1 -MATEMATICA La Matematica si è sviluppata nel tempo a partire dai numeri naturali e dai loro rapporti. La successione crescente dei numeri naturali non ha fine, è infinita perché fissato comunque un numero naturale è sempre possibile trovare un numero maggiore di esso. E’ una infinità inesauribile che si ottiene aggiungendo sempre ‘uno’ all’ultimo numero determinato; tale tipo di infinito potenziale viene chiamato infinito per aggiunzione. La definizione di infinito potenziale per una successione di elementi è appunto questa: la possibilità di procedere sempre oltre senza che ci sia un elemento ultimo. Si osservi che un infinito pensato come un processo per successive aggiunzioni, è ciò che si pone sempre all’esterno di quello che è già stato unificato dall’intuizione. Se immaginiamo di rappresentare graficamente la successione dei numeri naturali, dovremmo raffigurare una serie di punti separati (ed equidistanti) che si susseguono senza fine perché sarà sempre possibile aggiungerne ancora uno. Il concetto di infinito è stato elaborato dalla filosofia greca con valenze prevalentemente negative (come si può notare anche dalla parola che lo definisce nelle varie lingue: a-peion in greco, in-finitum in latino) ed è stato dalla stessa accettato solo come divenire, quindi come infinito potenziale rifiutando pertanto l’idea di un infinito attuale. Il rifiuto dell’infinito attuale nasce dal fatto che i greci ritenevano conoscibile solo ciò che è determinato, finito; tutto ciò che è indeterminato, infinito e perciò inconoscibile è quindi da rifiutare al punto che non solo viene respinta l’idea dell’infinito attuale, ma si accetta l’infinito potenziale solo come processo di ecceterazione, cioè come possibilità di procedere sempre oltre, un passo alla volta, ottenendo ad ogni passo quantità sempre più grandi, ma comunque finite. Anche i matematici greci di quel tempo Euclide, Pitagora, Archimede rifiutarono ovviamente l’infinito attuale, ritenendo lecita solo la concezione dell’infinito come divenire. Su diversi fronti della matematica, tuttavia, questa concezione dell’infinito entrò in crisi, suscitando dei problemi spesso insormontabili per i matematici del tempo e creando i presupposti per il superamento della stessa, superamento che inizierà a partire dai primi decenni del seicento ad opera di Galileo Galilei. I primi veri e propri strumenti algoritmici per il calcolo con gli infiniti e con gli infinitesimi comparvero nel Cinquecento. Solo nell’Ottocento, grazie all’opera di Chauchy e di Weierstrass, si assistette ad una revisione critica dei fondamenti dell’analisi infinitesimale, la quale venne sistematizzata, raggiungendo un perfetto rigore logico, mediante l’introduzione del concetto di Limite. Possiamo distinguere all’interno dell’analisi matematica più di un concetto di limite, partendo dalla definizione di limite ovvero: Si dice che L è il limite della funzione y = f(x) per x tendente ad un punto x di esistenza X e si scrive: del campo lim f(x) = ℓ x−x se scelto un ε piccolo a piacere quanto si voglia si può determinare in X un intorno di x tale che per ogni x di tale intorno si abbia: 2 | f(x)-l | ‹ ε Da qui ricaviamo le restanti definizione di limite: LIMITE INFINITO PER UNA FUNZIONE CHE TENDE AL FINITO Si dice che una funzione y = f(x) ha per limite l’∞ per x tendente a x₀ Lim f(x) = ∞ x−x₀ quando scelto un numero arbitrario N › 0 è possibile determinare nel campo di esistenza un intorno di x₀ tale che per tutti i valori di x di tale intorno escluso al più x₀ si abbia: | f (x) | N LIMITE FINITO PER UNA FUNZIONE CHE TENDE ALL’INFINITO Si dice che una funzione y = f (x) ha per limite ℓ per x tendente all’infinito Lim f(x) = ℓ x−∞ Se fissato un numero arbitrario ε›0 in corrispondenza di questo si può determinare un numero M 0 tale che per ogni x soddisfacente la relazione |x|›M si abbia: |f (x)-l|‹ε LIMITE INFINITO PER UNA FUNZIONE CHE