambe dal teatro definito drammatico.
Quello che si vuole sostenere qui, a partire dalla considerazione dell’opera di
Wilson e oltre le speculazioni di Lehmann, è che non è tanto la presenza della narrazione o della favola a fare la drammaticità di un’opera teatrale, ma la
composizione della sua struttura, che di fatto può trascendere le epoche. Teatro
predrammatico, teatro drammatico e teatro postdammatico, nell’accezione di
Lehmann, se da un lato si distinguono per il ruolo attribuito al testo, dall’altra
sono ‘teatro’ nella misura in cui si compongono ugualmente secondo una struttura che ne garantisce il drama, l’azione, lo svolgimento, l’efficacia e questo oltre
la priorità attribuita al testo o alla narrazione di una storia, o di un filo narrativo
con un inizio e una fine. Questa struttura che orchestra la frammentazione è
il meccanismo del montaggio, ossia il minimo comune denominatore all’opera
sia nel teatro ‘predrammatico’ che in quello ‘postdrammatico’, la stessa struttura
elementare di base. Il montaggio per dare vita alla tensione drammatica non
è un caotico assemblaggio di frammenti, ma una giustapposizione di elementi
eterogenei che si struttura per contrappunto, per polarità semantica, dove le parti
sono accostate principalmente secondo un rapporto di conflittualità, secondo il
principio del contrasto, della contrapposizione.
E questo si può affermare per la tragedia greca come per l’opera di Robert Wilson. Un’indagine sulla tragedia greca, tenendo come riferimento teorico la riflessione di Aristotele sulla poetica, permette di cogliere il carattere compositivo
e frammentario della drammaturgia antica, che risulta costituirsi secondo una
combinazione di parti giustapposte attraverso polarità semantiche, attraverso un
intreccio di eterogenei e antitetici. Nel caso di Eschilo ad esempio, il contrasto, l’attrito, il contrappunto, che sono l’effetto della giustapposizione semantica,
fungono da indicatori di senso che creano e dirigono il movimento del dramma:
sono il motore che dà energia all’azione, gli snodi, i nessi lungo i quali si conduce e si alimenta l’azione dipanandosi via via nello svolgimento della tramatura.
E la struttura del dramma, nella disposizione alternata di scene in sequenza e
interventi dei personaggi – nella scansione e alternanza concatenata di prologo,
parodo, episodi, stasimi, esodo – è l’elemento fondamentale che concorre a dare
forma allo stile, a contenere, articolandola a livello micro e macroscopico, la
peculiarità semantica polare della scrittura eschilea. Anche la scansione della
forma lessicale che caratterizza di volta in volta gli interventi lirici o recitativi dei diversi personaggi, rispetta la regola del contrappunto, nell’alternarsi ad
incastro del parlato rispetto al canto e al recitativo: le rhesis, i brani, i dialoghi
sticomitici, e di canti e corali con diversificata composizione strofica e relativa
variazione ritmica del metro che ne caratterizza i versi. L’alternarsi e l’incastrarsi
di tutte queste parti, all’interno delle quali la polarità semantica si riverbera in
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Una partitura (post)drammatica
un continuo gioco di rimandi, danno il ritmo del tempo e la collocazione nello
spazio, ossia strutturano il movimento della composizione tragica nella sua dimensione temporale e spaziale, per dare forma all’accadimento, allo svolgimento
dell’azione. Nella scansione e distribuzione degli elementi che vengono composti dialetticamente nel dramma ed entrano così in relazione, la staticità propria
dell’unità viene vanificata; la dynamis che tale composizione provoca innesca il
movimento, lo sviluppo dell’azione. In questo senso è da leggere l’affermazione
di Aristotele secondo cui il mythos è ‘imitazione dell’azione’, ossia riproduce nella
composizione drammaturgica dei fatti in scena l’accadere degli eventi. E l’altro
elemento essenziale costitutivo della tragedia, e del teatro più in generale, tendenzialmente trascurato nella molto riduttiva lettura moderna della Poetica di
Aristotele, è la vista. Tra i cinque elementi costitutivi dell’arte tragica, accanto
al più importante, il μῦθος, il filosofo riconosce la vista, l’ὄψις che, rispetto ai
caratteri, al linguaggio, al pensiero e alla musica ha una prevalenza su tutti gli
altri (ὄψις ἔχει πᾶν). Il mythos inoltre è indicato anzitutto come “composizione di
fatti” (λέγω γὰρ μῦθον τοῦτον τὴν σύvθεσιν τῶν πραγμάτων), oltre che ‘μίμησις
πράξεως’ su cui la lettura modernista sembra essersi concentrata esclusivamente.
Una peculiarità del teatro postdrammatico, come di tutto il teatro novecentesco improntato a una forma mentis che possiamo definire propria di un ‘pensare
per immagini’, è sicuramente la prevalenza del fattore visivo. È opportuno
quindi ridare a questo elemento il valore riconosciuto già da Aristotele (che
completa quello della mimesis praxeos), e leggere nel teatro di Wilson il suo
dispiegamento, ossia il dispiegamento della visione, dell’ὄψις.
Ciò di cui Einstein on the Beach sembra proprio sbarazzarsi è la narrazione. La
non narratività di quello che viene portato in scena è quanto viene da subito
dichiarato dai suoi autori, per cui lo spettacolo non intende raccontare la storia
del famoso scienziato. Pur utilizzando indizi che rimandano alla sua biografia (il
titolo nasce dalla suggestione di una fotografia in cui Einstein appare su di una
spiaggia, i costumi usati in scena riprendono dettagli del suo modo di vestire, la
sua figura impersonata da un violinista), l’intenzione è di mettere in scena “un’opera ritratto”, come l’ha definita Philip Glass, senza raccontarne trama e vicende. Accade allora che molti elementi utilizzati rimandino ad Einstein, ma siano
usati con libertà e aperti a un’ulteriorità di senso che la narrazione di una vicenda avrebbe potuto imbrigliare. Lo stesso approccio è stato utilizzato da Wilson
per altre figure storiche a cui ha dedicato alcune sue opere, ad esempio The Life
and Times of Sigmund Freud o The Life and Times of Joseph Stalin e, di fatto, la
creazione di tutti i suoi spettacoli sin dall’inizio della carriera procede secondo
una dinamica modulare, ripetendo, riprendendo e ampliando in ciascun nuovo
spettacolo i motivi affrontati in quelli precedenti, e creando così una continuità.
È uno stesso pensiero che si rivela di volta in volta nella poetica specifica di
ciascuna differente opera; e Wilson per rendere questo concetto usa la metafora
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Una partitura (post)drammatica
eraclitea del fiume, diverso in ogni suo punto ma sempre uguale a se stesso, svelando in questo modo l’assunto del suo creare pensato ad immagine del divenire,
dove l’immagine è il fondamento del divenire.
a. Albert Einstein su una spiaggia.
Per quanto la continuità modulare tra le opere fa sì che molte osservazioni che
si possono fare per uno spettacolo valgano in generale per tutta la sua poetica,
ciò non toglie che Einstein on the Beach costituisca, in continuità con le prime
esperienze databili dal ‘65, un passaggio importante per la compiutezza della sua
poetica. E la presenza della partitura musicale realizzata da Glass, perfettamente
consonante alla struttura dell’opera, segna lo scarto rispetto alle opere precedenti
costruite anch’esse su personaggi le cui vicende storiche sono trasfigurate poeticamente in scena. In Einstein on the Beach la sperimentazione sullo spazio e il
suono va a completare quella sul tempo e la visione a cui era approdato con i lavori precedenti. Se la storia di Einstein non è quanto Wilson intende raccontare
nell’opera, la sua immagine è però evocativa della rivoluzione del modo di intendere lo spazio e il tempo di cui lo scienziato è stato portavoce, rivoluzione che,
di riflesso, vuole essere rappresentata in scena come trasformazione del modo di
intendere e vivere lo spazio e il tempo del teatro, distintiva della poetica del regista statunitense rispetto al teatro che lo ha preceduto. Come ha osservato Franco
Quadri, se nelle altre creazioni di Wilson l’intrusione di un personaggio storico
poteva risultare puramente pretestuosa, questo è “veramente uno spettacolo su
Einstein”, e Wilson per parlare dello scienziato è sceso sul proprio terreno, perché “oltre che col suono, ha a che fare ininterrottamente e esclusivamente col
problema dello spazio e col problema del tempo nel teatro” (Quadri, 17).
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Secondo Frédéric Maurin: “al tempo astratto, assoluto, omogeneo e meccanico
come lo concepiva Newton, segue in Wilson un tempo instabile, irregolare: lo
stesso che ha messo a nudo Einstein e che il regista può giocare a interrompere,
a lavorare a invertire o a far scomparire secondo i suoi bisogni” (Maurin, 49).
Il tempo si spazializza, si offre come uno spazio da costruire, viene pensato
esclusivamente rispetto a esso, e il ritmo che regola i movimenti degli attori,
così come la musica, è creato rispetto allo spazio. Questo aspetto è illustrato
metaforicamente anche attraverso dettagli che compaiono in scena: gli orologi
collocati in scena sono orologi senza lancette oppure con lancette che si muovono all’inverso, o orologi che impiegano venti minuti per segnare un’ora. Ma
è soprattutto agito nello spazio attraverso le coreografie dei movimenti che per
rendere il senso di questo tempo si alternano nella polarità tra lentezza e velocità. Quindi, ad esempio, alla lentezza della prima immagine che appare nella
prima scena del primo atto, ossia l’immagine di una locomotiva che avanza
impercettibilmente dal fondo della scena, si giustappone il movimento veloce
e carico di energia della danzatrice ‒ Lucinda Childs nel ‘76, Kate Moran
nel 2012 ‒ che dal proscenio disegna una diagonale composta da otto passi
in avanti e otto passi indietro: l’effetto è tale che “la diversità dei tempi si sovraimprime sulla scena, i tempi diversi si urtano nella percezione”.
Lo slow motion è un elemento essenziale nel teatro di Wilson perché la sua importanza è legata a una percezione dello spazio e del tempo diversa da quella
canonica. Infatti gli esperimenti sul ralenti nascono nei suoi primi lavori teatrali
dall’osservazione di persone portatrici di handicap, che gli permette di comprendere e riprodurre sulla scena i meccanismi di una percezione diversa. L’attenzione per una percezione altra sembra la costante nei primi lavori e conferma l’esigenza da parte di Wilson di appropriarsi di un codice diverso di percezione del
reale, come bagaglio fondamentale per la costruzione della sua poetica; si pensi
anzitutto al caso di Raymond, il ragazzo sordomuto che appare in The Deafman
Glance, ma anche al caso schizoide di Cindy in Ouverture, o a Francine in The
Life and Time of Joseph Stalin, o alla balbuzie di Christopher Knowles in A letter
for Queen Victoria. Sono tutti casi in cui Wilson scopre una percezione sensoriale
distinta dalla comprensione verbale che in casi di ‘normalità’ ha la preponderanza nel rapportarsi al reale. Ad esempio l’atrofia del tempo, che è resa dal ralenti
del movimento, ha l’effetto di provocare l’ipertrofia dello sguardo, per cui, come
afferma Wilson: “più gli attori si muovono lentamente, più si vedono cose”. È
evidentemente questa percezione, che ha un rapporto diverso con il tempo e lo
spazio, a interessarlo e che vuole portare sulla scena.
L’alternanza polare tra lentezza e velocità è totalmente finalizzata alla costruzione di una struttura drammatica generale regolata dal ritmo. Come ha dichiarato
Glass, ‘contrapporre scene contrastanti’ è un espediente drammaturgico, è funzionale all’efficacia dell’opera che deve poter essere recepita dallo spettatore. Così,
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secondo Glass, “l’assenza di un ‘significato’ connotativo diretto ha reso molto più
facile allo spettatore personalizzare questa esperienza attribuendole un “significato” particolare, emerso dal suo vissuto, mentre l’opera in sé rimaneva risolutamente
astratta”. La questione del significato viene fatta quindi rimbalzare dall’autore allo
spettatore, che costruisce a piacere la storia o il senso di ciò a cui assiste; lo spettatore è libero di interpretare come crede senza essere vincolato a precise direttive.
La contrapposizione, principio drammaturgico fondante, nell’opera di Wilson
trova espressione soprattutto attraverso la ripetizione e variazione. La struttura
dello spettacolo, che è la base su cui si costruisce il tutto ed è pensata e resa in
immagini, è costruita totalmente sulla ripetizione e variazione. “Io comincio da
una forma – afferma Wilson – anche prima di sapere l’argomento. Comincio da
una struttura visiva e all’interno di questa forma, conosco il contenuto” (Wilson
in Mourin, 87). La struttura elementare di base, concepita come un edificio –
Wilson ha abbandonato gli studi di architettura per dedicarsi al teatro – viene
riempita di contenuti scelti secondo dei meccanismi associativi, che si dispongono nella griglia di partenza. Così Einstein on the Beach si struttura in quattro
atti, della durata di un’ora circa ciascuno, inframmezzati da cinque Knee Plays, o
giunture (letteralmente: ‘scene ginocchio’) della durata di circa dieci minuti, che
inquadrano ogni atto dando così l’idea di un’opera pensata nella sua interezza
come corpo o organismo anatomico.
Ciascun atto si compone a sua volta di due scene eccetto il quarto e ultimo atto
che è composto da tre; nel corso dei diversi quadri che formano questa struttura,
b. Scena Ib del II Atto.
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tre elementi costituiti da immagini emblematiche o tipi di ambiente-immagine,
ossia un treno, un tribunale e un campo-macchina spaziale si alternano e ripetono
per tre volte trasformandosi via via. La struttura è modulare secondo il ripetersi,
l’accorparsi e l’alternarsi della scansione dei numeri 1-2-3. Di modo tale che nei
primi tre atti i tre elementi si ripetono due volte con alternanze e combinazioni di
ambienti interni ed esterni: così il treno (1), il processo (2) e il campo-macchina
spaziale (3) si dispongono nell’ordine 1-2 (nel primo atto), 3-1 (nel secondo atto),
2-3 (nel terzo atto), andando a formare in successione la serie 1-2-3/1-2-3. Infine,
nel quarto atto ricompaiono tutti e tre gli elementi però trasformati.
Gli elementi che compongono gli atti, nel ricomparire nelle varie scene, implicano ogni volta un mutamento del punto di visione e della prospettiva, per cui
nella prima scena il treno appare avanzare lentamente dal fondo della scena da
destra verso sinistra, nella seconda scena invece si intravvede la coda del treno;
il tribunale, che appare frontalmente nella prima scena con accanto un letto,
nella seconda è sezionato e appare per metà come prigione; il campo è percorso
da un’astronave/macchina del tempo che attraversa lo spazio e nella seconda
scena si avvicina in primo piano; nella terza scena gli elementi che tornano
sono trasfigurati: il treno è trasformato in edificio che ne mantiene i contorni,
il tribunale è sostituito interamente dal letto che prima gli stava accanto e
si trasfigura ulteriormente all’arrivo dell’astronave/macchina del tempo di cui
alla fine si intravvede l’interno. Nella metamorfosi delle scene si riconoscono
così gli elementi nel loro continuo differire. I Knee Plays agiscono sia da taglio che da sutura, quindi appartengono a pieno titolo alla struttura e però la
c. Scena da Knee Play.
