Fondamenti e Didattica dei Linguaggi dell`Immagine

a.a. 2011-2012
Didattica dell’immagine
Percezione e comunicazione visiva
Laboratorio di didattica dell’immagine
Gentili Studentesse,
in questa dispensa troverete:
1. il form per preparare il progetto;
2. i testi per la preparazione dell‟esame, divisi in obbligatori e liberi;
3. il testo “Narrazione e didattica dell‟immagine”.
a cura di Roberto Gris
1. Form
Lunghezza: 10 cartelle
Font: Garamond 13
Interlinea: Doppia
Pag1:
Titolo del progetto, sottotitolo e Autore
Pag2:
Autore
Titolo e sottotitolo
Abstract di max 5 righe
5 parole-chiave
Pag3 e succ.: Una breve descrizione delle
finalità/obbiettivi del progetto,
la descrizione della classe o gruppo classe
nella quale il progetto si svolge,
la descrizione dettagliata delle attività
didattiche che utilizzano
immagini/artefatti/disegni/opere
d’arte/filmati/spettacoli teatrali
Pag10:
Riferimenti bibliografici
2.Testi per la preparazione dell’esame
Testi obbligatori per il corso:
AAVV, (2011) PedagogiapiùDidattica, n.3 Ottobre, Erickson,Trento. pp. 4196.
Gris R. (2010), La pedagogia dei popcorn, Erickson, Trento.
Testi liberi:
Merleau-Ponty M., (1994)Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano.
in particolare il Capitolo 1.
Propp V., (1977)Morfologia della fiaba,Torino, Einaudi. in particolare i
Capitolo 1 e 2.
Panofsky E. (1999) Il significato delle arti visive, Torino, Einaudi.
Cadioli (2006)La ricezione, Bari, Laterza
Munari B. (2006) Arte come mestiere, Laterza
Florenskij P. (2003) Le porte regali, Adelphi, Milano
3. Narrazione e Didattica dell’immagine
INDICE
A. Linguaggi e infanzia
B. L‟idea del bambino rappresentazionale
C. Linguaggi e immagini
D. Il teatro come metafora dell‟educazione
E. Per una metacognizione della narrazione didattica
A. Linguaggi e Infanzia
«Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere
liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo
essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado
di maturità.».
L‟Articolo 12 della Convenzione ONU sui Diritti dell‟Infanzia è una importante precisazione
alla Dichiarazione dei diritti del bambino, scritta trent‟anni prima1, che non specificava così
chiaramente che il bambino ha il diritto di esprimere la sua opinione su ciò che lo riguarda
ma si limitava a descrivere i diritti fruibili e non partecipativi.
Nell‟attualità, ogni diritto non si esaurisce nella sua proclamazione ma vuole trasformare la
realtà a cui si riferisce; il rovescio della medaglia di un diritto non è un dovere ma il suo
significato, ciò che significa per noi, ciò che muove nella nostra cultura e nella nostra
politica, nelle nostre riflessioni.
Questo Articolo 12 può farci riflettere su come e su quale linguaggio gli è considerato
confacente: il linguaggio dell‟infanzia è, secondo tradizione etimologica, il non-linguaggio
in quanto l‟in-fantem è precisamente „colui che non parla‟, „chi non ha l‟uso della parola‟
perciò, ben che vada, l‟infante è visto come chi dovrà imparare a parlare mentre adulto
significa „cresciuto‟ e porta con se una connotazione di compiutezza. (Figura 1 e 2)
1
Dichiarazione dei diritti del bambino (20 Novembre 1959)
art.1 - Il diritto all'eguaglianza senza distinzione o discriminazione di razza, religione, origine o sesso
art.2 - Il diritto ai mezzi che consentono lo sviluppo in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale,
spirituale e sociale
art.3 - Il diritto ad un nome e ad una nazionalità
art.4 - Il diritto ad una alimentazione sana, alloggio e cure mediche
art.5 - Il diritto a cure speciali in caso di invalidità
art.6 - Il diritto ad amore, comprensione e protezione
art.7 - Il diritto all'istruzione gratuita, attività ricreative e divertimento
art.8 - Il diritto a soccorso immediato in caso di catastrofi
art.9 - Il diritto alla protezione contro qualsiasi forma di negligenza, crudeltà e sfruttamento
art.10 - Il diritto alla protezione contro qualsiasi tipo di discriminazione
Figura 1
Figura 2
I rischi di discriminazione sulle potenzialità cognitive e linguistiche dei bambini non
passano più attraverso singoli etimi o dibattiti sulla possibilità che i bambini abbiano
un‟anima o altre mistificazioni della condizione infantile bensì attraverso la definizione
delle competenze che, in ambito scolastico e formativo, sono intese come le nozioni
cognitive (i dati della conoscenze) e metacognitive (che consentono di conoscere) e più
genericamente come quelle abilità e conoscenze che consentono operazioni più o meno
complesse.
Le competenze riferite al mondo dell‟infanzia proiettano le questione sulla disputa sul
bambino competente o non competente (Jesper, 1995) sulla sua specificità rispetto
all‟adulto, sulla sua dipendenza per compiere azioni, per prendere decisioni e per costruire
universi con giochi sensati e creativi.
Così, pensare le competenze dei bambini apre a un contrassegno della condizione
infantile rispetto a noi adulti, apre a ciò che i bambini sono in grado di fare, possono fare,
hanno diritto di fare ovvero ciò che a loro compete, compresa la possibilità della scelta.
