8 Il lessico e la formazione dei lessemi Nel capitolo 1 abbiamo introdotto la nozione di lessema, e abbiamo dato per scontato che i parlanti conoscano i lessemi della loro lingua. In questo capitolo approfondiremo la natura di questa conoscenza dei lessemi da parte dei parlanti, e vedremo come essi procedono per formare nuovi lessemi. 8.1 Il lessico mentale Innanzitutto potremmo chiederci: quanti lessemi conoscono i parlanti di una lingua? Sappiamo che non c’è una risposta univoca: l’estensione delle conoscenze lessicali di un parlante dipende da molti fattori, quali la sua età, il suo grado di istruzione, le sue competenze professionali. Possiamo dire che ogni parlante ha un suo lessico mentale, e il contenuto e l’estensione dei lessici mentali di parlanti diversi possono essere anche abbastanza diversi. Il numero di lessemi conosciuti da un parlante adulto è solitamente stimato in qualche decina di migliaia (mentre in un dizionario che aspiri alla massima completezza possono essere registrate anche alcune centinaia di migliaia di lessemi: cfr. De Mauro 2003b, p. 116). Che informazioni contiene il lessico mentale di un parlante riguardo a un lessema? Come minimo, dobbiamo ipotizzare che per ogni lessema siano contenute informazioni sulla parte del discorso cui il lessema appartiene, sul suo significato, e sul suo significante – o meglio, sulle diverse basi che vengono utilizzate per costruire i significanti delle diverse forme del lessema (cfr. cap. 7).1 Un aspetto importante del lessico mentale di qualunque parlante è che esso non è statico, ma si arricchisce continuamente di nuove entità. Infatti nuovi lessemi di una lingua vengono creati continuamente, ogni giorno. Uno studio di Baayen e Renouf (1996) ha mostrato che in un quotidiano come il Times di Londra appaiono ogni giorno diversi nuovi lessemi mai precedentemente utilizzati nello stesso giornale, né registrati dai vocabolari dell’inglese. Si tratta di nuovi lessemi formati da coloro che scrivono su questo giornale (giornalisti, ma anche cittadini comuni, come i lettori che inviano lettere al giornale). Per l’italiano, esempi di lessemi che si incontrano tra le pagine di un giornale (La Stampa di Torino) ma non sono registrati neppure nella più ricca e più recente fonte lessicografica dell’italiano, il GRADIT (De Mauro 1999, 2003c), sono autoreclusione, criptazione, ammanettamento (Gaeta e Ricca 2002, p. 229), parole che vengono facilmente create e altrettanto facilmente capite dai lettori del giornale. I parlanti di una lingua quindi evidentemente dispongono non solo di conoscenze statiche sui lessemi della loro lingua (cioè hanno memorizzato, nel corso del processo di acquisizione della lingua, un elenco più o meno vasto di lessemi), ma anche di meccanismi che permettono loro di produrre e comprendere lessemi sempre nuovi. Cioè i parlanti non conoscono solo i lessemi esistenti della loro lingua, ma sanno anche valutare quali lessemi siano possibili nella loro lingua, e possano quindi essere prodotti all’occorrenza. Ad esempio, mentre scrivevo questo capitolo, ho sentito in un servizio del TG2 del 2 ottobre 2004 l’enunciato (1): (1) i carabinieri sono sfiduciosi di poterlo rintracciare Non avevo mai incontrato prima il lessema SFIDUCIOSO: questo lessema non è elencato nel GRADIT e una ricerca in Internet effettuata con google.it (sempre il 2 ottobre 2004) ha permesso di reperire una sola altra sua occorrenza, che riporto in (2): Gli psicolinguisti da anni studiano molto dettagliatamente la natura e l’organizzazione delle informazioni contenute nel lessico mentale dei parlanti. Qui non possiamo per motivi di spazio render conto dei risultati di queste ricerche (si veda per una presentazione generale Laudanna e Burani 1999). 1 78 (2) le persone ancora preferiscono andare nel negozio e sono sfiduciose con la carta di credito on-line (intervento su Mlist, una lista di discussione dedicata a tutti gli aspetti del marketing on line) Nonostante la novità di questo lessema, non abbiamo difficoltà a comprendere gli enunciati in (1) e (2): come parlanti dell’italiano, infatti, sappiamo che un aggettivo Y formato per prefissazione di sad un altro aggettivo X ha il significato “non X”: sleale significa “non leale”, scontento significa “non contento”, sgradevole significa “non gradevole”, dunque sfiducioso significherà “non fiducioso”. Io stessa, qualche giorno dopo aver incontrato questo neologismo2 per la prima volta, mi sono trovata ad usarlo spontaneamente in una conversazione con un collega, e non saprei dire se lo ho riconiato secondo il bisogno comunicativo del momento o ho attinto al mio lessico mentale, che si era recentemente arricchito di questo nuovo elemento. La competenza di un parlante comprende dunque non solo la conoscenza di lessemi esistenti, ma anche la capacità di formare e capire nuovi lessemi secondo certe regole. L’insieme di queste due realtà (lessemi e regole di formazione dei lessemi) costituisce quello che a partire da Chomsky (1970; cfr. supra, cap. 6) è stato chiamato componente lessicale di una grammatica. 8.2 Modi per formare nuovi lessemi Nuovi lessemi possono essere formati secondo diversi tipi di procedimenti. In primo luogo, si possono formare per composizione di due o più lessemi esistenti. Ad esempio, sono lessemi composti dell’italiano caposquadra, apripista, buttafuori, cassaforte, altopiano, cassapanca, pesce spada, e migliaia di altri.3 Si possono formare lessemi anche con il procedimento cosiddetto della composizione neoclassica: in questo caso vengono uniti non due o più lessemi esistenti, ma due o più elementi che hanno significati della stessa natura di quelli dei lessemi (dunque non sono affissi), ma non condividono un’altra caratteristica essenziale dei lessemi, quella di poter essere utilizzati, nelle loro forme flesse, come costituenti di sintagmi e frasi. Esempi di questi elementi neoclassici sono entità come CARDIO- o NEFRO-, che hanno un significato coincidente con quello dei lessemi CUORE e RENE, e possono entrare in composizione, ad esempio, con elementi come -LOGIA, -PATIA, dando luogo a composti come CARDIOLOGIA, NEFROPATIA, ma non possono essere utilizzati in costruzioni sintattiche (non diciamo *mi fa male un nefro, *senti come mi batte il cardio). Questi elementi sono detti neoclassici perché hanno origine da lessemi delle lingue classiche, greco e latino. La composizione neoclassica è utilizzata soprattutto per la formazione di termini tecnici di diverse scienze e discipline, alcuni dei quali però possono denominare referenti molto comuni e conosciuti e divenire quindi vocaboli ben noti alla totalità dei parlanti (si pensi a lessemi come FRIGORIFERO o GINECOLOGO).4 Un po’ a metà strada tra i composti e i sintagmi si collocano i lessemi polirematici. Si tratta di strutture che, come i composti, sono costituite da due o più lessemi; a differenza dei composti, però, i lessemi polirematici hanno la struttura interna di un sintagma, ma il loro significato (a differenza di quello dei sintagmi) non è riducibile alla semplice combinazione dei significati dei costituenti. I lessemi polirematici sono sentiti dai parlanti come singole unità lessicali, e possono appartenere a qualsiasi parte del discorso; i più numerosi sono quelli nominali (come anima gemella, carro armato, scala mobile, ordine del giorno), verbali (come dare i numeri, andare in onda, fare fuori, perdere la testa, e i cosiddetti “verbi sintagmatici”, costituiti da un verbo e un avverbio con significato spaziale, come buttare giù, tirare su) e avverbiali (come a caldo, al verde, di punto in bianco).5 Si chiama neologismo un lessema coniato di recente rispetto all’epoca considerata. Quindi sfiducioso è un neologismo alla fine del 2004, mentre, ad esempio, i lessemi coniati da Dante erano neologismi nel primo quarto del XIV secolo. 