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destabilizzano: rispetto all’opera totale possono introdurre un principio di discontinuità, d’alternanza e di specularità. La struttura dello spettacolo quindi
si definisce come ha osservato Maurin attraverso “una dialettica spazialista con
il divenire, attraverso un ritmo temporale che nasce, come una tavola visiva,
dai rapporti di equilibrio e di simmetria, di disequilibrio e di asimmetria, tra
differenti unità costitutive”. Infatti, oltre alla polarità lentezza/velocità anche
la polarità ripetizione/variazione ha l’effetto di rovesciare l’ordine strettamente
cronologico del tempo.
Ciò non toglie che le immagini utilizzate, quali il treno o l’astronave, avessero
nelle intenzioni di Wilson anche un valore storico rispetto alla vita di Einstein,
indicando “in qualche modo la misura della durata della sua vita”, ad esempio il
treno come mezzo di trasporto ai tempi dell’infanzia dello scienziato e l’astronave come emblema dello sviluppo della tecnologia al momento della morte.
Allo stesso modo un disco nero che ricopre un quadrante di un orologio con
due luci alle estremità del diametro intende ricondurre per analogia all’eclissi
di luna che nel 1919 ha confermato la teoria della curvatura dello spazio formulata dallo scienziato. Gli eventi storici, i dettagli accaduti realmente sono
così trasfigurati nel prodotto artistico in entità mitico-poetiche; per questa
ragione il teatro di Wilson è stato letto anche come una delle ‘mitologie artistiche dei nostri tempi’ o un teatro ‘neomitico’. Secondo Maurin, non si tratta
tanto di immagini della storia, ma “di immagini tagliate della storia”, per cui
nella creazione interviene il decoupage, il taglio, l’estrazione del dato, del fatto
storico che viene ricollocato in un nuovo contesto, e per questo trasfigurato
poeticamente. Sono immagini mitiche indifferentemente Medea o Prometeo,
Einstein o Freud, piuttosto che Stalin o Faust, tutte figure che compaiono in
forme diverse nei suoi spettacoli e tutte figure riassorbite nel contesto virtuale
di un catalogo d’immagini della storia dell’umanità, che sembra fungere, come
ha notato Marranca, da immenso archivio da cui attingere a piene mani.
Si comprende ulteriormente questa accezione di mitico se si intende il teatro
immagine di Wilson come indicativo del montaggio del visuale proprio dell’epoca contemporanea, perché di fatto il metodo dell’artista americano si realizza,
come ha scritto Maurin, attraverso un vero e proprio “pensare in immagini”. È
attraverso il montaggio di immagini che Wilson assembla elementi eterogenei
e compone le sue opere. Anche una sola immagine è considerata da Wilson un
elemento mitico e in quanto tale di per sé già una storia: in occasione di un’intervista l’artista americano dichiara che l’ideazione di un’opera comincia dalla
definizione dello spazio e della struttura con cui viene composta la scena: “la
prima cosa che faccio quando penso a una pièce sono i diagrammi della scena.
È quello il mio punto di partenza. Una volta stabilito il mio spazio la storia è
narrata. Per esempio basta mostrare una sala di una corte e la cosa essenziale è
detta, perché sei già di fronte a una situazione mitica” (Wilson in Adnan, 18).
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Sulla scena si assiste a un ripetersi e variare di motivi che, anche rispetto alla
resa scenica di azioni propria del teatro drammatico o alla narrazione di eventi
(la mimesis praxeos), può essere spiegato come un processo di ‘metamorfosi’
come lo ha definito Lehmann. Le ripetizioni e variazioni trasportano lo spettatore in un “universo immaginario fatto di trasformazioni, d’ambiguità e di
corrispondenze” in cui realtà uguali e eterogenee vengono collegate in una pluralità di piani. In un cosmo che può essere inteso come mitico, come il microcosmo degli spettacoli wilsoniani, non c’è termine migliore per rendere il senso
del movimento e della trasformazione della forma che quello di metamorfosi.
Come “il fenomeno precede la narrazione” allo stesso modo, si può affermare,
sempre con Lehmann, il carattere fenomenico delle opere di Wilson: l’aspetto
morfogenetico in cui cogliere e catturare il trasformarsi della forma.
Wilson compara esplicitamente il suo teatro ai processi naturali, la vita che intende portare in scena è parte della molteplicità cosmica, in un’idea di cosmo dove
non è affermata la divisione tra spazio e tempo, soggetto e oggetto, per cui lo
spazio non è concepito secondo un a priori kantiano, implicito nella visione newtoniana ed euclidea, ma è un pullulare di processi, è saturo di dispersioni, diffrazioni, variazioni. Anche le parti costitutive dell’opera sono chiamate da Wilson
con una terminologia pittorica e naturalistica: i Knee Plays, che utilizza in tutti i
suoi spettacoli, corrispondono a dei ‘ritratti’ perché si compongono di oggetti o
d. Scena da Knee Play.
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persone in primo piano; le scene in cui compare il treno o il processo sono intese
come ‘nature morte’ perché si collocano in una profondità di campo intermedia; e
le scene di danza e movimenti degli attori nello spazio sono ‘paesaggi’, perché utilizzano tutto lo spazio del palcoscenico e sfruttano tutta la profondità di campo.
A questi tre tipi di spazio corrispondo inoltre tre gradi di intensità espressiva del
gesto che va da un’intensità minima a una media a una massima.
Einstein on the Beach è tutto costruito sulla combinazione di strati vocali, musicali e verbali realizzati secondo le stesse modalità di ripetizione e variazione
progressiva, per cui accade che una stessa scena è ripetuta in momenti diversi
e atti diversi dello spettacolo con minime variazioni: quindi ad esempio il movimento dell’attrice lungo la diagonale si ripete, ma spostato rispetto al punto
spaziale in cui veniva fatto prima, o un’azione viene ripetuta quasi identica
salvo qualche variazione nei movimenti o un suono si ripete ma leggermente
modificato. Anche la drammaturgia – quella che Marranca ha definito “una
drammaturgia del testo disperso” poiché si tratta più che altro di testi, per la
precisione undici brani in tutto, che vengono cantati o parlati in ordine sparso da qualche personaggio – si struttura secondo la stessa modalità, ossia si
sviluppa nella ripetizione di una stessa frase che può progressivamente addizionarsi di parole; si tratta di parole che fungono da unità sonore, che valgono
come atomi di materialità fonica che si amalgamano al suono e al movimento.
Il senso della ripetizione in Wilson sta tutto, come ha colto Maurin, nella funzione “di dire o mostrare lo stesso diversamente, di dire o mostrare l’altro dello
stesso; in breve, di salvare la differenza dallo scoglio della ridondanza” (Maurin,
119). Nella ripetizione si riverbera il rapporto tra l’unità e la molteplicità. Si tratta
della stessa funzione e significato della ripetizione utilizzata nella scrittura da
Gertrude Stein, che ha profondamente influenzato la poetica di Wilson. Nel
‘presente continuo’ teorizzato dalla scrittrice americana un oggetto o un personaggio è mostrato nella sua identità da prospettive ogni volta differenti. È il senso della famosa espressione “a rose is a rose is a rose”, secondo cui una rosa può
essere rossa per la prima volta dopo un secolo di poesia inglese; espressione che
quindi non è da intendersi come una conferma del principio logico dell’identità
di una cosa con se stessa quanto, al contrario, l’affermazione del riverbero della
novità, della sua identità vivente, nella ripetizione e variazione continua. L’iterazione, afferma Mourin, ha il potere di “cristallizzare l’essenza” e questo però
avviene nello spostamento continuo, per cui questa ‘essenza’ è ogni volta differente poiché l’istante con il quale coincide non è mai lo stesso. Secondo Gertrude Stein nella ripetizione, come nell’insistenza che qualifica il movimento della
vita, ogni volta c’è una differenza perché si colloca ogni volta nel presente, in un
presente che è ogni volta differente. La rosa si dice ogni volta nella differenza,
garantisce la ripetizione: è ciò che sposta e differisce continuamente l’identità
ontologica; è ciò che acuisce la differenza precisa di ogni fenomeno.
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Il modello di scrittura di Gertrude Stein è considerato da Lehmann come
riferimento drammaturgico rilevante per comprendere l’istanza antinarrativa
propria del teatro postdrammatico. Wilson è giudicato il regista ideale per la
realizzazione scenica delle opere teatrali e non di Stein, ignorate o considerate
a lungo non trasponibili. A permettere l’affermazione di questa ‘filiazione’ è
lo stesso Wilson che dichiara come la lettura di The Making of Americans lo
abbia portato a fare teatro. La Stein con il termine Landscape Play introduce
l’idea che il teatro, la scena e il testo sono da intendersi come paesaggio, ossia
esprime la volontà di rapportarsi al teatro, a quanto si realizza sulla scena, sia
dal punto di vista dell’autore che dello spettatore, come si trattasse della contemplazione di un parco o di un paesaggio, dove quindi la spazialità e la visione
che la coglie hanno un ruolo assolutamente preponderante.
Significativamente, lo scrittore e drammaturgo americano Thornton Wilder,
amico di Stein, autore di prefazioni ai suoi libri e influenzato nella scrittura
teatrale anch’esso dall’opera The Making of Americans, spiega l’assimilazione da
parte di Stein del teatro al paesaggio nella dimensione del presente propria del
mito e che trascende la narrazione: “Un mito non è una storia che si legge da
sinistra a destra, dall’inizio alla fine, ma una cosa che si ha costantemente davanti agli occhi. Può essere ciò che voleva dire Gertrude Stein quando pensava
a una pièce di teatro come un paesaggio” (Lehmann, 95). La dimensione del
presente come propria del mito è allo stesso tempo la dimensione del presente
che Wilder afferma come paradosso del teatro: “sul palco è sempre ‘ora’: i personaggi sono sempre in piedi sul quel rasoio-bordo, tra il passato e il futuro,
che è proprio dell’essere coscienti; le parole salgono alle loro labbra in una
e. Scena 3C del IV Atto.
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Una partitura (post)drammatica
spontaneità immediata” (Wilder, 25). Il teatro contemporaneo e postdrammatico ha voluto catturare totalmente questo presente, cercando di metterlo in scena. Così il principio del “continuo presente”, gli intervalli di tempo
presente che condensano nell’attimo il passato e il futuro, reso nella scrittura
di Stein, trovano concretizzazione sulle scene con l’annullamento della narrazione drammatica o storica, di protagonisti definiti o personaggi identificabili
con nettezza.
Allora è la novità ciò che Wilson cerca nella ripetizione: cerca l’effetto della resistenza e del decentramento percettivo mettendo ogni volta in gioco l’identità di
quanto viene ripetuto. Questo vale per l’opera intesa nel complesso, come ripetizione e variazione di scene nel passaggio da un atto all’altro, e vale per ciascun
elemento che compone la scena, dalla musica alla coreografia. Così la musica
definita minimalista o postminimalista creata da Glass per Einstein on the Beach
segue gli stessi meccanismi della struttura drammaturgica, per cui il materiale
elementare di base, seguendo la modalità della ripetizione e variazione del processo additivo e ciclico, dà vita a sequenze in continua trasformazione che danno
il senso del movimento e del divenire, l’effetto di staticità dato della ripetizione
è apparente: secondo lo stesso Glass la “musica non si ripete mai, ma cambia per
tutto il tempo”. E di riflesso, anche per ciò che concerne la coreografia, a seconda
della prospettiva viene di volta in volta colta la variazione di uno stesso elemento.
L’opera di Wilson è indicativa di come l’opsis, la visione, sia attivata e composta
secondo delle regole che definiscono la struttura compositiva delle immagini e
queste regole rispondano al meccanismo del montaggio. La frammentarietà con
cui si qualifica la caratteristica dell’opera postdrammatica, spesso con un’accezione caotica, nega solo apparentemente il principio della mimesis praxeos: come
si è già detto, nello spettacolo di Wilson i Knee Plays sono elementi di frattura,
di intervallo, ma allo stesso tempo sono elementi di sutura, di relazione e collegamento. La frammentazione è un processo ambivalente, nella separazione e
nell’intervallo c’è al tempo stesso la coordinazione, la relazione, il collegamento,
il dialogo tra le parti: in questa duplicità sta il principio del montaggio. E questo
stesso principio, che si struttura secondo la dinamica del contrasto, del contrappunto, della polarità semantica, è riconoscibile all’opera sia nella drammaturgia
antica in cui si tende a leggere soprattutto il meccanismo della mimesis praxeos
che in quella postdrammatica in cui si vede concretizzato soprattutto l’opsis. E
però è rinvenibile all’opera anche dietro le narrazioni del teatro moderno riconosciuto come propriamente drammatico, là dove a far dramma è per l’appunto
il meccanismo compositivo polare e non la presenza o meno della storia.
Ne consegue che sostenere la postdrammaticità come negazione della mimesis
praxeos implica attribuire al mythos, all’intreccio che dà forma alla narrazione
delle storie, una logicità che appartiene invece pienamente solo al logos – al
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Una partitura (post)drammatica
pensiero logico razionale che ha posto l’identità di una cosa con se stessa, la
consequenzialità sillogistica, il principio di causalità, escludendo ambiguità
e polarità semantica – e non riconoscere invece nella struttura del mythos la
tramatura del meccanismo del montaggio, che non risponde a quella logicità ma al principio del contrasto e per l’appunto dell’ambiguità e polarità. La
categorizzazione proposta da Lehmann avviene all’interno dell’acquisizione
indebita che il logos ha fatto del mythos, riconducendolo alla propria logicità; e
nel momento in cui il pensiero ‘postrammatico’ o ‘postmoderno’ vuole sottrarre
al mythos questa logicità per affermare l’opsis, la pura visibilità di contro alla
narrazione, non può che negarlo tout court. Il pensiero contemporaneo e la riflessione sul teatro contemporaneo può invece salvare il mythos se ne riconosce
la sua coappartenenza all’opsis. Una coappartenenza che si fonda sulla condivisione della stressa struttura compositiva elementare di base, ossia quella del
montaggio, che è meccanismo mitopoietico per eccellenza. Allora l’opsis, la
pura visibilità, il darsi sensibile della cosa non contraddice l’intreccio narrativo, il mythos, ma ne è la sua parte costitutiva, il suo complementare. Ciò che
qualifica la loro apparente differenza è una questione di prospettiva, si tratta,
come ha scritto Rancière, di vedere lo stesso fenomeno da due punti differenti,
ossia di vedere l’infinitamente piccolo (il particolare, il materiale) piuttosto
che l’infinitamente grande (l’ideale come tipo, come sintesi del molteplice),
o di riconoscere all’opera nell’uno come nell’altro il medesimo meccanismo
basilare del montaggio, al di là della diversa combinazione che può regolare
la connessione o sconnessione tra le parti, facendo prevalere l’intreccio o la
visibilità. L’opera di Wilson è quindi drammaturgica nella misura in cui, nella
struttura compositiva, risponde al meccanismo del contrappunto, della polarità che regola l’articolazione per montaggio all’opera sia nella mimesis praxeos
che nell’opsis, i due poli che danno forma al mythos. Quindi è attuale, ancora
oggi rispetto alla sua prima edizione non solo perché risponde al codice ancora
vivo che ha inaugurato ma anche perché risponde alla regola, elementare, della
partitura drammatica.