Se ci si concentra su una formazione centrata sulle presunte competenze linguistiche degli
adulti (competenze grammaticali, sintattiche, storico-lessicali, semantiche, ecc.), si oscilla
tra la negazione della specificita‟ degli “adulti in miniatura” alla correzione delle differenze
dall‟adulto, come se il linguaggio adulto fosse sempre vero o giusto, come se ce ne fosse
uno solo e come se anche l‟adulto non dovesse raffinare in continuazione i suoi linguaggi,
i suoi codici e i suoi saperi.
Inoltre, il linguaggio degli adulti ha una ricaduta a cascata sulla costruzione del mondo,
sull‟espressione emotiva, sui desideri, sulla formazione cognitiva dei bambini, fornisce loro
forme e modi utilissimi per capire „come stare al mondo‟ ma la loro adesione a questo
linguaggio risentirà della qualità, della varietà, dalla ricchezza delle forme e delle
narrazioni proposte dagli adulti.
Per Susanna Barsotti, la fiaba è la forma eletta della narrazione per l‟infanzia ed «è uno
strumento per riconoscere e rielaborare le innumerevoli sollecitazioni che spesso
giungono al bambino e al ragazzo in maniera frammentata, contribuendo a dare senso e a
interpretare una realtà che si presenta sempre in costante cambiamento nel caos della
società multimediale, fornendo una forma di conoscenza capace di orientare nell‟instabilità
del nostro tempo. […] La fiaba parla direttamente al nostro essere, ci parla di come siamo
e, soprattutto, di come potremmo essere sia come singoli individui che come società: una
società fatta di relazioni tra le persone e di connessione tra queste e le cose che nel
racconto non sono mai viste come date, non sono mai accettate come tali perché altri
modi, altre possibilità, altri sviluppi e alternative continuano ad essere immaginate e
proposte.» (Barsotti, p.53).
Al di là delle filosofie del linguaggio contemporanee è questa relazione tra linguaggio
adulto e linguaggio dei bambini che è interessante in un contesto educativo, anche per
non cedere al pensiero irresponsabile che i bambini vanno lasciati dire ciò che vogliono,
quando vogliono e come vogliono.
L‟idea di linguaggio che propongo e che vorrei condividessimo, non riguarda strettamente
la filosofia, ma si cala nel contesto educativo dove la relazione tra linguaggio adulto e
linguaggio dell‟infanzia nonchè la valorizzazione dei linguaggi strutturano l‟orizzonte di
senso.
Per dare spessore e slancio al linguaggio infantile e per valorizzare e pensare
all‟educazione e al suo linguaggio come una narrazione e che si muove ciclicamente e a
spirale (Figura 3) è opportuno centrare la didattica sulla relazione tra linguaggio adulto e
linguaggio infantile e superare l‟idea dell‟infanzia come stato „primitivo‟ dell‟adulto, di
condizione egotica, di monologo interiore assolutizzato in forme mitiche, e vedere il
„cresciuto‟ come punto d‟arrivo.
«L‟idea di un‟infanzia come una „sostanza psichica‟ pre-soggettiva si rivela quindi essere
un mito come quella di un soggetto pre-linguistico, e infanzia e linguaggio sembrano così
rimandare l‟una all‟altro in un circolo in cui l‟infanzia è l‟origine del linguaggio e il linguaggio
origine dell‟infanzia.» (Agamben, p.46).
Lo sfondo che permette ai due linguaggi di circolare è la narrazione, dove racconto e
commento si alternano così nella costruzione dell‟esperienza didattica, in una circolarità
non chiusa ma, piuttosto, a spirale, sempre aperta ad una nuova possibilità interpretativa;
la dialettica racconto-commento, che è originaria nell‟educazione occidentale dai tempi di
Socrate e Platone, consente di organizzare la comunicazione didattica e il linguaggio in
specifici format narrativi e consente di sentirsi come in un ambiente condiviso di diverse
conoscenze e diversi saperi: un‟atmosfera narrativa che ci permette di respirare storie e
saperi grazie a singole molecole d‟ossigeno narrativo (ogni singola storia).
COMMENTO
RACCONTO
Figura 3
B. L’idea di bambino rappresentazionale
Accanto alla relazione tra linguaggi è importante per noi conoscere le caratteristiche dello
sviluppo del linguaggio nel bambino e come il pensiero e il linguaggio siano in evoluzione
o meglio, siano per ognuno di noi un processo evolutivo e formativo.
A questo scopo è molto stimolante riferirsi a Lev Vygotskij, a Jean Piaget e a Jerome
Bruner (Liverta Sempio, 1998) i cui pensieri, le cui epistemologie, le cui diverse idee di
bambino sono punti di riferimento quando ci occupiamo di sviluppo di saperi e di linguaggi;
grazie a questi psicologi ed epistemologi possiamo orientarci tra le diverse competenze,
caratteristiche e strutture che permettono nel bambino lo sviluppo del linguaggio e la sua
metacognizione e che consentono soprattutto all‟adulto che si occupa di educazione di
non confondere le forme dello sviluppo del linguaggio con „errori‟ del linguaggio
dell‟infanzia rispetto al linguaggio adulto.