3 Sui composti in italiano si vedano almeno Dardano (1978, cap. 4) e Bisetto (2004). 4 Sulla composizione neoclassica in italiano, si veda Iacobini (2004a). 5 Sui lessemi polirematici in italiano si veda almeno Voghera (2004). 2 79 Inoltre, i lessemi possono formarsi per aggiunta di un affisso a un lessema già esistente: la formazione di lessemi per aggiunta di affissi è detta derivazione, e i tipi di derivazione più diffusi sono la suffissazione e la prefissazione. Sono esempi di lessemi italiani suffissati fioraio, autista, postino, libreria, bestiame, stupidità, bellezza, sentimento, organizzazione, lavatrice, venditore, nazionale; sono esempi di prefissati autogestione, copilota, maxischermo, microfilm, miniabito, supereroe, amorale, disonesto, inutile, antisismico, extraparlamentare, internazionale, multietnico, plurisecolare, transalpino, destabilizzare, prefabbricare, rifare, scucire, sottopagare, sovrapporre. Una differenza importante tra suffissazione e prefissazione in italiano consiste nel fatto che mentre molti suffissi possono creare lessemi appartenenti a parti del discorso diverse da quella del lessema di partenza (ad esempio, stupido è un aggettivo ma stupidità è un nome), i prefissi non cambiano mai la parte del discorso del lessema cui si applicano, come si può verificare esaminando gli esempi di lessemi prefissati appena citati. Un altro modo per formare nuovi lessemi è la conversione, un procedimento che consiste nel creare un nuovo lessema appartenente a una certa parte del discorso a partire da un lessema esistente appartenente a una parte del discorso diversa, senza però utilizzare alcun affisso. Sono esempi di lessemi formati per conversione in italiano nomi come arrivo, sosta (rispettivamente dai verbi arrivare e sostare) e verbi come martellare, cestinare, stancare, snellire.6 Combinando prefissazione e conversione si formano i verbi cosiddetti parasintetici, cioè verbi come abbottonare, imburrare, abbellire, inaridire. Si tratta di verbi prefissati che derivano da nomi e aggettivi senza che sia attestato né un verbo denominale o deaggettivale non prefissato formato per conversione dalle stesse basi (*bottonare, *burarre, *bellire, *aridire), né un corrispondente nome o aggettivo prefissato (*abbottono, *imburro, *abbello, *inarido). Si può ipotizzare quindi che la derivazione di questi verbi avvenga per simultanea prefissazione e conversione.7 Suffissazione, prefissazione, composizione e conversione sono i procedimenti più frequentemente utilizzati in italiano per la formazione di nuovi lessemi, ma non esauriscono i modi in cui è possibile arricchire il lessico di una lingua (cioè aumentare il numero di lessemi utilizzabili dai suoi parlanti). Va ricordato infatti un altro metodo cui si fa frequentemente ricorso per arricchire il lessico, che consiste nel prendere a prestito lessemi di una lingua straniera. Nell’italiano di oggi è molto frequente l’utilizzo di parole dell’inglese (si pensi a parole come computer, mouse, e-mail), ma in ogni epoca il lessico della lingua italiana si è arricchito di prestiti tratti da numerose altre lingue: sono prestiti da lingue più o meno lontane lessemi di uso quotidiano come carciofo, divano, tè, patata, banana. Un altro modo di sfruttare il lessico di una lingua straniera per arricchire quello della propria lingua consiste nel procedimento del calco: in questo caso, invece di utilizzare direttamente un lessema straniero, se ne copia la struttura: sono calchi lessemi come grattacielo e retroterra, modellati rispettivamente sull’inglese sky-scraper e sul tedesco Hinterland. Altri procedimenti a volte utilizzati per la formazione di nuovi lessemi, di uso assai meno frequente di quelli finora elencati, sono la retroformazione, la riduzione e la formazione di cosiddette parole macedonia. La retroformazione è un fenomeno analogico che porta alla creazione di un nuovo lessema, erroneamente ricostruito dai parlanti in quanto considerato fonte di un lessema già esistente, che è invece frutto di un diverso processo di formazione: ad esempio, in italiano è una retroformazione il verbo compravendere, formato a partire da compravendita, che non è, come si potrebbe credere, un nome deverbale derivato da compravendere, ma un composto di due nomi: compra, formato per conversione da comprare, e vendita, formato per suffissazione da vendere. Con riduzione si indicano un insieme di procedimenti che portano alla formazione di varianti più brevi di lessemi esistenti, che a volte però divengono così frequenti nell’uso da essere da molti parlanti percepite come lessemi autonomi: sono riduzioni parole come auto, frigo, foto, moto (rispettivamente da automobile, frigorifero, fotografia, motocicletta); rientra nell’ambito della riduzione anche la formazione di sigle, come CAI (Club Alpino Italiano), CD (compact disc). 6 7 Sulla conversione si veda Grossmann e Rainer (a cura di) (2004, cap. 7). Sui parasintetici in italiano si veda Iacobini (2004b). 80 Infine, sono detti nella tradizione italiana parole macedonia i lessemi formati unendo elementi di altri lessemi già esistenti che non sono però dei morfi, ma solo sottoparti di un lessema (estese più o meno di un morfo): sono esempi di parole macedonia vocaboli come quallina e zebrallo, che indicano animali ibridi (rispettivamente tra una quaglia e una gallina e tra una zebra e un cavallo). Nel resto di questo capitolo, ci concentreremo soprattutto sulla suffissazione, che è il procedimento più usato per la formazione di nuovi lessemi in italiano.8 8.3 Le regole di formazione dei lessemi La capacità di produrre e comprendere sempre nuovi lessemi è stata modellata ipotizzando che i parlanti abbiano a disposizione (apprendano nel corso dell’acquisizione della loro lingua) delle regole di formazione dei lessemi (d’ora in poi, RFL).9 Una RFL può essere, come abbiamo già detto, una regola di composizione, di derivazione o di conversione. Per descrivere una RFL deve essere specificata la classe di lessemi cui la regola può applicarsi, il tipo di operazione che si effettua applicando la regola, e il tipo di lessemi cui la regola dà luogo. La classe di lessemi cui una RFL si applica è detta dominio o base della regola.10 Vedremo tra breve che una RFL non può applicarsi indifferentemente a qualunque lessema, ma è sensibile a delle restrizioni. L’operazione che si effettua applicando la regola può essere di diversi tipi. Un caso molto comune è la semplice aggiunta di un affisso a un membro del dominio, ma anche nella formazione dei lessemi si hanno tutti quei fenomeni non riconducibili a un modello a entità e disposizioni, che nel capitolo 5 abbiamo esemplificato soprattutto con casi riguardanti la formazione di forme flesse. Anche nella formazione di lessemi si hanno casi che in un modello a entità e disposizioni dovrebbero essere descritti ricorrendo a nozioni quali morfi zero (cfr. (3)), morfi sottrattivi (cfr. (4)), morfi soprasegmentali (cfr. (5)), morfi discontinui (cfr. (6)): (3) inglese cut “tagliare” talk “parlare” cut “taglio” talk “conferenza, discorso” (4) russo logika “logica” logik “logico” matematika “matematica” matematik “matematico” (dati da Dressler 1987, p. 104) 8 Una trattazione ricchissima dei diversi procedimenti di formazione dei lessemi oggi usati in italiano si ha nel volume a cura di Grossmann e Rainer (2004), dal quale abbiamo tratto la maggior parte degli esempi utilizzati nel testo di questo paragrafo. 