La responsabilità dell`appaltatore per rovina dell`edificio di Renata

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La responsabilità dell’appaltatore per rovina dell’edificio
di Renata Russo
La quaestio iuris posta all’attenzione della Corte.
Le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a delineare l’ambito oggettivo della responsabilità
dell’appaltatore per la rovina e difetti dell’opera, regolata all’art. 1669 c.c.
Tale norma statuisce che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga
durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione,
rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l'appaltatore è
responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un
anno dalla scoperta. Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denunzia.
Ebbene, la Suprema Corte ha provveduto a delimitare l’ambito di applicazione di tale responsabilità, in
particolare se l’appaltatore debba essere chiamato a rispondere non solo rispetto ai vizi o difetti inerenti
agli immobili di nuova costruzione- com’è pacifico- ma anche con riguardo ad ipotesi di interventi di tipo
manutentivo-modificativo, che debbano avere lunga durata nel tempo.
La vicenda concreta posta all’esame della Corte.
Al fine di meglio comprendere la questione esaminata, giova dapprima ricostruire brevemente i tratti della
vicenda concreta posta all’attenzione della Corte.
Taluni condomini convenivano in giudizio due società, una delle quali aveva eseguito sull’edificio
condominiale interventi di ristrutturazione edilizia su incarico dell’altra, al fine di ottenere il risarcimento
dei danni per gravi difetti di costruzione. Veniva chiamata in causa dalle convenute una terza società,
esecutrice materiale di taluni interventi, al fine di essere manlevate.
Il tribunale di primo grado riteneva sussistenti i gravi difetti dell’opera ed accoglieva la domanda
risarcitoria.
Il giudice di secondo grado ribaltava l’esito ritenendo che la domanda risarcitoria andasse rigettata poiché
nel caso di specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia e non invece la realizzazione
di nuova costruzione, con conseguente inapplicabilità dell’art. 1669 c.c.
Si impugnava dinanzi alla Corte di Cassazione la sentenza della Corte D’Appello denunciando la violazione
della norma anzi detta.
Il contratto di appalto e la responsabilità dell’appaltatore.
Orbene, l’art. 1669 c.c. è norma che non può essere considerata isolatamente in quanto si colloca
all’interno di un disegno normativo ampio ed eterogeneo. Il contratto di appalto, invero, rappresenta una
figura negoziale in grado di racchiudere in sé considerevoli profili di eccentricità: ad una attenta lettura del
codice civile, a ben vedere, è possibile cogliere come in questo schema negoziale il legislatore abbia
conglobato una disciplina dai tratti peculiari.
L’art. 1655 c.c. definisce l’appalto (dal latino ad pactum «a contratto») come quel contratto con cui una
parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio,
l'obbligazione di compiere in favore di un'altra (committente o appaltante) un'opera o un servizio.
Con riguardo alla natura giuridica, si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive, a carattere
commutativo (in quanto il rischio economico rientra nella normale alea del contratto), ad esecuzione
prolungata (poiché il compimento dell’opera richiede un tempo prolungato), avente ad oggetto un facere
(a differenza della vendita che ha ad oggetto un dare). L'appaltatore, che assume la qualifica
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di imprenditore in quanto assume su di sé l’ organizzazione ed i rischi dell’attività, è tenuto a organizzare i
mezzi e a svolgere ogni attività necessaria alla realizzazione dell'opera dedotta in contratto, secondo le
modalità pattuite e la regola dell'arte. Quella dell'appaltatore è dunque un'obbligazione di risultato, in
quanto il pieno adempimento coincide solo con la completa realizzazione dell'opera.
È infine un contratto intuitus personae come dimostra l’art. 1656 c.c. in tema di subappalto, in quanto rileva
la qualità dell’appaltatore.
Come detto, ad una lettura del codice civile, si coglie come nel disciplinare questa figura il legislatore abbia
raccolto istituti peculiari: si pensi allo ius variandi unilaterale, regolato all’art. 1661 c.c.1, secondo cui il
committente può apportare unilateralmente variazioni al progetto, purché il costo complessivo delle
aggiunte non superi di un quinto il prezzo contrattualmente stabilito. Il committente non può tuttavia
apportare variazioni che comportino notevoli modificazioni della natura dell'opera. Tale norma costituisce
una dirompente deroga al principio della immodificabilità unilaterale del contenuto del contratto sancita
all’art. 1372 c.c., il cui fondamento è stato rinvenuto nell’interesse prevalente del committente, in
considerazione del fatto che l’opera sarà a lui destinata; pertanto, la posizione dell’appaltatore che subisce
la modifica unilaterale viene tutelata attraverso un compenso aggiuntivo.