In Pensiero e linguaggio e in altre opere Lev Vygotskij propone un bambino che potremmo
definire „culturale‟, il cui sviluppo si svolge attraverso l‟interiorizzazione delle forme di
comportamento e delle forme di comunicazione che man mano osserva nell‟interazione
con l‟adulto.
Il bambino e il suo sviluppo mentale si danno nella sua storia e nella sua interazione
sociale a partire della sua dotazione mentale naturale o biologica: Vygotskij storicizza
l‟apprendimento in un „prima‟, dove il bambino non sa una determinata cosa, in un „dopo‟,
dove il bambino ha appreso questo sapere, e in una zona mediana (la zona di sviluppo
prossimale) dove un segno, un codice diventano parte delle conoscenze del bambino a
partire dall‟interazione con l‟educatore. Lo sviluppo delle mente del bambino si presenta
come interiorizzazione degli stimoli culturali.
Jean Piaget ci descrive il bambino come „epistemico e logico‟ , le cui forme proprie di
conoscenza si realizzano in termini di strutture logico e/o matematiche, che lo psicologo
ginevrino ha suddiviso in raggruppamenti e nelle trasformazioni INRC (Liverta Sempio,
1998).
La sua è una teoria di adattamento del pensiero alla realtà: verificando empiricamente il
linguaggio del bambino, Piaget propone un bambino che equilibra sempre di più il suo
linguaggio per renderlo coerente con ciò che accade nella realtà.
Il processo di interiorizzazione di Vygotskij viene studiato dal punto di vista dei meccanismi
interni, ciò del punto di vista del funzionamento della mente come se questa fosse un
software che si regge su determinate regole logiche.
Il linguaggio dall‟infanzia tende ad evitare l‟incoerenza attraverso meccanismi di
regolazione delle perturbazioni e delle incoerenze costruendo una conoscenza che è
adattamento del pensiero alla realtà, presentando tendenze che si correggono (o,
diremmo noi, acquistano nuovo senso) nel corso degli anni.
Esempi di queste tendenze sono:
-
l‟animismo (fino ai sei-sette anni) che è la tendenza ad attribuire pensiero e
coscienza alle cose;
-
l‟artificialismo ( fino ai sette anni) che è la tendenza a ritenere che il mondo fisico è
creato da Dio o dai primi uomini;
-
la giustapposizione (fino agli otto anni) che è la tendenza ad usare „perché‟ come
collegamento non causale tra due frasi.
Nella psicologia dello sviluppo, l‟idea di bambino più vicina al paradigma narrativo è senza
dubbio quella di Jerome Bruner che scrive:
«Se Piaget si preoccupava dell‟ordine
invariante dello sviluppo mentale, Vygotskij, da parte sua, si preoccupava del modo in cui
gli altri forniscono il modello culturale che rende possibile il processo di sviluppo»(Liverta
Sempio, p.33)
Prendendo le distanze dagli altri due, Bruner ne coglie gli insegnamenti essenziali per fare
un quadro più generale, che da più spazio al ruolo attivo del bambino, oltre alla sua
determinazione storica e le sue caratteristiche mentali, che pure sono molto rilevanti
anche in un‟ottica educativa.
Il bambino „rappresentazionale e narrativo‟ di Bruner, è in continua dialettica tra „interno‟
ed „esterno‟, vive attivamente l‟intersoggettività (lo scambio tra linguaggio adulto e
linguaggio dell‟infanzia è più circolare), e dalle inferenze più logiche e più semplici passa
a sistemi di codifica più generali, a interpretazioni più ampie che danno senso al mondo
che egli vive.
Il bambino non solo può narrare e raccontare le realtà e le storie che esperisce e la sua
relazione con gli altri esseri umani, ma è solo facendolo che costruisce attorno a sé
significati e senso oltre a progettare la sua rappresentazione e sperimentare il suo ruolo in
relazione agli altri. Il suo modo di apprendere è come quello di un attore che entra in uno
spettacolo già iniziato, con tempi, spazi, ruoli e battute che gli sono inizialmente
sconosciuti e che gradualmente acquisiscono uno o più significati.
Non si tratta quindi di considerare l‟età del bambino come dato anagrafico-cognitivo
piuttosto è utile al contesto educativo valorizzare le competenze narrative, nella fattispecie
le inferenze (vedi paragrafo E), per garantire lo sviluppo del congegno metacognitivo,
dell‟arte del parlare e di attribuire significato ai significanti e alle cose.
C. Linguaggi e Immagini
Erwin Panofsky distingue tre fasi, tre movimenti cognitivi che ci permettono di cogliere Il
significato delle arti visive (Panofsky), quando in esse ci imbattiamo, quando dedichiamo
tempo per comprendere un‟opera che possiamo fruire visivamente, quando decidiamo che
un olio, una statua o una facciata di un mausoleo ci possono dare delle sensazione e dei
pensieri esteticamente rilevanti.
Secondo il grande studioso, nel primo momento di interpretazione vediamo semplici forme
che diventano contenuti nella seconda fase, nella quale riconosciamo o conosciamo il
tema dell‟opera.
L‟incontro con il significato dell‟opera arriva in un terzo momento, con un‟intuizione
soggettiva mediata dalla conoscenza della «storia dei sintomi culturali o dei simboli in
generale» e apre l‟opera stessa ad un nuovo orizzonte di senso.