9 Alcuni studiosi ipotizzano che la formazione di nuovi lessemi non avvenga seguendo regole, ma per via analogica, formando nuovi lessemi sul modello di determinati lessemi esistenti. Sono stati sviluppati infatti modelli della competenza linguistica che fanno a meno della nozione di regola, e rendono conto della formazione di strutture complesse tramite l’ipotesi dell’adeguamento a uno schema astratto costruito a partire dalle somiglianze tra un insieme di forme esistenti che fanno da modello per la creazione di forme nuove. Su questo tipo di modelli in morfologia cfr. Bybee (1988, 1995). Il dibattito tra fautori di modelli basati su regole e modelli in cui il ruolo principale è giocato non da regole ma da rappresentazioni e da requisiti di buona formazione cui ogni nuovo elemento deve obbedire travalica i confini della morfologia, e si ritrova anche in fonologia e in sintassi. In questo libro, abbiamo adottato l’ipotesi che la competenza dei parlanti di una lingua comprenda regole (ad esempio, RFL e regole di realizzazione per la generazione di forme flesse). 10 Aronoff (1976, p. 22) definisce base di una regola di formazione di lessemi l’insieme dei lessemi sui cui la regola può operare, o un qualunque membro di questo insieme: egli non utilizza quindi termini distinti per designare il singolo lessema cui una RFL si applica in una data circostanza, e l’intera classe di lessemi cui una RFL può potenzialmente applicarsi. Utilizzare il termine dominio per designare la classe delle basi cui una RFL può applicarsi permette di esprimere un’utile distinzione tra classe e individuo. Inoltre, questa soluzione terminologica permette di minimizzare in questo contesto l’uso del termine base, che in italiano presenta una fastidiosa coincidenza terminologica con base nel senso in cui questo vocabolo è stato usato nel cap. 7. 81 (5) inglese permit “permettere” permit “permesso” segment “segmento” segment “segmentare” (dati da Bauer 1983, p. 125) (6) arabo kataba “scrivere” kitāb “libro” È bene quindi concepire l’operazione effettuata da una RFL come una regola di realizzazione, che permette di derivare un nuovo lessema effettuando un qualche tipo di operazione (non necessariamente riducibile alla pura aggiunta di un affisso) su un rappresentante fonologicamente specificato (una base, nel senso che abbiamo dato a questa nozione nel cap. 7) di un lessema appartenente al dominio della regola. I lessemi che una RFL può creare sono detti uscita della regola (in inglese, output). L’uscita di una RFL possiede determinate caratteristiche categoriali e semantiche. Una certa regola forma cioè tipicamente lessemi appartenenti a una determinata parte del discorso, e aventi una componente di significato in comune. Questa componente di significato comune a tutte le uscite di una regola è stata denominata da diversi studiosi con il termine tedesco Wortbildungsbedeutung, letteralmente “significato della formazione della parola”, e va distinta dal semplice significato lessicale di un lessema derivato o composto.11 Ad esempio, potremmo dire che la Wortbildungsbedeutung della regola che forma nomi derivati con i suffissi -tore e -trice in italiano consiste nel formare nomi che possono essere i soggetti del verbo cui i suffissi si aggiungono: una lavatrice lava, una stiratrice stira, un frullatore frulla, un lavoratore lavora. Solo il significato lessicale dei singoli derivati ci dirà poi se l’entità designata è una macchina o apparecchio, come nel caso di lavatrice e frullatore, o una persona, come nel caso di lavoratore; in alcuni casi, poi, uno stesso lessema, come stiratrice, può designare sia la macchina che la persona in grado di compiere l’azione designata dal verbo.12 È stato osservato (cfr. Szymanek 1988) che i tipi di significati delle regole di formazione dei lessemi si raggruppano per lo più in categorie generali: ad esempio, le regole che formano nomi possono essere raggruppate secondo il tipo di uscita almeno nelle categorie elencate in (7), dove per ogni categoria diamo anche qualche esempio di derivato italiano: (7) nomi d’azione nomi di qualità nomi d’agente nomi di strumento nomi di luogo nomi collettivi organizzazione, ricongiungimento, pulitura, lavaggio, arrivo… stupidità, bellezza, codardia, balordaggine… fioraio, barbiere, autista, postino, educatore, parlante, mangione… bistecchiera, lavatrice, frullatore, annaffiatoio, disinfettante, cancellino… abbeveratoio, stireria… pollame, ragazzaglia, posateria, ossatura… Le RFL sono soggette a delle restrizioni. Possiamo distinguere due ordini di restrizioni: restrizioni di carattere generale, dette a volte anche condizioni, e restrizioni che riguardano specificamente una singola RFL.13 Nei paragrafi seguenti illustreremo brevemente questi fenomeni. 8.4 Condizioni sulle RFL 8.4.1 Il blocco Rainer (2004, p. 13) propone di tradurre in italiano Wortbildungsbedeutung con “significato morfologico” o “significato derivazionale”: la seconda proposta appare preferibile. 12 Si potrebbe discutere in questo caso se si tratta dello stesso lessema o di due lessemi diversi. 13 Nella letteratura in lingua inglese, si trovano usati quasi intercambiabilmente i termini condition, restriction e constraint; Rainer (in stampa) sembra applicare una distinzione tra universal constraints e language-specific restrictions. 11 82 Tra le condizioni di carattere generale, particolarmente importante è il cosiddetto principio del blocco: questo principio rende conto del fatto che un lessema, che sarebbe possibile formare secondo una RFL esistente, non viene formato se nella lingua in questione (o meglio, come osserva Rainer (in stampa), nel lessico mentale di un parlante) esiste già una parola con lo stesso significato. Un esempio spessissimo citato dell’operare di questo principio ci è offerto dai dati in (8): (8) inglese verbo write “scrivere” read “leggere” steal “rubare” nome d’agente derivato dal verbo writer “scrittore” reader “lettore” ?stealer “rubatore” nome sinonimo * * thief “ladro” L’esistenza del lessema THIEF “ladro” blocca la formazione di un lessema STEALER, derivato dal verbo TO STEAL “rubare” con il suffisso -ER che forma nomi di agente: non c’è nulla di semanticamente né fonologicamente anomalo in un vocabolo come stealer, formato con la stessa RFL che forma lessemi molto comuni come reader e writer: l’unico motivo per cui STEALER non viene formato è che i parlanti non sentono il bisogno di formarlo, in quanto per esprimere il significato di “chi ruba” dispongono già di THIEF. In realtà però il blocco è una tendenza, non una legge assoluta. Infatti, se cerchiamo su Internet occorrenze di stealer, ne troviamo un certo numero: ad esempio, c’è un sito chiamato The girlfriend stealer’s homepage, e si pubblicizza un programma chiamato password stealer. Possiamo ipotizzare che i diversi parlanti che hanno voluto coniare questa parola, che sono persone palesemente schierate in favore di determinate attività di stealing, cioè di furto, abbiano voluto coniare un lessema che descrivesse meglio la loro figura di attivi “rubatori” di cose che nella loro filosofia di vita è bello rubare, quali le fidanzate e le password altrui. Usare stealer invece di thief, parola usata anche come ingiuria e dotata di connotazioni negative, è parte di un’ideologia di affermazione del diritto a certi tipi di furto: lo stealer non si considera un semplice thief, e dunque si denomina in modo diverso. Da questo punto di vista, potremmo anche sostenere che in realtà il principio del blocco non è stato violato: forse stealer non è veramente sinonimo di thief nel lessico mentale di chi ha coniato e di chi usa questa parola. 