English Abstract
On the occasion of the international revival of Einstein on the Beach, Robert Wilson’s masterpiece dated 1976, this paper proposes a reflection on the topicality of the work that changed,
among other things, the history of musical theater: the originality of Wilson’s play lies in its
dramatic structure which deeply renews contemporary staging and still remains faithful, at the
same time, to the basic principles of dramaturgical composition. While Hans-Thies Lehmann
considers Wilson’s work as one of the best examples of ‘postdramatic’ theatre, because of the
subordinate importance of the ‘story’ that lies underneath staged narration, this paper asserts
that it is not the fairytale that ‘makes drama’ but its structural composition which, always, follows the principles of montage: that is, the juxtaposition of heterogeneous elements composed
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Una partitura (post)drammatica
by counterpoint, by semantic polarity, where the parts are combined and connected mainly by
a relationship based on conflict, contrast and opposition. This mechanism ‘makes drama’ when
is at work both in ‘predramatic’ theater – e.g. in Aeschylus’ Greek tragedy – and in ‘postdramatic’ theater, because it consists of the same elementary structure: montage can be considered
the mythmaking mechanism par excellence.
Riferimenti bibliografici
Adnan 1976
E. Adnan, Intervista con Robert Wilson, trad. it. in F. Quadri (a cura di), Il teatro di Robert
Wilson, Venezia 1976.
Aristotele, Poetica
Aristotele, Poetica, trad. it. e cura di D. Lanza, Milano, 2001.
Quadri 1976
F. Quadri (a cura di), Il teatro di Robert Wilson, Venezia 1976.
Lehmann [1999] 2002
H. T. Lehmann, Postdramatisches Theater, trad. fr. Le Théâtre postdramatique, Paris 2002.
Marranca [1996] 2006
B. Marranca, Robert Wilson and the Idea of the Archive. Drammaturgy as an Ecology, trad. it. Robert
Wilson e l’idea di archivio. Drammaturgia come ecologia, in V. Valentini (a cura di), American Performance 1975-2005, Roma 2006.
Maurin 1998/2010
F. Maurin, Robert Wilson, Le temps pour voir, l’espace pour écouter, Paris 2010.
Rancière [2001] 2006
J. Rancière, La favola cinematografica, trad. it., Pisa 2006.
Wilder 1956
T. Wilder, Thornton Wilder interviewed by Richard H. Goldstone, “Paris Review”, 15 (Winter 1956).
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”.
Attualità del mito nel teatro di Peter Sellars*
Abbiamo incontrato Peter Sellars lo scorso novembre al Teatro Palladium di Roma
nel contesto del Romaeuropa Festival 2010. Qui il regista statunitense si trovava
per la prima italiana di Kafka Fragments, la messa in scena dell’opera composta
da György Kurtág per soprano e violino su una tessitura di frasi tratte dai diari,
lettere e aforismi privati di Franz Kafka. I Kafka Fragmente, creati tra il 1985 e il
1986 dal compositore romeno naturalizzato ungherese, sono costituiti da quaranta
frammenti, divisi in quattro parti, che musicati durano da una manciata di secondi
a sette minuti; i temi a cui fanno riferimento i brani sono vari: l’amore, il sogno, il
dolore, l’esilio, la musica... La sapiente regia riesce a esaltare l’accostamento ardito
tra soprano e violino – gli ottimi Dawn Upshaw e Geoff Nuttal – rendendo a tutti
gli effetti voce e suono personaggi teatrali. Sellars mette la voce nei panni di una
casalinga alle prese con le attività domestiche, e il suono in quelli di un musicista
da strada, con l’effetto di catapultare a terra, nella brutale quotidianità, le altezze
toccate dai frammenti. La scena che contorna i due è essenziale: i frammenti leggibili su schermi posti alle spalle degli artisti si alternano a un veloce susseguirsi di
immagini suggestive e contestualizzanti realizzate da David Michalek.
Daniela Sacco: Ho letto alcune sue interviste in cui parla di ‘ fare mitologia’, creare
‘sistemi mitologici’ in cui le ‘immagini risuonano’. Può spiegarmi esattamente cosa intende con queste espressioni? Come possiamo parlare di mitologia oggi? Che significato
ha per noi oggi?
Peter Sellars: Penso che molto abbia a che fare con la prima infanzia: appena
nati si è impressionabili, ci sono immagini che rimangono impresse molto fortemente. Poi, quando si è grandi, capitano delle esperienze che toccano quelle
impressioni. La psicologia ci ha insegnato che queste sono le cose che ci formano, che formano la nostra sensibilità. Stiamo prendendo consapevolezza che la
cosa più importante che possiamo fare è assicurarci che i bambini siano curati
molto bene alla scuola materna, ossia che l’investimento più profondo dell’essere umano deve avvenire presto nella vita, in questi primissimi anni, e non più
tardi. Questa prima fase è fondamentale perché al bambino possono essere dati
gli strumenti per avere in mano il proprio destino. Le impressioni che si vivono
in quel periodo creano una camera di risonanza e così, quando qualcosa tocca
quelle prime impressioni, colpisce il centro del proprio essere e dei momenti formativi dell’essere umano: va a toccare, cioè, qualcosa che è al centro della propria
* In Appendice di questo stesso volume la versione originale, in lingua inglese, dell’intervista.
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Daniela Sacco
“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
identità e quel che si percepirà poi non saranno che delle semplici informazioni.
Dunque, per sviluppare un tema caro a Platone, la nostra infanzia è fatta di tantissime infanzie precedenti, queste impressioni vanno indietro di tante vite e noi
ci troviamo in mezzo a un’impressione che è stata creata cento vite fa. Poi, tutto
d’un tratto, qualcosa tocca l’epicentro del nostro essere da una vita precedente:
questa è la mitologia. È qualcosa che si conosce molto bene e che viene dai primi
anni della propria esistenza. Quindi esiste una specie di “camera di risonanza”
che si è formata. La risonanza è una cosa davvero speciale, basti pensare ad
esempio a quanto succede nella musica classica. Kafka Fragments, questa performance, risuona diversamente in una bellissima sala da concerti. A Londra l’abbiamo fatta in una sala del Barbican dove di solito suona la London Symphony
Orchestra: la sala è fatta apposta per creare la risonanza, perché è tutta di legno,
quindi quando Geoff Nuttall suona il violino la risonanza col legno crea un calore, una presenza, una risonanza speciale appunto. Qui a Roma, lo spazio del
Palladium, è stato pensato per la musica rock: non c’è legno nell’architettura, e il
violino è un po’ freddo e un po’ solo; le note sono “semplicemente” note. Invece
la risonanza si ha quando l’ambiente risponde, e quindi un suono o un’impressione viaggia oltre se stesso perché è in un ambiente che lo riconosce, perché è
in solidarietà, in un rapporto di simpatia: e l’impressione diventa più profonda,
più ricca... A Los Angeles, per fare un altro esempio, c’è una meravigliosa sala
da concerti disegnata da Frank O. Gehry, la “Walt Disney Concert Hall”, dove
abbiamo portato Kafka Fragments. La sala è stata costruita da Yasuhisa Toyota
che si è ispirato al teatro tradizionale giapponese Nō, che è interamente di legno,
e sotto il palcoscenico dei teatri ci sono dei tamburi, quindi, quando gli attori lo
calpestano si avverte una risonanza del suono, perché il palcoscenico stesso è un
organo di risonanza. Quando c’è una percussione l’effetto è amplificato. La stessa cosa può dirsi per Epidauro. Quella dell’acustica è la questione più importante
per l’estetica greca, proprio perché era basata sul suono e sulla maschera-persona,
attraverso la quale si faceva arrivare il suono. Tutto è centrato sulla risonanza e
per i greci era molto importante questo qualcosa che tocca il centro dell’essere,
non solo la superficie. Come per la sala da concerti disegnata dal signor Toyota
con i principi del teatro Nō – là dove la superficie sembra liscia ma in realtà
sotto contiene questi giganteschi organi di risonanza, i risuonatori, che vibrano,
che tengono il suono – così la curva degli anfiteatri greci tiene il suono: non è
un’architettura di rettangoli, ma è l’architettura di un profondissimo risuonatore
che tiene il suono. Questo ricettacolo è tanto importante perché tiene, ricrea,
amplifica. Quindi non si tratta di portare qualcosa da “fuori” a “dentro”, ma il
risuonatore è dentro ogni essere umano...
D. S.: Ciò di cui mi piacerebbe discutere con lei è la sua idea che il teatro “riveli l’invisibile”. Può dirmi cosa intende per invisibile? Che cosa viene reso visibile? C’è qualche
connessione con l’espressione di Paul Klee per cui “ l’arte non riproduce il visibile ma
rende visibile”? Possiamo pensare all’arte teatrale in questi termini?
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Dawn Upshaw in Kafka Fragments.
Peter Sellars: Molto semplicemente, l’arte sta intorno a noi ma è invisibile, non
la puoi toccare: come l’amore, che è ovunque ma non lo vediamo. I maggiori
sentimenti, i pensieri più importanti, i principi della vita sono tutti invisibili
e il mondo visibile non ha quasi nulla a che fare con i sentimenti personali.
Eppure, il mondo visibile è un miracolo: la luce sugli alberi verso la fine della
giornata, ieri, qui a Roma, era incredibile, la luna piena che sale verso fine pomeriggio... Il mondo visibile è magnifico. Come dice il Corano, il mondo è anche fatto per essere letto, la bellezza non è semplicemente la luna o il tramonto
o le rondini che scendono verso il fiume facendo dei disegni nel cielo, ma è
anche un messaggio: si impara a leggere il cielo, la luna, il sole. Tutti questi
sono anche dei testi, sono un messaggio di una creazione più immensa, di una
durata di tempi più lunga di un ciclo di vita. Quindi il mondo visibile, come
direbbe il Corano, è un segno che le persone possono decifrare, non l’oggetto
in se stesso. Allo stesso modo, la mia sensazione rispetto al testo musicale di
Kurtág non è il punto di partenza, né il punto di arrivo: è il vascello, il viaggio,
non è la destinazione. Il punto di partenza deve essere qualcosa dentro di te,
quando per esempio stai avendo un’esperienza profonda e guardi il cielo, vedi
tante cose diverse, e il cielo significa tutte queste cose. Il mondo visibile deve
essere attivato dai tuoi sentimenti interni, dalla tua capacità di creazione, dalla
tua vita interna. Quindi, anche al contrario, il mondo visibile è fatto per risvegliare le tue domande sulla vita, sul significato della vita. Ed è anche lì per
ricordarti che hai un’altra giornata a disposizione, che il sole risorgerà e tu ci
puoi riprovare, che questi sono tutti dei messaggi profondi e che quindi tutti
i cerchi nel mondo e tutte le linee dritte sono, come diceva Platone, un’altra
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
geometria, un altro tipo di ordine. Credo che questo sia il potere della scienza,
così come credo che l’arte funzioni in parallelo alla scienza, e stia a guardare il
mondo visibile cercando i suoi principi e non quello che il mondo visibile dice
di se stesso. Il mondo visibile è un indicatore di realtà più vaste, oppure, è alla
ricerca di disegni, motivi più specifici, o un ordine, l’ordine più profondo.
D. S.: Rispetto alla sua formazione artistica, ha fatto spesso dichiarazioni sulla precoce
e importante esperienza formativa nello studio del cinema... Potrebbe dirmi perché ha
eletto il teatro a sua espressione artistica d’eccellenza rispetto a quella cinematografica?
Peter Sellars: Secondo me l’elemento più importante per il teatro è, socialmente, la condivisione di uno spazio e la domanda imponente del XX secolo
è ‘come condividiamo questo pianeta?’. Possiamo condividere il pianeta con il
resto del mondo? Con altre persone? La grande questione che ossessionava i
Greci era di ricevere gli stranieri. Cosa condividiamo nella vita su questo pianeta? La cosa più importante non è costruire un muro fra la Palestina e Israele
o fra gli Stati Uniti e il Messico, ma il contrario, chiedersi che cosa condividiamo, e la ricerca di quello che condividiamo oltre che la sua affermazione.
Nel teatro tante persone si riuniscono in uno spazio che alla fine della serata
non è né il “mio” spazio né il “tuo” spazio, ma uno spazio condiviso dove si ha
un’esperienza condivisa, dove i confini sono dissolti. Per il cinema non è così:
il film ha il proprio spazio e il pubblico, a sua volta, ha il suo; è uno spazio
mentale perché lo spazio fisico non è lo stesso. Quindi per me la ragione per
cui il teatro ha la priorità è proprio la condivisione. Ci sono i diritti alla terra,
all’acqua; c’è la questione di come condividiamo la terra e come ne facciamo
tesoro perché non è una cosa che dobbiamo dividere a parcelle e vendere, è sacra, dobbiamo riconoscere la sacralità della terra, del cibo, dell’aria, dell’acqua.
Non puoi semplicemente comprare e vendere l’acqua, nell’acqua c’è qualcosa
di sacro ed è di tutti: quando la Coca-Cola vorrà comprare tutta l’acqua del
mondo – quello che stanno cercando davvero di fare – avremo la crisi. E quindi
questo spazio condiviso fa ricordare a tutti che la terra è sacra, la luce è sacra,
l’acqua è sacra nel senso che è condivisa e tutti ne hanno bisogno. Le piante, gli
animali e la vita hanno una dimensione sacra e non alla maniera della religione
organizzata ma nel senso del teatro, dove tutto ha una risonanza, un’aura, un
insondabile, dove tocchiamo qualcosa di infinito: abbiamo una quantità d’acqua che è finibile ma abbiamo un livello di generosità infinito. Ci sono cose
infinite, come amore, coraggio, generosità onestà e ci sono altre cose che sono
limitate, come l’acqua o la terra: tutto sta nel capire come usare queste cose
finibili, come trovare una correttezza nell’usare le cose finibili. Il teatro è un
punto di incontro di questa infinitezza e di questa limitatezza sociale che è la
condivisione. Il cinema è certamente un grandissimo linguaggio, io adoro il
cinema prima del cinema: penso alla pittura cinese, o al teatro cinese e indiano, al teatro d’ombre di Java, o alla pittura nelle caverne. C’è sempre stato il
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cinema prima del cinema: l’impulso cinematografico è molto profondo in noi,
e non viene solo dal XIX o XX secolo, così il montaggio...
D. S.: A questo proposito, vorrei proprio parlare specificatamente della tecnica del montaggio, del valore che ne dà e l’uso che ne fa, di come lo studio del montaggio nel cinema
è stato formativo per la creazione del suo metodo teatrale.
