Scheda informativa sulla Malattia di Alzheimer Che cos’è la Malattia di Alzheimer? Quali sono le cause? Quali sono i sintomi? Quali sono i trattamenti? Qual è la prognosi? Cosa sta facendo l’AFaR? Che cos’è la Malattia di Alzheimer? La Malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer Disease) è una patologia degenerativa a carattere evolutivo che lentamente distrugge la memoria e altre abilità cognitive, fino a portare nelle fasi più avanzate all’assoluta inabilità anche nelle attività più semplici. L’AD è la causa più comune di demenza tra le persone anziane. Per demenza si intende la compromissione delle funzioni cognitive (pensiero, memoria, ragionamento) a un livello tale da interferire in modo significativo con le attività della vita quotidiana. Oltre all’AD, le forme principali di demenza sono la demenza vascolare, la demenza frontotemporale e la demenza a corpi di Lewy. Si stima che in Europa l’AD rappresenti il 54% di tutte le demenze e che colpisca il 4,4% della popolazione ultrasessantacinquenne. In Italia si calcola che circa un milione di persone presenti una forma di demenza, di cui circa 600.000 l’AD. La malattia prende il nome dal medico Alois Alzheimer che, per primo, nel 1906, notò peculiari anomalie nel cervello di una donna morta di una malattia mentale atipica. I sintomi che aveva mostrato in vita includevano perdita di memoria, problemi nella sfera del linguaggio e un comportamento imprevedibile. Esaminando il cervello della donna, Alzheimer notò la presenza di particolari accumuli proteici (oggi chiamati “placche amiloidi”) e di fasci aggrovigliati (oggi chiamati “grovigli neuro fibrillari”). Placche e grovigli sono due dei segni tipici della malattia (il terzo è la perdita di connessioni tra le cellule cerebrali), ma sono chiaramente individuabili solo post-mortem con l’esame autoptico. E’ per questo motivo che la diagnosi di AD viene usualmente posta in termini di “AD possibile” o “AD probabile” mentre il paziente è in vita. La definizione di AD possibile o probabile è legata al grado di certezza della diagnosi e alla esclusione di altre possibili diagnosi differenziali. Quali sono le cause? Non si è ancora compreso pienamente perché una persona sviluppi l’AD e un’altra no, tuttavia è oggi chiaro che la malattia ha un’eziologia multifattoriale, ossia diversi fattori concorrono a innescare il processo degenerativo del cervello. Le cause includono fattori genetici, ambientali e connessi agli stili di vita (ad esempio, l’alimentazione), la scolarità. - Fattori genetici In un numero ridotto di soggetti l’AD si sviluppa a 30, 40 o 50 anni. Questi soggetti fanno parte di famiglie dove si verifica una mutazione, cioè un cambiamento permanente, di un gene del patrimonio ereditario trasmesso da un genitore al figlio. Le mutazioni genetiche sembrano quindi svolgere un ruolo predominante nell’AD “ad esordio precoce”. La maggior parte dei soggetti, tuttavia, presenta l’AD “ad esordio tardivo”, a carattere sporadico, che di solito si sviluppa dopo i 60 anni. In questi soggetti, numerosi studi hanno mostrato un collegamento tra la malattia e un gene chiamato APOE. Questo gene si può presentare in diverse forme. Una di queste forme, APOE ε4, determina un incremento nel rischio che una persona ha di sviluppare l’AD. Circa il 40% di tutte le persone che sviluppano l’AD ad esordio tardivo ha questo gene. Tuttavia, l’essere portatori del gene non necessariamente comporta che una persona si ammalerà di AD e, di converso, l’AD si manifesta anche in soggetti che non hanno nel loro corredo genetico l’APOE ε4. Un altro gene “sospetto”, SORL1, è stato scoperto nel 2007 e sono oggi in corso molti studi per trovarne altri. - Stili di vita e fattori ambientali Il mantenimento di condizioni di buona salute è legato anche a fattori quali una dieta nutriente, una buona vita sociale, esercizi mentalmente stimolanti. Questi fattori sembrano in grado di ridurre anche il rischio di declino cognitivo e di AD. Sono oggi in corso di indagine le correlazioni tra declino cognitivo e malattie cardiache, ipertensione, diabete e obesità. Quali sono i sintomi? Nella maggioranza dei casi, i primi sintomi si manifestano dopo i 60 anni. Si possono distinguere: segni e sintomi precoci quando la malattia non è ancora diagnosticabile, sintomi di AD lieve, sintomi di AD moderato, sintomi di AD grave. Ciascuna fase corrisponde a modificazioni precise della morfologia e della funzionalità cerebrale. In linea generale, sebbene non sia ancora chiaro cosa dia l’avvio al processo degenerativo, è noto che il danno al cervello ha inizio dai 10 ai 20 anni precedenti qualsiasi sintomo evidente. In un’area profonda del cervello, chiamata corteccia entorinale, cominciano a formarsi i grovigli, mentre in