FONDAZIONE STUDI
CONSIGLIO NAZIONALE DEI CONSULENTI DEL LAVORO
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Commissione dei principi interpretativi delle leggi
in materia di lavoro
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PRINCIPIO N. 6
“L’appalto”
1. Premessa.
Il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (d’ora in poi decreto) ha abrogato la legge 23 ottobre
1960, n. 1369 (v. art. 85, lett. c, del decreto) – in cui erano contenuti il divieto di intermediazione
di manodopera e la disciplina dei cosiddetti appalti interni ed esterni – per dettare una nuova
regolamentazione sia dell’appalto sia della somministrazione di lavoro.
Innanzi tutto, l’art. 29, comma 1, del decreto indica i criteri distintivi tra il contratto di
appalto di cui all’art. 1655 c.c. e la somministrazione di lavoro. Si tratta di una distinzione che
presenta notevole rilievo pratico, essendo tuttora illecita l’utilizzazione di lavoratori subordinati
assunti e retribuiti da altri soggetti (a meno che non si ricorra ad una agenzia autorizzata dalla
legge ex art. 4 e ss. del decreto, nel rispetto delle norme sulla somministrazione di mano d’opera
di cui agli articoli 20 e ss. del decreto stesso).
La necessità di questa distinzione era stata prevista nella legge 14 febbraio 2003, n. 30,
ove si delegava il legislatore a chiarire i “criteri di distinzione tra appalto e interposizione” (art.
1, comma 2, lett. m, punto 3), anche al fine di utilizzare il meccanismo di certificazione dei
contratti, tenendo presente nella qualificazione dei due istituti della “reale organizzazione dei
mezzi e dell’assunzione effettiva del rischio di impresa da parte dell’appaltatore” (art. 1, comma
2, lett. m, punto 7).
Peraltro, l’apparato sanzionatorio che opera nel caso in cui l’appalto non rispetti i
requisiti indicati dalla legge – configurando quindi una illecita somministrazione di mano
d’opera – è particolarmente severo (cfr. infra).
In merito alla disciplina dell’appalto, l’art. 29, comma 2 del decreto (come modificato
dall’art. 6 del D.Lgs. 6 ottobre 2004, n. 251) ha eliminato la distinzione tra i cosiddetti appalti
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“interni” ed appalti “esterni” di cui agli artt. 3 e 5 della legge n. 1369/1960, prevedendo un unico
regime di responsabilità tra committente e appaltatore applicabile per tutti gli appalti, sia di
servizi sia di opere. Attualmente, il committente risponde in solido con l’appaltatore per tutti i
trattamenti retributivi e contributivi dovuti dall’appaltatore ai propri dipendenti nel limite di un
anno dalla cessazione dell’appalto, mentre non è più previsto il diritto dei lavoratori
dell’appaltatore ad ottenere trattamenti retributivi e normativi non inferiori a quelli spettanti ai
lavoratori del committente (come stabiliva l’art. 3, comma 1, della legge n. 1369/1960). Tale
regime di responsabilità solidale non opera soltanto quando il committente è una persona fisica
che non esercita attività di impresa o professionale (art. 29, comma 3-ter).
Infine, l’art. 29, comma 3, del decreto, stabilisce che l’acquisizione del personale già
impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore non costituisce
trasferimento d’azienda o di parte d’azienda.
2. La distinzione tra l’appalto e la somministrazione di lavoro.
Come è noto, la nozione del contratto di appalto di cui all’art. 1655 c.c. prevede che
l’appaltatore compia l’opera o il servizio con “organizzazione dei mezzi necessari” e con
“gestione a proprio rischio”. L’obbligazione principale dell’appaltatore consiste quindi nel
compimento di un’opera o di un servizio, come risultato di una determinata attività produttiva.
L’organizzazione dei mezzi implica un’attività direttiva e di coordinamento dei diversi
elementi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio (i capitali, i materiali, le
attrezzature, i lavoratori) oltre al controllo dei lavori, ai rapporti con i terzi, etc. Di conseguenza,
la prestazione cui è obbligato l’appaltatore comprende sia l’attività produttiva, sia il risultato del
lavoro. Tuttavia, l’attività produttiva è in una posizione di subordinazione funzionale rispetto al
risultato del lavoro, essendo dedotta nel contratto come mezzo al fine, per conseguire il risultato
promesso.
