Emma Bonutti
classe VD
Aprile 2015
L’ETA’ AUGUSTEA NELLE FONTI STORICHE, LETTTERARIE,
ARTISTICHE.
Il 16 gennaio del 27 a.C. Gaio Giulio Cesare Ottaviano, a 36 anni, riceve il titolo di Augustus,
simbolo del nuovo potere imperiale che con lui prende inizio e che trasmetterà ai suoi successori la
nuova forma dello stato romano destinata a durare per quasi cinque secoli.
Ma come si era arrivati a questo? Ma, anzitutto, chi era Gaio Giulio Cesare Ottaviano?
1. Gaio Giulio Cesare Ottaviano.
Ottaviano nacque a Roma il 23 settembre del 63 a.C.. Figlio di Gaio Ottavio, plebeo ma di antica
famiglia di ordine equestre, e della nobile Azia, nipote di Cesare per parte di sorella, si chiamò
dapprima come il padre, poi, in seguito all’adozione da parte del prozio Cesare, che lo volle con sé
in diverse operazioni militari e si occupò anche della sua educazione, prese il nome di Caio Giulio
Cesare Ottaviano, nome a cui si aggiunsero nel 40 a.C. il titolo di Imperatore e, nel 27 a.C., quello
di Augusto. Dapprima sposò Claudia, poi Scribonia, da cui ebbe la figlia Giulia nel 40 a.C.; infine,
nel 38 a.C., prese in moglie Livia Drusilla.
2. La conquista del potere
Roma, Idi di marzo del 44 a.C.: Caio Giulio Cesare è
ucciso da Bruto e Cassio, ai piedi della statua del suo
acerrimo rivale, Gneo Pompeo, in nome della libertà
repubblicana. Con questo i congiurati vogliono mettere
fine al tentativo di Cesare di porre fine alla repubblica e
instaurare un regime ti tipo monarchico-imperiale.
Ottaviano alla morte di Cesare si trovava a Roma di
ritorno dall’Oriente dove aveva combattuto giovanissimo
contro i terribili Parti; è deciso a vendicare la morte di
Cesare per prendere il potere come suo degno
successore.
Ma la situazione a Roma non è semplice: la lotta per il poRitratto di Ottaviano da giovane.
tere è molto accesa. Ottaviano deve affrontare Marco
Antonio ed Emilio Lepido; tutti lo ritengono una forza giovane, facilmente manovrabile. Ma
Ottaviano mostrerà a tutti quanto si sbaglino sul suo conto. Anche se è solo un ragazzo, non si
lascerà trasformare in una semplice pedina del gioco di potere.
Ci prova rivendicando l’eredità di Cesare, e, a soli venti anni, senza aver percorso tutte le tappe del
cursus honorum, chiedendo di diventare console. Quando riceve un deciso rifiuto da parte del
senato, marcia su Roma e diventa console.
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Uno dei suoi primi atti è il revocare l’amnistia concessa a coloro che avevano congiurato contro
Cesare e l’avevano ucciso. Bruto e Cassio sono costretti a fuggire in Oriente, dove organizzano un
esercito con cui sperano di sconfiggere Ottaviano.
Il giovane Ottaviano rimasto a Roma non perde tempo: si organizza per restaurare la repubblica ma
di fatto prende sempre più potere. Viene creato il secondo triumvirato, che unisce Marco Antonio,
Lepido ed Ottaviano.
Nel 42 a.C., a Filippi, l’esercito di Bruto e Cassio viene duramente sconfitto da quello dei triumviri,
e i due cesaricidi rimangono uccisi.
Dopo la vittoria, Lepido viene facilmente emarginato; Ottaviano ed Antonio sono entrambi decisi a
prendere definitivamente il potere. Da soli.
Per Ottaviano non è difficile mettere in cattiva luce in rivale, che si era alleato con la sovrana
d’Egitto, Cleopatra, ed era diventato suo amante. Agli occhi dei cittadini Romani, Antonio non è
altro che un sovrano orientale, mentre Ottaviano acquista sempre più popolarità, e gli vengono
attribuiti immensi onori.
Nel 32 a.C., nell'imminenza della guerra contro Cleopatra, Ottaviano si fa prestare un giuramento
dalle città italiche (coniuratio Italiae), in nome dei valori occidentali contro le forze dissolute
dell'Oriente. Nel 31 a.c. si arriva allo scontro definitivo. Ad Azio Ottaviano ottiene una vittoria
schiacciante; Antonio e Cleopatra si suicidano.
Ottaviano ha finalmente preso il potere.