Ancora, all’interno della disciplina dell’appalto si rinviene una espressa regolamentazione delle
sopravvenienze: l’art. 1664 c.c. regola le variazioni del corrispettivo a progetto invariato dovute a onerosità
o difficoltà impreviste nell'esecuzione dell'appalto. Si prevedono due ipotesi:
a)per fluttuazioni di costo della materia prima o della manodopera; in questo caso l'appaltatore è tenuto ad
accollarsi i maggiori costi fino al limite di 1/10 di variazione rispetto al prezzo originario. Oltre tale soglia
entrambe le parti possono chiedere una revisione limitatamente alla differenza di prezzo eccedente tale
limite percentuale;
b)per cause geologiche, idriche e simili insorgenti in corso d'opera, non previste dalle parti. Se le cause sono
tali da rendere notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore, questi ha diritto a un compenso
adeguato.
Un ulteriore aspetto peculiare dell'obbligazione dell'appaltatore è costituito dalla garanzia per i vizi. Gli artt.
1667 e 1668 c.c. introducono il tema della difformità; si tratta di un elemento peculiare presente nel solo
contratto di appalto, aggiuntivo rispetto ai vizi, che tralascia la singola prestazione per afferire l’intera
opera. L’art. 1668 c.c. comma I prevede che qualora l'opera realizzata presenti vizi, ovvero difformità
rispetto al progetto, il committente può richiedere, a sua scelta l'eliminazione dei vizi a cura e spese
dell'appaltatore, oppure la riduzione del prezzo pattuito (rimedi manutentivi). Il rimedio caducatorio è
previsto quale residuale: il comma II stabilisce che si giunge alla risoluzione del contratto d’appalto solo se,
per i vizi o le difformità che l’opera presenta, la stessa risulti del tutto inadatta alla sua destinazione
(inservibilità totale). La ratio di tale scelta legislativa risiede nella tendenza a conservare l’opus realizzato,
limitando lo scioglimento del vincolo ad ipotesi del tutto residuali.
In tale contesto normativo si inserisce l’art. 1669 c.c.; tale norma contempla una particolare obbligazione
che incombe all'appaltatore, il quale è tenuto a garantire per un periodo di dieci anni l'opera costruita dal
vizio del suolo o dal difetto di costruzione nei confronti del committente e dei suoi aventi causa.
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Le variazioni al progetto originario si distinguono in tre categorie: a) variazioni concordate tra le parti: ai fini
della prova, l'accordo (o l'autorizzazione del committente) deve avere forma scritta (art. 1659 c.c.); b) variazioni
necessarie: se le variazioni sono necessarie per eseguire il lavoro a regola d'arte, ma le parti non si accordano, spetta
al giudice determinare le variazioni opportune e il relativo corrispettivo. In alcuni casi, tali variazioni autorizzano le
parti a recedere dal contratto: l'appaltatore può recedere se l'importo delle variazioni supera il sesto del prezzo a
forfait convenuto. Il committente è in ogni caso tenuto a corrispondergli un'equa indennità per il lavoro prestato; il
committente può recedere se le variazioni sono "di notevole entità", corrispondendo comunque all'appaltatore un
equo indennizzo (art. 1660 c.c.); c) variazioni richieste dal committente, su cui supra.
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Per quanto concerne la ratio sottesa alla norma in esame, essa è dibattuta in dottrina. Sul punto si
registrano due ricostruzioni, a seconda che si ritenga che l’art. 1669 c.c. preveda una responsabilità
contrattuale (1218 c.c.) o aquiliana (2043 c.c.).