Peter Sellars: Il montaggio è cruciale; ed è anche la tecnica con cui ha lavorato
Sofocle. Sofocle creava sempre degli episodi che poi venivano tagliati e in cui
inseriva il coro: in lui non vedi il dispiegarsi degli eventi nel tempo reale, c’è
tantissimo che non mostra, anzi esclude. Sofocle presenta un momento molto specifico nel tempo, poi taglia in un altro momento e affianca questi due
momenti nel tempo contigui: ciò ha un impatto emotivo straordinario, esattamente perché Sofocle lavora al montaggio di questi pezzi. Lo stesso si potrebbe dire per Aristofane, forse ancora di più. Da questi momenti distribuiti nel
tempo che normalmente non vengono attaccati assieme, ma che vengono connessi grazie a questa tecnica, si ottengono dei contrasti molto intensi e molto
estremi. Si crea una crisi, ma anche qualcosa di più profondo, ossia la consapevolezza che tutto è connesso. Il montaggio ci dice semplicemente che due cose
qualsiasi nel mondo sono connesse: se le connettiamo attraverso una giuntura,
questa interconnettività è poesia. Questa sedia non è semplicemente una sedia
e questo teatro non è semplicemente questo teatro: niente è solo se stesso, tutto
è se stesso in rapporto ad altro. Quindi la questione del rapporto è la ragione
per cui il montaggio è così eccitante: perché aguzza, intensifica e rende più
profondo questo senso del rapporto. Quando ero all’Università la mia tesi era
su Mejerchol’d ed ero assorbito anche da Ejsenstejn e il cinema degli albori;
ero molto attratto dal cinema muto, e mi sono specializzato in Griffith, ho studiato Hitchcock, Godard... Per ciò che concerne il cinema molto importante
è il periodo che ho passato a Bruxelles dove tra i 20 e i 30 anni ho lavorato a
molti progetti, e dove alla cineteca potevo vedere due film muti ogni sera, con
le musiche dal vivo. Adoro l’idea del cinema con la musica dal vivo, al modo di
Godard, dove hai due tracce – una video e una audio – che son diverse: quindi
c’è sempre tensione fra il visivo e il sonoro. È una cosa molto soddisfacente, diversamente da quanto accade a Hollywood dove il sonoro è schiavo del visivo.
Non amo avere questa modalità, in cui un elemento fa da padrone e l’altro da
schiavo, preferisco un rapporto tra due adulti consenzienti che possono essere
d’accordo o meno, che possono convergere o anche separarsi. Questo è eccitante del montaggio: separa il sonoro dall’immagine, dando la possibilità a tutti
e due di avere un loro influsso narrativo e una loro dimensione narrativa, e di
andare all’unisono producendo un’esperienza complessa.
D. S.: Sto indagando il rapporto tra mitopoiesi e montaggio. A me pare che sia il mito
che il montaggio pongano la stessa relazione tra particolare e universale nel senso che
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
entrambi tendono a rappresentare il ‘tipico’. Penso, a questo proposito, anche al concetto
di immagine generalizzata e della pars pro toto nelle speculazioni di Ejzenštejn sul
montaggio. Crede che si possa affermare questo rapporto?
Peter Sellars: Sì, e anche fra metafora e metonimia. Un esempio che mi capita
spesso di fare è quello dell’immagine buddista del pezzo di carta e della nuvola; ossia l’idea che quando vedi una nuvola vedi anche un pezzo di carta o che
quando vedi un pezzo di carta vedi anche una nuvola. Questo perché un pezzo
di carta viene da un albero, e perché quell’albero sia diventato un foglio di carta
c’è voluto un boscaiolo che ha tagliato l’albero, e deve esserci stata anche una
fabbrica di carta, così come deve esserci stato anche il pranzo del boscaiolo.
Doveva esserci tutto ciò perché questo diventasse un pezzo di carta. E perché
l’albero esistesse nella foresta doveva esserci il sole, la pioggia, la nuvola... Per
questo, quando guardi un pezzo di carta vedi una nuvola. Il buddista dice che
tutto contiene tutto quello di cui non è: un pezzo di carta è fatto di elementi
non di carta. Questo è molto importante quando pensi, anche letteralmente,
a Platone, per cui noi siamo già stati qua, in questo mondo, i nostri corpi si
decompongono e poi ritornano, come alberi, come rocce, come piante, animali, centinaia di volte. Non è solo un’immagine poetica, è una realtà fisica,
noi ci siamo decomposti in molte forme e siamo tornati in altre forme: questo
è un processo fisico oltre che spirituale. La bellezza del montaggio è che si
contrappone un’esistenza precedente con un’esistenza che è ora: abbiamo a che
fare, ancora di nuovo, con l’interconnettività di tutto, per cui se c’è un pezzo
di carta deve esserci una nuvola. Mettere due cose una accanto all’altra, ha
l’effetto di scioccare attraverso il processo lungo delle loro esistenze, cattura
l’attenzione proprio perché si avverte un salto nell’ordine delle cose, e non si
percorre, invece, il lungo sentiero tra loro. Il pezzo di giuntura che viene inserito diventa quel lungo sentiero: ed è lì che ci sono i secoli, che quindi passano
tutti in un inserto, in un punto solo. Quindi tagli vengono fatti attraverso il
tempo, attraverso lo spazio e attraverso il processo...
D. S.: È in questi tagli che si manifesta il ‘tipico’?
Peter Sellars: Il montaggio porta dallo specifico alla presa di coscienza che
lo specifico è un’indicazione di qualcosa di più vasto, come dicono i buddisti:
realtà condizionata contro realtà incondizionata. Edipo Re è una realtà condizionata: c’è quella madre, quel padre, tutto nella sua vita era basato su un certo
numero di condizioni; ma d’altro canto, quello specifico gruppo di condizioni
porta a una realtà incondizionata. Come esseri umani noi non sappiamo nulla
di noi stessi, le specifiche condizioni di quella realtà condizionata sono un
indicatore della realtà incondizionata, di una verità più grande che in qualche
modo guida la verità più piccola. Quindi sei dentro a un rapporto di verità
relativa, di verità condizionata, di verità provvisoria e di verità più grandi, che
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
rimangono tali attraverso un tempo più o meno lungo e attraverso periodi della
storia più lunghi e vite diverse.
D. S.: Il suo teatro è realizzato in America e
si rivolge principalmente a un pubblico americano, pur essendo, naturalmente, un teatro internazionale, che si alimenta profondamente di
culture diverse. Pensa che la cultura americana
abbia qualcosa da insegnare a quella europea?
Che intenzione comunicativa c’è nel suo teatro
nei confronti della cultura europea? Ad esempio
nel caso specifico di Kaf ka Fragments?
Peter Sellars: Sofocle, Mozart, Shakespeare scrivevano per l’America! Sono tutti
americani! Scrivevano specificatamente
per il mio Paese: stranamente, scrivono del
Paese ‘più potente’, scrivono di potere, di
come funziona il potere e l’America è, oggi,
il Paese al mondo che sta vivendo proprio
Peter Sellars, Per farla finita con il giudizio di
Dio di Antonin Artaud, 2003.
l’esperienza di cui scrivono loro. Soprattutto ora, ogni sbaglio sociale, catastrofico che
fa l’America, l’Europa lo ripete dopo cinque anni. Vorrei poter dire che non
c’è nulla da imparare dall’America, ma il fatto è che avete delle cose terribili
da imparare, se è così che trattate i rifugiati, se è così che costruite prigioni,
se è così che vengono condotte le guerre contro la droga... Sono cose terribili
che hanno distrutto l’Europa negli ultimi vent’anni, proprio perché l’Europa
imita l’America, i politici europei imitano quelli americani: ci sono personaggi
catastrofici come Berlusconi e Sarkozy i quali hanno imparato tutto dall’America. Sento, come americano che viene in Europa a presentare le sue opere,
che sto dando agli europei un quadro che gli sarà presto molto familiare e sto
cercando di allertare le persone, come se dicessi: ‘guardate che è questo che sta
per arrivare’. Mi dispiace che tutto il mondo sia così influenzato dall’America
in questo momento. Tutti stanno chiudendo i loro confini, stanno conducendo
una guerra economica, stanno diventando egoisti e il risultato è la stagnazione
economica e sociale in America e ora in Europa. E vi state tagliando fuori dal
futuro, state retrocedendo a una versione fasulla del passato: questo fa male.
Ora in America e in Europa si vede di nuovo apparire il fascismo: ad esempio
quel che accade in Olanda è incredibile. Per me, in questo pezzo di Kurtág, c’è
l’immagine del violinista zingaro: solo, per strada, non ha una casa, non avrà
mai una casa. Il suono rumeno di Kurtág è il suono che l’Europa ha già cercato
di distruggere ad Auschwitz e che ora Berlusconi sta cercando di annientare:
questo lo percepisco già dall’America. Penso che il teatro bulgaro sia univerQe • 03 • novembre 2012 • Pensiero in azione • ISBN 978-88-98260-02-7
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
sale quando è massimamente bulgaro, non quando cerca di imitare qualcosa
d’altro: noi tutti dobbiamo parlare la nostra lingua in modo più profondo possibile, con le sue sfumature e facendo tesoro di tutto quello che ogni lingua
può dare, e non semplicemente parlare un’altra lingua che nessuno parla bene.
Dobbiamo tutti parlare la nostra lingua, con la sua complessità e con l’abilità
di toccare quello che è più profondo, le verità intrinseche a quella cultura e poi
condividerle. In Giappone le persone vedono qualcosa del mio mondo americano che riconoscono e altre cose che non riconoscono; ma credo che l’umanità
abbia degli specchi dove tutti possano riflettersi: ed è molto interessante guardare allo specchio di Sofocle, a quello di Mozart o a quello di Shakespeare,
e così facendo ritrovare se stessi. Quindi, per me i testi di questi grandi non
sono importanti perché lo erano in uno specifico periodo storico, per specifiche
persone, ma al contrario, i loro testi funzionano come specchi attraverso cui la
storia e ogni generazione si ritrova, ed è questa la cosa potente.
D. S.: Non crede che l’America possa essere un riferimento per la giovinezza del suo
approccio alla cultura?
Peter Sellars: L’America è stata fondata con molta consapevolezza su dei principi ateniesi, nel tentativo di capire la democrazia ateniese, e con altrettanta
consapevolezza le strutture del nostro governo si sono basate sui modelli di
Atene, sui testi classici. Non è a caso che in America l’ufficio postale abbia i
capitelli corinzi, o la Casa Bianca un’architettura che si rifà alla classicità greca. Queste cose non sono a caso: ci siamo costruiti nell’immagine di Atene e su
quella che era la promessa della democrazia
ateniese. Per me i testi greci sono fondanti
del mio paese, non fondanti di un qualsiasi altro paese: per me hanno un significato
personale. E credo che lo abbiano avuto
anche per Jefferson e Franklin che hanno
anche dibattuto a lungo su questi temi, cercando di tirarne fuori un futuro, cosa che
non era stata possibile nell’Atene di Pericle, che infatti è collassata. Quindi è vero
che l’America è giovane, ma in rapporto
all’Atene di Pericle è anche vecchia: la democrazia americana è andata avanti più a
lungo che non in qualsiasi altro posto e la
si è scontata con dei terribili problemi. La
democrazia è molto minacciata in questo
momento dall’economia, così come accade
in Europa o ovunque. Euripide e Sofocle
Peter Sellars, Per farla finita con il giudizio di
Dio, di Antonin Artaud, 2003.
furono molto chiari su questo punto: amQe • 03 • novembre 2012 • Pensiero in azione • ISBN 978-88-98260-02-7
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Daniela Sacco
“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
monivano di non lasciare che il denaro minacciasse la democrazia, e sapevano
che era esattamente questa la ragione della crisi. Quindi, guardo questi testi e
vedo il mio paese nella consapevolezza di dove siamo ora, rispetto a quello che
erano i principi e i miti di fondazione.
D. S.: Anche rispetto ai miti di fondazione, crede la cultura americana sveli una particolare sensibilità per il mito?
Peter Sellars: Sì perché l’America stava già creando dei miti ai suoi inizi e
nel suo governarsi ha sempre usato il mito. C’è la mitologia dei Kennedy, la
mitologia di Richard Nixon: tutti questi leader americani sono mitici, oltre
ad essere delle vere persone, e sapevano come costruire e come usare il mito
o il mitico. La cultura americana ha usato il mito sin dalle origini, perché era
un paese basato su un’idea grande, non semplicemente sull’etnicità o su tutte
quelle cose su cui si basano di solito i paesi: c’era un’idea nuova, che non si radicava semplicemente sulla gente che vi aveva vissuto, anzi quelle persone sono
state escluse per far spazio ad altri che stavano arrivando, oltre agli schiavi.
Quindi era un paese molto strano che non assomigliava a nessun altro nella
storia: è diventato un paese della mente, che bisognava immaginare, con l’idea
di lavorare per un progetto più grande. E questo progetto più grande era quello
che voleva l’America. L’America non era un fatto, era un luogo che rappresentava certe idee, aspirazioni, successi: la gente da tutto il mondo arrivava per
cercare di costruire una nuova vita, un nuovo futuro. Credo che, nella storia,
non vi sia stato alcun paese con un simile tipo di spinta, che l’America prendeva proprio dalla mitologia. Arrivavano da tutte le parti dicendo “andiamo in
America, lì c’è il nostro futuro”: è incredibile, generazione dopo generazione,
è avvenuto così; e si è creato un futuro. È per questo che l’America ha creato
il miracolo sociale ed economico a dispetto di tutti i suoi fallimenti. I suoi
successi sono incredibili proprio grazie a questi ideali alti, che erano ateniesi.
Abbiamo fatto questo paese, con un’immagine di sé completamente diversa;
ed è per questo che mi sembra un incubo quando proprio l’America dice di no
all’immigrazione, che la lingua ufficiale è l’inglese, che vuole solo bianchi e
tutte queste cose “non americane”: perché tutto ciò rappresenta una violazione
dei principi fondanti del paese.
D. S.: Il suo teatro è politico: ciò significa che la funzione mitica del teatro, che si
rivolge a un pubblico attraverso dei significati universali, è allo stesso tempo politica?
Peter Sellars: Certamente, perché il mito muove in due modi: anzitutto dà potere, dà coraggio; il teatro mette in presenza di grandissime azioni eroiche di
un’altra epoca e quindi fa pensare che se nel passato erano in grado di fare grandi
cose, allo stesso modo ci si può riuscire oggi. Il teatro è qualcosa che ispira ma è
anche respingente, quindi il mito dà forza ma può essere anche un monito e metQe • 03 • novembre 2012 • Pensiero in azione • ISBN 978-88-98260-02-7
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
tere limiti all’ambizione umana, quando è politico o è economico, nei riguardi
dell’onore, del controllo, del possesso, della hybris. Invece la mitologia è molto
fortificante quando tratta di idee alte, creative, che attraverso il tempo e lo spazio
invitano ad avere un’idea più ampia dell’umanità, dell’umana possibilità. Quindi
la mitologia lavora in questi due sensi: è una finestra sull’infinito e un monito dei
limiti umani. Ed è qui tutto il suo potere: è illimitata, infinita, apre la mente su
visioni più ampie, ma allo stesso tempo ti dice “stai attento, chi ignora il limite
viene annientato”.