TENDE ALL’INFINITO Si dice che la funzione y = f(x) ha per limite l’infinito per x che tende all’infinito: lim f(x)=∞ x−∞ se fissato un numero arbitrario N›0 è possibile in corrispondenza di questo determinare un numero M›0 tale che per ogni x soddisfacente la relazione |x|›M si abbia: 3 | f(x)|›N Ma il concetto di finito ed infinito come già ribadito nell’introduzione non è stato esaminato solo sotto l’aspetto matematico ma anche in ambito astronomico infatti: -SCIENZE Nel secolo scorso, la scoperta dell’espansione dell’Universo fu una vera rivoluzione, perché in contrasto con l’idea di universo statico,immutabile e quindi finito, dominante fino ai primi anni del XX secolo. Il movimento di allontanamento delle altre galassie dalla nostra è detto moto di recessione e la relazione tra velocità di allontanamento e distanza della galassia dalla Terra è espressa dalla legge di Hubble: v=Hd dove: v = la velocità di allontanamento espressa in km/s H = la costante di Hubble D = la distanza dalla terra espressa in Mpc ( 40 e 80 km/s/Mpc) La scoperta di Hubble ha un’implicazione importantissima: le dimensione del nostro universo stanno aumentando. Dunque l’Universo è in espansione . Tale teoria trovò conferma nel 1946 quando l'americano di origine russa George Gamow combinò la teoria di Lemaìtre dell'atomo primordiale, ovvero il cosiddetto “uovo cosmico”, con le idee di Friedman, proponendo un nuovo modello di universo, originatosi da una grande esplosione iniziale, detta Big Bang cosmico, dalla quale avrebbero avuto origine lo spazio, il tempo e tutti gli altri elementi. Secondo le versioni più moderne della teoria del Big Bang, la materia si sarebbe trovata inizialmente in condizioni di temperatura e densità tali da essere completamente scomposta in quark, le più "piccole" particelle elementari note fino ad oggi. A seguito dell'espansione dell'universo, la massa iniziale di energia e materia si sarebbe raffreddata e rarefatta; a frazioni infinitesime di secondo dopo l'esplosione iniziale, i quark si sarebbero uniti a gruppi di tre a formare i protoni, i neutroni e gli altri adroni. Dopo circa tre minuti, i protoni e i neutroni si sarebbero a loro volta uniti per dare origine ai nuclei degli elementi più leggeri (idrogeno, elio e una minima quantità di litio). Tutti gli altri elementi chimici non si sarebbero formati che alcuni miliardi di anni dopo, grazie alle reazioni nucleari che avvengono nei nuclei stellari e durante le esplosioni di supernove. A 300.000 anni dal Big Bang, nuclei ed elettroni si sarebbero infine uniti a formare gli atomi, mentre le stelle e le galassie sarebbero nate entro il primo miliardo di anni di vita dell'universo. Ma cosa sono queste particelle così infinitamente piccole in grado di creare un qualcosa di così grande che nemmeno l’uomo è in grado di porne dei limiti? 4 -FISICA L’atomo è la più piccola particella di un elemento capace di conservarne le caratteristiche chimiche. La storia del concetto di atomo ha origini molto remote; ma l’elaborazione scientifica di tale nozione nei termini per noi oggi rilevanti risale a un’epoca abbastanza recente. La struttura dell’atomo, può essere pensata in modo semplificato come costituita da un nucleo centrale, attorno al quale ruotano delle particelle, gli elettroni. I nucleoni, le particelle presenti nel nucleo, sono i protoni e i neutroni. La massa del nucleo pertanto è dovuta alla massa dei nucleoni costituenti. Ebbene se indichiamo con m₀ e m₀ le masse rispettive dei protoni e dei neutroni, la massa mt totale dei nucleoni sarà data da: mt= Z • m₀ + N • m₀ dove Z e N sono il numero di protoni e neutroni. Se ora misuriamo la massa m di un nucleo e la confrontiamo con la massa dei nucleoni fornita dalla formula appena citata, constateremo che tra m e il valore fornito dalla formula c’è uno scarto ∆m ossia: ∆m= (Z • m₀+ N • m₀) – m ∆m è il difetto di massa. La massa del nucleo è