altre aree si formano le placche. Man mano che il processo va avanti, un numero crescente di neuroni sani comincia a lavorare in modo meno efficiente. Successivamente i neuroni perdono la loro capacità di funzionare in modo adeguato fino, eventualmente, a morire. Questo processo comincia quindi a diffondersi a una struttura vicina, chiamata ippocampo, che è fondamentale per la formazione dei ricordi. Progressivamente, aumenta il numero di neuroni morti e il numero di regioni cerebrali interessate. Nello stadio finale della malattia, il danno riguarda tutto il cervello, con una riduzione significativa del tessuto cerebrale (atrofia). Guardando alle varie fasi del processo, si possono distinguere: - segni e sintomi precoci e iniziali Uno dei primi segni dell’AD è dato dall’insorgere di problemi di memoria. Alcune di queste persone presentano una condizione chiamata “MCI (Mild Cognitive Impairment)”, ossia hanno maggiori problemi di memoria rispetto alle persone della loro età ma i sintomi non sono così gravi come nell’AD. Un numero maggiore di soggetti MCI, rispetto alla popolazione non-MCI, svilupperà successivamente l’AD. Altri aspetti che si possono presentare nella fase precoce dell’AD sono: 1) difficoltà di coordinamento motorio, spesso legato a deficit visuo-spaziali; 2) alterazioni del senso dell’olfatto; 3) alterazioni strutturali precoci del cervello nei soggetti MCI e in quelli che hanno una storia familiare di AD. - AD lieve Con il progredire del processo, continua l’indebolimento della memoria e appaiono cambiamenti in altre abilità cognitive. I problemi possono riguardare l’orientamento spaziale e temporale (il soggetto comincia a perdersi), la tendenza a ripetere domande e frasi, la difficoltà nel maneggiare il denaro e nel far fronte ai pagamenti, l’impiegare più tempo nel portare a termine le attività quotidiane, una riduzione nella capacità di giudizio, modificazioni del tono dell’umore e/o della personalità. La prima diagnosi spesso viene effettuata in questa fase. - AD moderato In questa fase vengono tipicamente danneggiate le aree cerebrali che controllano il linguaggio, il ragionamento, i processi sensoriali, il pensiero cosciente. Crescono le difficoltà di memoria e la confusione, e le persone cominciano ad avere difficoltà nel riconoscere familiari e amici. Aumentano i campi di difficoltà e inabilità: nell’imparare cose nuove, nell’espletare attività che richiedono passaggi multipli (ad esempio, vestirsi), nell’adattarsi a situazioni nuove. Possono infine presentarsi problemi neuropsichiatrici quali allucinazioni, deliri, paranoia, comportamento impulsivo e disinibito. - AD grave Le placche e i grovigli si sono diffusi nel cervello e il tessuto cerebrale si è ridotto in modo significativo. Le persone non riescono a comunicare, il linguaggio è gravemente impoverito e sono totalmente dipendenti dagli altri per le loro attività. Alla fine del processo, l’allettamento diventa una condizione comune. Quali sono i trattamenti? L’AD è una malattia complessa, ed è probabile che nessuna singola “pillola magica” possa prevenirla o curarla. Ecco perché i trattamenti attuali si focalizzano sulle diverse e molteplici componenti in campo, quali il mantenimento del funzionamento mentale, il trattamento dei sintomi cognitivi e comportamentali. Gli sforzi della ricerca sperimentale sono volti, inoltre, a ritardare, rallentare o prevenire l’AD. - Mantenimento del funzionamento mentale Sono oggi disponibili quattro tipi di farmaco. Il donepezil (nome commerciale Aricept o Memac), la rivastigmina (Exelon) e la galantamina (Reminyl) vengono usati per l’AD da lieve a moderato. Per l’AD grave viene invece usata la memantina (Ebixa), spesso associata ad uno dei tre farmaci precedenti. Tutti questi farmaci svolgono un’azione regolatrice sui neurotrasmettitori, in particolare l’acetilcolina, le sostanze chimiche che trasmettono i messaggi tra i neuroni. Essi forniscono un supporto al mantenimento del pensiero, della memoria e delle abilità linguistiche e alla gestione di alcuni problemi comportamentali. I farmaci, tuttavia, non modificano il processo di malattia sottostante e sono utili per un periodo che va da alcuni mesi a pochi anni. - Gestione dei problemi comportamentali Sono comuni nell’AD sintomi comportamentali quali insonnia, agitazione, vagabondaggio, ansia, aggressività, depressione, disturbi del comportamento alimentare, allucinazioni visive. Vengono in questi casi adoperati farmaci in uso in psichiatria e destinanti ad alleviare il carico di malattia per i soggetti e per coloro che di questi si prendono cura (caregivers). Tali farmaci appartengono alla categoria degli antidepressivi, ma soprattutto dei neurolettici di nuova generazione. - Rallentare, ritardare o prevenire