D. S.: Crede che l’uso della tecnologia, che si alimenta proprio della hybris, possa
contribuire alla costruzione della mitologia?
Peter Sellars: Certo, la tecnologia è una pietra, è una matita, è anche un razzo
che va su Marte: tutto è tecnologia. La tecnologia di per sé è neutra: puoi prendere una matita e puoi usarla per disegnare tua figlia o una bomba atomica,
e tra le mani avrai sempre comunque una matita. Per me la mitologia esisterà
sempre qualsiasi forma avremo per comunicarla o per farla circolare.
D. S.: È il modo in cui ne facciamo uso che può essere umano o disumano...
Peter Sellars: Sì, la tecnologia da sola non ha un’anima, tutto dipende dall’uso
che ne fai: è quello che dà alla tecnologia il potere. Abbiamo tutti visto film
meravigliosi e pessimi e stranamente la mitologia è presente in entrambi i casi.
King Kong è un pessimo film, ma ha dato alle persone un mito che è rimasto
potente, pericoloso, razzista e orribile. Quello che rimane è che gli uomini bianchi hanno paura dell’uomo nero; è l’immagine di un uomo nero che fa violenza
su una donna bianca: ed è terribile che la paura dell’uomo nero sia derivata anche da un film, da una “scimmia” creata negli anni Trenta. Chiediamoci perché
questo pezzo di spazzatura, questo kitsch, dovrebbe avere una vita così lunga.
È interessante osservare come lavorano certe cose nel nostro conscio: perché,
ad esempio, Harry Potter, in questi anni, sta toccando così tante persone? Perché parla all’immaginazione? Cosa ci trova la gente? Cosa c’è in Harry Potter
che risuona con la realtà? È una domanda strana e affascinante: penso che la
risposta stia nel desiderio nostalgico per l’autoritarismo del sistema privato collegiale, del sistema inglese all’antica, dove c’è un ordine ma, allo stesso tempo,
c’è la libertà di muovere una bacchetta magica e fare accadere una magia o far
sparire tutto. È uno stranissimo desiderio di questa generazione per un regime
ultraconservatore dove ci sono sempre le risposte a tutto, dove tutto è rigido e
ordinato e non ci sono vere domande, ma, allo stesso tempo, si può cambiare
tutto quello che non piace per magia. Allora mi domando che cosa nutre il
mito di Harry Potter? Questa per me è una questione interessante. Come lo è
il bisogno degli uomini di essere bambini per sempre: gli attori di Harry Potter
hanno quaranta anni ma si comportano come se ne avessero quattordici. Cos’è
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“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
questo desiderio di voler rimanere a scuola per sempre? Sono curiosi questi
fenomeni, che mostrano una cultura con delle stranissime proiezioni nelle fantasie delle persone. Ma, per tornare alla suggestione del possibile rapporto tra
tecnologia e mitologia, voglio dire che la questione della tecnologia è più profonda. La tecnologia è la nuova mitologia, in un modo molto profondo. Penso
ad esempio alla rivoluzione del Chiapas, dove il comandante Marcos ha fatto
una guerra che è mitologica e reale, proprio perché quella lotta è stata condotta anche attraverso l’uso di internet. Ciò significa che noi non siamo certo
nelle giungle del Chiapas ma, allo stesso tempo, grazie a internet, siamo là in
solidarietà. E, quando i militari messicani attaccano i Campesini in Chiapas, in tutto il mondo quell’attacco diventa parte delle nostre vite. L’idea di
un popolo che lotta in un luogo molto remoto in Messico, diventa in tutto il
mondo qualcosa che entra nelle coscienze, nella testa di tutti; e la rivoluzione
in Chiapas diventa così un’immagine molto potente per tutto il mondo. Nel
frattempo, il fatto che le persone possano entrare nel web e denunciare l’attacco dell’esercito messicano, fa sì che nel mondo intero ci sia riprovazione. Per
il governo messicano si pongono una serie di scelte e di pressioni tali da non
potere far nulla che vada contro l’opinione pubblica mondiale che sostiene gli
agricoltori e il popolo del Chiapas. Questo è molto interessante perché si assiste assieme a una realtà e a una mitologia: così, in questo momento storico, quel
luogo è sia molto remoto che molto presente, e la sua presenza implica molte
cose immaginate in molte parti del mondo.
D. S.: Per tornare al montaggio, anche in relazione a quanto appena detto: crede che
abbia una funzione particolare nella costruzione narrativa e che agisca nel rapporto
tra verità e finzione?
Peter Sellars: Quello che succede con il montaggio è che interrompe il flusso
normale della narrativa e lima i margini della verità. Il flusso narrativo normale può procedere con quello che accade, ma il montaggio mette in questione
ogni sviluppo, e lo mette sotto la lente per esaminarlo: crea così una situazione
in cui guardi le cose da tante sfaccettature anziché da una sola. Le sfaccettature
sono punti di vista: per questo il montaggio è un meccanismo tanto potente.
Ti accorgi che la storia, la realtà, è composita e la vedi fatta da tante sfaccettature, come l’occhio di una mosca: più sfaccettature vedi, più composita diventa
la tua visione del reale, e più sfaccettature ci sono, più multidimensionale è
la cosa che vedi. La narrativa non è mai una singola narrativa, ossia non vi è
un singolo montaggio: ma sempre sono narrative “multiple”, ovvero immagini
multiple. Tutto è multiplo e dunque vi è spazio per molte narrazioni e metanarrazioni. C’è una narrazione più grande, oltre quello che raccontiamo e ci
sono tante narrazioni più piccole che non sono state incluse nella storia che
viene raccontata. E quindi si è sempre consci di tutte queste narrazioni che
potrebbero in un momento qualsiasi intersecarsi.
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D. S.: Probabilmente la scelta dell’interruzione è sempre un atto politico...
Peter Sellars: Sì, infatti, perché a volte la narrazione principale è interrotta, e
questo è un buon segno. Per questa ragione è così importante fare dei frammenti:
perché tutti sanno che la narrazione principale, quella maestra, è una “bugia”. Il
grande film hollywoodiano, con l’orchestra e il crescendo di musica, è una bugia
totale! Tutte le volte che può essere rotto è un buon segno! L’unica cosa in cui
possiamo avere fiducia sono i piccoli momenti di verità che possiamo verificare
e questi frammenti sono la materia con cui lavoriamo. Possiamo ricomporre i
frammenti in tanti modi: le nostre vite e le nostre società sono state frantumate,
ma da queste rotture noi raccogliamo dei piccoli pezzi e iniziamo a ricomporli...
Kurtag, ad esempio, scrive Kafka Fragmente con l’esperienza di essere stato un
rifugiato: ma cosa vuol dire? Che quando scappi sotto la barriera che segna il
confine, hai dovuto abbandonare la tua vita precedente. E tutto quello che rimane di quella vita sono i frammenti, e da quei frammenti devi costruire una nuova
esistenza, dovunque tu sia arrivato. L’idea di verità frammentaria e di vita frammentaria, di sistemi rotti ed esperienze di vita rotte, è emozionalmente molto
destrutturante e allo stesso tempo stranamente liberatoria. Come nell’esperienza
degli immigrati, che ricostruiscono le loro vite e poi creano nuove narrative da
questi pezzi rotti. Penso che questa sia una forma speciale di narrazione, che ho
apprezzato a partire da Beckett in poi: ed è la constatazione che il frammento è
probabilmente in grado di rappresentare la verità, perché non pretende di essere
totale, perché dice sin dall’inizio che è una comprensione parziale, e non pretende di essere l’intero. La forma del frammento, dunque, è molto soddisfacente
artisticamente. Da qui nasce l’ossessione, lungo i secoli, per le rovine greche:
perché un frammento è sia “non finito” che destinato a finire ulteriormente, poiché non ce ne saranno più. Questa combinazione di qualcosa che è permanentemente incompleto è molto potente e la mitologia lo è nello stesso modo, è sempre
“rotta”. Ci sono tante versioni del mito di Medea: tutti sono in disaccordo, ci si
chiede se quanto successo è vero o quale mito sia veramente in atto. Tutti hanno
una versione diversa, tutto è frammento: ma dal frammento ricreiamo sempre
qualcosa. Stiamo tutti costruendo un mondo a partire da cose rotte – le nostre
vite, le nostre emozioni, le nostre speranze incluse – eppure dobbiamo continuare: raccogliamo pezzetti e andiamo avanti...
D. S.: Quello che possiamo fare è cercare di creare delle composizioni di volta in volta diverse...
Peter Sellars: Sì, proprio così. È questo l’atto forte di perseveranza umana e determinazione. In Kafka Fragments le immagini che fanno da sfondo, proiettate
di continuo, sono di persone coinvolte in progetti di recupero, in comunità per
alcolisti e tossicodipendenti: persone che avevano la vita a pezzi ma che hanno
iniziato a raccogliere i pezzi per ricostruirsi la vita.
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D. S.: Questo sembrerebbe anche tipico dei nostri tempi...
Peter Sellars: In realtà è di
tutti i tempi: anche nella Grecia antica, dove tutti arrivavano da posti strani, lontani,
o da qualche mito parziale. A
Epidauro il mio compagno di
viaggio è stato Pausania che,
viaggiando di posto in posto,
Dawn Upshaw e Geoff Nuttal in Kafka Fragments.
incontrava popoli differenti,
con racconti di storie diversi.
Non è mai una questione di fatti, ma di diverse storie: osservi un rito in un popolo e lo osservi come cambia in un altro, così ritrovi lo stesso mito associato a
un altro rito, con un altro significato. Secondo me è sempre stato così, una questione di pezzi rotti: anche ai tempi di Pausania era già tutto rotto, e lui aveva
il compito di ricostruire, con tutte le contraddizioni, con tutte le informazioni
mancanti e con tutti i frammenti che non si assemblavano, con l’obbligo di fare
una scelta tra opzioni differenti. Adoro tutto questo! Lo stesso mito può essere
trattato in un modo da Sofocle e in modo completamente diverso da Euripide.
Ora, a Chicago, in febbraio, metterò in scena l’Eracle di Händel basandomi su
Le Trachinie di Sofocle. Ma quando dici “Eracle” ti chiedi: quale Eracle? È una
domanda significativa. Tra l’altro, avendo già messo in scena I figli di Eracle di
Euripide, ho riscontrato una serie di problemi particolari. La morte di Eracle,
ad esempio, è completamente diversa: stesso personaggio, diversa morte, diversa storia, diversa traiettoria... Ce ne sono tanti di Eracle! Da dove cominciare?
Per me la questione è sempre stata questa.
English Abstract
We met Peter Sellars last November in Rome during the Romaeuropa Festival 2010. He was
there for the Italian premiere of Kafka Fragments, the staging of the opera by György Kurtág.
The American director talked about several topics: the idea of mythology in the present day;
the concept of ‘resonance’; how cinema has influenced his approach to theater; montage in the
art of theater, and the importance of classical culture in the founding myths of America.
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La creazione del frammento.
Kafka Fragments di Peter Sellars
Personalità eclettica, Peter Sellars spazia dalle produzioni internazionali del
teatro lirico, il teatro musicale, e dal teatro di prosa all’animazione teatrale
in situazioni marginali, socialmente problematiche; si confronta spesso con i
classici, la tragedia greca ma non solo, e fa liberamente uso dei nuovi media.
Storicamente viene poco dopo la sperimentazione avanguardistica di Robert
Wilson, ed avendo cominciato a lavorare dagli anni ‘80 si colloca artisticamente a pieno titolo negli anni ‘90 fino ad oggi. È dagli anni ‘90 che nel teatro si
regista la tendenza a tornare al testo dopo l’elaborazione dell’esperienza della
‘drammaturgia visiva’ che ha avuto la massima diffusione tra gli anni ‘70 e
‘80. Secondo Valentina Valentini, la seconda ondata di artisti americani – che
comprende per fare qualche esempio: John Jesurun, Robert Lepage, il Wooster Group – prende le distanze dalla precedente per effetto di una reazione,
generalizzata negli Stati Uniti, “al conformismo degli anni Ottanta dell’arte e
della cultura, al cinismo e yuppismo post-avanguardistico che a sua volta nasceva dal rifiuto dell’impegno totale della generazione degli artisti della neoavanguardia” (Valentini 1999, 63).
In sostanza si tratta come ha osservato anche Bonnie Marranca di un rifiuto di un
certo formalismo disimpegnato, e in qualche modo di un ritorno, per quanto diverso, all’impegno politico che aveva caratterizzato le neo-avanguardie degli anni
‘60 e ‘70. E infatti Peter Sellars, alla domanda sulla sua posizione rispetto al nuovo
teatro americano risponde di aver visto Einstein on the Beach cinque volte, di ammirare la grandezza di Wilson ma di non apprezzare troppo il suo formalismo che
manca, a suo giudizio, di “presenza morale” (Sellars in Pomarico [1997] 1999, 80).
Di fatto Wilson e Sellars si collocano ai due poli che danno forma al mythos,
come li ha individuati Aristotele nella Poetica in riferimento alla tragedia: la
mimesis praxeos (l’imitazione delle azioni) e l’opsis (la visione). Wilson in occasione di un’intervista, alla domanda sull’affermazione di un giudizio morale
su Stalin, relativamente all’opera The Life and Time of Joseph Stalin risponde
appellandosi alla sospensione del giudizio, evidentemente al di là del bene e
del male: “No. Guarda Ivan il terribile di Ejzenštejn. Non ti vien fatto di dire
quanto è malvagio. Lo è e basta. Tutto diventa scenico e non giudichi più,
guardi e basta” (Wilson in Adnan 1976, 20). Questo è il regime della pura visibilità, dell’opsis, dove si annulla il giudizio per far emergere la crudezza della
cosa in sé. Sellars di contro non vuole annullare il giudizio e quanto intende
mettere in scena sono storie, o non storie, che hanno la capacità di comunicare
un senso morale. Entrambi sono americani ed entrambi rivendicano influenQe • 03 • novembre 2012 • Pensiero in azione • ISBN 978-88-98260-02-7
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La creazione del frammento
ze comuni nella loro formazione, a partire da Gertrude Stein a cui Wilson
si è esplicitamente ricondotto, e con cui Sellars condivide la città d’origine,
Pittsburgh in Pennsylvania e ha condiviso la casa parigina, nella quale il regista diciottenne ha trovato ospitalità.