inferiore alla somma delle masse dei nucleoni che lo compongono. Tale stranezza è eliminata se il fenomeno è interpretato alla luce dell’equazione di Einstein, che esprime il principio di equivalenza tra la massa e l’energia: ∆E= ∆m • c² In base a tale equazione possiamo affermare che in ogni processo fisico la scomparsa di una quantità di massa ∆m equivale alla comparsa di una quantità di energia ∆E. Tale quantità di energia corrisponde all’energia di legame cioè all’energia che tiene uniti i nucleoni all’interno del nucleo. La liberazione di energia può avvenire in occasione di un processo di fissione cioè quando un nucleo pesante si scinde in due o più nuclei con Z intermedio, oppure in occasione di un processo di fusione,cioè quando i due nuclei si uniscono, dando luogo a un nucleo con peso atomico intermedio. Per strappare un nucleone dal proprio nucleo occorre fornire al nucleone una certa energia En, il cui valore medio è espresso dalla relazione: En= ∆E/A Dove ∆E è l’energia di legame e A è il numero dei nucleoni. L’energia media di legame per nucleone En ha un valore più basso per i nuclei più leggeri. Per quanto riguarda i nuclei pesanti, il più basso valore dell’energia di legame è dovuto all’azione delle forze repulsive coulombiane che si esercita tra protoni presenti in gran numero in tali nuclei. L’azione repulsiva delle forze coulombiane contribuisce a rendere relativamente instabili i nuclei pesanti. 5 Le forze che tengono uniti i nucleoni appartengono ad un tipo di forze completamente nuovo; a tale nuovo tipo di forze è stato dato il nome di forze nucleari o forze di interazione forte. Quest’ultima si verifica solo tra nucleoni cioè solo tra i costituenti del nucleo. A causa delle forze colombiane e delle forze nucleari soltanto i nuclei corrispondenti a particolari combinazioni di protoni e neutroni sono stabili. I nuclei che non corrispondono a tali combinazioni possono assumere configurazioni instabili e diventare radioattivi. Tali nuclei assumono la tendenza a diminuire il numero o dei neutroni o dei protoni,in modo da raggiungere una situazione di maggiore stabilità. L’equilibrio è raggiunto in seguito all’emissione di alcuni tipi di particelle. Tale fenomeno prende il nome di radioattività, scoperta nel 1896 dallo scienziato Becquerel. Si accorse che alcuni sali dell’uranio, avvolti in un contenitore opaco avevano la proprietà di annerire le lastre fotografiche. Egli intuì che il fenomeno fosse dovuto a qualche radiazione emessa spontaneamente dall’uranio,tale scoperta interessò molti fisici dell’epoca in particolare i coniugi francesi Marie e Pierre Curie . Da un minerale dell’uranio, la pechblenda, riuscirono ad individuare ed isolare due nuove sostanze radioattive che furono denominate Polonio e Radio. E in ambito letterario invece…. -FILOSOFIA Uno dei maggiori filosofi che si occupò del concetto di finito fu Fichte. Fichte sostenne che la filosofia deve essere una scienza assoluta, dedotta in maniera sistematica da un'unica proposizione auto evidente. In tal modo, Fichte intese porre in luce il fondamento primo dell'esperienza. Egli condivideva complessivamente la filosofia critica di Kant, ma ne respingeva la dottrina della nonconoscibilità della 'cosa -in- sé' e la dicotomia tra ragion pura e ragion pratica. Secondo Fichte all'origine di tutta l'esperienza occorre ritrovare l'attività pura e spontanea dell'Io, inteso come Io assoluto, ossia come la radice e il fondamento di ciascun singolo io empirico. L'Io ha un'intuizione originaria della sua libera attività come autoaffermazione e come attività infinita, che inevitabilmente lo porta a imbattersi nel 'non-Io', ovvero nell'alterità costituita dal mondo e dalla natura in generale. Vengono così alla luce i primi tre principi della Dottrina della scienza di Fichte Tesi: l’io pone se stesso il principio di Aristotele sosteneva che A non è non A ovvero il principio di