Un‟immagine può assumere diversi significati a seconda delle culture e dai contesti, a
seconda se vediamo un poster del David di Donatello in una stazione dell‟underground
londinese in un novembre piovosissimo o se lo vediamo in gita a Firenze con la nostra
terza classe elementare in aprile, e ciò che ci interessa sommamente, in quanto ogni
immagine va contestualizzata e il linguaggio che la contestualizza è il nostro o dipende da
noi.
Il ruolo della verbalizzazione nella didattica dell‟immagine è, perciò, decisivo in quanto
permette all‟insegnante di offrire una direzione di senso al bambino, una storia che diventa
l‟unico orizzonte possibile, dal quale il bambino può a sua volta partire con un commento,
un disegno, una storia parallela.
Come punti di riferimento per questa riflessione sulla pertinenza didattica dell‟uso e della
promozione del linguaggio dell‟immagine pensiamo alla ricezione del teatro e alla
ricezione del disegno come due estremi che si distinguono come il grado maggiore e il
grado minore del tasso di narratività, in un ideale termometro della febbre narrativa.
Naturalmente, tra i due estremi, tra la fruizione di uno spettacolo teatrale e la visione di un
quadro ci sono tantissimi altre situazioni didattiche che prevedono il linguaggio
dell‟immagine come, per esempio, una lettura di una favola con la proiezione di slides o
una lezione di geografia con foto e carte geografiche o la visita ad un museo.
Nel linguaggio teatrale le inferenze ci sono già, sono già preformate e da rigiocare, per
così dire; il teatro è dunque esperienza originaria da culturalizzare è, come vedremo, una
metafora dell‟educazione. Nel Pinguino senza frac visto a lezione (o in un qualsiasi altro
spettacolo di teatro-ragazzi ben congegnato) coesistono una storia, un testo sceneggiato,
una comunicazione che intende dare un messaggio educativo, contiene attori che sudano
e sputano, contiene metafore e educa al pensiero inferenziale, contiene musica e la sua
elevata qualità artistica lo rende intertestuale.
I linguaggi e le immagini che riceviamo sono già didattica narrativa:sta poi all‟insegnante di
scuola d‟infanzia ed elementare trasformare questo racconto in didattiche-commenti
efficaci che promuovono la sensibilità estetica, la conoscenza del racconto visto, la
capacità di capire i segreti del teatro, la voglia di mettere in scena altre storie, altre
conoscenze.
Nel linguaggio del disegno, invece, non c‟è niente di narrativo: le inferenze non sono
preformate, abbiamo a che fare con singoli elementi da promuovere didatticamente. Il
disegno, anche nella sua fase più propria di acquisizione di una tecnica è un‟esperienza
culturale e simbolica da rendere narrazione e mettere in relazione con testi narrativi
attraverso tecniche di verbalizzazione e didattiche che lo rendano linguaggio.
Questo discorso vale sia per la pratica del disegno nelle scuole che nella ricezione
dell‟opera d‟arte.
Nella Cappella degli Scrovegni di Giotto, in San Giorgio e il drago di Paolo Uccello,
L’adorazione dei magi di Gentile da Fabriano, La calunnia di Apelle di Sandro Botticelli
troviamo elementi narrativi, troviamo vere e proprie storie: Giotto descrive diversi eventi
biblici, Paolo Uccello ci dà un‟istantanea di una storia altamente simbolica con un prima e
un dopo molto romantici, Gentile da Fabriano ci fa vedere diverse sequenze di una storia,
Piero della Francesca fissa una scena che rimanda a simboli e mitologie classiche.
Ma ci è possibile comprendere o semplicemente vedere queste storie solo perché
abbiamo una metacognizione di questo linguaggio: una metacognizione che comporta la
conoscenza del testo biblico o mitologico, la comprensione delle singole immagini e la
capacità di spiegarne il senso o di capire la spiegazione.
Un‟immagine diventa comunicazione visiva solo se siamo immersi in questo fluido
narrativo ed è molto importante saperlo decodificare per costruire didattiche consapevoli.
Inoltre, dal Novecento, nonostante con il cubismo subentri nell‟immagine il tema del
tempo, l‟immagine artistica tende a diventare più istantanea come si può vedere nell‟Isola
dei giocattoli di Alberto Savinio; se l‟Isola ci ricorda, forse poco pertinentemente, i giocattoli
accatastati dopo una caotica giornata di giochi in una scuola d‟infanzia, questo lo
dobbiamo alle nostre capacità metacognitive e alla possibilità di dare a singoli eventi un
senso storico.
L‟immagine artistica gode, per di più, di altissima riproducibilità e le immagini possono
essere associate tra loro con grande facilità grazie a tutti i supporti mediatici, un bambino
nel 2006 può vedere e produrre un numero sempre più esagerato di immagini…ma come
fa a dare un senso a questa fruizione?
Nella scuola d‟infanzia ed elementare, lavorando con immagini o con immagini seriali o
con fumetti o facendo disegnare i bambini è fondamentale parlare, far parlare e controllare
i processi narrativi, magari attraverso le funzioni della metacognizione narrativa.
Nei linguaggi dell‟immagine, la verbalizzazione è dunque fondamentale per rendere le
immagini ingredienti dell‟esperienza didattica narrativa: la suddetta alternanza tra racconto
e commento supporta le immagini, ne può rendere più ricca, strutturata e fantasiosa la
didattica
(se pensiamo al caso della narrazione teatrale) mentre risulta un‟opzione
obbligata quando la ricezione o la produzione è isolata a singoli elementi.