Il requisito della gestione a proprio rischio implica che grava sull’appaltatore il rischio
del lavoro, rischio che può manifestarsi sotto diversi aspetti. Ad esempio, la realizzazione
dell’opera o del servizio può risultare per l’appaltatore più onerosa o comunque più faticosa di
quanto previsto all’inizio (salva l’applicazione dell’art. 1664 c.c.); ovvero la realizzazione
dell’opera o del servizio può risultare impossibile per causa non imputabile ad alcuna delle parti,
con la conseguenza che il committente non deve il prezzo dell’appalto; ovvero ancora, la
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realizzazione dell’opera o del servizio può risultare parzialmente impossibile, con la conseguente
liberazione del committente data la indivisibilità dell’opus (salva l’applicazione dell’art. 1672
c.c.); infine, l’appaltatore sopporta il rischio del perimento o del deterioramento della cosa per
causa non imputabile ad alcuna delle parti (prima che sia stata accettata dal committente, o prima
che il committente sia in mora nel verificarla), con la conseguenza che l’appaltatore perde ogni
diritto per l’attività già spiegata ed è anche a suo carico la perdita dei materiali da lui
eventualmente forniti (art. 1673 c.c.).
Il contratto di appalto si distingue, per le sue caratteristiche, da una serie di altre figure
negoziali con le quali vi sono alcuni elementi di affinità. Si pensi, per fare solo degli esempi, alla
somministrazione di cose (art. 1559 c.c.), nella quale è esclusiva o comunque prevalente l’attività
di erogazione rispetto a quella di realizzazione delle cose medesime (altrimenti la
somministrazione si trasforma in appalto); ovvero al contratto d’opera, nel quale l’opera o il
servizio è realizzato con il lavoro “prevalentemente proprio” del prestatore d’opera e non
attraverso una “organizzazione di mezzi”(art. 2222 c.c.); etc.
Il contratto di appalto deve essere distinto anche dalla somministrazione di manodopera
disciplinata dagli articoli 20 e seguenti del decreto. A tal fine, l’art. 29, comma 1, del decreto
stabilisce che il contratto di appalto “si distingue dalla somministrazione di lavoro per la
organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in
relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere
organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la
assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Come si evince dalla disposizione in esame, la distinzione tra i due istituti si ricava a
contrario dalla nozione del contratto di appalto, nel senso che se vi sono i requisiti legali
dell’appalto - cioè l’organizzazione dei mezzi e il rischio della gestione - è esclusa la
somministrazione. La parte innovativa della disposizione consiste nell’aver stabilito gli elementi
dai quali si “può” ricavare la sussistenza o meno del requisito organizzativo dell’appaltatore;
elementi peraltro già individuati dalla giurisprudenza in materia di distinzione tra appalto e
interposizione illecita di mano d’opera.
In particolare, l’art. 29, comma 1 del decreto, fa riferimento alle “alle esigenze dell’opera
o del servizio dedotti in contratto” ed allo “esercizio del potere direttivo nei confronti dei
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lavoratori utilizzati nell’appalto”. Il requisito dell’organizzione dei mezzi da parte
dell’appaltatore si evince quindi dai seguenti elementi.
Data la nozione del contratto di appalto, nel quale l’obbligazione principale
dell’appaltatore consiste nel compimento di un opera o di un servizio, il potere organizzativo e
direttivo nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore deve essere esercitato (esclusivamente)
dall’appaltatore o dai dirigenti o preposti dell’appaltatore, mentre ai fini del coordinamento il
committente si deve relazionare con l’appaltatore o con un referente indicato da questo. Di
conseguenza, se in un sito aziendale i lavoratori dell’appaltatore sono diretti e/o controllati dal
committente, o anche da altro appaltatore, non vengono più considerati alle dipendenze del
formale datore di lavoro ma del soggetto che esercita in concreto la eterodirezione delle
prestazioni e il controllo su di esse (cfr. Cass. 22 agosto 2003, n. 12363; Cass. 30 ottobre 2002,
n. 15337).
Inoltre, le mansioni che vengono svolte dai dipendenti dell’appaltatore devono essere
funzionali esclusivamente alla realizzazione dell’opera o del servizio dedotti nel contratto di
appalto. Ad esempio, se l’appalto di pulizie si riferisce ad un solo immobile ubicato in un sito
aziendale, i lavoratori di quell’appaltatore non devono dedicarsi alle pulizie di altro immobile, o
addirittura a mansioni diverse da quelle di pulizia (Cass. 5 ottobre 2002, n. 14302).