l’AD Molti degli studi sperimentali in corso guardano, oltre che al trattamento dei sintomi, al processo degenerativo sottostante alla malattia. Sono in fase di studio molti possibili interventi, come ad esempio trattamenti di inibizione enzimatica, antiossidanti, terapie di immunizzazione, di training cognitivo o basati sull’attività fisica. Qual è la prognosi? Fino a trent’anni or sono dell’AD si sapeva molto poco. Oggi la situazione è nettamente cambiata, il corpo delle conoscenze si è ampliato enormemente e sono anche disponibili farmaci in grado di mantenere, seppure per periodi limitati, le funzioni cognitive ad un livello accettabile. Tuttavia, il processo degenerativo della Malattia di Alzheimer rimane ancora oggi senza una cura specifica cioè causale, né sono disponibili soluzioni certe in grado di prevenire, ritardare o rallentare il processo. L’AD è pertanto una delle priorità della ricerca internazionale in campo biomedico e sanitario. Cosa sta facendo l’AFaR? (a cura della dr.ssa Silvia Bernardini) Da sempre l’AFAR è un punto di riferimento nella ricerca sull’AD. Tra i diversi campi, uno dei settori all’avanguardia è quello delle sperimentazioni cliniche e negli ultimi quattro anni sono stati molteplici i farmaci testati sui pazienti. Da pochi mesi si è conclusa la fase di estensione del protocollo sponsorizzato dalla ditta Glaxo che ha valutato a lungo termine l’efficacia e la sicurezza di un farmaco chiamato Rosiglitazone nella sua formulazione a rilascio prolungato (XR) al dosaggio di 8 mg/die in monosomministrazione giornaliera, in pazienti con AD di grado lievemoderato. Il farmaco in questione, già presente in commercio nella forma farmaceutica non a rilascio controllato, viene impiegato in pazienti con diabete mellito, ma erano state scoperte possibili applicazioni nel controllo dei disturbi cognitivi nella Malattia di Alzheimer. Il farmaco, purtroppo, non ha fornito un effettivo riscontro di un impatto positivo nel miglioramento sintomatologico e nella riduzione della velocità della progressione di malattia. Analogo risultato è stato ottenuto nei due anni precedenti con un farmaco antiinfiammatorio (R-Flurbiprofene) e con un farmaco detto omotaurina che avrebbe inibito l’aggregazione dei grovigli neuro fibrillari. E’ in corso da qualche mese uno studio sponsorizzato dalla ditta Lilly dal titolo: “Effect of LY450139, a gamma-secretase inhibitor, on the progression of Alzheimer’s Disease as compared with placebo”. Tale studio si basa sul presupposto scientifico che il farmaco in questione, somministrato per via orale a due differenti dosaggi (140 e 100 mg), in soggetti con AD di grado lieve-moderato, possa avere un’azione disease modifying, cioè di rallentare la velocità di progressione di malattia e non solo esercitare un’azione sintomatica di riduzione dei deficit cognitivi. Il farmaco agirebbe inibendo l’enzima gamma secretasi che porta alla formazione della proteina patologica beta amiloide che, accumulandosi a livello cerebrale, causa la degenerazione e la morte anticipata dei neuroni. La durata dello studio è di circa un anno e mezzo con frequenti controlli ematologici, elettrocardiografici e neuropsicologici. Sia i pazienti che i caregivers, infatti, vengono sottoposti a valutazioni psicometriche e questionari in modo da valutare l’impatto della terapia sulle attività della vita quotidiana e sulle performance cognitive. Ci sarà la possibilità, inoltre, di eseguire una RM volumetrica, cioè una risonanza cerebrale con un particolare software che analizza i volumi di certe regioni cerebrali più coinvolte nell’atrofia. I pazienti verranno inclusi se il punteggio loro MMSE (Mini Mental State Examination, uno degli strumenti usati per la valutazione della funzionalità cognitiva) sarà compreso tra 16 e 26 e se non ci saranno patologie o farmaci concomitanti che controindichino l’assunzione del farmaco sperimentale. E’ infine in corso un ulteriore protocollo di ricerca, molto stimolante dal punto di vista scientifico, sempre sponsorizzato dalla ditta Lilly, dal titolo: “Effect of passive immunization on the progression of Alzheimer’s disease: LY20262430 versus placebo”. Il farmaco in questione è un anticorpo monoclonale anti beta amiloide che somministrato per via endovenosa per 30 minuti al dosaggio di 400 mg ogni 4 settimane per un totale di 18 mesi in pazienti con Malattia di Alzheimer lieve-moderata (MMSE 16-26) potrebbe legarsi e mobilizzare la beta amiloide dalle placche intracerebrali. Il paziente potrà assumere una terapia di base con inibitore dell’acetilcolinesterasi o memantina a dosaggio stabile. Anche in questo studio verranno valutate misure anatomiche tramite RM volumetrica e psicometriche mediante batterie complete di tests neuropsicologici.