Come dire: le immagini diventano linguaggio solo attraverso un processo metacognitivo
che permette di inserirle in un universo di significati, di immagini e di storie molto ampio e
che solo le pratiche educative intenzionalmente narrative possono promuovere.
D. Il Teatro come metafora dell’educazione
Se Vigotsky, Piaget e Bruner ci offrono così delle idee di bambino e di linguaggio
dell‟infanzia, il rapporto tra linguaggi e immagini merita di aprire su una speciale forma del
conoscere: la metafora.
Per metafora intendo non una figura retorica tra le tante bensì un‟espressione,
un‟immagine, un enunciato impertinente o inusuale che sposta dal senso conosciuto, che
apre insoliti orizzonti conoscitivi e che produce inevitabilmente una «tensione tra due
interpretazioni: tra una interpretazione letterale che viene distrutta dalla non pertinenza
semantica, e una interpretazione metaforica che produce senso a partire dal non-senso.»
(Ricoeur, p.325)
Secondo molte ricerche nell‟ambito delle scienze cognitive il nostro pensiero e quello dei
bambini si esprime/si forma attraverso il linguaggio letterale e attraverso il linguaggio
metaforico senza che nessuno dei due sia considerato necessariamente più „vero‟
dell‟altro2 : dire „La dirigente è un pescecane‟ e „La dirigente è una sportiva‟ sono una frase
metaforica e una letterale che possono essere parimenti vere se la dirigente menzionata è
particolarmente severa e frequenta corsi di arti marziali.
Vi sono comunque atteggiamenti linguistici che negano l‟importanza del linguaggio
metaforico, nella pratica didattica ed esistenziale. Tra queste, Gemma Fiumara Corradi
individua la «patologia della letteralità» che si concretizza nella tendenza alla
normalizzazione del linguaggio e che ci induce a «svuotare di significato tutte quelle
2
«Dopo che il linguaggio letterale non forniva più il criterio obbligato di paragone, la diatriba tra il carattere primario, o
derivato, dell’interpretazione delle metafore rispetto al linguaggio letterale non è più al centro degli interessi dei
ricercatori.» N. Caramelli, Psicologia e metafora. Interpretazioni e problemi nella ricerca recente in A.M. Lorusso,
Metafora e conoscenza, Bompiani, Milano, 2005, p.304.
espressioni che non riusciamo ad inserire nel contesto della letteralità in cui ci troviamo ad
abitare.» (Corradi Fiumara, p.130)
Se ci si vuole esprimere senza metafore, si promuovono forme espressive ammantate di
precisione oggettiva, di realismo, di pragmatismo, di interesse per le cose concrete,
relegando la creatività a qualcosa di estemporaneo e di buffo; nella pratica didattica
questo può significare eliminare dal progetto educativo il pluralismo espressivo e non
abituare i bambini a riconoscere e a gestire la metafore che incontrano nei linguaggi: così i
bambini impareranno a pensare come sbagliate o
come fantasiose le storie, le
espressioni che si prestano a più interpretazioni, persino i giochi, e aderiranno al
linguaggio letterale, credendolo più vero e più adulto.
«La diffusa idea dell‟atemporalità che ricompare in gran parte della filosofia del linguaggio
può essere ingannevole nel senso che ci induce ad ignorare il linguaggio dell‟infanzia e
della senescenza. […] L‟interesse per la metafora sembra in qualche modo indicare un
correttivo per questi invisibili vincoli filosofici.» (Corradi Fiumara, p. 267)
Una figura narrativa come la metafora che racchiude non solo il suo significato letterale
ma evoca altro, un altrove, un altro testo, un‟altra esperienza si presta per gli insegnanti
che non vogliono appiattire il loro linguaggio di adulti sui semplici significati letterali e che
vogliono offrire ai bambini diverse possibilità di rielaborazione dell‟offerta educativa.
Il linguaggio metaforico ci permettere di muoverci tra i diversi sensi, tra diversi testi, tra
cognizioni ed emozioni e di superare le separazioni tra codice disciplinare-scientifico e
codice quotidiano e di accettare i loro mutamenti, anzi di accettarli come tesoro e risorsa
didattici.
«Privato di una madre che l‟amasse, Cartesio lasciò che divorziassero Mente e Materia»
scrive nei suoi Shorts il drammaturgo Wystan Hugh Auden cogliendo le origini moderne
dell‟eccessiva importanza assegnata alla razionalità unilaterale nella logica e nel
linguaggio occidentali.
Secondo Auden, res cogitans e res extensa, la mente e il corpo trovano una possibile
coesistenza nell‟amore come del resto aveva intuito il contemporaneo di Cartesio, Blaise
Pascal parlando di coeur, delle ragioni del cuore anche nell‟ambito della conoscenza
scientifica.
Viene da aggiungere che lo sfortunato Cartesio incontrò anche maestre e insegnanti che
poco gli vollero bene: anche nelle contemporanee scienze cognitive, nelle scienze
dell‟educazione e nella stessa psicologia, le scissioni tra cognizioni ed emozioni sembrano
poter essere superate attraverso la pratica consapevole dei sentimenti e dell‟educazione
sentimentale ovvero attraverso la metafora del cuore.