Si segnala che la sussistenza di questi due elementi deve permanere per tutta la durata
dell’appalto. Viceversa, qualora in un momento successivo all’inizio del lavoro il committente
assuma il potere direttivo e/o di controllo sui dipendenti dell’appaltatore, ovvero questi iniziano a
svolgere mansioni non funzionali alla realizzazione dell’opera o del servizio, l’appalto si
trasforma da quel momento in una somministrazione irregolare di mano d’opera (cfr. Cass. S.U.,
21 marzo 1997, n. 2517).
Rimane poi ferma la necessità, per la configurabilità dell’appalto e la conseguente
esclusione della somministrazione di mano d’opera, che l’appaltatore assuma il rischio
d’impresa, il che significa - come detto - che l’appaltatore stesso sia esposto all’eventuale
risultato negativo dell’attività, qualora in ipotesi l’opera o il servizio non fossero portati a
compimento ovvero si manifestasse un rapporto negativo tra i costi e i benefici dell’attività
stessa. Ne consegue, ad esempio, che il compenso pattuito con il committente non dovrà essere
meccanicamente commisurato al tempo di lavoro impiegato dai lavoratori per eseguire il lavoro,
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ma dovrà essere subordinato alla effettiva realizzazione dell’opera o del servizio dedotti nel
contratto di appalto (Cass. 19 novembre 2003, n. 17574).
Infine, si deve tenere conto di un criterio empirico, già evidenziato dalla prassi
giurisprudenziale, secondo cui l’appaltatore deve essere dotato di una propria struttura
imprenditoriale, possibilmente con una collocazione riconoscibile nel mercato di riferimento e
con rapporti commerciali verso una pluralità di committenti; anche se non si può escludere che
una impresa che presenti tali caratteristiche ponga in essere, nel singolo caso, una
somministrazione di lavoro irregolare (Cass. 25 luglio 2003, n. 11545; Cass. 12 marzo 1996, n.
2014).
E’ invece venuta meno, ai fini della distinzione tra appalto e somministrazione di lavoro,
la disposizione di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 1369 del 1960, secondo la quale “è
considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per
esecuzione di opere o di servizi, ave l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature
fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso
all’appaltante”.
In base a tale disposizione, il legislatore aveva stabilito una definizione legale di pseudoappalto vietato nei casi in cui l’appaltatore faceva uso di capitali o strumenti del committente, a
prescindere da ogni indagine circa la effettiva sussistenza dei requisiti del contratto di appalto.
Peraltro, la previsione legale era già stata ridimensionata nell’interpretazione giurisprudenziale
meno risalente, secondo cui non si aveva interposizione illecita quando l’apporto dell’appaltatore
era comunque rilevante, anche attraverso il conferimento di beni immateriali, software, knowhow, etc (cfr. Cass. 19 novembre 2003, n. 17574; Cass. 31 dicembre 1993, n. 13015).
Attualmente, invece, il fatto che l’appaltatore utilizzi capitali, macchine o attrezzature del
committente,
non
determina
automaticamente
la
qualificazione
del
rapporto
come
somministrazione di mano d’opera, a condizione però che sussistano effettivamente i requisiti di
cui si è detto sopra, cioè l’organizzazione dei mezzi ed il rischio d’impresa in capo
all’appaltatore.
2.1. Ambito soggettivo.
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Il presupposto essenziale affinché si configuri la somministrazione irregolare in ipotesi di
appalto privo dei requisiti indicati dall’art. 29, comma 1, del decreto, è che si tratti di lavoratori
con rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell’appaltatore.
Tuttavia, la natura giuridica del soggetto appaltatore è irrilevante ai fini dell’applicazione
della disciplina in esame. Di conseguenza, tanto le regole sulla solidarietà che quelle sulla
somministrazione irregolare sono pienamente applicabili agli appaltatori costituiti in forma di
società cooperative, con riferimento alla somministrazione dei soci lavoratori (Cass. 11
settembre 2003, n. 13373; Cass. 27 maggio 1996, n. 4862), ovvero in ogni altra forma giuridica
lecitamente ammessa nelle attività di impresa.
La disposizioni in esame non si applicano tra il committente e l’appaltatore in tutti i casi
in cui committente sia una persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale (art.