8.4.2 L’ipotesi della base unica Nel corso di almeno trent’anni di ricerca sulle caratteristiche delle RFL, sono state proposte diverse condizioni di carattere generale.14 In molti casi, però, il procedere della ricerca ha mostrato che condizioni di supposta validità universale non erano in realtà tali, e si trattava al massimo di tendenze, violabili in determinate circostanze. Una condizione di carattere generale su cui si è molto discusso è la cosiddetta ipotesi della base unica (IBU), secondo la quale ogni RFL si applica a lessemi appartenenti ad una sola parte del discorso.15 L’osservazione che spesso le RFL operino su un insieme di lessemi definito dall’appartenenza a una determinata parte del discorso ha anche implicitamente dato luogo a una certa classificazione tradizionale dei suffissi, spesso suddivisi in denominali, deverbali e deaggettivali. Ad esempio, si dice che -tore è un suffisso deverbale, -oso un suffisso denominale, ità un suffisso deaggettivale. Descrizioni approfondite di singoli affissi, però, hanno mostrato che spesso queste etichette sono valide al massimo come indicazione della parte del discorso prevalente tra i lessemi che costituiscono il dominio della regola, e che eccezioni si trovano quasi sempre. Ad esempio, Montermini (2001) mostra che su circa 1100 aggettivi in -oso elencati in un dizionario 14 Per una rassegna, si veda Scalise (1994, cap. VIII). L’ipotesi è stata formulata originariamente da Aronoff (1976, pp. 47-48); per l’italiano è stata ripresa e approfondita da Scalise (1983, pp. 273-282; 1990, pp. 203-215; 1994, pp. 210-217). 15 83 italiano, benché la maggioranza siano denominali, oltre 60 non sono derivati da nomi, ma da verbi (pensoso, precipitoso, scivoloso…) o da aggettivi (serioso). Diversi autori (Rainer 1989, p. 47; Plag in stampa a) hanno quindi proposto che la vera caratteristica che rende unico il dominio di una RFL non sia l’appartenenza dei lessemi cui la RFL si applica a una determinata parte del discorso, ma la loro condivisione di determinate caratteristiche semantiche, che rendano possibile la loro combinazione con la Wortbildungsbedeutung introdotta dall’affisso. Ad esempio, Rainer (1989) propone che il dominio del suffisso italiano -aggine sia costituito da lessemi che indicano “qualità umane negative”: questa caratterizzazione è di natura semantica, ma sembra render conto dei dati meglio di una caratterizzazione basata esclusivamente sulla parte del discorso, che classificherebbe -aggine come suffisso deaggettivale. Abbiamo infatti derivati con -aggine sia deaggettivali che denominali, come si vede in (9): (9) a. deaggettivali b. ridicolaggine cocciutaggine sbadataggine denominali orsaggine birbantaggine I nomi in (9b) indicano, letteralmente o metaforicamente, esseri umani considerati negativamente dal punto di vista del parlante, e quindi rientrano perfettamente in un dominio definito non dall’appartenenza a una parte del discorso, ma dalla condivisione di alcuni tratti semantici. 8.5 Restrizioni sulle RFL Nel paragrafo precedente abbiamo brevemente illustrato due condizioni che sono state ipotizzate come condizioni di validità generale, che si applicano a qualunque possibile RFL. In questo paragrafo vedremo invece restrizioni più specifiche, che vanno descritte separatamente per ciascuna singola RFL di una specifica lingua. Le restrizioni sulle RFL vengono di solito ricondotte ai diversi livelli di analisi linguistica: si possono individuare restrizioni fonologiche, morfologiche, sintattiche e semantiche (cfr. Aronoff 1976, p. 47 sgg.; Booij 1977, pp. 120-143; Scalise 1994 pp. 108-118). In sostanza, qualunque informazione associata alla base può essere oggetto di restrizioni. 8.5.1 Restrizioni fonologiche Vediamo in (10) alcuni dati che ci permettono di verificare l’esistenza di una restrizione di carattere fonologico, riguardante la formazione di aggettivi con il suffisso -ale a partire da nomi: (10)16 [[X]N +ale]A a. dente palato naso dorso dentale palatale nasale dorsale b. alveolo velo *alveolale *velale c. alveolo alveolare 16 Nella formula in (10), [X] sta per qualunque base appartenente al dominio; N (= nome) e A (= aggettivo) indicano la parte del discorso cui appartengono rispettivamente la base e l’uscita della regola di suffissazione di -ale illustrata. 84 velo velare I dati in (10a) mostrano che da nomi che indicano determinate parti del corpo (qui esemplificate solo con organi appartenenti all’apparato fonatorio) è possibile derivare aggettivi in -ale che segnalano una relazione con la parte del corpo in questione. Dal punto di vista semantico, nulla dovrebbe impedire la formazione dei lessemi in (10b): eppure sappiamo, come parlanti dell’italiano, che gli aggettivi derivati da alveolo e velo non sono quelli in (10b), ma quelli in (10c). Come spiegare questa differenza? Essa è dovuta al fatto che i lessemi alveolo e velo contengono come ultimo fonema della radice una /l/: lessemi che presentano questa caratteristica non rientrano nel dominio del suffisso -ale, ma possono essere derivati con il suo allomorfo fonologicamente condizionato -are. Siamo quindi in presenza di una restrizione di carattere fonologico: un certo suffisso, -ale, si aggiunge solo a basi che non presentino una determinata caratteristica fonologica. Questa restrizione ha evidentemente una base fonetica nella tendenza alla dissimilazione, cioè a non ripetere a poca distanza all’interno di una stessa parola due suoni identici. Un altro esempio di restrizione fonologica si osserva nei dati in (11): (11) [s+ [X] A] A a. b. contento leale fiducioso utile onesto scontento sleale sfiducioso *sutile *sonesto In (11a) vediamo che il prefisso s- si aggiunge normalmente ad aggettivi per formare altri aggettivi di significato contrario: perché non si formano dunque i derivati in (11b)? Anche in questo caso, la causa dell’inesistenza di lessemi come *sutile e *sonesto non è di natura semantica (esistono lessemi come inutile e disonesto), ma fonologica: il prefisso s- non si aggiunge a lessemi che iniziano in vocale.17 In (12) vediamo infine un caso in cui una restrizione di natura fonologica non riguarda la costituzione in fonemi dei significanti dei lessemi del dominio, ma la loro struttura prosodica. Il suffisso inglese -y, che forma ipocoristici di nomi propri, si aggiunge solo a basi monosillabiche (12a), non a basi più lunghe (12b): (12) a. b. John Bill Jim Jason Nicholas Johnnny Billy Jimmy *Jasony *Nicholasy 8.5.2 Restrizioni morfologiche Sono comunemente definite restrizioni morfologiche le restrizioni che riguardano la possibilità di combinazione tra determinati affissi, in lessemi formati attraverso l’applicazione di più di una RFL. In (13) si presentano esempi e dati sui nomi d’azione derivati con il suffisso -zione da tre diversi tipi di verbi italiani, a loro volta derivati con i tre suffissi -izzare, -ificare e -eggiare. (13) 17 [[X]V + zione]N Per un’approfondita analisi delle motivazioni fonologiche di questa restrizione si veda Passino (in stampa). 