Quello di Sellars è un teatro politico; il teatro è “un dialogo con il testo e
fra gli attori, è una conversazione sempre aperta tra persone che collaborano”
(Sellars in Pomarico [1997] 1999, 79). Il teatro di cui vuole essere portavoce “è
cambiamento” e in questo segue la via aperta da Brecht che con Mejerchol’d
è tra i principali riferimenti nella sua formazione. Sellars in particolare, anche
rispetto a Wilson, rivendica continuamente le sue origini americane, la sua
nazionalità, e questo proprio perché il suo teatro è connotato politicamente. Il
contesto in cui si fa teatro è un aspetto imprescindibile per il regista statunitense, dovendo essere un luogo di confronto e condivisione è fondamentale in
esso “dare forma a una esperienza comune” (Sellars in Marranca [2004] 2006,
149) e questo può avvenire solo sulla base di una consapevolezza profonda del
contesto in cui si agisce. Sellars lavora con artisti americani e crea negli Stati
Uniti le sue produzioni nella convinzione che il teatro debba “fondare le sue
radici sulla sua infanzia, sul suo futuro condiviso, sul suo passato in comune”.
Porta nel mondo le sue opere consapevole del filtro culturale americano che
propone alle altre culture ed è cosciente di metterlo continuamente in discussione. Il teatro richiede la comunicazione e il dialogo perché “riporta sempre
alla questione della democrazia”. Questo aspetto è centrale nella poetica di
Sellars che non si stanca mai di dichiarare continuamente il debito che il teatro
contemporaneo dovrebbe riconoscere con la tragedia greca.
Nell’ottica del regista statunitense, il teatro dovrebbe ritrovare la funzione per
cui è nato, ossia come “una delle prime pietre miliari nella storia dell’istituzione della democrazia” che “forniva ai cittadini l’informazione di cui avevano
bisogno per votare, facendo loro udire voci che normalmente non ascoltavano”.
E come modello di riferimento per il teatro contemporaneo assieme al potere
visivo del teatro greco Sellars rivendica anche “il potere acustico” e “lo spazio
sonoro, spazio d’ascolto” proprio del teatro antico che era pensato, anche in
funzione di questo, in termini architettonici. In questo spazio sonoro, in questa struttura pubblica che contempla un posto per ogni cittadino, trovano collocazione le voci che sono ignorate nei centri di potere, in questo senso il teatro
è il luogo fondante della democrazia. Il proprium del teatro secondo Sellars è
la condivisione dello spazio, e questa peculiarità lo distingue profondamente
dal cinema; è fondamentale tenere conto di questo aspetto nel momento in cui
si considera la trasformazione che il teatro ha subito nel Novecento a seguito
dell’influenza dei nuovi media. Il teatro è sì il luogo della visibilità ma è anche
il luogo della condivisione e questo aspetto, secondo Sellars, ne sancisce anche
la priorità; perciò nell’intervista pubblicata in questo stesso volume afferma:
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La creazione del frammento
Nel teatro tante persone si riuniscono in uno spazio che alla fine della serata
non è né il ‘mio’ spazio né il ‘tuo’ spazio, ma uno spazio condiviso dove si ha
un’esperienza condivisa, dove i confini sono dissolti. Per il cinema non è così: il
film ha il proprio spazio e il pubblico, a sua volta, ha il suo; è uno spazio mentale
perché lo spazio fisico non è lo stesso. Quindi per me la ragione per cui il teatro
ha la priorità è proprio la condivisione. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)
La consapevolezza della natura intrinsecamente democratica del meccanismo
teatrale sembra essere derivata anche dalla concezione che l’artista ha dell’idea
di democrazia nel suo valore fondante nella cultura americana. Quell’idea di
democrazia che proprio rispetto all’antico modello greco ateniese è stata parte
costitutiva del mito di fondazione della cultura e della politica americana; a
questo proposito Sellars è molto esplicito:
L’America è stata fondata con molta consapevolezza su dei principi ateniesi, nel
tentativo di capire la democrazia ateniese, e con altrettanta consapevolezza le strutture del nostro governo si sono basate sui modelli di Atene, sui testi classici. Non
è a caso che in America l’ufficio postale abbia i capitelli corinzi, o la Casa Bianca
un’architettura che si rifà alla classicità greca. Queste cose non sono a caso: ci siamo
costruiti nell’immagine di Atene e su quella che era la promessa della democrazia
ateniese. Per me i testi greci sono fondanti del mio paese, non fondanti di un qualsiasi altro paese: per me hanno un significato personale. E credo che lo abbiano
avuto anche per Jefferson e Franklin che hanno anche dibattuto a lungo su questi
temi, cercando di tirarne fuori un futuro, cosa che non era stata possibile nell’Atene
di Pericle, che infatti è collassata. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)
Ed è rispetto al costante pericolo del collassare della democrazia o al pericolo
della sua crisi, del suo misconoscimento che Sellars impronta l’azione del suo
teatro. Si tratta di un’azione politica, ma anche di un’azione estetica e culturale,
per cui rispetto alla politica intesa in senso stretto la finalità non è quella di
ottenere nell’immediato un qualcosa, ad esempio la riforma di una legge, ma
di agire in profondità, per mirare a una trasformazione che avviene nel tempo,
attraverso le generazioni e con delle conseguenze a lungo termine. E questo, secondo Sellars, è il proprium della dimensione artistica in cui si colloca il teatro.
Anche per questo, per la natura eminentemente poietica del teatro, Sellars afferma che il suo lavoro implica “la creazione di un autentico sistema mitologico, in
cui risuonino una serie di immagini, e che permetta a una certa società di parlare
a se stessa” (Sellars in Shewey 1984, 24). Si comprende questa affermazione se si
considera che nel teatro di Sellars il visivo e auditivo sono considerati inscindibili
e il significato della parola mito è ricondotto all’accezione del ‘dire gli universali’ coniata da Aristotele a cui di frequente il regista fa riferimento; e il mito
è ugualmente ricondotto anche al significato personale dell’esistenza singola, e
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La creazione del frammento
nella vicenda incarnata individualmente dal personaggio teatrale in cui ‘risuona’
il valore universale. Il concetto di risonanza, che ricava dalla conoscenza dell’uso
del suono nel teatro Nō, è indicativo per Sellars dell’importanza della musica nel
teatro al punto da fargli affermare tra i due una perfetta equivalenza o – che è lo
stesso – di non essersi mai occupato di prosa in vita sua (Delgado 1999, 28). Per
questo considera l’opera il genere teatrale da privilegiare, per l’utilizzo della musica che, se da un lato ha una formulazione completamente astratta – gli artisti
cantano note e non si confonde il cantante dal ruolo che impersona – dall’altra
implica anche una identificazione emozionale totale, e questi due aspetti sono
simultanei, implicando al tempo stesso distanziamento e immediatezza emotiva
(Trousdell 1991, 67-70). Per questa stessa ragione può affermare come la poetica
brechtiana sia stata redenta dalla musica e che la musica implica di per sé un
effetto di straniamento. L’opera è da privilegiare in un’epoca in cui la questione
dei rapporti e delle interazioni tra le cose è centrale:
Per la sua dimensione multilingue, multiculturale, multimediale, per il suo aspetto
diacronico, dialogico, dialettico, per quel strano diletto che provoca, è la sola forma
capace di evocare e di rappresentare la simultaneità degli eventi, la loro confusione,
la loro giustapposizione, l’amara tragedia del mondo – in breve, tutto il caos che
costituisce la trama della storia contemporanea. (Sellars [1989] 2003, 16)
Sellars intravvede nell’opera la tragedia greca analizzata da Aristotele: “Nella Poetica sostiene una sintesi ibrida composta da musica, danza, poesia, di pittura e
di spirito civico”, genere che è stato continuamente reinventato nel corso delle
epoche fino ad arrivare alla contemporaneità. L’amore per l’opera lo ha portato
ad occuparsene di frequente e a essere il più delle volte iconoclasta rispetto alla
tradizione consolidata del genere. Un esempio significativo di reinvenzione di
opera è Kafka Fragments andato in scena per la prima volta nel 2005 a New York,
e portato in Italia nel novembre del 2010 al Teatro Palladium di Roma, in occasione del Roma Europa Festival. Quest’opera, come molte altre, affronta un tema
ricorrente nelle produzioni di Sellars: il confronto tra culture diverse che si ritrovano a vivere assieme, la questione della condivisione, della comunione. Il regista
infatti non si stanca mai di ripetere che la questione fondamentale del XXI secolo
è come condividere il territorio e le risorse pianeta: è la massa di persone che abbandonano le loro terre in cerca di cibo, protezione, asilo nel mondo occidentale.
Kafka Fragments è messa in scena dell’opera composta da György Kurtág per
soprano e violino su una tessitura di frasi tratte dai diari, lettere e aforismi privati
di Franz Kaf ka. I Kafka Fragmente, creati tra il 1985 e il 1986 dal compositore
romeno naturalizzato ungherese, sono costituiti da quaranta frammenti, divisi in
quattro parti, che musicati durano da una manciata di secondi fino a sette minuti.
I frammenti che il compositore seleziona da Kafka sembrano corrispondere allo
stile aforistico che lo contraddistingue, in cui brevità e profondità fanno la quaQe • 03 • novembre 2012 • Pensiero in azione • ISBN 978-88-98260-02-7
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La creazione del frammento
lità delle sue ricerche sul suono. Questi frammenti sono estratti dal contesto
d’origine e ridisposti secondo delle costellazioni a cui Kurtág dà una coloratura
esistenziale e psicologica, e non a caso dedicherà l’opera alla sua psicoanalista.
I temi che emergono dalla selezione sono vari: si spazia dall’amore, il sogno, la
disperazione, l’esilio, alla salvezza, gli animali, il sentiero, il suolo. Portati sulla
scena i frammenti sono cantati da un soprano e musicati da un violino, accostamento ardito, ma coerente alle sperimentazioni di Kurtág, se si pensa che il
suono risulta più acuto della voce diversamente dal canone che vuole il suono
più grave rispetto alla voce. Soprano e violino si avvicendano così per tessere
la partitura dei frammenti, che sono scollegati come in un flusso di coscienza
ma trovano un fil rouge proprio in questo duetto di voce e suono, in cui spesso il
violino gioca con le onomatopee aiutando così la recezione del testo cantato. Ma
soprano e violino sono anche personaggi: Sellars attribuisce alla prima il ruolo di
una casalinga e al secondo quello di un musicista da strada. Per cui i frammenti, altissimi nella tensione poetica che sprigionano, vengono catapultati a terra,
perché cantati dalla casalinga impegnata tra una faccenda e l’altra. Il passaggio
tra un atto e l’altro è scandito dall’avvicendarsi della casalinga tra una tavola da
stiro, un secchio, uno straccio, una ramazza, nella volontà di creare un contrasto
forte tra le altezze dello spirito ma anche le passioni dell’anima e la banale realtà
quotidiana.
E il violino accanto incarna nelle intenzioni del regista lo zingaro che solo, per
strada, non ha una casa e non avrà mai una casa. Il tema del frammento è da Sellars strettamente collegato a Kurtág e alla sua condizione di rifugiato. Si tratta
di fatto dello stesso valore che acquisisce il frammento nell’esperienza dell’esilio
osservata anche per Brecht. Kurtág più precisamente compone i Kafka Fragmente in virtù del suo essere rifugiato, avendo alle spalle l’esperienza dell’esilio
a seguito della rivoluzione ungherese del 1956. La frantumazione è tutto quello
che rimane della vita precedente; ovvero come nel caso di Brecht, è l’unica forma di pensiero di cui si è capaci vivendo in una condizione precaria di esilio. E
dai frammenti c’è la possibilità di ricominciare la ricostruzione per una nuova
esistenza: Sellars riconosce questa condizione come propria dell’esperienza degli
immigrati, che ricostruiscono le loro vite e creano nuove narrative dai pezzi rotti.
I frammenti tratti dalle macerie trovano quindi nella composizione la possibilità
di una nuova combinazione e di una ricostruzione; quello vuole far vedere in
scena Sellars è infatti anche un grande meccanismo in cui vengono montati e ricomposti i frammenti che sono leggibili su schermi alle spalle dei due personaggi e si alternano a una serie di immagini proiettate di continuo, che fanno da eco
o da contrappunto ai testi. Si tratta per lo più di immagini di persone – come ci
racconta Sellars in occasione di un’intervista alla prima romana dello spettacolo
– “coinvolte in progetti di recupero, in comunità per alcolisti e tossicodipendenti:
persone che avevano la vita a pezzi ma che hanno iniziato a raccogliere i pezzi
per ricostruirsi la vita” (si veda, infra, Intervista a Peter Sellars).
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La creazione del frammento
L’idea del frammento è intrinsecamente legata a quella di montaggio. Ne è
parte costitutiva, la particella elementare e però allo stesso tempo rimanda alla
composizione, all’intero senza avere la pretesa di esserlo; per questo incarna
“l’idea di una verità frammentaria” e però in grado di rappresentare la verità,
perché “non pretende di essere totale, perché dice sin dall’inizio che è una
comprensione parziale, e non pretende di essere l’intero”.
Il frammento apre all’intervallo, all’interruzione della narrazione permessa
dall’operazione del montaggio che, interrompendo il flusso normale della narrativa, lima i margini della verità, o di una particolare narrazione per sovrapporne altre. Per Sellars l’uso del montaggio è un meccanismo tanto potente
perché “crea una situazione in cui guardi le cose da tante sfaccettature anziché
da una sola, da tanti punti di vista differenti”. Allo stesso modo “la narrazione
non è mai una singola narrazione, ossia non vi è un singolo montaggio: ma
sono sempre narrazioni ‘multiple’, ovvero immagini multiple. Tutto è multiplo
e dunque vi è spazio per molte narrazioni e meta-narrazioni”.
Il meccanismo del montaggio è quanto è esplicitamente utilizzato in Kafka Fragments sia nella composizione di Kurtág che nella messa in scena del regista americano, e scopertamente visibile a partire dalla sua particella costitutiva elementare: il
frammento. Ma il montaggio è anche il metodo con cui Sellars compone le sue opere
sia che si costruiscano su vicende sia che non abbiano una trama definita, o immediatamente riconoscibile. In entrambi i casi il montaggio è cruciale, e come ha osservato
lo stesso regista si tratta di un meccanismo assolutamente contemporaneo ma allo
stesso tempo antico, si tratta della stessa tecnica con cui lavoravano i tragici greci:
Sofocle creava sempre degli episodi che poi venivano tagliati e in cui inseriva
il coro: in lui non vedi il dispiegarsi degli eventi nel tempo reale, c’è tantissimo
che non mostra, anzi esclude. Sofocle presenta un momento molto specifico
nel tempo, poi taglia in un altro momento e affianca questi due momenti nel
tempo contigui: ciò ha un impatto emotivo straordinario, esattamente perché
Sofocle lavora al montaggio di questi pezzi. […] Da questi momenti distribuiti
nel tempo che normalmente non vengono attaccati assieme, ma che vengono connessi grazie a questa tecnica, si ottengono dei contrasti molto intensi e
molto estremi. Si crea una crisi, ma anche qualcosa di più profondo, ossia la
consapevolezza che tutto è connesso. (Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)
Il frammento è divisione e congiunzione al tempo stesso, e frammento è parte
nella misura in cui può valere per il tutto senza sostituirsi ad esso: nel montaggio, come aveva notato anche Ejzenštejn vale il meccanismo della pars pro toto. Il
frammento, la parte, lo specifico è sempre l’indicazione per sineddoche di qualcosa di più vasto, per cui, sempre secondo Sellars nella parte c’è l’incontro tra realtà condizionata e realtà incondizionata, e sempre rifacendosi alla tragedia greca:
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La creazione del frammento
Edipo Re è una realtà condizionata: c’è quella madre, quel padre, tutto nella sua vita
era basato su un certo numero di condizioni; ma d’altro canto, quello specifico gruppo
di condizioni porta a una realtà incondizionata. Come esseri umani noi non sappiamo nulla di noi stessi, le specifiche condizioni di quella realtà condizionata sono un
indicatore della realtà incondizionata, di una verità più grande che in qualche modo
guida la verità più piccola. Quindi sei dentro a un rapporto di verità relativa, di verità
condizionata, di verità provvisoria e di verità più grandi, che rimangono tali attraverso
un tempo più o meno lungo e attraverso periodi della storia più lunghi e vite diverse.