29, comma 3- ter) fermo restando quanto previsto dagli artt. 18 e 19 del medesimo decreto, in
tema di sanzioni. Questo è il caso, ad esempio, del caso in cui vengano affidati lavori in appalto
all’interno di un’abitazione da parte dell’inquilino e/o proprietario.
3. La responsabilità solidale
L’art. 29 del decreto prevede che “Salvo diverse previsioni dei contratti collettivi
nazionali di lavoro stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente
più rappresentative, in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore
di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione
dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali
dovuti.”.
Tale formulazione dell’art. 29 è stata modificata (con decorrenza 25 ottobre 2004) dal
D.Lgs 6 ottobre 2004, n. 251, che ha provveduto ad estendere il principio di solidarietà anche ai
casi di appalti di opere e non solo per quelli di servizi. In precedenza, nel periodo 24 ottobre
2003 e fino al 24 ottobre 2004, il testo della norma stabiliva che “In caso di appalto di servizi il
committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il
limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi e i contributi previdenziali dovuti”.
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Come è noto, il principio della responsabilità solidale sorge qualora vi siano più debitori
obbligati per la medesima prestazione, pertanto ciascun debitore potrà risponderne per intero e
l’adempimento da parte di uno di loro libera gli altri (art. 1292 c.c.).
Circa l’oggetto dell’obbligazione solidale prevista dall’art. 29, il principio di solidarietà è
riferito ai “trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”, salvo che i CCNL abbiano
stabilito diversamente. Secondo questa formulazione, la responsabilità solidale riguarda le
retribuzioni e i relativi contributi previdenziali dovuti dall’appaltatore ai propri dipendenti, che
potrebbero essere anche inferiori a quelli corrisposti al personale del committente. A differenza
del passato, quindi, la responsabilità solidale tra appaltatore e committente non è più limitata agli
appalti da eseguirsi “all’interno” dell’unità produttiva dell’azienda del committente. D’altra
parte, però, sempre nel caso di appalto “interno” non vi è più la parità di trattamento economico
e normativo tra lavoratori dell’appaltatore e del committente (in passato prevista dall’art. 3 della
legge n. 1369/1960).
Si deve poi tenere conto della disciplina generale stabilità dell’art. 1676 c.c., in materia di
crediti dei lavoratori dell’appaltatore.
In base a tale disposizione “coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la
loro attività per eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta
contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che
il committente ha verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”
La disciplina stabilita dell’art. 1676 c.c. rimane in vigore anche dopo l’emanazione dell’art.
29 del decreto, poiché ha presupposti di applicabilità e ambito di applicazione diversi rispetto al
principio di solidarietà previsto dallo stesso art. 29.
In particolare, l’azione diretta verso il committente da parte dei dipendenti dell’appaltatore
non ha limite di tempo (mentre presuppone la sussistenza di un debito del committente verso
l’appaltatore) e trova applicazione nei confronti di tutti i committenti, compresi quelli esclusi
dalla responsabilità solidale di cui all’art. 29, comma 2 (cioè comprese le persone fisiche che non
esercitano l’attività di impresa o professionale; art. 29, comma 3-ter).
Come detto, la disposizione dell’art. 29 del decreto, così come modificato dal D.Lgs. n.
251/2004, prevede che il principio di solidarietà trovi applicazione “salvo diverse previsioni dei
contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro
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comparativamente più rappresentative..”. Pertanto, i contratti collettivi nazionali possono
introdurre in materia una diversa regolamentazione, ovvero anche eliminarlo.
Viceversa, secondo i principi generali in materia, alla contrattazione territoriale e/o
aziendale è riservata solo la possibilità di derogare in melius la disciplina nazionale, stabilendo
quindi condizioni di miglior favore per i lavoratori.
4. Tutela della salute e sicurezza dei lavoratori in tema d’appalto: obblighi e responsabilità
Il contratto d’appalto viene preso in considerazione dal legislatore anche al fine di
garantire le condizioni di sicurezza per la tutela e la salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei
lavoratori. In particolare, il D.Lgs 19 settembre 1994 n. 626 prevede misure atte a tutelare la
salute e la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro sia nei settori pubblici sia nei settori di
attività privata.
L’art. 7 del citato decreto, rubricato genericamente “contratto d’appalto o contratto
d’opera” impartisce gli obblighi che sia il committente sia l’appaltatore sono tenuti ad osservare
al fine di ridurre i rischi legati allo svolgimento delle attività lavorative prestate in regime di
appalto, in caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda, ovvero dell’unità produttiva,
ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi.