85 lottizzare fluidificare danneggiare lottizzazione fluidificazione *danneggiazione 1021 lemmi in -izzazione in De Mauro (1999, 2003c) 214 lemmi in -ificazione in De Mauro (1999, 2003c) 0 lemmi in -eggiazione in De Mauro (1999, 2003c) Come si vede, i verbi derivati con -eggiare non rientrano nel dominio della RFL che forma nomi d’azione in -zione. Anche in questo caso, la causa dell’incompatibilità tra i verbi in -eggiare e il suffisso -zione non è di natura semantica: questi verbi hanno comunemente derivati con il suffisso mento (per es. danneggiamento), che ha un significato del tutto paragonabile a quello di -zione. Si ha però una restrizione morfologica che impedisce l’aggiunta di -zione a verbi in -eggiare. Al contrario, -zione si aggiunge con particolare frequenza a verbi in -izzare: in De Mauro (1999, 2003c) si hanno 1146 verbi in -izzare e 1021 derivati in -izzazione, dunque oltre l’89% dei verbi in izzare ha un derivato in -zione. Un rapporto di solidarietà tra due affissi come quello tra -izzare e zione è detto potenziamento: la presenza di -izzare in un verbo potenzia la possibilità che da questo verbo sia formato un derivato in -zione. Le restrizioni morfologiche esemplificate costituiscono nel primo caso una restrizione morfologica negativa (-zione non si attacca a verbi che contengono un determinato suffisso, -eggiare), nel secondo una restrizione positiva (-zione predilige verbi che contengono un determinato suffisso, izzare). Le restrizioni morfologiche possono riguardare non solo la presenza di uno specifico elemento nella base, ma la struttura stessa della base: ad esempio, sembra che in italiano i verbi parasintetici in -ire formino nomi d’azione con il suffisso -mento e escludano -zione, come mostrano i diversi valori di grammaticalità di approfondimento, inasprimento, impoverimento, sfoltimento e *approfondizione, *inasprizione, *impoverizione, *sfoltizione (cfr. Scalise 1983, pp. 207-208). Aronoff (1976, pp. 51-52) classifica tra le restrizioni morfologiche anche quelle che hanno a che fare con i cosiddetti tratti di strato.18 I tratti di strato sono proprietà dei lessemi e degli affissi di una lingua che questi elementi hanno per il fatto di essere entrati a far parte della lingua secondo una certa trafila diacronica. In italiano, ad esempio, possiamo distinguere tra elementi di origine latina entrati in italiano per trafila popolare, e elementi di origine dotta; inoltre, possiamo distinguere elementi di tipo non nativo, cioè di origine non latina, entrati in italiano come prestiti. I lessemi e gli affissi appartenenti a strati diversi si distinguono di solito per caratteristiche fonologiche: ad esempio, in italiano solo parole dello strato non nativo contengono sequenze di fonemi come // o // (cfr. i prestiti greci sintagma, dogma, paradigma, psicologia...), e solo le parole dello strato non nativo hanno una forma di citazione che termina in ostruente (cfr. prestiti come sport, yogurt, griffe…). Un esempio di restrizione che si spiega considerando i tratti di strato degli elementi coinvolti è la seguente: in inglese il suffisso -ity, che è di origine latino-romanza, ed è definito nel sistema di Aronoff dal tratto di strato [+ latinate], forma nomi di qualità a partire da aggettivi, e si attacca solo ad aggettivi che siano anch’essi [+ latinate]; invece il suffisso -ness, di origine germanica, semanticamente paragonabile a -ity, si attacca sia a basi [+ latinate] che a basi dello strato nativo, cioè a parole di origine germanica. Esempi dell’operare di questa restrizione sono i diversi valori di grammaticalità dei derivati in (14): (14) a. aggettivo [- latinate] derivato con il suffisso [+ latinate] -ity derivato con il suffisso [- latinate] -ness happy *happity happiness “felice” “felicità” “felicità” b. aggettivo [+ latinate] derivato con il suffisso [+ latinate] -ity derivato con il suffisso [- latinate] -ness stupid stupidity stupidness “stupido” “stupidità” “stupidità” 18 Così anche Booij (1977, pp. 131-139); Scalise (1994, pp. 115-116) considera invece le restrizioni che riguardano i tratti di strato un tipo di restrizione a sé. 86 Dunque possiamo concludere che in inglese il suffisso -ity si lega solo a basi [+ latinate], mentre il suffisso -ness non è soggetto a restrizioni di strato. 8.5.3 Restrizioni sintattico-semantiche Trattiamo insieme delle restrizioni di carattere sintattico e di quelle di carattere semantico perché spesso è difficile distinguere tra informazioni appartenenti a questi due livelli (per un approfondimento su questo punto, cfr. Dovetto, Thornton e Burani 1998). Un primo tipo di restrizione di carattere sintattico riguarda il fatto che, benché l’IBU non possa essere considerata una condizione che ha validità assoluta per ogni possibile RFL, esistono pur sempre affissi che effettivamente selezionano un dominio costituito da lessemi appartenenti a un’unica parte del discorso: ad esempio, il prefisso ri- si aggiunge solo a verbi, e il prefisso vicesolo a nomi (Montermini 2001). Inoltre, spesso il dominio di una RFL è specificato in modo da restringere il campo dei lessemi cui la regola si può applicare, selezionando solo lessemi dotati di certi tratti sintattici e semantici. Si considerino i dati in (15), relativi al suffisso -tore: (15) [[X]V + tore]N a. b. scoprire morire scopritore *moritore Abbiamo già visto che -tore si aggiunge a verbi19, e abbiamo detto che la Wortbildungsbedeutung della RFL che introduce questo suffisso è la formazione di nomi che possono essere soggetto del verbo. Il dato in (15b) ci mostra però che questa caratterizzazione non è sufficiente: il verbo morire può avere un soggetto, ma il lessema *moritore è mal formato. Si è osservato infatti (cfr. Bisetto 1995) che nel dominio della RFL che forma derivati con il suffisso -tore non rientrano i verbi il cui soggetto non ha le caratteristiche di Agente (tra cui morire, il cui soggetto ha il ruolo semantico di Esperiente, non di Agente). Dunque una RFL può presentare restrizioni riguardanti non solo la parte del discorso cui appartengono i lessemi che rientrano nel suo dominio, ma anche diversi tratti sintattici e/o semantici presentati da questi lessemi. 8.6 Produttività delle RFL Le RFL hanno diversa produttività, cioè sono usate con diversa frequenza per formare nuove parole. Diciamo che una RFL è produttiva quando, in un determinato stadio sincronico di una lingua, i parlanti possono utilizzare quella regola per formare nuovi lessemi. Ad esempio, evidentemente la RFL che forma aggettivi derivati con il prefisso s- è produttiva nell’italiano contemporaneo, dato che i parlanti hanno recentemente formato il nuovo lessema sfiducioso, di cui abbiamo parlato all’inizio di questo capitolo. Invece, una RFL che formi aggettivi deverbali con il suffisso -uco non è affatto produttiva, e non lo è mai stata in italiano: l’unico lessema italiano analizzabile come aggettivo deverbale formato con questo suffisso, caduco, è in realtà un prestito dal latino, attestato in italiano fin dal XIV secolo, e la sua esistenza non ha mai fatto da modello per la formazione di altri derivati con un suffisso -uco. La nozione di produttività comprende due aspetti, uno di carattere qualitativo e uno di carattere quantitativo. Dal punto di vista qualitativo, la questione è se una certa RFL è produttiva o no: una regola può essere produttiva o non esserlo, senza vie di mezzo. Ma è ben noto che diverse RFL Ma anche con questo suffisso si hanno alcuni derivati denominali, come rocciatore e il neologismo ghiacciatore “chi pratica l’arrampicata su cascate di ghiaccio” (datato 2001 da De Mauro 2003c, e probabilmente formato in stretta analogia con rocciatore). 