ritornare a parmenide

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Emanuele Severino
RITORNARE
A PARMENIDE
Ristampa anastatica dell’articolo del 1964
In occasione del conferimento della cittadinanza onoraria
di Elea all’autore
Ascea (SA), 13 settembre 2015
Questa ristampa è realizzata nell’ambito di Eleatica 2015 da Diogene Multimedia
d’intesa con il Comune di Ascea e con la Fondazione Alario.
Si ringrazia la Rivista di filosofia neo-scolastica per avere concesso la riproduzione.
Copertina: Jimmy Knows S.C.P., Barcelona (ES)
Impaginazione: Stefano Savella
© Diogene Multimedia
Via Marconi 36, 40122 Bologna
I edizione, settembre 2015
INDICE
LA CITTà DI PARMENIDE ONORA EMANUELE SEVERINO
di Livio Rossetti
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UN ARTICOLO APPARSO SULLA «RIVISTA DI FILOSOFIA
NEO-SCOLASTICA»
di Massimo Marassi
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RITORNARE A PARMENIDE
di Emanuele Severino
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Un articolo apparso
sulla «Rivista
di Filosofia
Neo-Scolastica»
Massimo Marassi*
È passato mezzo secolo da quando, sulle pagine della «Rivista
di Filosofia Neo-Scolastica», apparve il saggio di Emanuele Severino Ritornare a Parmenide, destinato a suscitare un vivace
dibattito, peraltro preannunciato ancora prima che il lettore ne
avesse contezza. Una nota in prima pagina precisava infatti che
l’articolo sarebbe stato discusso nei fascicoli successivi, perché,
«nonostante le punte polemiche contro la neoscolastica e l’asserita opposizione a tutto ciò che è stato detto dopo Parmenide,
l’articolo si riconnette ad una tradizione che ha i suoi rappresentanti anche nella scolastica. Con la tesi, infatti, che nell’essere
di ogni cosa, per quanto diveniente e caduca, si manifesta immediatamente la presenza dell’Essere divino, Emanuele Severino continua, ci sembra, una tradizione che ha esempi classici,
* Massimo Marassi, professore di Filosofia Teoretica all’Università Cattolica
di Milano, è l’attuale direttore della Rivista di Filosofia Neo-Scolastica.
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come, per citarne uno, il capitolo terzo dell’Itinerarium di S. Bonaventura». Questa benevola nota della redazione (composta
in realtà dai professori di Filosofia dell’Università Cattolica) fu
però seguita immediatamente da una serie di obiezioni esposte
da Gustavo Bontadini in Sozein ta phainomena e da Carlo Giacon con un’eloquente declinazione all’interrogativo, Ritornare
a Parmenide?, nel quale affermava perentorio: «È previsto che
l’articolo susciterà una discussione».
La risposta di Severino alle obiezioni non si fece attendere e con
il Poscritto, invece di smorzare i toni, non fece che accentuare
le «divergenze del suo pensiero dalla concezione filosofica alla
quale si ispira questa Rivista». La redazione riconosceva, di contro e in positivo, il diritto di «esprimere liberamente il proprio
pensiero», perché ciò aiuta a scoprire la verità, e il fatto che, al di
là di ogni dissenso, fra i redattori restava un «vincolo fraterno».
Ne seguì infine una Postilla scritta da Gustavo Bontadini, poche
pagine, ma ormai attestanti l’impossibilità di ogni mediazione.
Si consumava così, in pochi mesi, uno degli episodi più significativi della filosofia italiana della seconda metà del ‘900; anzi, in
quelle proposte e in quelle repliche – seguite peraltro da un’enormità di prese di posizione: non ci fu infatti filosofo che non
volle schierarsi da una parte o dall’altra dei contendenti – furono raggiunti vertici teorici divenuti ora sempre più rari.
Il proponente di quelle tesi – che in questa occasione viene festeggiato – divenne in seguito autore di numerosi e importanti
volumi che ancora oggi, in particolare nel panorama italiano,
non conoscono uguali. Grazie a questi scritti, e proprio prendendo le distanze dalla cosiddetta storia della filosofia occidentale
intesa come «vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere», Emanuele Severino ha raggiunto
la propria maturità, tracciando una via personale a un filosofare
rigoroso e profondo.