Il primo comma dell’art 7, disciplina gli obblighi che gravano sul committente in caso di
affidamento dei lavori all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva a imprese appaltatrici o a
lavoratori autonomi. In particolare, il committente è tenuto:
- a verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi
in relazione ai lavori da affidare in appalto o contratto d’opera, “affidamento che va valutato con
criteri di accertamento ex ante dell’assenza di profili di culpa in vigilando” (Cass. Pen. 11
agosto 2004 n. 34373)
- a fornire, dopo la sottoscrizione del contratto di appalto e prima dell’inizio dei lavori da parte
dell’appaltatore, informazioni dettagliate alle imprese e ai lavoratori autonomi circa i rischi
specifici presenti nell’ambiente di lavoro in cui devono operare e sulle misure di prevenzione e
di emergenza adottate in relazione alla propria attività. Inoltre il secondo comma del medesimo
art. 7 sancisce le prescrizioni per le quali sia il committente sia l’appaltatore sono solidalmente
responsabili e più specificatamente;
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- nella cooperazione per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul
lavoro che incidono sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto;
- nel coordinamento degli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i
lavoratori, attraverso informazioni reciproche per evitare i rischi dovuti a possibili interferenze
fra i lavoratori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. In effetti,
tale processo di coordinamento e di cooperazione deve essere promosso dal datore di lavoro
appaltante, ma non deve estendersi ai rischi specifici propri delle attività delle imprese
appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. Tale cooperazione limitata all’attuazione delle
misure di prevenzione tese ad eliminare i pericoli derivanti dall’esecuzione delle opere appaltate
che incidono ineludibilmente sia sui dipendenti dell’appaltante che dell’appaltatore. La
disposizione ha indubbiamente la finalità di ridurre o eliminare i rischi comuni ai lavoratori delle
due parti ed invero, per il resto, ciascun datore di lavoro deve provvedere autonomamente alla
tutela dei propri prestatori d’opera subordinati, assumendosene la relativa responsabilità. Nel
caso di lavori ripetitivi, il committente è tenuto ad informare ogni volta l’appaltatore (art. 7
comma 1 D.Lgs. 626/94), a nulla rilevando che l’informativa sia stata data in occasione della
prima esecuzione dei lavori (Cass. Pen. 20/09/02 n. 31459);
- nel fornire informazioni specifiche sul piano di emergenza e prendere visione del piano di
sicurezza redatto da ogni impresa appaltatrice, ai fini e per gli effetti del coordinamento
reciproco, tenuto conto altresì di eventuali rischi che l’attività dell’appaltatore introduce
nell’azienda ospitante.
Per ciò che concerne l’obbligo di collaborazione prevenzionale imposto dalla legge tra il
committente e l’appaltatore o lavoratore autonomo che hanno assunto il compito di eseguire
l’opera, lo stesso prescinde dalla forma giuridica del contratto, sussistendo sia nel caso di appalto
ordinario di opere o servizi, sia nel caso, peraltro vietato, di appalto di manodopera, atteso che in
entrambi i casi ricorre l’esigenza di tutela prevenzionale dei lavoratori (così Cass. Pen. 28
gennaio 2004, n. 2946).
Il committente risponde penalmente degli eventi dannosi subiti dai dipendenti
dell’appaltatore quando abbia esercitato ingerenza nell’esecuzione dell’opera mediante una
condotta che abbia determinato o concorso a determinare l’inosservanza di norme di legge,
regolamento o prudenziali poste a tutela degli addetti. Non può invece considerarsi ingerenza, e
non è pertanto idonea ad estendere all’appaltante obblighi e responsabilità propri del datore di
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lavoro, la condotta del committente che consista nella sollecitazione ad osservare le misure di
sicurezza, ad adottare i presidi di tutela, a comportarsi con prudenza e cautela (Cass. Pen. 30
gennaio 2001, n. 3516 – Cass.pen. sez IV, 21 maggio 1996, n. 856 ).
In caso di esternalizzazione di alcune fasi del processo produttivo, il datore di lavoro ha
l’obbligo di accertare i rischi per qualsiasi motivo conseguenti all’affidamento dei lavori
commissionati a soggetti terzi, al fine di rendere edotti i propri dipendenti della sussistenza (o
permanenza) di situazioni di pericolo e al fine altresì di munirli di dispositivi di sicurezza idonei
ad eliminare le situazioni di pericolo riscontrate (Cass. 5 dicembre 2003, n. 18603).