19 87 produttive non lo sono in uguale misura: da un punto di vista quantitativo, una RFL può avere maggiore o minore produttività. Bauer (2001) distingue quindi due componenti della nozione di produttività: quella qualitativa, che chiama availability (che potremmo tradurre con “disponibilità”), e quella quantitativa, che chiama profitability (che potremmo tradurre con “rendimento”). Due RFL disponibili, cioè entrambe utilizzabili in un dato stadio sincronico di una lingua per formare nuovi lessemi, possono avere diverso rendimento, cioè formare un numero di lessemi molto diverso. Quali fattori influenzano il rendimento di una RFL? Un fattore primario è senza dubbio la Wortbildungsbedeutung dei lessemi che la RFL forma. Ricordiamo che nuovi lessemi vengono formati per due tipi principali di scopi: da una parte, per poter esprimere un certo significato attraverso una certa parte del discorso, cioè per trasporre significati da una parte del discorso a un’altra; dall’altra, per denominare nuovi referenti. Un esempio di trasposizione è la formazione di nomi d’azione: lessemi come ammanettamento, spupazzamento, frullamento, risucchiamento (documentati da Gaeta e Ricca 2002, p. 229) non servono a denominare nuovi referenti, ma esprimono con un nome, per lo più in funzione di ripresa anaforica, il significato dei verbi ammanettare, spupazzare, frullare, risucchiare. Sono invece coniati per denominare nuovi referenti i nomi di strumento: ad esempio, i due nomi di strumento strizzatore “attrezzo che, abbinato a un secchio o a un contenitore dotato spec. di rotelle, serve a strizzare l'acqua dagli stracci per lavare il pavimento” e deambulatore “attrezzo che aiuta i disabili a muoversi autonomamente, spec. con riferimento a quelli di struttura metallica, muniti inferiormente di quattro piedini di gomma o di rotelle, ai cui sostegni superiori ci si appoggia con le mani”, sono stati coniati (rispettivamente nel 2001 e nel 2002, secondo De Mauro (2003c)), per denominare classi di oggetti di relativamente recente costruzione. Evidentemente, una RFL che ha un significato che torna spesso utile per denominare nuovi referenti avrà maggior rendimento di altre. Un caso spesso citato è quello del suffisso polacco -ówka, che può essere attaccato a nomi di materie organiche per derivare nomi di tipi di vodka (cfr. Szymanek 1988, p. 114; Bauer, 2001, p. 208); la frequenza con cui nascono nuovi tipi di vodka da denominare è minore di quella con cui nascono nuovi strumenti, e dunque questo suffisso avrà rendimento minore di un suffisso che forma nomi di strumento. La produttività di una RFL non va confusa con due altre caratteristiche, e cioè la numerosità dei lessemi formati con questa regola, e la frequenza di occorrenza di questi lessemi. Una RFL può essere non più disponibile in un dato stadio sincronico di una lingua, ma può essere stata disponibile ed aver avuto un alto rendimento in passato, cosicché nella lingua si trovano molti lessemi formati con essa; e una RFL poco o per nulla produttiva in un dato stadio sincronico può aver dato luogo in passato a qualche lessema molto frequente. Quest’ultimo è il caso, per esempio, della RFL che forma in italiano derivati in -izia: con questo suffisso si hanno solo 22 lessemi diversi nel corpus di 75 milioni di occorrenze della Stampa di Torino (annate 1996-1998) analizzato da Gaeta e Ricca (2003), ma questi lessemi hanno un totale di 38.263 occorrenze nel corpus. La frequenza totale dei derivati in -izia è superiore a quella dei derivati con -iano, ma le 36.820 occorrenze dei derivati con questo suffisso sono distribuite su ben 1415 lessemi diversi, a fronte dei soli 22 lessemi diversi con -izia. L’alta frequenza di occorrenza dei derivati in -izia si spiega quasi completamente per l’alta frequenza di un paio di lessemi contenenti questo suffisso, giustizia e amicizia. Invece l’alta frequenza dei derivati in -iano è dovuta all’esistenza di molti derivati di frequenza medio-bassa: in particolare, nel corpus di Gaeta e Ricca si hanno ben 615 derivati in -iano diversi che occorrono una sola volta. I derivati che occorrono una sola volta in un ampio corpus sono detti, estendendo il significato di un termine tecnico della filologia, hapax (nella terminologia della filologia classica, con l’espressione greca hápaks legómenon “detto una sola volta” si designano le parole di cui si ha una sola occorrenza in tutto il corpus di testi tramandati di una certa lingua, in particolare il greco classico). Il numero di hapax tra i derivati con un certo affisso, e più in generale, con una certa RFL, è un buon indicatore della produttività dell’affisso o della RFL. Infatti, Baayen e Renouf (1996) hanno mostrato che c’è un’alta correlazione tra numero di hapax formati con una certa RFL in un corpus giornalistico e numero di nuovi lessemi formati con quella RFL incontrati all’accrescersi del 88 corpus di mese in mese (cioè di neologismi formati con la RFL), anche dopo anni di campionamento, quando praticamente tutti i lessemi da tempo esistenti formati con una certa RFL sono già occorsi più volte nel corpus. Il continuo formarsi di nuovi lessemi con una certa RFL è prova della disponibilità di quella RFL. Per il calcolo della produttività di una RFL sono stati sviluppati negli ultimi anni, a partire dalle proposte di Harald Baayen (1992), diversi metodi basati su calcoli matematici e statistici; questi metodi sono però applicabili solo a lingue per le quali si possa disporre di amplissimi corpora testuali (dell’ordine delle decine di milioni di occorrenze) interrogabili automaticamente, dunque a una assoluta minoranza delle lingue del mondo. Per una presentazione generale di questi metodi quantitativi di studio della produttività, si veda Bauer (2001, pp. 143-161); per studi approfonditi sulla produttività di diverse RFL dell’italiano si vedano i lavori di Gaeta e Ricca (2002, 2003a, 2003b, 2004). Per altri metodi quantitativi di studio della produttività, basati non solo su corpora ma anche su materiale lessicografico, si vedano Thornton (1998) e Plag (in stampa b). 