In seguito Augusto continuò energicamente la pacificazione del mondo romano e ne assicurò
saldamente i confini, stroncando le ribellioni che ne minacciavano l’integrità. Riorganizzò le
finanze e si dedicò con tenacia a riformare i costumi e a combattere l’irreligiosità e l’immoralità
dilaganti.
La sua vecchiaia fu rattristata da alcuni insuccessi militari e dai lutti familiari che complicarono il
problema della successione. Morì nel 14 d.C. all’età di settantasei anni, a Nola, in Campania, dopo
aver disposto che il passaggio del potere a Tiberio avvenisse senza scosse.
Denarius commemorativo della vittoria
di Azio (coniato ca. 30 a.C.). Nel recto
Ottaviano con la testa coronata d’alloro;
nel verso colonna rostrata con la scritta
IMP(erator) CAESAR.
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3. Il dominio personale di Ottaviano.
Ottaviano, nel corso del suo lunghissimo dominio su Roma dal 31 a.C. al 14 d.C., anno della sua
morte, costruì un sistema politico basato in gran misura sul suo potere personale: è l’inizio
dell’impero.
Nel 32 a.C., con la coniuratio italiae, Ottaviano lega a sé le
città italiche in modo da renderle fedeli a Roma e soprattutto a
sé stesso.
Con la vittoria di Azio, dimostra a tutti che, anche se giovane e
per molti inesperto, non si sarebbe lasciato manovrare dagli
altri. Sarebbe stato rispettato ed onorato come il primo tra tutti,
il princeps. Nasce così il principato di Ottaviano, che nel 29
a.C. ottiene il titolo di imperator a vita.
Solo i generali che celebravano il trionfo a Roma potevano
vantare quel titolo, e solo per il breve periodo che durava il
trionfo. Ottaviano quindi avrebbe mantenuto il titolo di
comandante vittorioso per tutta la vita.
Nel 27 a.C. Ottaviano riceve il titolo di Augusto. Augustus
deriva dal verbo latino augeo (innalzare, accrescere) è dunque
colui che accresce la floridezza dello Stato. Il titolo dà un
grande peso alla potenza creatrice del personaggio. Ma la
radice AUG- di Augustus si ritrova anche in augur, la casta
La statua di Ottaviano Augusto sacerdotale che esercitava la divinazione, ed esprime dunque
rinvenuta a Prima Porta. Ottaviano vi
una vicinanza al divino: è colui che è protetto dagli dei. Non
è raffigurato in veste di imperator.
per nulla Ottaviano si definisce Divi filius.
Nel 23 a.C. ad Augusto viene attribuita la tribunicia potestas: in questo modo, Augusto godeva del
diritto di veto, proprio dei tribuni della plebe, con cui era possibile bloccare tutte le leggi ed i
provvedimenti che riteneva inadatti a Roma e sfavorevoli a lui stesso. Nello stesso anno gli venne
attribuito l’imperium maius et infinitum, ossia il potere militare esteso su tutto l’apparato
dell’esercito.
Nel 19 a.C. ottiene l’imperium consulare, ossia il diritto ad usare le tradizionali insegne dei consoli.
Poteva quindi essere scortato dai littori in pubblico e sedersi sulla sedia currule ed aveva il potere di
emettere editti.
Augusto diventa pontifex maximus nel 12 a.C., e così può
controllare anche l’aspetto religioso della vita romana,
profondamente radicato nella mentalità dei cittadini
romani.
Infine, nel 2 a.C., Augusto ottiene il titolo di pater patriae,
padre della patria. Questo titolo richiama molto quello del
pater familias, che aveva potere di vita e morte sui membri
della sua famiglia, doveva tutelarli ed essere da tutti loro
onorato e rispettato. Allo stesso modo Augusto si proclama
padre di tutti i cittadini romani, che devono rispettarlo in Augusto in veste di pontifex maximus.
cambio della sua protezione.
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Il modello costituzionale inaugurato da Augusto viene definito repubblicano de iure, ma
monarchico de facto. Questa distinzione appare evidente anche nelle Res Gestae, opera
autobiografica scritta da Augusto stesso. In quest’opera, Augusto si mostra molto preoccupato di
dimostrare che il suo potere è legale secondo la repubblica romana.
“Fui superiore a tutti in autorità, ma non ebbi per nulla più potere degli altri che mi furono
colleghi nelle rispettive magistrature”.
In questo passo delle Res Gestae appare evidente l’intenzione di far capire a tutti che il suo potere è
perfettamente legale in quanto si basa in grandissima parte sull’auctoritas, sull’autorità. Di fatto
Augusto aveva lo stesso potere degli altri, ma la combinazione di tutti questi poteri lo portava ad
avere un’autorità maggiore di chiunque altro. Augusto quindi poteva dominare la vita politica di
Roma a suo piacimento.