Per ciò che concerne la responsabilità per danni arrecati ai terzi, l’appaltatore ne risponde
personalmente, salvo che non si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall’appaltatore
in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del
committente stesso, oppure che il committente abbia affidato il compimento dell’opera o del
servizio ad un’impresa appaltatrice priva della capacità e dei mezzi tecnici indispensabili per
eseguire la prestazione oggetto del contratto. Tali principi valgono anche in tema di subappalto
perché il sub-commitente risponde nei confronti dei terzi solo nel caso in cui abbia esercitato
ingerenza nell’attività del subappaltatore al punto da rendere quest’ultimo un mero esecutore
(Cass. 23 marzo 1999 n. 2745).
Il sistema sanzionatorio disciplinato all’art. 89 del D.Lgs 626/94, rubricato
“contravvenzioni commesse dai datori di lavoro e dai dirigenti” – stabilisce le sanzioni da
applicare qualora vengano violate disposizioni sulla sicurezza e igiene sul lavoro, nonché le
condizioni psico–fisiche del lavoratore.
L’art. 89, comma 2 del dlgs 626/94, in tema di ipotesi sanzionatorie,
deve essere
necessariamente letto in combinato disposto con il precetto dell’art. 7 riferendosi alla figura
datoriale per l’applicazioni delle sanzioni previste. Occorre evidenziare che in caso di violazioni
riguardanti le prescrizioni contenute nel comma 2 del medesimo articolo 89, la denuncia
all’autorità giudiziaria per mancata cooperazione all’attuazione delle misure di sicurezza, dovrà
riferirsi sia al soggetto appaltatore sia al soggetto committente, entrambi punibili con la stessa
sanzione.
Invero, nel caso di mancata promozione della cooperazione e del coordinamento delle
misure e degli interventi di protezione e prevenzione dai rischi sancita dall’art. 7, comma 3, la
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denuncia all’autorità giudiziaria dovrà essere promossa nei confronti del datore committente,
unico soggetto cui incombe l’obbligo di impulso.
5. Conseguenze sanzionatorie dell’appalto illecito
La sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 29 del decreto – cioè la “organizzazione dei
mezzi necessari da parte dell’appaltatore” e la “assunzione, da parte del medesimo appaltatore,
del rischio d’impresa” – consente di distinguere tra il contratto di appalto e la somministrazione
di lavoro. Come precisa lo stesso art. 29, comma 1, tale distinzione viene posta “ai fini della
applicazione” delle norme del titolo terzo del decreto (che disciplina appunto la
somministrazione e l’appalto), sicché agli appalti privi di quei requisiti, o pseudo-appalti, si
applica la disciplina della somministrazione, con le relative conseguenze sanzionatorie.
Le sanzioni specifiche riferite allo pseudo-appalto sono state introdotte dal D.Lgs. n.
251/2004 con l’art. 29, comma 3-bis, e con l’art. 18, comma 5-bis del decreto.
L’art. 29, comma 3-bis, stabilisce che “quando il contratto di appalto sia stipulato in
violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante
ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche
soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro
alle dipendenze di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’articolo 27, comma 2”.
A sua volta, l’art. 18, comma 5-bis, stabilisce che “Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui
all’articolo 29, comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all’articolo 30, comma 1,
l’utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena della ammenda di euro 50 per ogni
lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori, la pena
è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo”.
In primo luogo, dunque, nel caso di pseudo-appalto si applica la sanzione civile della
costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in capo all’utilizzatore sin dall’inizio
del rapporto stesso. Si tratta della identica sanzione prevista dall’art. 27, comma 1, del decreto
per il caso di somministrazione irregolare.
Come nella somministrazione irregolare il ricorso del lavoratore può essere notificato
soltanto al soggetto utilizzatore, il che esclude la necessaria presenza nel processo dello pseudoappaltatore/somministratore.
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Inoltre, trova applicazione anche il secondo comma dell’art. 27, comma 2 in base al quale
“tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione
previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione
dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti
compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo
durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto
che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”.
In secondo luogo, nel caso di pseudo-appalto “l’utilizzatore e il somministratore” sono
puniti con la sanzione penale di cui all’art. 18 comma 5-bis secondo cui “Nei casi di appalto
privo dei requisiti di cui all’articolo 29, comma 1…..l’utilizzatore e il somministratore sono
puniti con la pena della ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata
di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori, la pena è dell'arresto fino a diciotto mesi e
l'ammenda è aumentata fino al sestuplo”.