Per coloro che affermano il carattere extracontrattuale della responsabilità dell’appaltatore, il fondamento
della norma è da ricercarsi in ragioni di ordine pubblico, in particolare nell’interesse alla conservazione e
funzionalità degli edifici e dunque nella incolumità dei cittadini, esigenza tanto pregante da prevalere sugli
interessi delle parti contraenti. In conseguenza di tale ricostruzione, la responsabilità dell’appaltatore può
essere fatta valere non solo dal committente ma si estende anche ai suoi aventi causa, nonché verso i terzi
eventualmente danneggiati dalla rovina. In tal guisa, l’art 1669 C.C. viene utilizzato anche quando manchi
tra danneggiante e danneggiato l'intermediazione di un contratto di appalto per il fatto che ci si trovi di
fronte ad un costruttore che abbia poi venduto l’immobile; o, ancora, l'art. 1669 c.c. è utilizzabile anche dal
terzo, estraneo al contratto di appalto, che tuttavia ha subito danni dalla rovina.
Per i sostenitori della tesi della natura contrattuale della responsabilità, invece, il fondamento è da
rinvenirsi nell’esigenza di pura tutela del committente; pertanto lo scopo della norma è quello di
prolungare la garanzia che si protrae oltre il termine biennale di cui agli artt. 1667 e 1668 del c.c., essendo
frequente che i vizi negli immobili destinati di lunga durata si manifestino decorso un lungo periodo di
tempo dal compimento dell’opera. In tal senso deponendo, la responsabilità deriva dal contratto di appalto
e la peculiarità della norma sarebbe data dalla estensione della tutela anche agli aventi causa del
committente.
La teoria della natura aquiliana della responsabilità è stata accolta dalla giurisprudenza della Suprema
Corte2 nelle cui pronunce si legge che l’art. 1669 c.c. presenta carattere speciale rispetto all’art. 2043 c.c.
la cui ratio è riposta nella tutela della incolumità dei terzi3, trattandosi di una norma non di favore, diretta a
limitare la responsabilità del costruttore, bensì finalizzata ad assicurare una più efficace tutela del
committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale. Si delinea una forma di responsabilità da fatto
illecito più rigorosa rispetto a quella generale delineata nell'art. 2043 c.c., caratterizzata da una presunzione
iuris tantum di responsabilità in capo all'appaltatore, data dal necessario bilanciamento degli interessi in
gioco.
L’estensione della responsabilità dell’appaltatore anche oltre l’ambito contrattuale, ovvero nei confronti
degli aventi causa del committente, si giustifica per il valore costituzionale della tutela da accordare,
allungando il termine di prescrizione oltre quello previsto dagli artt. 1667 e 1668 c.c. Ci si trova di fronte ad
una forma di responsabilità peculiare, di natura extracontrattuale, prevista quale diramazione di un
contratto.
Nella elaborazione effettuata nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza, si afferma generalmente che:
- vizio del suolo è quel vizio che lo rende inidoneo a sopportare la costruzione;
-il difetto di costruzione ricorre in presenza delle violazioni delle regole dell’arte che si traduce in una cattiva
esecuzione dell’opera;
-grave difetto è quello che incide non solo sulla stabilità dell’opera, ma anche sulla sua funzionalità e
dunque sul godimento dell’immobile; dunque, anche tutti quei vizi che non siano strettamente afferenti
all’aspetto architettonico.
- il pericolo è quello che emerge icto oculi ma rileva anche se desumibile da altre circostanze.
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Ex plurimus, Cass. Civ. n. 1674 del 2012 , Cass. Civ. n. 4035 del 2017, Cass. n. 2284/2014.
Conseguentemente, spetta al committente provare che la rovina o la minaccia di rovina provengono dal vizio del
suolo o da difetto di costruzione e l'assuntore può opporre le prove che tendono a dimostrare la sua irresponsabilità,
specie quelle nascenti da cattiva manutenzione o da cattivo uso della cosa da parte del committente, ovvero può
dimostrare che l'evento dipende da terzi o da caso fortuito o da forza maggiore.
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Le sezioni Unite, in un’ottica di ampliamento della responsabilità dell’appaltatore, risolvono il contrasto che
era sorto in seno alla giurisprudenza di legittimità circa l’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c.