In molti altri passi, Augusto specifica che gli onori che gli sono stati attribuiti non li ha voluti lui,
ma che il Senato, o le colonie, o i municipi hanno provveduto a darglieli.
La distinzione tra potere de iure e de facto era necessaria quindi per questo semplice motivo: i
poteri di Augusto erano, se presi singolarmente, tutti legali de iure. Infatti Augusto non fece come
Silla o Cesare, che avevano creato magistrature straordinarie per concentrare il potere nelle loro
mani. Ma il fatto che tanti poteri fossero concentrati nelle mani della stessa persona costituiva
l’aspetto straordinario della situazione: de facto, Augusto aveva un potere immenso, di gran lunga
superiore a quello di chiunque altro.
4. Le Res Gestae Divi Augusti.
Nel corso della sua vita, Augusto si occupò personalmente di
scrivere le sue memorie in un’opera autobiografica che, nella
sua mente, avrebbe dovuto essere incisa su lastre di bronzo
dorato e posta davanti alla sua tomba monumentale situata
nel Campo Marzio, il Mausoleo di Augusto.
Quest’opera, in cui Augusto riporta tutti i dettagli della sua
azione politica e militare, dalle opere pubbliche al numero di
navi affondate, prende il nome di Res Gestae Divi Augusti,
Monumentum Ancyranum.
letteralmente “Imprese compiute dal divino Augusto”.
Svetonio e Cassio Dione raccontano che Augusto, un anno prima della sua morte, aveva consegnato
alle Vestali dei documenti di natura testamentaria, che furono portati in Senato e letti pubblicamente
dopo la sua morte. Insieme al testamento vero e proprio, c’erano tre allegati, uno dei quali ricordato
da Svetonio e Cassio Dione come Index rerum a se gestarum. Questo documento nei secoli
successivi diventerà noto con il nome di Res Gestae.
È difficile stabilire con certezza quando siano state composte le Res Gestae, ma possiamo datarle ai
primi anni del I secolo d.C. ultimo periodo della vita di Augusto; si tratta dunque di una fonte
contemporanea agli avvenimenti e ovviamente l’autore è contemporaneo e coinvolto di persona in
essi.
L’obiettivo delle Res gestae è di lasciare ai posteri memoria delle imprese portate a termine da
Augusto nel corso della sua vita.
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È una fonte letteraria, diretta anche se non del tutto attendibile in quanto scritta con preciso intento
commemorativo e celebrativo.
Il punto forte di questo testo è lo stile in cui è scritto, solenne nella semplicità. Lo stile si avvicina
molto a quello usato da Cesare, come possiamo notare leggendo i Commentarii de bello gallico. Si
tratta di uno stile scarno, semplice, in cui prevale la paratassi, che evita l’uso di figure retoriche o
immagini evocative e che, usando frasi chiare e brevi, acquista un tono solenne.
Il testo originale, che doveva essere esposto davanti al
Mausoleo di Augusto, è andato perduto. La copia che ci è
pervenuta è il Monumentum ancyranum, che, come suggerisce
il nome, è stato ritrovato nell’attuale Turchia, ad Ankara. Il
testo era inciso sulle pareti di un tempio in onore della Dea
Roma e di Augusto, costruito quasi certamente quando il
principe era ancora in vita. Si tratta di un testo bilingue (latino
e greco) che è il più completo tra quelli superstiti.
Copia delle Res gestae sul muro
Nei primi capitoli Augusto elenca gli onori che gli erano stati
esterno dell'edificio che contiene l'Ara
decretati, specificando accuratamente quali sono stati da lui
pacis a Roma.
accettati e quali invece sono stati rifiutati.
Gli ultimi due capitoli invece testimoniano i momenti principali della carriera politica di Augusto, e
culminano nell’espressione della sua auctoritas di cui abbiamo parlato precedentemente.
Nella narrazione emerge un’idea del tutto positiva del principato: vengono messe in evidenza le
grandi opere compiute da Augusto a favore di Roma e dei suoi cittadini, e si presta particolare
attenzione alla legittimità del potere del principe. In questo modo, le Res Gestae Divi Augusti, oltre
ad essere un modello inimitabile di auto-elogio, diventano una dimostrazione che il potere
straordinario di Augusto è del tutto legittimo, e del tutto positivo e benefico per Roma e il suo
impero. Il messaggio è che il principato è la cosa migliore per Roma, e che Augusto va considerato
un principe attento soprattutto al benessere dei suoi sudditi.