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Ma perché – bisogna domandarsi – tanto clamore, se in fondo
il giovane filosofo altro non chiedeva se non di attenersi alle
parole del maestro «venerando e terribile», anzi della Dea, la
quale auspicava: «Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono/bisognava che veramente fossero, essendo
tutte in ogni senso»? I «mortali», invece, pensano che una cosa
al tempo stesso sia e non sia, e così non sanno neppure se sulla
stessa via, che va all’in su e all’in giù, essi procedono avanti o
indietro. Non è dunque un caso se nel corso dei millenni si siano succedute interpretazioni interminabili, analisi filologiche
le più disparate, congetture, varianti, espunzioni, fino al punto
che il dettato di Parmenide è diventato tutt’altro che chiaro.
E tuttavia proprio in questi versi di un poema giunto in frammenti dal fondo del tempo si erge poderosa la metafisica con i
suoi interrogativi. Le domande di Parmenide sorgevano da una
terra che accoglieva tutte le cose nel grembo di ciò che egli con
riverenza chiamava physis. E tutte le cose, per difendersi dalla
forza del divenire, furono poste sotto la protezione della Dea
che è signora del tempo, che rivela la verità non soggetta al
mutamento, che governa gli eventi e tutto ciò che patisce «nascita e generazione». Questa Dea non abita un Olimpo affollato di immortali negligenti o distratti. La Dea è la verità, ciò che
la filosofia insegue come problema più profondo. In tal senso
la verità è primordiale e originaria. Ma noi siamo ancora capaci
di vedere la terra e il cielo come i Greci ebbero modo di vederli
e contemplarli? Almeno questo occorre tentare: porsi con il
pensiero in quel tempo eterno che Parmenide abitò, trasmettendo all’Occidente e in particolare all’Europa il senso stesso
della civiltà. Forse dobbiamo ripensare al trascurato frammento 14, a quanto Parmenide afferma della luna: «luce che brilla
nella notte, errante attorno alla terra, di uno splendore che
proviene d’altro luogo».
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Occorre dunque porsi in questa prospettiva dell’«altrove»
per avvertire in un’affermazione apparentemente banale –
«l’essere è, mentre il nulla non è» – ciò che innerva la metafisica, opponendo appunto il positivo al negativo. E in questa
opposizione non c’è affatto un «tempo» o un «rispetto» per
cui l’essere possa anche non essere, perché in tal caso, semplicemente, «non è, non è niente e non si oppone a niente».
Eppure già Platone, introducendo oltre l’opposizione anche
l’alterità, e Aristotele, parlando di un essere che è fintanto che
è, estenuano tale opposizione fino al punto di trattare l’essere
come nulla. Non a caso Severino afferma che «l’occasione della dimenticanza del senso dell’essere è […] data dallo stesso
approfondimento platonico-aristotelico». È infatti sufficiente
che l’essere non si opponga al nulla affinché anche l’essere sia
nulla. E anche tutte le determinazioni, in quanto sono, convengono all’essere solo in quanto positività. L’essere è l’intero,
non si esaurisce in alcuna dimensione particolare, e ciò indica
la sua trascendentalità.
Il Poema parla quindi da un «altrove», ossia da una trascendenza che non deve essere intesa in senso metafisico. Non c’è
un ente trascendente, bensì ogni ente è radicalmente trasceso
nel suo apparente sorgere e perire dall’illuminarsi dell’essere
che sempre è. L’opposizione radicale tra l’essere e il non essere
designa infatti la dimensione originaria dell’essere dell’ente: la
trascendenza dell’essere sul nulla percorre la via della verità,
quella per cui tutte le cose che sono eternamente sono.
Sulle cose della vita si è posato lo sguardo fiero di Emanuele
Severino: non è vero che tutto è solo cenere, buio, silenzio,
nebbia. Ognuno gli deve la memoria dell’immortalità e dell’eterno.
Milano, giugno 2015
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