Come nel caso del cuore, spesso le metafore che pullulano nel nostro immaginario
raggiungono una tale complessità e si “caricano” di così tanti significati, allusioni,
riferimenti, citazioni, simboli, suggestioni che rappresentano, in quanto portatrici di
possibilità, un modo di pensare e una filosofia viva.
Il teatro come metafora dell‟educazione è qui la proposta di trovare connessioni tra due
domini separati quali l‟educazione (o la scuola) e il teatro (o la messa in scena) per
ritrovarci spunti didattici.
Si possono individuare tre caratteristiche specifiche del teatro ed in particolare del teatro
didattico e del teatro-ragazzi che possono interessare il mondo della scuola:
a. Il teatro è la messa in scena del sapere
b. Il teatro è cross-linguistico
c. Il teatro si regge sulle competenze attoriali e registiche
Il teatro è la messa in scena del sapere; ben prima delle scritture rupestri con le quali i
nostri avi rappresentavano animali, mostri o scene di caccia (circa 30000 anni fa), la forma
di condivisione collettiva di senso e di sapere si costruiva di relazioni
attorno ad un
oggetto totemico o attorno ad un „attore‟ che raccontava prodezze di caccia o cercava di
spiegare nuove tecniche agricole oppure voleva condividere un turbamento d‟amore. (vedi
Fig.4)
Che io sappia non esistono filmati su questo teatro primitivo ma si può dire che ben prima
che esistessero i provveditorati ma anche ben prima della maieutica socratica, il racconto
veniva messo in scena in uno spazio condiviso, e questo spazio altro non era che una
situazione dove degli esseri umani decidevano di dedicarsi attenzioni e di comunicare.
La messa in scena teatrale è originaria per la comunicazione condivisa ed educativa dei
saperi sia in un‟ottica storico-antropologica che per la già menzionata psicologia dello
sviluppo di Jerome Bruner sulla progressiva costruzione delle cognizioni, come se, dalla
prima infanzia, si fosse attori proiettati in una rappresentazione che non si conosce e che
si scopre e si costruisce gradualmente.
Così quando un insegnante mette in scena un qualsiasi sapere, un qualsiasi racconto
rievoca questa esperienza originaria, un‟esperienza che per chi frequenta la scuola può
sembrare banalmente quotidiana ma che, invece, è uno importantissimo rito antropologico
di riconoscimento intersoggettivo e di comunicazione di saperi.
Il teatro è cross-linguistico perché, come detto, nel Pinguino senza frac (e in qualsiasi
storia messa in scena in un contesto teatrale, in qualsiasi storia ben teatralizzata)
coesistono diversi registri comunicativi
In particolare il teatro contiene metafore e permette di gestire la pluralità di linguaggi e dei
sensi attraverso strategie narrative che ne rendono fruibile la compresenza: i passaggi da
una scena all‟altra, da un evento all‟altro si accompagnano a immagini, colori, musiche, ad
ambientazioni realistiche e a situazioni irreali. La pluralità cross-linguistica e crosssensoriale del teatro (o della teatralizzazione dei saperi) ha la valenza di risorsa didattica
di situazioni e materiali e assieme, e la sua gestione complessiva e consapevole è ciò al
quale dovrebbe tendere ogni educazione artistica ed estetica.
Per il terzo punto, la teatralità nella didattica invita l‟insegnante a coltivare la propria
dimensione attoriale e le proprie capacità di gestione registica del setting educativo. Le
competenze tipiche dei teatranti (l‟uso della voce, lo studio dei singoli movimenti, la
gestione dei tempi narrativi, ecc.) sono un bagaglio operativo particolarmente stimolante
per „giocare‟ con i diversi linguaggi e i diversi codici.
Una classica e tradizionale „recita di fine anno‟ una performance episodica con i bambini
attori protagonisti ha poco a che fare con la dimensione teatrale dell‟esperienza educativa:
tale spettacolo manca della consapevolezza di essere un racconto messo in scena e la
complessità cross-linguistica è ridotta al „pezzo‟ recitato a memoria dal bambino, il quale
rischia seriamente di non riconoscere l‟intersoggettività dell‟esperienza.
Per una
comunicazione didattica qualitativa e narrativa, tali momenti teatrali
meriterebbero la spiegazione delle scelte registiche dell‟insegnante (questa musica che
evoca questo sentimento, queste scene fanno paura o ridere) e un lavoro a più dimensioni
sul racconto e sul raccontare, costruendo, ad esempio, una performance dopo un lungo
lavoro su una fiaba, allestendo una scenografia partendo da un laboratorio sui colori,
facendo recitare o facendo descrivere ai bambini i personaggi a rotazione, e così via.
Se viviamo la nostra esperienza educativa come esperienza teatrale ovvero se pensiamo
al teatro come metafora dell‟educazione, i linguaggi e le immagini saranno gli ingredienti e
i colori della storia che vogliamo raccontare e ci interesseranno ed interesseranno ai
bambini non per il loro presunto senso oggettivo (o adulto) ma per le loro trasformazioni di
cui contratteremo il senso nella spirale racconto-commento; il contesto didattico ritornerà
ad essere un luogo della messa in scena di storie e l‟insegnante e i bambini vivranno le
storie con particolare coinvolgimento ed emozione.
E. Per una metacognizione della narrazione didattica
L‟intreccio tra testi teatrali e testi didattici indica la complessità dell‟immaginario sul quale
agiamo da insegnanti: le immagini sono riordinabili grazie alla capacità di dare loro senso
e storia e l‟incontro intertestuale dà nuove trame a immagini e storie che partono da testi
originariamente diversi e separati.