(Si veda, infra, Intervista a Peter Sellars)
Questa frizione tra condizionato e incondizionato si gioca nel presente teatrale
dove si incontrano due temporalità: il kairos, il tempo opportuno, si interseca
con l’aion, il tempo aoristico. Per questo Sellars afferma che:
La bellezza del montaggio è che si contrappone un’esistenza precedente con
un’esistenza che è ora. Mettere due cose una accanto all’altra, ha l’effetto di
scioccare attraverso il processo lungo delle loro esistenze, cattura l’attenzione
proprio perché si avverte un salto nell’ordine delle cose, e non si percorre, invece, il lungo sentiero tra loro.
Allora il frammento:
Il pezzo di giuntura che viene inserito diventa quel lungo sentiero: ed è lì che ci
sono i secoli, che quindi passano tutti in un inserto, in un punto solo. Quindi tagli vengono fatti attraverso il tempo, attraverso lo spazio e attraverso il processo...
In questo senso si comprende anche il valore di tipicità e universalità precipitato nel frammento. E se colleghiamo le parti attraverso giunture, questa
interconnettività, ci insegna Sellars, si chiama poesia.
English abstract
On the occasion of the Italian premiere of Kafka Fragments, the Peter Sellars’ staging of the
opera by György Kurtág, this paper proposes a reflection on the American director, on his idea
of mythology in the present day and the importance of classical cultur in his work.
Riferimenti bibliografici
Adnan 1976
E. Adnan, Intervista con Robert Wilson, trad. it. in F. Quadri (a cura di), Il teatro di Robert Wilson,
Venezia 1976.
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Delgado 1999
M. Delgado, “Fare teatro, fare società”: un’introduzione al lavoro di Peter Sellars, in M. Delgado,
V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Catanzaro 1999.
Marranca [2004] 2006
B. Marranca, Etica e performance: domande per il XXI secolo. Conversazione con Peter Sellars, in
V. Valentini (a cura di) American Performance 1975-2005, Roma 2006.
Sellars [1989] 2003
P. Sellars, Sorties et entrées, trad. fr. in Peter Sellars. Les voies de la creation théâtrale, Paris 2003.
Shewey 1984
D. Shewey, I Hate Decoration on Stage: Director Peter Sellars Talks about Design, “Theater Crafts”
(gennaio 1984).
Trousdell 1991
R. Trousdell, Peter Sellars Rehearses Figaro, “The Drama Review”, 129 (primavera 1991).
Valentini 1999
V. Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars, in M. Delgado, V. Valentini
(a cura di), Peter Sellars, Catanzaro 1999.
Pomarico [1997] 1999
P. Sellars, La vera vita del teatro, intervista a Peter Sellars di A. Pomarico, con interventi di F.
Maurin e J. Féral, in M. Delgado, V. Valentini (a cura di), Peter Sellars, Catanzaro 1999.
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Appendice
“There is a cloud in a piece of paper”.
The actuality of myth in the theater of Peter Sellars*
Daniela Sacco: I read some interviews with you in which you talked about ‘making
mythology’ or creating ‘mythological systems’ where ‘images resonate’. Could you tell
me what do you mean exactly by these expressions? What does mythology mean to us
nowadays?
Peter Sellars: I think many things have to do with your childhood, certain
images that you have when you are very small and coming into the world and
when you are deeply impressionable. Later in your life you have experiences
that touch those very deep early impressions. So it’s very much in the same way
that psychologists understand that life habits are formed at a very young age,
by your first perceptions and by this early period of taking things in. And that’s
why people are beginning to realize that the most important thing you can do
is to make sure that in the kindergarden children are really take care of. Actually the deepest investment in a human being is early on, not later, and what’s
really empowering is this early time. That’s when somebody is empowered or
disempowered as a human being. So the impressions that you have at this time
in your life create a kind of “echo-chamber”, which means that later, when you
feel something touching those impressions, it goes to the core of your being
and your formative moments as a human being. So it doesn’t just become more
information, it actually touches something that is very, very deeply at the core
of your individual identity. Now just to take Plato a little further: our childhood
is also many previous lifetimes and so these impressions actually go back many
many lifetimes and so what happens is that we are in the middle of an impression that was created a hundred lifetimes ago. Suddenly something touches that
core of our being from some previous lifetime: that’s mythology. It’s something
that you know very well from an early formative time in your existence. This
“echo-chamber” is set up. So there is a resonance and resonance is something
very special that happens in classical music. I would suggest you to hear this
performance of Kafka Fragments in a really beautiful concert hall. For example,
in London, we did it in the Barbican’s concert hall, where the London Symphony Orchestra plays. This hall is made entirely of wood, wood is everywhere.
So when Geoff Nuttall plays the violin the resonance of the wood against the
wood creates warmth, there is a special intensity and this presence of the sound.
* English editing by Silvia Schiavinato and text revised by Jenny Condie.
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Here in Rome, the Palladium’s architecture is really made for rock music. So there
is no resonance, the violin is a little cold, a little alone and “notes are just notes”. Whereas resonance is when the environment responds, and a sound or
an impression goes further than itself, because the environment recognizes it,
has in some sense a solidarity with it, a relationship that is sympathetic. So an
impression becomes deeper, richer, more profound. To give another example,
in Los Angeles we have an amazing concert hall, designed by Frank Gehry, the
“Walt Disney Concert Hall”, where we did Kafka Fragments. The concert hall
was built by Yasuhisa Toyota, using the same building techniques employed in
traditional Japanese Nō theater, in which everything is made of wood. But in
Japan, drums are placed underneath the stage, so when the actors walk around
there is a very strong resonance, because the stage itself actually resonates like
a percussion instrument. The same is true for Epidaurus. Acoustic quality was
enormously important question in Greek aesthetics, because in Greece theater
was all about acoustics, sound, and the mask-persona through which sound
was made. Everything was about this question of resonance, and the Greeks
were really concerned with something that touched some inner part of your
being, that was not just the surface. Just like Mr Toyota designing the concert
hall according to the Japanese principles of Nō drama, with smooth surfaces
under which there are these big drums that resonate and hold the sound. In
Greek amphitheaters the sound was held by the curves of the architecture of
rectangles, but an architecture which was deep resonator, that held sound in
this special way. This receptacle is so important because it receives, holds and
amplifies. So it’s not just taking something from outside and bringing it in, but
the resonator is actually inside the human being.
D. S.: I would like to ask you about your idea that theater ‘reveals the invisible’.
What do you mean by the invisible? What is invisible? Is there any connections with
what Paul Klee said when he stated “the arts don’t reproduce the visible but make
visible”? Is it possible to speak in the same terms about the theater?
Peter Sellars: Very simply: courage is all around us, but it’s invisible, you can’t
touch it. Love is everywhere but it’s not visible. The most important feelings, the
most important arts, the most important principles of your life are all invisible.
The visible world has almost nothing to do with your feelings and the visible
world is a miracle: the light on the trees at the end of the day, in Rome yesterday
was unbelievable; the full moon coming up in the later afternoon... The visual
world is magnificent, but as the Koran says, the world is a book made to be read,
and beauty is not just the moon, the sunset, the swallows making their patterns
as they come down to the river, but it is also a message: you learn to read the
sky, you learn to read the moon or the sun. These are all texts, they are also a
message about a larger creation, about the longer length of a life’s cycle. So the
visible world, as the Koran says, is a sign, and not itself the object. I feel about the
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“There is a cloud in a piece of paper”
musical score of Kurtág and Kafka, that it’s neither the beginning point nor is it
the end point. It is the vessel, the journey. It’s not the destination and it’s not the
point of departure. The point of departure has to be something deep inside you.
So if you are having some deep experience, when you look at the sky, you see all
kind of things and the sky means all these other things. The visible world is only
made to be activated by your own inside, feelings and inner life. But also again,
in reverse, it’s made also to activate and reawaken your own life’ questions and
to remind you that you have been given another day, that the sun will rise again
and that you can try again. These are all profound messages and so the circles
in the world and the straight lines are, as Plato said, an indication of another
geometry, another kind of order. I believe that this is science’s power, that is why
I believe that art is a parallel of science, that it is looking at the visible world for
its inner principles and for what else it is telling us. Not as a ending itself, but as
an indication of larger realities or more specific patterns and order, a deep order.
D. S.: You have talked elsewhere about your formative experience with puppetry
and cinema; could you tell me why you decided to work mainly in the theater rather
than in film?
Peter Sellars: For me it’s probably the social element that makes theater more
important: theater is sharing space and the whole question of the XXI century is ‘Can we share the planet?’. Can we share the planet with the rest of the
world? With other people? This question of ‘Do you receive foreigners?’ was
one which of course obsessed the Greeks. What is it that is not shared about
life in this planet? The most powerful thing is not to build the wall between
Israel and Palestine or between the United States and Mexico, but to ask the
opposite: what do we share? Theater is the search for what we share and the
assertation of what we find. In theater a lot of people come together in a space
which, by the end of the evening, becomes not “my” space or “your” space, but
a shared space where we had a shared experience. Where the borders are dissolved. Where we truly find these points of shared experience in space. For me
film doesn’t share space in the same way: film has its own space, the audience
has its own space; it’s really a mental space, but the actual physical act of sharing a room together is not the same. I think that the reason why for me theater has such priority has to do with the land rights of indigenous people, the
water rights of indigenous people, the fact that again farmers are committing
suicide in India and in Ohio. This question of land and how we share this land
and how we treasure it. The earth isn’t just something to be divided up and
sold, it’s sacred. We have to admit the sacredness of the earth, of the food, of
the air, of the water. You can’t just buy or sell it. There is something sacred, the
water belongs to all of us: when Coca-Cola company buys all the water in the
world – which is what it is trying to do – we have a crisis. So really this shared
space, reminds everybody that the earth is sacred, the air is sacred, the water
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is sacred, the light is sacred, the plants are sacred, the animals are sacred, that
life has a sacred dimension; not in the manner of organized religion but in the
manner of theater. Where everything has its resonance, its aura, its mistery,
its depth. It becomes more touching, it becomes something infinite. We have
a finite quantity of water, but an infinite level of generosity. Certain things are
infinite: love, courage, generosity, honesty. Other things are limited: the domain of water, the domain of land. It’s really about understanding how we use
the things that are infinite, and how we correctly use the things that are finite.
Theater is the meeting place of that infinitude and this specific social limitation which is about sharing. Cinema is a great language, I have a great love of
cinema before cinema: Chinese watercolour painting, or traditional Chinese
and Indian theater, or Javanese shadow puppets, or cave paintings. They were
all cinema before cinema: this cinematic impulse is so deep, it doesn’t come
only from the XIX or XX century, nor do the ideas of montage and cutting...
D. S.: Yes, I would like to discuss the importance of montage for you in the way you
construct theater. I think it’s really important today, for the theater as well as the
cinema. Did you learn about montage from cinema?
Peter Sellars: Montage is crucial; it’s also in Sophocles’ works. Sophocles always
created some episodes that he then cut and in place of those episodes he put the
chorus. In Sophocles you can’t see simple real time, because there is a lot that he
doesn’t show, that he cuts out. He only gives you a very specific moment in time
and then he cuts to another moment in time and then he puts these two moments in time next to each other. It has an incredible emotional impact, precisely
because Sophocles is constructing his pieces, in chorus even more so, from these
moments in time that normally will not come together, and by putting them right
next to each other, the contrasts are so intense and extreme that he creates a crisis,
but he also creates the deeper thing which is that everything of course is linked.
Montage is simply saying: any two things in the world are connected. And we
are going to connect them across this supply and the interconnector is the poetry:
this chair isn’t just this chair, this theater isn’t just this theater, so nothing is just
itself. Everything is itself in relation to this question of interrelation and that is
where montage is so exciting, because it really sharpens, and heightens and deepens that sense of relation. When I was in university my obsession and my thesis
was about Meyerhold and Ejzenštejn, and the dawn of cinema. I was influenced
by silent cinema. I really specialized in Griffith, early Hitchcock, Godard... but
in terms of silent cinema, the really great period of my life was in Brussels, where
in my twenties I worked on many projects, and where there was a cinemateque
that every night showed two silent movies, with live music. So I lived there. I love
the idea of cinema and live music. In this Godardian way, the soundtrack and the
image-track are different: you have the tension between the soundtrack and the
image-track. That’s a very satisfying thing, rather than the Hollywood thing that
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the soundtrack is the slave of the image-track. I love having not a “master slave”
relationship, but a relationship between two consenting adults, who can agree or
can disagree, and can come together or separate. So for me that’s one very exciting
element of montage: montage separates sound and image, and creates the possibility that each can have the wrong narrative flow and narrative dimension, then,
when they come together, a complex experience is created.
D. S.: I’d like to know more about the relation between mythmaking and montage.
I think that both myth and montage are ways of describing the relation between particular and universal, in the sense that both tend to represent the “typical”. I’m thinking about the concept of the generalized image and of the pars pro toto in Eisenstein’s
speculations on montage. Do you belive that there is such a relation?
Peter Sellars: Yes, and the relation is also between metaphor and metonymy.
An example that I often give is that of the Buddhist image of the piece of paper and the cloud; the idea is that when you see a cloud you see a piece of paper,
or when you see a piece of paper you see a cloud. That’s because a piece of paper
comes from a tree, and for that tree to have become a piece of paper, there had
to have been a lumberjack cutting down the tree and there had to have been
a paper-mill, there had to have been the lumberjack taking his lunch break.
There had to be everything in world because it becomes a piece of paper and
you can see it. But for the tree, which is in the forest, there had to have been
the sunlight, the rain, a cloud... So, when you see a piece of paper, you see a
cloud. It’s because, as the Buddhists say, everything contains everything and is
not just itself: a piece of paper is not only made from paper but from elements.
This is really important. Plato imagined that we had been in this world before, that our corpses decomposed and came back as trees, as rocks, as plants,
as animals, hundreds times. It’s not just a poetic image, it’s a physical reality.
We have decomposed many times and come back in some other forms. So this
is physical as well spritual process. The beauty of montage is that it counters a
current existence with a previous one: again the inter-relatedness of things that
for piece of paper to exist there has to have been a cloud. So, in the same way,
if two things are put next to each other, the relatedness that is all of a sudden
apparent shocks you and grabs your attention because it makes you jump all
the other links, taking a shortcut between one thing and the other. Montage is
where the long path is, where the centuries are, so they cross in one place. Cuts
are made across time, across space, across process...