Nel verificare se la norma in esame sia applicabile esclusivamente quando l’attività dell’appaltatore
consista nel realizzare una nuova costruzione o anche allorquando si limiti a realizzare opere su edifici
preesistenti, la Suprema Corte parte dall’analisi della dottrina all’interno della quale è prevalente
l’opinione della estensibilità della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo-modificativo
che abbiano lunga durata nel tempo -escludendo dunque le sole riparazioni non di lunga durata. Si afferma
difatti che ammettere la soluzione inversa significherebbe dare adito a dubbi di legittimità costituzionale,
considerato che gli artt. 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilità dell’appaltatore, si applicano
anche ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, con conseguente violazione del principio di
eguaglianza, ex art. 3 Cost.
La tesi opposta, restrittiva e minoritaria, ritiene che tale violazione non sussisterebbe in quanto l’art. 1669
c.c. prevede una garanzia di favore per il committente, dunque costituisce una norma di carattere speciale,
insuscettibile di applicazione analogica.
Successivamente, le Sezioni Unite passano ad esaminare la giurisprudenza, anch’essa divisa sul punto.
Secondo una prima opinione, rientra nella previsione dell’art. 1669 c.c. esclusivamente la realizzazione di
una costruzione nuova ed autonoma, non anche le mere modificazioni o riparazioni apportate ad un
edificio o a preesistenti immobili, con la conseguenza che ove ricorra una opera di mera riparazione o
modificazione su manufatti preesistenti, saranno applicabili gli artt. 1667 1668 c.c. (sul punto, Cass. 2007 n.
24143).
Altra ricostruzione aderisce all’orientamento contrario secondo cui l’appaltatore risponde anche per la
rovina o i difetti realizzati su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali
dell’immobile.
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 7756 del marzo 2017, attraverso un’accurata esegesi dell’art. 1669 c.c.,
hanno manifestato adesione a quest’ultimo orientamento, mettendo in luce come la tesi restrittiva si
scontri contro il tenore letterale e storico della norma.
Per quanto riguarda il dato storico, principiando dalla genesi della norma, la Corte evidenzia come la
responsabilità dell’appaltatore fosse già presente nel Codice Civile del 1865 c.c. e derivasse dalla rovina
dell’edificio o altra opera notabile.
Con l’introduzione del codice del 1942 si registra un mutamento di prospettiva: il soggetto, afferma la
Corte, diviene l’opera genericamente indicata e dunque inizia a delinearsi l’idea per cui qualunque opera
realizzata su di un immobile desinata a lunga durata, se viziata nel senso detto, ricada sotto lo spettro
applicativo dell’art 1669 c.c., a prescindere dal fatto che consista o meno in una nuova fabbrica. Opera è
dunque qualsiasi intervento modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione
dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento ha ad oggetto non già l’edificio in sé
considerato bensì l’opera eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio (in tal
senso si era pronunciata la Cassazione con sentenza del 2015 n. 22553).
Passando al dato letterale, conferma e completa la validità di tale esito ermeneutico il significato del
termine “costruire” (dal latino cum struere, assemblare insieme), che implica non necessariamente
l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente
disposte. Conclude dunque la Corte che non può dirsi che l’opera e la costruzione siano da intendersi quale
nuovo fabbricato.
A chiusura del percorso ermeneutico, la Corte afferma, in controtendenza rispetto alla ratio racchiusa nella
norma, che la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dalla incolumità dei
terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana
ad una privatistica e contrattuale.
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In tal modo la Corte lascia intendere come la norma in realtà rivesta una funzione bicefala, il cui punto
nodale si sposta a seconda del peso che si attribuisce nel corso del tempo all’ottica privatistica o
pubblicistica.
Lo sguardo dell’interprete si sofferma dunque sulla varietà e molteplicità di aspetti toccati dalla
responsabilità dell’appaltatore, che ad oggi attiene a tre distinti ambiti: accanto alla responsabilità
contrattuale per vizi e difformità dell’opera, discendente dagli artt. 1667 e 1668 c.c. e a quella verso i terzi
danneggiati dalla rovina, si colloca oggi un terzo tipo di responsabilità, di natura aquiliana, pur se
originante da contratto, prevista nei confronti del committente e dei suoi aventi causa (’art. 1669 c.c.) per i
vizi gravi dell’opera, posta a tutela della pubblica incolumità.
Si tratta dunque di una rilevante evoluzione qualitativa della figura, di particolare impatto applicativo oltre
che dogmatico.
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