Tale sanzione è identica a quella prevista nei confronti di chi esercita senza
autorizzazione l’attività di somministrazione (art. 18, comma 1), e nei confronti di chi ricorre alla
somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti non autorizzati (art. 18, comma 2).
Sia la sanzione civile sia la sanzione penale previste espressamente dal decreto per
l’ipotesi di pseudo-appalto (nella versione novellata dal D.Lgs. n. 251/2004), sono quindi
identiche alle sanzioni civili e penali stabilite per la somministrazione irregolare.
In effetti, come detto, l’art. 29, comma 1, del decreto stabilisce che la sussistenza dei
requisiti tipici del contratto di appalto (l’organizzazione dei mezzi necessari da parte
dell’appaltatore e l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa)
“distingue” tale contratto dalla somministrazione di lavoro “ai fini della applicazione” delle
norme contenute nel titolo terzo del decreto che riguarda appunto la somministrazione e
l’appalto (oltre al distacco). Ne consegue che l’appalto privo di quei requisiti configura sempre,
per definizione, una somministrazione di manodopera, la quale sarà inevitabilmente irregolare
poiché posta in essere senza il rispetto dei presupposti stabiliti dalla legge per tale tipo di
contratto. Del resto, non è casuale che il legislatore nell’art. 18, comma 5-bis, del decreto, nel
sanzionare penalmente lo pseudo-appalto abbia fatto riferimento al committente ed allo pseudoappaltatore qualificandoli come “utilizzatore” e come “somministratore”.
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In tale situazione, ne consegue altresì la necessaria applicazione all’ipotesi di pseudoappalto di tutte le sanzioni previste dalla legge per la somministrazione irregolare di mano
d’opera (compresa quindi la sanzione amministrativa stabilita dall’art. 18, comma 3, e la
sanzione penale prevista dall’art. 28 del decreto).
A conferma di tale conseguenza, la relazione illustrativa al D.Lgs. n. 251/2004 chiarisce
che le sanzioni introdotte espressamente per l’ipotesi dello pseudo-appalto (art. 29, comma 3-bis;
art. 18, comma 5-bis) non esauriscono l’apparato sanzionatorio in materia, ma intendono
esclusivamente “esplicitare l’applicazione della sanzioni di cui al medesimo articolo 18 anche
alle ipotesi di appalto di servizi non genuino ovvero di appalto stipulato in assenza dei requisiti
di cui all’articolo 29, comma 1”. Sempre la citata relazione illustrativa spiega che “Tale ultima
fattispecie è infatti riconducibile alla interposizione illecita ed in quanto tale va sanzionata”.
6. Successione di appalti e disciplina del trasferimento d’azienda.
L’art. 32, comma 2, del decreto ha aggiunto all’art. 2112 del codice civile la previsione
secondo cui “nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui
esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore
opera un regime di solidarietà di cui all’art. 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre
2003, n. 276”.
La versione originaria dell’art. 32, comma 2, del decreto prevedeva invece che nel caso
in questione fosse applicabile esclusivamente il regime di tutela dell’art. 1676 c.c.
L’attuale formulazione dell’art. 32, comma 2, del decreto conferma quindi che in ogni
ipotesi di appalto – compresa l’ipotesi della esternalizzazione del ramo d’azienda con successivo
contratto di appalto – trova applicazione il regime di solidarietà stabilito dall’art. 29, comma 2,
del decreto stesso. Il che non esclude, come detto, che ove ne ricorrano i presupposti sia
applicabile anche l’azione diretta dei dipendenti dell’appaltatore verso il committente prevista
dall’art. 1676 c.c.
Naturalmente, per i crediti precedenti alla cessione si applica la regola della solidarietà di
cui all’art. 2112 c.c.
Infine, si segnala che tale disciplina opera solo in caso di vero e proprio contratto di
appalto, e non nel caso di semplice acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a
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seguito di subentro di un nuovo appaltatore, ipotesi quest’ultima che “non costituisce
trasferimento d’azienda o di parte d’azienda” (art. 29, comma 3, del decreto).
Roma 4 luglio 2005
Il coordinatore della Commissione
Enzo De Fusco
Il Presidente vicario della Fondazione Studi
Giuseppe D’Angelo
I contenuti del presente documento sono stati elaborati con l’unanimità dei componenti
della Commissione
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