non contraddizione,e per Fichte vigeva il principio di identità ovvero A = A che per esserci deve necessariamente esistere qualcosa che lo produce e che produce se stesso. Antitesi: All’Io si oppone il Non Io ovvero l’Io oppone a sé il Non Io infatti quando l’Io si produce, produce sé dinamico, attivo; ma questo dinamismo si nota solo se si oppone qualcosa che è diverso dall’Io e quindi non può che essere il Non Io. Tutto ciò cozza però con l’idea dell’io infinito Sintesi:L’Io nell’Io oppone un Io divisibile ad un non Io divisibile in questo caso la contrapposizione dell’io e del non io avviene dentro L’Io. 6 Tra i maggiori esponenti della filosofia ottocentesca vi troviamo Hegel, che risulta profondamente partecipe del clima culturale romantico, del quale condivide soprattutto il tema dell'infinito. Lui sviluppa una critica d Fichte sostenendo che l’infinito di Fichte è un cattivo infinito poiché non si raggiunge la sintesi fra opposti. L’io di Fichte non concilia Io e Non Io,non c’è sintesi fra opposti,ma attribuisce cmq al filosofo la capacità di aver individuato la dialettica con i tre principi della scienza,però commise l’errore di applicare tutto ciò all’Io(soggetto) dimenticandosi della natura (oggetto) Per poter seguire il pensiero di Hegel risulta indispensabile aver chiaro la tesi di fondo del suo idealismo: la risoluzione del finito nell'Infinito. Con questa tesi Hegel intende dire che la realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione. Tale organismo, non avendo nulla al di fuori di sé e rappresentando la ragion d'essere di ogni realtà, coincide con l'Assoluto e con l'Infinito, mentre i vari enti del mondo, essendo manifestazioni di esso, coincidono con il finito. Di conseguenza, il finito, come tale, non esiste, perciò ciò che noi chiamiamo finito è nient'altro che un 'espressione parziale dell'infinito. Infatti, come la parte non può esistere se non in connessione con il Tutto, in rapporto al quale soltanto ha vita e senso, così il finito esiste unicamente nell'infinito e in virtù dell'infinito. Detto altrimenti: il finito, in quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito. L'hegelismo si configura quindi come una forma di monismo panteistico, cioè come una teoria che vede nel mondo (= il finito) la manifestazione o la realizzazione di Dio (= l'infinito). Dire che la realtà non è "Sostanza", ma "Soggetto", significa dire, secondo Hegel, che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto-produzione che soltanto alla fine, cioè con l'uomo (= lo Spirito), giunge a rivelarsi per quello che è veramente. -ITALIANO Giacomo leopardi nacque in un ambiente retrivo,nel chiuso di Recanati, da una famiglia nobile in cui il padre era fermamente convinto degli ideali della restaurazione. Pertanto coltivò sempre il desiderio di evadere da tale ambiente. Il poeta recanatese sosteneva il fine non utilitaristico ma dilettevole della poesia che si configura essenzialmente come imitazione della natura, da cui discende la superiorità degli antichi sui moderni. Però pur dichiarandosi contro il romanticismo Leopardi condannando proprio l’imitazione pedissequa dei classici e difendendo la spontaneità della creazione poetica rivela in sé un atteggiamento prettamente romantico. Le scelte linguistiche espressive del poeta testimoniano i fondamenti illuministico- classici nel Leopardi, il quale però respinge senz’altro l’asservimento delle regole formali e l’abuso della mitologia e rompe con le forme tradizionali della comunicazione poetica, pervenendo ad una espressione lirica assolutamente originale, rivelatrice, romantica. Il genere lirico è quello poetico per eccellenza, capace di dare espressione alle sensazioni più indefinite e profonde, non predeterminate né contenute entro schemi precisi che si collocano nella dimensione del vago e dell’infinito, che appartengono all’ambito della rimembranza. È l’immaginazione la