8.7 Aspetti morfomici delle RFL In tutta la trattazione fin qui condotta in questo capitolo, abbiamo volutamente lasciato in ombra un aspetto del funzionamento delle RFL, e cioè la costruzione del significante dei lessemi derivati e composti. Questo tema è stato ampiamente dibattuto in tutti i quadri teorici che si sono succeduti almeno dalla seconda metà del XX secolo. Qui ripercorreremo brevissimamente alcuni aspetti della trattazione di questo punto in diversi modelli, per concentrarci poi un po’ più approfonditamente su come può essere impostata la descrizione della formazione dei significanti dei lessemi derivati e composti in un quadro teorico che preveda l’esistenza di un livello morfologico autonomo da quello fonologico e da quello semantico e sintattico. In un modello a entità e disposizioni, idealmente la costruzione del significante di un derivato o di un composto dovrebbe scaturire dalla semplice concatenazione delle entità da disporre: due lessemi nel caso dei composti, un lessema e un affisso nel caso dei derivati. Come abbiamo già visto, però, anche nella formazione dei lessemi si presentano tutti i problemi di allomorfie e di morfi anomali che abbiamo già esemplificato in riferimento alla formazione di forme flesse, e che rendono insostenibile un modello a entità e disposizioni. In riferimento alla formazione dei lessemi, inoltre, e in particolare in relazione a una lingua come l’italiano, in cui i morfi lessicali tipicamente non coincidono con forme libere, acquista particolare rilievo il problema di definire quale tipo di entità costituisca la base cui si applica una RFL. Alcuni studiosi (per l’italiano, in particolare Scalise (1983, 1984, 1990, 1994)) hanno tentato di costruire un modello nel quale la costruzione del significante di un lessema derivato si effettua a partire dalla forma di citazione di un lessema esistente. In un modello a entità e processi, questa scelta dà luogo al proliferare di una serie di ipotetiche regole necessarie per render conto della forma del significante del derivato. Illustreremo ora brevemente il funzionamento di un tale modello esemplificandolo su alcuni fenomeni dell’italiano: la derivazione di nomi da nomi e di nomi da verbi per suffissazione, la formazione di composti verbo-nome, la derivazione di avverbi deaggettivali in -mente. Esempi dei fenomeni da trattare sono dati in (16): (16) a. derivazione di nomi da nomi GIORNALE GIORNALAIO b. derivazione di nomi da verbi VENDERE VENDITORE c. composti verbo-nome APPENDERE, ABITO APPENDIABITI d. derivazione di avverbi in -mente CHIARO CHIARAMENTE 89 L’analisi di questi fenomeni secondo il modello a entità e processi adottato da Scalise (1983, 1984, 1990, 1994) è riportata in (17). (17) Analisi secondo il modello di Scalise: a. base aggiunta di suffisso RCV uscita giornale +aio Ø giornalaio b. base aggiunta di suffisso RR e i uscita vende base base RR e i uscita appende base aggiunta di suffisso RR o a uscita chiaro c. d. +tore i venditore + abiti i appendiabiti +mente a chiaramente Secondo la proposta di Scalise, nella derivazione di nomi da nomi si parte dalla forma di citazione del lessema nominale. Poiché praticamente tutti i nomi italiani hanno una forma di citazione che termina in vocale e tutti i suffissi italiani che si attaccano a nomi iniziano per vocale, si viene a creare una sequenza di due vocali atone, quella terminale della forma di citazione del nome e quella iniziale del suffisso (per esempio, *giornaleaio). Interviene allora una regola di cancellazione di vocale (RCV) che cancella la vocale terminale del nome. Questa regola ha la formulazione riportata in (18): (18) Regola di cancellazione di vocale (RCV) V[- acc] Ø / ___ + V “una vocale atona si cancella se è seguita da un confine di morfema e da un’altra vocale” Prima di commentare l’ipotesi che nella derivazione di un nome come giornalaio si applichi la RCV, vediamo come analizza Scalise gli altri lessemi derivati e composti esemplificati in (17b-d). Nella derivazione di nomi da verbi e nella composizione con verbi, l’analisi di Scalise è più complessa. Partire dalla forma di citazione del verbo, cioè l’infinito, appare anche a lui intuitivamente poco plausibile. Scalise sostiene allora in questo caso che si debba partire da una “parola astratta”, che si ottiene dalla parola concreta, cioè dalla forma di citazione del lessema verbale, secondo la formula in (19): (19) infinito meno -re È evidente che l’introduzione di “parole astratte” di questo tipo è un puro artificio che permette di salvare nominalmente l’ipotesi che le RFL siano “basate su parole” anche quando non è possibile 90 sostenere che il significante di certi derivati e composti sia derivato a partire da una parola intesa come “forma libera”. Lasciando da parte questo aspetto, vediamo come funziona tecnicamente nel modello di Scalise la formazione di lessemi come quelli in (17b-c). Con parole astratte di questo tipo, la derivazione di nomi da verbi della prima e della terza coniugazione non presenta problemi: da “parole astratte” come lavora-, senti- si derivano nomi come lavoratore, sentimento. Con i verbi della seconda coniugazione si ha però un problema: la formula in (19) produce una “parola astratta” che termina in -e (vendere vende), mentre nei derivati il lessema verbale si presenta terminante in -i: si ha venditore, non *vendetore. Per risolvere questo problema, Scalise ipotizza che nella derivazione da verbi in -ere si applichi una regola di riaggiustamento (RR) come (20): (20) e i (Scalise 1983, p. 79) Scalise non precisa ulteriormente i fattori condizionanti questa regola, ma dall’insieme della sua discussione del problema si può ipotizzare che si debba intendere che una /e/ che rappresenta la vocale finale di una “parola astratta” di categoria verbo diventa /i/ se seguita da un confine di morfema e da un suffisso derivazionale deverbale. La stessa regola si applica anche quando il verbo è seguito da un secondo membro di composto verbo+nome (cfr. (17c)). Anche nella derivazione di avverbi in -mente a partire dalla forma di citazione di aggettivi si applica secondo Scalise una regola di riaggiustamento condizionata dal suffisso -mente, quale quella in (21)20: (21) oa /___+ mente La RCV (18) e le regole di riaggiustamento (20) e (21) sono abbastanza diverse fra loro. La RCV, che cancella una vocale atona seguita da un’altra vocale, ha una motivazione fonetica, quella di evitare una sequenza di due vocali atone, rendendo i significanti più vicini all’ideale articolatorio e acustico costituito da alternanze tra vocali e consonanti (sillabe CV), e si applica in tanti altri casi in italiano. Essa si applica, ad esempio, nei contesti in cui si ha elisione dell’articolo, come quelli in (22): (22) la opera la amica la edera la isola l’opera l’amica l’edera l’isola Regole come quelle in (20) e (21) non hanno invece alcuna motivazione fonetica, e sembrano postulate ad hoc, solo per render conto della forma di certi derivati o composti in un modello che assume la derivazione a partire da una forma soggiacente unica, e non prevede la possibilità che un certo lessema sia rappresentato in contesti diversi da significanti diversi e non riducibili ad allomorfi fonologicamente condizionati. Abbiamo visto nel cap. 7 che un tale modello non è sostenibile per la formazione delle forme flesse; non stupirà quindi verificare che anche per la formazione di derivati e composti è necessario ipotizzare che i lessemi che rientrano nel dominio di una regola siano rappresentati 20 Anche di questa regola non si trova una formulazione esplicita nelle opere di Scalise, ma dalla discussione condotta in Scalise et al. (1990, 1991) si può evincere che quella in (21) dovrebbe essere la formulazione della regola che Scalise ha in mente. 