Questa intertestualità che per noi si ripara sotto il cappello della narrazione e della
narratività è praticabile ed ha a che fare con l‟istruzione e richiede un movimento dalle
singole, specifiche narrazioni (cognizioni) agli strumenti e alle regole della narrazione in
generale (metacognizioni).
Il passaggio da cognitivo a metacognitivo per ogni sapere si compie in momenti distinti che
permettono di riconoscere qualcosa, saperlo ripetere, averne pieno controllo tecnico e
saper fare operazioni simili ed infine riuscire ad applicare queste conoscenze ad un altro
dominio del sapere.
«Bere» è un atto cognitivo e pratico che, inizialmente sappiamo riconoscere, fare e anche
dire; in seguito lo rendiamo meta- facendo o esprimendoci con «Bevo un bicchiere di
Fanta», «Francesca beve una birra» o «Devo dare da bere alle azalee». Infine abbiamo
pieno
possesso
delle
nostre
capacità
metacognitive
quando
ci
esprimiamo
consapevolmente con «Facile come bere un bicchier d‟acqua!» o con il motto «Aver sete
non vuol dire che esista qualcosa da bere».
La narrazione è qui considerata come la modalità espressiva privilegiata, sia per forme
che per contenuti, del contesto educativo; di conseguenza la metacognizione narrativa si
presenta come il processo attraverso il quale la narrazione diventa una pratica
consapevole e le funzioni della metacognizione narrativa come i dispositivi per esercitare
tale pratica; le funzioni „funzionano‟ appunto per decodificare dei testi, per costruirli e per
progettarli e per entrare in una forma mentale narrativa.
Pur rimandandovi al testo La pedagogia dei popcorn, vi ricordo le funzioni della
metacognizione (funzione metaforica, funzione inferenziale, funzione enfatica, contratto di
finzione,
funzione
esemplificativa,
funzione
intertestuale,
funzione
mitopoietica)
accompagnandole ad esempi legati a contesti didattici o a linguaggi educativi.
A proposito di esempi, la funzione esemplificativa è quanto di più pedagogico si possa
trovare in una narrazione: fare un esempio o descrivere una situazione presentata come
emblematica prevede che ci si trovi in una comunicazione che ha la premura di far capire
qualcosa, di dare un insegnamento, di stabilire una relazione educativa oltre ai suoi più
semplici intenti informativi.
Nella pedagogia moralistica, l‟esempio-modello (dalle famose storie mensili del libro
Cuore, fino, viceversa ma è lo stesso, alle storie degli omicidi nei telegiornali) induce
l‟educatore e l‟educando a convergere e a rafforzare il messaggio-contenuto che si vuole
trasmettere mentre nella pedagogia „tecnica‟ gli esempi sono l‟equazione risolta
correttamente, l‟esercizio ginnico da copiare dall‟insegnante ma anche il disegno della
casetta da ripetere pedissequamente.
L‟esempio nella metacognizione narrativa si presenta come capacità di fare da sé esempi
e nella didattica come l‟invito agli studenti a creare esempi che variano sul tema, che
divergono dal canone. Questa esemplarità, non moralistica né tecnica, richiede ai bambini
e ai ragazzi di essere più attivi, per decodificare e produrre esempi che sono diversi dal
modello proposto e possiamo
probabilmente considerarla come la base della satira che
coglie le forme essenziali di un linguaggio per mostrarle distorte, amplificate o tumefatte.
Non a caso nei bambini e nei preadolescenti con l‟incremento delle competenze
metacognitive cresce anche la capacità di imitare l‟insegnante con tratti distintivi
caricaturali.
La funzione metaforica è già stata approfondita nel paragrafo precedente mentre
l‟inferenza è da considerarsi legata alla ricezione (la funzione inferenziale) e a parere di
Hans Robert
Jauss: «La ricezione dell‟arte significa un duplice atto, che comprende
l‟effetto che è prodotto dall‟opera, e il modo in cui il ricevente accoglie l‟opera. Il ricevente
può semplicemente consumare l‟opera o [...] rispondere a un‟opera anche col crearne egli
stesso una nuova [...] e anche il produttore è sempre già recipente, allorché inizia a
scrivere.» (Jauss, p.136).
Tutti sappiamo che Willy il Coyote , da sempre e ciclicamente, bracca il velocissimo Bipbip ( il cui nome di battesimo sarebbe Road Runner) e che i suoi frequenti ed ingegnosi
tentativi sono dolorosamente fallimentari.
Nella successione di inquadrature vediamo il coyote che si appresta a partire su un
monopattino con una piccola vela, il monopattino è potenziato dal ventilatore, il ventilatore
è collegato ad un traliccio con un cavo a matassa, parte il ventilatore e l‟inseguimento, il
velocissimo Bip-bip è quasi raggiunto ma...il cavo finisce e la presa si stacca, giusto dove
la strada svolta a sinistra, il coyote è nel vuoto sopra il canyon, soffia soffia sulla vela, è ad
un centimetro dall‟altra sponda, scompare verso il basso...