facoltà che ci fa andare oltre il determinato, oltre il finito dilatando il nostro essere nel passato con la memoria e nel futuro con la speranza e l’attesa. Senza dubbio, il paesaggio più leopardiano, nella mente di svariate generazioni di lettori, è l'Infinito recanatese, cioè quello celeberrimo visto dal monte Tabor (oggi Colle 7 dell'Infinito), che subito lega questo tema a quello della felicità e del piacere sia pure colto nella dimensione del fantasticare. Il giovane Leopardi all'età di circa 20 anni scrive l'Infinito, uno dei cinque Idilli. Questi sono per lui componimenti che esprimono "situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo", componimenti cioè di carattere intimo dove è posta sempre in primo piano la figura del poeta solitario, intento ad ascoltare i moti del proprio cuore, mentre del mondo esterno in cui non compaiono che alcuni aspetti della natura, testimone e confidente delle sue meditazioni. Se si analizza attentamente il titolo di questa opera ci si rende conto che esso è in contrapposizione con quanto detto prima; infatti la natura è qualche cosa di vivo, esistente che si può quindi toccare con mano mentre l'infinito è una realtà puramente astratta. L'inizio della poesia è caratterizzato dall'Idillio (genere tipico che mira a rappresentare l'uomo con la natura) in quanto, le prime due parole sono "Sempre caro", danno un tocco di famigliarità generale. Il poeta è seduto davanti ad una siepe che gli impedisce di guadare l'orizzonte; i sensi vengono soppressi, soffocati e prevale allora l'immaginazione. Egli infatti immagina che al di là della siepe vi siano infiniti spazi, sovrumani silenzi e una profondissima quiete. E' L'Infinito. Il paesaggio per il Leopardi deve essere guardato con intensità come per strappare ad esso un segreto. Una sensazione uditiva e cioè lo stormire del vento tra le piante ci porta alla realtà (passaggio dalla vista all'udito cioè dallo spazio al tempo) e quindi quei sovrumani silenzi ora sono lontani da chi parla. Egli pensa allora all'eterno, l'infinito spazio in senso temporale, al passato (le morte stagioni) e al presente che ancora vive attraverso il rumore del vento; così tra questa immensità , spazio e tempo senza confini, il poeta annega i suoi pensieri. Il verbo annegare viene utilizzato per annunciare l'apparizione del mare nel quale si trova una sensazione piacevole nell'immergersi col pensiero in esso. Il mare ovviamente è qualcosa di fisico ma che non c'è (infinito mentale). La parola dolce sta ad indicare la dolcezza dell'auto annullamento; si può dire che è una morte simbolica. L'esperienza dell'infinito è insomma tutta mentale, è una esperienza priva dello statuto di realtà. Realtà che prenderà piede più in là con una nuova corrente che si contrapporrà al romanticismo ovvero il Verismo Il Verismo non è una geniale e isolata intuizione degli scrittori italiani, ma si ispira in maniera evidente ad un movimento letterario diffusosi in Francia dalla metà dell’800: il Naturalismo. Esso promuove l’interesse del romanziere per la vita vera e contemporanea: concentra l’attenzione sui ceti più umili e ignoranti, costruisce vicende comuni e prive di grandiosità e usa uno stile narrativo altrettanto basico, essenziale e concreto. I suoi libri si devono presentare come studio il più possibile oggettivo dell’uomo e delle sue azioni, e ne descrivono la psicologia in maniera studiata e attenta. Rispetto al Naturalismo francese, però, si individuano alcune differenze: Il Naturalismo, è figlio della fiducia positivista nella scienza: crede che sia possibile eliminare stenti e fatiche dell’uomo grazie ad una razionalizzazione del lavoro e ad una scientifizzazione del mondo. Il Verismo è di tutt’altro avviso: il metodo di osservazione accurata è usato per studiare l’uomo, ma non per salvarlo o proporre miglioramenti: esso svela, semplicemente, l’impossibilità di cambiare e di porre fine