91 nell’applicazione della regola da una delle loro molteplici basi, che non coinciderà necessariamente con la forma di citazione del lessema o con la sua base di default. Questo punto di vista permette di risolvere una vexata quaestio, che abbiamo in parte già illustrato nel par. 6.6.1, e cioè la natura della base aggettivale degli avverbi derivati con il suffisso -mente. In questi derivati, l’aggettivo si presenta in una forma coincidente fonologicamente con la forma flessa femminile (cfr. 16d e 17d). Ipotizzare che la suffissazione di -mente abbia come dominio forme femminili non è soddisfacente, dato che nel derivato non si riscontra un tratto né semantico né morfosintattico di femminile; d’altra parte, neppure ipotizzare che i derivati siano formati a partire dalla forma di citazione dell’aggettivo, con il successivo intervento di una regola di riaggiustamento come (21), è soddisfacente, perché questa regola appare del tutto ad hoc e senza paralleli nel resto della fonologia e della morfologia dell’italiano. Una soluzione più soddisfacente consiste invece nell’ipotizzare che gli aggettivi italiani (come i verbi e i nomi) possano essere rappresentati in diversi contesti da diverse basi, e che una delle loro basi (che potremmo chiamare B2), quella utilizzata nella derivazione con -mente, coincida formalmente con la forma flessa femminile singolare dell’aggettivo (eventualmente, la B2 e la forma femminile singolare potrebbero essere collegate tra loro da una regola di rimando). Se si adotta questa ipotesi, un lessema come CHIARO ha le due basi in (23), e la regola di suffissazione di -mente seleziona la B2, mentre altre RFL (ad esempio, quella che forma nomi di qualità con il suffisso -ezza) selezionano la B1: (23) CHIARO B1 B2 chiar chiara Inoltre se, oltre ai verbi, anche gli aggettivi e i nomi italiani possono essere rappresentati da diverse basi in diverse loro forme flesse e in diversi loro derivati, non è più necessario postulare neppure una regola di riaggiustamento come la RCV (18): derivati come GIORNALAIO o CHIAREZZA possono essere infatti analizzati come basati su una B1 coincidente con la radice dei lessemi GIORNALE e CHIARO, senza bisogno dell’intervento di alcun tipo di riaggiustamento. Secondo linee analoghe si possono analizzare anche i casi dei derivati deverbali come (16b) e dei composti verbo+nome come (16c). Abbiamo già visto nel cap. 7 che i verbi italiani possono avere diverse basi: ogni verbo ha una B1 composta da radice e vocale tematica, che appare almeno nella seconda persona plurale del presente indicativo, e in tutte le forme dell’imperfetto indicativo; altre basi appaiono se il paradigma presenta partizioni; inoltre, ogni lessema verbale ha una base che funziona come forma cui si attaccano i suffissi derivazionali, e una base che costituisce la forma del lessema verbale che entra in composizione con i nomi. Queste ultime due basi a volte coincidono tra loro, e/o con la B1, e/o con determinate forme flesse del verbo, quali la terza singolare del presente indicativo e l’imperativo singolare; ma questa coincidenza non si ha in tutte le classi di flessione, come si vede dalla tabella I (tratta da Rainer 2001, con aggiunte e adattamenti). lessema PORTARE TENDERE COPRIRE PULIRE B1 B dei derivati B dei composti 3.sg.pres.ind con esempio di con esempio di forma flessa derivato con esempio di composto porta portavo tende tendevo copri coprivo puli pulivo porta portabagagli tendi tendicinghia copri copricapo pulisci puliscipenne porta portatore tendi tenditore copri copritore puli pulitore imperativo singolare porta porta tende tendi copre copri pulisce pulisci 92 Tabella I - Rapporti tra diverse basi e diverse forme flesse in alcuni verbi italiani appartenenti a diverse classi di flessione Se si esamina solo un verbo come PORTARE, si può pensare che si abbia un’unica base che funziona in tutti i contesti presentati nella tabella e realizza sia la terza singolare del presente indicativo che l’imperativo singolare; ma gli altri verbi ci mostrano che le basi in gioco sono almeno tre: un verbo come TENDERE mostra infatti che la B1 può essere diversa dalla B dei derivati, e un verbo come PULIRE mostra che la B dei derivati può essere diversa dalla B dei composti. Esaminando i dati contenuti nella tabella, si vede che l’unica coincidenza che rimane stabile in tutti i verbi (che esemplificano le principali classi di flessione verbale dell’italiano) è quella tra la B dei composti e la forma dell’imperativo singolare. Questa coincidenza, notata da molto tempo, aveva portato alcuni studiosi a sostenere l’ipotesi che i composti verbo+nome fossero formati a partire dalla forma flessa di imperativo singolare del verbo, ipotesi che presenta però una difficoltà analoga a quella incontrata dall’ipotesi che gli avverbi in -mente si formino a partire dalla forma flessa femminile dell’aggettivo: è evidente infatti che nei composti verbo+nome non è presente il significato di “imperativo”. Una soluzione che individui nell’elemento che rappresenta il verbo nei composti non una specifica forma flessa del verbo, ma un morfoma che ha una sua specifica distribuzione, permette di evitare questa difficoltà. Evidentemente, i verbi italiani hanno una B che ha la seguente distribuzione: realizza l’imperativo singolare senza aggiunta di affissi, e compare seguita da un nome nei composti. La distribuzione di questa B è regolata da fattori esclusivamente paradigmatici: non ci sono infatti elementi né semantici né fonologici in comune tra i due contesti in cui questa B appare. In modelli che non comprendono la nozione di morfoma, l’identità tra forma dell’imperativo singolare e B dei composti può essere solo constatata e considerata una mera coincidenza. Ma l’identità tra queste due entità è parte della competenza dei parlanti nativi dell’italiano, come è dimostrato tra l’altro dal fatto che bambini che non hanno ancora completato l’acquisizione del lessico coniano forme come quelle in (24a) e non come quelle in (24b): (24) a. fappolenta “paiolo dotato di dispositivo automatico per rimestare la polenta” (Elisabetta, 11 anni e 3 mesi) tieniled “filo di ferro usato per tenere in posizione un led durante un esperimento” (Francesco, 10 anni e 9 mesi) b. *facipolenta, *teniled c. facimento, tenibile… Come dimostra anche il confronto tra i dati in (24a) e quelli in (24c), una B diversa da quella dei composti appare nei derivati deverbali suffissati, anche se la differenza tra queste due B è osservabile solo nel caso di certi verbi, come quelli del tipo di PULIRE (e i pochi verbi a dittongo mobile come TENERE e irregolari come FARE). Volendo estendere la nozione di paradigma dalla flessione alla formazione dei lessemi, si potrebbe al limite ipotizzare che verbi come PULIRE presentano una partizione nel paradigma dei loro derivati e composti diversa da quella presentata dai verbi delle altre classi: infatti in PULIRE la B dei derivati e la B dei composti non coincidono, mentre nei verbi delle altre classi sì. Un’analisi secondo queste linee non è però ancora stata sviluppata nel dettaglio, né possiamo farlo qui per motivi di spazio: la citiamo solo come suggerimento per possibili ricerche future. Se si accetta che anche nella formazione dei lessemi, come nella formazione di forme flesse, un lessema possa essere rappresentato in contesti diversi da diverse basi, viene a cadere la necessità di ipotizzare regole di riaggiustamento come (20), che avevano la sola funzione di conciliare le 93 differenze attestate nei dati con l’ipotesi che un lessema debba essere sempre rappresentato da una stessa forma soggiacente in tutte le sue forme flesse e in tutti i suoi derivati e composti. 94