I vuoti di senso tra un evento e l‟altro ci permettono di partecipare sadicamente alla
costruzione del cartone animato: siamo noi che vedendo in lontananza il fumo dell‟impatto
decretiamo il tonfo del coyote, siamo noi che prevediamo che la il cavo dovrà essere
insufficiente, noi inferiamo questo in nome della storia raccontata.
Per chi racconta, spiega, insegna questo sistema di inferenze è un tesoro.
L‟intertestualità (la funzione intertestuale) è una delle chiavi di lettura privilegiate della
cultura attuale in quanto possiamo equiparare in un primo momento tutti i testi
(un‟immagine, un libro, un fatto storico, un vissuto individuale) e scoprire quali sono i
rapporti che attribuiamo loro reciprocamente per poi dargli intenzionalmente un senso
narrativo, facendo sì che la differenza tra testo e testo sia esperita e organizzata in un
processo intersoggettivo.
La consapevolezza e l‟esplicitazione delle relazioni tra i diversi testi va inteso come
elemento distintivo della progettazione didattica, come vedremo nell‟ultimo paragrafo.
Quando è centrata sulle figure l‟intertestualità ha a che fare con la capacità di riconoscere
come propri i mitologemi: i desideri d‟amore o la paura della morte o del dolore e della
prova diventano immagini archetipiche, come capita nei sogni, oppure esseri zoomorfi
nella mitologia indiana e greca, o ancora sofisticate allegorie nell‟arte europea, ma anche
realistici poster fotografici di attori e cantanti appesi alle pareti delle camere
contemporanee.
Questa funzione mitopoietica differisce dall‟intertestualità perchè la nostra attenzione si
orienta e dà significatività ad un singolo personaggio o ad un singolo evento che diventa
così il perno della narrazione.
In questo senso, le funzioni di Propp e della sua Morfologia della Fiaba sono figure
collocate in singole storie che aprono orizzonti di senso nella singola trama e che
collegano la singola trama ad altre storie di analogo genere letterario ma diventano
autonomi sia dal testo originario che dalla intertestualità.
I ruoli della principessa, dell‟eroe o del falso eroe o le funzioni conseguimento del mezzo
magico, tranello o adempimento sono vere e proprie figure costanti del nostro pensiero,
ingredienti del nostra capacità di generare narrazioni e porte che aprono innumerevoli
sentieri esistenziali e simbolici oltre che, secondo Propp, alcuni dei nuclei propri dei
racconti fiabeschi.
Il contratto di finzione è un aspetto metacognitivo piuttosto importante per la teatralità
educativa e per la gestione della pluralità dei linguaggi.
Entrare ed uscire dalla finzione e, viceversa, dal contesto reale in modo comprensibile
all‟interlocutore, è una competenza decisiva per mettere in scena saperi e raccontare
storie, per alternare eventi immaginari o semplici immagini con spiegazioni, letture ad alta
voce con spiegazioni precise e puntigliose.
L‟accortezza di un insegnante si manifesta in questo caso con la conoscenza delle
sensibilità dei bambini sul rapporto realtà/finzione o delle tendenze del linguaggio infantile
di Jean Piaget o altri percorsi di ricerca che tentano di evidenziare i modi dei bambini di
mettere in scena le proprie conoscenze.
Nell‟ottica della psicologia dello sviluppo di matrice piagetiana, però, il linguaggio adulto
diviene più logico, più equilibrato e più coerente con la rappresentazione del mondo
mentre la forma mentis narrativa che la metacognizione ci insegna a comprendere ed
utilizzare si basa su un infinito ventaglio di esperienze nel mondo-della-vita (come lo
definiscono Edmund Husserl e i fenomenologi), tutte le modalità nelle quali parlo, tutte le
trame che sono in grado di tessere perciò risulta importante trasmettere le forme dei
saperi nel modo più vario immaginabile cosicché tale varietà diventi bagaglio delle
modalità espressive del bambino.
La capacità di gestione delle forme di rappresentazione è sicuramente evolutiva e
progressiva ma richiede di una attentissima sensibilità pedagogica da parte dell‟educatore
ed un aggiornamento possibilmente evolutivo delle sue competenze narrative per non
fare la triste fine di Cartesio e Piaget e confondere il linguaggio adulto con il pensiero
logico.
Se noi educatori pensiamo lo sviluppo cognitivo e metacognitivo dei bambini come
capacità di decodificare e costruire rappresentazioni e come sempre più complessa
consapevolezza dei molti modi possibili di stare al mondo gli spunti che ci danno gli studi
psico-pedagogici che non si appiattiranno in tabelle che suddividono momenti di sviluppo
predeterminati.
La stessa funzione enfatica, per concludere con la metacognizione narrativa, ci devia dal
razionalismo piagetiano per ricordarci che le narrazioni muovono e si muovono con
emozioni e sentimenti.
Il tono della voce, il ritmo e l‟interazione di sguardi, le pause sono elementi che creano il
clima di una spiegazione ma per enfasi non possiamo non considerare anche lo stile
complessivo e le emozioni che trasmette l‟insegnante: le sensazioni più elementari o i
sentimenti più alti.
L‟enfasi e la forma narrativa che hanno fatto vivere ad un bambino quella storia e quel
sapere determinati faranno parte del suo bagaglio di storie e di modi di raccontare e
l‟emozione vissuta non sarà solo il ricordo che un bambino avrà di quell‟insegnante (e già
questo non è poco!) ma sarà un‟esperienza sensata, strutturata e condivisa di una
relazione educativa.
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