alle sventure umane. La ricerca del Verismo di luoghi umili e privi di eroismo lo porta ad ambientare le sue storie nelle regioni più primitive e lontane dal processo di civilizzazione e unificazione nazionale: dall’astrattezza e eleganza delle città si passa a campagne o montagne dove la civiltà sembra non essere mai arrivata. Si tratta di territori aspri, poveri, abitati da gente spesso ignorante e lontana da qualunque modello di comportamento da buona società. In tal senso, ambientazione preferita dai romanzieri veristi è la Sicilia: selvaggia, incontaminata, tagliata fuori 8 dal processo di scolarizzazione e civilizzazione in atto in Italia, è il luogo perfetto per vedere all’opera contadini analfabeti, pescatori rozzi e donne che sognano un ricco matrimonio, mentre lavorano a maglia sul davanzale delle finestre e chiacchierano con le vicine del palazzo accanto Il Verismo infatti presentava un’Italia povera, ai più sconosciuta, formata da persone molto diverse tra loro e neppure consce di avere in comune un’identità nazionale: ciò spesso assumeva, al di là delle intenzioni degli autori, un carattere anche politico e sociale, diveniva una denuncia di tutto ciò che il governo piemontese non considerava, ovvero le miserie, l’ignoranza, l’abbandono di quelle genti. Uomini piegati al loro destino e che non cercavano nemmeno di reagire, ma aspettavano inerti la conclusione della loro vita. -LATINO “La maggior parte degli uomini si lamenta delle malvagità della natura, perché siamo generati per vivere una breve esistenza, perché questo spazio del tempo a noi concesso corre così rapidamente,tanto velocemente, tanto che la vita, eccetto pochissimi, abbandona gli altri proprio sulla soglia della vita. Perché ci lamentiamo della natura?Essa si è comportata con generosità: la vita, se sappiamo usarla è lunga.”così diceva Seneca in una delle sue più importanti opere “De Brevitate Vitae” quasi ad anticipare ciò che sarebbe avvenuto secoli più tardi. È stolto differire la vita e confidare sempre nel futuro: così facendo,l'uomo spreca il presente,che è l'unico tempo che egli possa controllare davvero, e si affida al futuro rendendo la sorte padrona delle sue vicende. Bisogna lottare contro la fuga del tempo, attingendo da esso come da un torrente impetuoso. L’uomo affaccendato invece guarda sempre al domani, perde i suoi giorni migliori e si ritrova di colpo vecchio. La vita degli affaccendati è brevissima: essi infatti non sono capaci di guardare al passato (l'unico tempo sottratto all’arbitrio della fortuna)per coglierne insegnamenti e, quando lo fanno, non possono che pentirsi di avere sprecato il tempo. La soluzione all'angoscia esistenziale dell'uomo, che vede la vita fuggire tra le sue mani, è proposta da Seneca all'attenzione del lettore subito. Egli propone quindi una prospettiva diversa del problema: non ci si deve preoccupare della quantità della vita, bensì della sua qualità. La questione si chiarisce attraverso la serie di quadri che contrappongono la massa degli uomini occupati («affaccendati», «indaffarati»), che sprecano il loro tempo non inseguendo l'unica meta da ambire (la sapienza) e si lamentano della brevità della vita all'atteggiamento del saggio, il quale è l'unico ad avere un corretto rapporto con il tempo. Egli infatti sa che non deve proiettarsi continuamente nel futuro, inseguendo speranze vane e consumandosi in una continua attesa, e neppure rifugiarsi nel passato; questo atteggiamento, peraltro comune, comporta il porre fuori di sé la ricerca dell'equilibrio, della libertà interiore, dell'autarkeia, intesa come autonomia spirituale. Il saggio invece sa che deve sottrarsi alla frantumazione del tempo in una miriade di eventi e situazioni contingenti e deve ricercare la sua unità in un dominio del presente, per divenire padrone del tempo. Il presente è il vero tempo che viviamo e questo deve essere valorizzato e non sprecato. 9