5. Gli Annales ab excessu Divi Augusti.
É utile un confronto tra le Res Gestae ed un’altra opera, gli Annales ab excessu Divi Augusti,
“Annali dalla morte del divino Augusto”, scritti da Tacito probabilmente tra il 112 e il 113,
probabilmente la sua ultima opera.
Tacito (56-120 d.C.) è contemporaneo agli avvenimenti narrati e gli Annales forniscono un
resoconto dettagliato anno per anno del regno dei quattro imperatori successivi ad Augusto.
È una fonte diretta e attendibile: Tacito con una trattazione accurata e scientifica mette in luce
aspetti positivi e negativi di ogni fatto, rendendo chiara anche la sua opinione personale.
Probabilmente l’opera era composta di almeno sedici volumi, molti dei quali però sono andati
perduti o sono giunti a noi incompleti.
Tacito sostiene la tesi della necessità del principato. Ma, se da un lato elogia Augusto per aver
finalmente garantito la pace allo stato romano dopo anni di guerra civile, dall’altro mostra gli
svantaggi di una vita vissuta sotto il dominio dei Cesari.
In cambio della tanto agognata pace, i cittadini romani hanno dovuto pagare un caro prezzo: la loro
libertà. Secondo Tacito però, sono pochi a rendersi conto di questa perdita dovuta all’avvento del
principato.
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“Nella città era tranquillo lo stato delle cose, le magistrature conservavano gli stessi nomi; i più
giovani erano nati dopo la vittoria di Azio, la maggior parte dei vecchi nel periodo delle guerre
civili: quanti mai rimanevano che avessero conosciuto la Repubblica?”.
In questo passaggio è molto evidente l’opinione di Tacito. Se nessuno ha conosciuto veramente la
libertà della repubblica prima delle guerre civili, nessuno può veramente rendersi conto di aver
perso questa libertà.
Tacito descrive corruzione e l’ambiguità di tutte le classi sociali, la scomparsa di sentimenti che
non siano la vanità, la cupidigia e l’ambizione. Appare chiara la sua idea della necessità del
principato. Per gestire la società corrotta del tempo e uno stato che va sempre più ingrandendosi, è
necessario l’uso di un nuovo modello di governo per mantenere la situazione sotto controllo e
garantire il benessere dello stato e dei cittadini; la società corrotta ed ambiziosa del tempo ha fatto sì
che dalla Repubblica nascesse il principato, grazie a cui si può governare ed amministrare meglio lo
stato.
In alcuni passi degli Annales, Tacito si dimostra convinto del fatto che il potere di Augusto non ha
più nulla a che vedere con le magistrature repubblicane; lo storico latino è anche cosciente della
distinzione tra le due facce del potere di Augusto, ossia l’imperium e il nomen principis,
rispettivamente sostanza forte e forma debole del potere del principe.
“Augusto ridusse sotto il suo dominio, con il nome di principe, lo Stato stanco e disfatto dalle lotte
civili”.
In questo passo si parla proprio del nomen principis (nome del principe). Tacito ritiene che Augusto
abbia unificato lo stato sotto il nome del principe, ossia abbia usato il suo nome quasi come pretesto
per giustificare il potere che praticamente si era conferito da solo. Il suo potere quindi è allo stesso
tempo molto solido e fragile: infatti è durato per ben 41 anni, ma era basato principalmente sul
nome del princeps.
“ (…) cominciò a crescere in potenza a poco a poco, a concentrare in sé le competenze del Senato,
delle magistrature, delle leggi, senza che alcuno gli si opponesse”.
È evidente la convinzione di Tacito che Augusto abbia sovvertito l’assetto repubblicano per
concentrare il potere in sé stesso. Anche nelle Res Gestae si trova qualche accenno a questo
“passaggio del potere” delle magistrature nelle mani di Augusto: il principe però scrive che il suo
dominio su queste si basava solo sull’autorità, e non sul potere effettivo, mentre Tacito afferma che
le vecchie organizzazioni repubblicane sono state totalmente private del loro potere, raccolto da
Augusto.
“Mutate, dunque, le condizioni della città, in nessun luogo rimaneva più qualche cosa dell’antico
incorrotto costume (mos maiorum): scomparsa l’eguaglianza tra i cittadini, tutti attendevano gli
ordini del principe”.
La scomparsa degli antichi valori propri della Roma repubblicana, quelli riassunti nel mos maiorum,
diventa evidente nel momento in cui ci si rende conto che ogni cosa nella città è cambiata: i cittadini
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non solo hanno perso la loro uguaglianza, ma anche la loro libertà, poiché tutti devono sottostare
agli ordini del principe che sembra avere tutti i poteri.