D. S.: Is it in these cuts that the “typical” manifests itself?
Peter Sellars: Montage goes from the specific to the understanding that the
specific is an indication of something larger, again as the Buddhists say: conditional reality versus un-conditional reality. Oedipus Rex is a conditional reality:
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because he had this mother, this father, everything in his life is based on a particular set of conditions; on the other hand that specific set of conditions takes
you to a conditional reality which is an indicator of un-conditional reality, of a
larger truth which is somehow guiding this smaller truth. So you are in a relationship of reality of truth, of conditional truth, of small truths, of provisional
truth and of larger truths. They are the main truths across larger piece of time,
larger pieces of history and different lifetimes.
Daniela Sacco: Your theater is created in America and it is directed at an American
audience, though it is also naturally, international in scope and in its reference to other
cultures... Do you think that American culture has anything to teach to European
culture?
Peter Sellars: Sophocles, Mozart and Shakespeare were writing about America!
They were all American! They were writing very specifically about my country:
in a strange way, they were all writing about power, about the handling of power.
Today of all the countries in the world, America is the one that is truly experiencing what those people were writing about. Every catastrophic social mistake
that America has made in the last 20 years, Europe has repeated 5 year later.
I could say: there is nothing to learn from America. The sad thing is that you
have terrible things to learn, if this is how you start treating refugees, if you build
more prisons, if this is how you conduct war, all of these are actually horrible
things that have destroyed Europe over the last 20 years. Because Europe imitates America and European politicians imitate American politicians:vwe are
seeing a catastrophy with Mr Berlusconi, with Mr Sarkozy, all of whom learned
their conduct from America. So I feel, as an American coming to present things
in Europe that I am giving Europeans a picture of what will soon be very familiar to them and I try to warn people: ‘This is what’s coming’ and I’m sorry
to say that the whole world is deeply influenced by America at this moment.
Everybody is closing their borders, everybody is waging economic war, everybody is becoming egoist and selfish and the result is economic and social stagnation
in America, and now in Europe as well. So you watch Europe cutting itself off
from the future and going backwards into a false image of the past: it’s painful.
Right now in America and in Europe you see the rise of fascism again, it’s back:
for example in Holland, whath incredible for me in this Kurtág piece, was the
image of the gypsy violinist on the street who is homeless who will never live
anywhere. The Romanian sound of Kurtág is, of course, the sound of that Europe which was almost totally annihilated in Auschwitz and yet Mr Berlusconi
continues his politicies unchecked. I feel that from America. I think Bulgarian
theater becomes universal when it is most Bulgarian, not when it tries to imitate
something else: I think we should always speak our own language as deeply as
possible, with its own specificity, its own interiority. Not just speak some other
language which nobody else speaks. I think we all have to speak our language
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“There is a cloud in a piece of paper”
with our own deepest articulation and our ability to get in touch with culture
through that language. In Japan people see in America some things that they
recognize, other things they don’t; but I believe humanity has a sort of mirror
where we all look at ourselves: it’s really interesting to look in a mirror of Sophocles, of Shakespeare and find yourself, and so for me that’s why these texts exist:
it’s not that they have a certain truth. There is no one truth in a certain moment,
in a certain way from a certain group of people but quite the opposite: certain
texts are mirrored across all of human history and every generation find itself in
a mirror and that’s what’s powerful.
D. S.: Do you believe that America should be a reference point for its youthful cultural
approach?
Peter Sellars: I have to say that America was very consciously founded on
trying to understand Athenian democracy and the structures of our goverment and our country were based very consciously on models from Athens
and on classical texts. It’s not an accident that in America the post office has
these corinthian columns, or that the White House is built in the style of
classical Greek architecture. These things did not come about casually: we
were modelling ourselves after an image of Athens and what the promise of
Athenian democracy held. For me these Greek texts are the funding texts of
my country. I think that Thomas Jefferson and Benjamin Franklin also took
these texts very personally and struggled with them, and tried to draw from
them a future that had not been possible in Periclean Athens which eventually,
of course, collapsed. So it’s like saying that America is young, but compare to
Periclean Athens, it is old: democracy has been going on longer in America
that anywhere else right now, and has run into real and serious problems. Democracy is really threatened right now by money, as it is here in Europe and
everywhere else. Euripides and Sophocles were very clear about that and they
said very simply: do not let money replace democracy. They knew that this
was the crisis point. So I look at these texts and I see my own country, both
in terms of ‘where we are right now’, but also in terms of what the founding
principles and myths were.
D. S.: Do you think that American culture has a special relationship with myth, or a
particular sensitivity where mythology is concerned?
Peter Sellars: Yes, because America was already mythmaking from the outset
and its goverment has always been seen through the prisma of mythology. The
mythology of the Kennedys, the mythology of Richard Nixon: the mythology
of that all American leaders are mythical, as well as real people, and all of them
have known how to construct and use myth. So American culture has been actively using the mythic from the beginning, because it was a country based on a
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larger idea, it was not based on ethnicity or any of the things that countries are
usually based upon: it was a new idea, and therefore it wasn’t for the people, who
had always lived there, because they were actually excluded, it was a mythology
only for the people, who arrived there, plus all the slaves. So it was a strange
country like no country that had ever existed before: it became a country of the
mind, you have to imagine it, you have to say: ‘Ok, we are working on a large
project’. And this large project was where all the Americans were and were they
were represented. New America wasn’t just a country of facts, it was a country
that represented certain values, aspirations, achievements: people from all over
the world went there looking to build a new life, a new future. I don’t think
that there is a country in history that had a incentive like that. It was a very
unique mythology. People from all over the world said: “We will go to America
and that’s where our future is”. That’s incredible, generation after generation did
that, and they created the future for themselves. That’s why America was able
to create this kind of economic and social miracle, in spite of all its flops. So it’s
just amazing, and it was due precisely to these higher ideals, that were Athenian.
We made this country with a completely different selfimage; and that’s why it’s
a nightmare when this country says no to immigration, and that English is the
official language of white people only and judges all these other things to be
An-american: because it’s a violation of the founding principles of the country.
D. S.: Your theater is political: so do you think that the mythical function of theater
is political as well?
Peter Sellars: Yes, especially because myth is always moving in two ways: in
one sense it is empowering because theater puts us in the presence of great heroic actions of a previous era and so it lets us think that if in the past they could
do these things, then in this era too we could do them. Theater can be really
inspiring in this way. But, at the same time, it can be horrify: it can act as a
warning to control human ambition, when human ambition is political or economic or concerns honor, control or possession of hybris. Whereas mythology
is very empowering when it is about thinking in larger and more creative ways,
which across time and space invite you to share a larger idea of humanity, of
human possibility. So mythology works in both directions: it’s a window on
the infinite and also a reminder of human limitations. That’s what’s powerful:
it is unlimited, infinite, it opens your mind to shocking visions, but at the same
time it says: “Watch out, those who ignore the limit will be killed”.
D. S.: Do you believe that the use of technology, which feeds on hybris, is a way to
make mythology?
Peter Sellars: Yes, it’s so simple. Technology is a rock, it’s a pencil, it’s a rocket
going to Mars: all of these are technology. Technology by itself is neutral: it’s
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just a pencil, whether you use a pencil to draw your daughter or a neutron bomb.
What you hold in your hand is still just a pencil. For me mythology always exists
in whatever form we have to communicate or to circulate information.
D. S.: So it’s in how we use technology that makes it human or inhuman?
Peter Sellars: Yes, technology by itself has no soul, it’s what you do with it:
that actually reveals its power. We’ve all seen really bad movies and really good
movies and strangely the mythology is in both extremes. King Kong is a really bad movie, but it gave people a myth that remains potent and dangerous,
racist and horrible. But it has remained nevertheless, and everybody has it in
his consciousness: white people imagining black people raping a white woman. All this is ugly stuff from a bad movie about an ape made in the Thirties.
Now why is it that this piece of kitsch, this piece of junk has had such a long
life? It’s interesting how these things work in our consciousness: certain things,
particularly bad things, remain. Now suddenly Harry Potter is everywhere in
these years. We have to ask, why is it that this particular mythology is making
a real connection right now in people’s imagination? What are people finding in
Harry Potter that resonates with their own reality? That’s a really crazy question
and maybe there’s a kind of strange longing for an ultra-conservative British
boys’-school, whith its strict discipline, but in which at the same time there is
total freedom to wave a magic wand and subvert the order. It’s as if there were
a strange longing in this generation for some really horrible and conservative
thing, where the answers to everything are simple and rigid, where there is an
order that cannot be questioned but, at the same time, where you have the magical powers to change everything. What is the Harry Potter myth feeding?
That’s such an interesting question right now. And also the need that everybody
has to remain a child forever: even thought the Harry Potter actors are adults,
they are still acting like they are fourteen years old. It’s like wanting to remain
in high school forever. It’s such a strange moment where you get these phenomena. Culture has to do with our projections of people fantasies. We are all
high school kids, but we are fighting larger forces. But, to come back to the
possible relationship between technology and mythology, for me the question of
technology is deeper. Technology is the new mythology in a really profound way.
I think of the revolution in Chiapas where sub-comandante Marcos has waged
mythological and real war. And because the facts of this struggle takes place
on the internet, it means that although we aren’t actually there in the jungle of
Chiapas, we are still there in solidarity. So, when the Mexican army attacks the
campesinos in Chiapas, all over the world this attack becomes part of our lives.
So the idea of people struggling in a remote place in Mexico becomes something
that enters into our consciousness and all over the world you can see posters of
the revolution in Chiapas. It is not just a revolution in Chiapas but it has become
an image, an empowering image for people everywhere. At the same time, the
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fact that they can go on the web and they can say that the Mexican army is attacking, they can alert people all over the world and this creates, for the Mexican
government a different set of choices and pressures, so the Mexican goverment
can’t do something that would obliviously violate the world’s opinion, which is
now in favour of the farmers in Chiapas. That’s a very interesting thing where
something is both reality and mythology: so in this moment in history, that place is both very present and very far away, and it presents us with certain things
that we have been imagining, in many parts of the world.
D. S.: Do you think that mythology could substitute of history?
Peter Sellars: Between history and mythology there is only an interplay: history
is what somebody said happened, so it’s already mythology. I’ll try to explain
myself better: think about an event. You were not there, but if you were there,
you only saw what you could see and the event is always bigger than what you
could see of it. So every time we describe something, it’s mythology because we
don’t have a complete vision and we have to depend on what somebody else tell
us. It’s only by this act of hearing, only by entering into this mythical sphere that
we can form a more complete idea.
D. S.: To come back to montage, in relation to what we have already said: do you believe that montage has a particular function in relation to the narrative construction
and could it enter into the relationship between truth and fiction?
Peter Sellars: What it is powerful about montage is that interrupts normal narrative flow and it sharpens the edges of truth. Normal narrative flow goes along
with whatever is happening, but montage questions each development, and it
puts each development up for examination by creating a situation which looks at something from different angles instead of from only one point of view.
That’s why montage becomes very powerful. You realize that history, that reality are composed of different facets like the eye of a house fly: and the more different facets you see, the more multi-dimensional reality becomes. So narrative
is not a single narrative, it’s not a single image, it’s not a single montage: every
narrative is “multiple”. Everything is “multiple” and therefore there is room for
meta-narratives and multi-narrative. There is a large narrative that is behind
the story which is being told and there are many smaller narratives that haven’t
been included in the story which is beign told. And so we know that all these
other narratives could, at any moment, intersect with other narratives.
D. S.: Probably, when you decide to cut a scene it’s always a political act...
Peter Sellars: Yes, and whenever the master narrative is interruped, that’s a
good sign. That’s why it’s so important to make fragments: because everybody
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knows that the master narrative is a “lie”. The big Hollywood movie, complete
with swelling orchestral music, is a total lie! Interrupting it is a good sign! The
only thing that we can trust is a small moment of truth that we can verify. We
can work with these fragments. We can recombine fragments in whatever way:
our lives, our societies have been broken, but out of everything that has been
broken, we pick up small pieces and put them together... Kurtág, for example,
wrote Kafka Fragmente out of his experience of beign a refugee: but what does
it mean? That when you escape under the fence, you have to abandon your
previous life. And all that remains is a few fragments, you hold on to them and
from those fragments you have to build a new life, wherever your life is continuing. This idea of fragmentary lives and fragmentary life, broken systems
and broken life experiences is really quite destructive emotionally and at the
same time strangely liberating. Like in this experience of immigrants, who are
actually rebuilding their lives creating new narratives out of the broken pieces.
I think this is a special form of narration, something that I really appreciate in
Beckett: it’s the understanding that the fragment is probably able to represent
truth precisely because it doesn’t pretend to be total, it already declares that it
is a partial understanding of someone, and because it doesn’t pretend to be all.
The form of the fragment is really satisfying artistically. Which is why, in this
century, the obsession with Greek ruins is growing: because a fragment is both
“unfinished” and incomplete and it will remain incomplete. This combination
of something which is permanently incomplete is very powerful and mythology is also that way, because mythology is always broken. There are many versions of the Medea myth: everybody disagrees on it, and everybody wonders if
what happened in this myth is truth or what the myth stands for. Everybody
has a different version, so everything is fragmentary: and from that fragment
something is recreated. We are all building a world where broken things are
strewn around – including our own life, emotions and hopes – and we have to
keep going: we pick up the pieces and move on...
D. S.: What we can do, sometime, is try to create different compositions...
Peter Sellars: Absolutely, that’s the powerful act of human perseverance and
determination. In Kafka Fragments there are some images in the background,
images of people in recovery programs, rehabilitation for alcoholics and drugtakers: they used their lives for sharing and they are now picking up the pieces
to rebuild their life.
D. S.: This could be a metaphor of the present...
Peter Sellars: It’s always the same: in Greek times everybody was arriving from
somewhere else, strange, faraway places, and they brought with them some
partial myths. When I was visiting Epidaurus my companion was Pausanias.
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He went from place to place, meeting different people with different stories to
tell. It was never a discussion of facts, it was about different stories: you listen
to a folk tale and you observe how one myth changes into another myth, so the
same myth is associated with another myth, with another meaning. I believe
it’s always that discussion, a discussion about broken pieces: by the time of
Pausanias everything was already broken, he had to reconstruct, with all the
contradictions, with all the missing and different pieces of information. I love
it! The same myth can be described by Sophocles and in a completely different
way by Euripides. In February I staged Händel’s Heracles, in Chicago, and
I based it on Sophocles The Trachinae... But when you say Heracles you ask:
which Heracles? It’s an important question. I’ve already staged Euripides’ The
Sons of Heracles, and there were many problems. The death of Heracles, for
example, is completely different: same character, completely different death,
completely different story, completely different trajectory... there are so many
Heracles! Where do I start? This, for me, is the perpetual question.
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volume pubblicato da Centro studi classicA
con il contributo dell’Università Iuav di Venezia
editing a cura di Silvia Galasso
Venezia • novembre 2012
www.engramma.org