La distinzione tra l’imperium e il nomen principis, tra l’auctoritas e la potestas è molto evidente in
questi passaggi: sebbene il potere di Augusto sia basato sull’autorità, questa è talmente forte ed
estesa da diventare una forma di potere effettivo agli occhi degli altri. Il semplice fatto che l’autorità
di Augusto si estenda su tutte le magistrature, sul Senato, sulle leggi, tra i cittadini, implica che tutti
percepiscano il suo potere e si sentano quasi obbligati, costretti a sottostarvi perché nettamente più
forte di ogni altra cosa.
Dal nono all’undicesimo capitolo del primo libro degli Annales Tacito descrive un quadro piuttosto
fosco del principato riportando le presunte opinioni dei partecipanti ai funerali di Augusto.
Tacito mette in luce l’ipocrisia della società che passa dal ricordare il gran numero di poteri
straordinari assunti dal principe nel corso del suo governo, al giudicare in modo piuttosto aspro la
vita di Augusto.
“La vita di lui, a seconda della varietà delle opinioni, era o innalzata con grandi lodi o aspramente
giudicata (…); si ricordava che vi era giustizia presso i cittadini”.
A questo si affianca l’idea che la violenza non abbia lasciato il posto alla pace, ma sia stata di fatto
uno strumento per ottenerla. Inoltre Tacito riporta che molti pensavano che Augusto sin da giovane
avesse dimostrato di voler prendere illegalmente il potere arruolando un esercito privato, che avesse
ordito tradimenti contro i suoi avversari politici per impadronirsi delle loro forze o li avesse tratti in
inganno; Augusto avrebbe addirittura disonorato gli dei pretendendo di essere venerato come loro.
Ogni pretesto è buono, alla morte di Augusto, per dimostrare che in fondo tutti si erano resi conto di
aver perso la loro libertà in cambio di una pace conquistata con la violenza. Finché il principe era
forte ed in vita, però, nessuno aveva osato opporsi a lui.
In conclusione, secondo Tacito, il principato di Augusto è caratterizzato da luci ed ombre: il suo
operato era sì necessario per salvare la società romana per quanto possibile, ma aveva anche
sovvertito le magistrature, sottratto la libertà ai cittadini, fatto pagare cara la pace. Per quanto abbia
portato grandi benefici allo stato romano, non si può negare che avesse anche i suoi grandi difetti e
punti oscuri.
6. Le Res Gestae e gli Annales a confronto.
Per fare un confronto tra le Res Gestae e gli Annales si può partire dal considerare le fonti secondo
la loro tipologia e caratteristiche.
Insieme tracciano e documentano l’intero periodo di storia dall’età di Augusto fino al principato di
Traiano. Entrambe sono fonti letterarie, anche se di genere differente in quanto le Res Gestae sono
un opera di tipo autobiografico, mentre gli Annales sono un testo storiografico; le fonti sono
entrambe state prodotte per lasciare testimonianza dell’epoca di cui parlano.
Dalle Res Gestae ovviamente emerge un’idea molto positiva del principato. Vengono presi in
considerazione solamente gli aspetti della nuova forma di governo che hanno migliorato e
migliorano la vita di Roma e dei suoi cittadini, mentre se ci sono aspetti negativi, questi vengono
ovviamente tralasciati.
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Negli Annales invece entrambe le facce del potere vengono messe a nudo. La pace che finalmente è
stata donata a Roma è basata sul potere tirannico di una sola persona, ossia Augusto, che in fin dei
conti è un usurpatore che, pur di avere la pace, ha usato la violenza.
“In ben poche circostanze, infine, si era usata la forza, solo perché si potesse godere, per tutto il
resto, la pace”.
Tacito in un primo momento sembra giustificare l’operato di Augusto: dopotutto il governo di un
solo uomo era l’unica via possibile di salvezza per lo stato romano.
In un altro passo però Tacito mette ulteriormente in evidenza l’uso della violenza per ottenere la
pace.
“Dopo queste vicende venne senza dubbio la pace, ma a prezzo di sangue”.
Un punto in comune tra i due testi è il seguente: sia Augusto che Tacito mettono bene in evidenza il
fatto che il potere di Augusto è basato specialmente sull’auctoritas e non sulla potestas. Bisogna
comunque aggiungere che Augusto si sofferma su questa distinzione per giustificare la grandezza e
la lunghezza del suo potere agli occhi degli altri, mentre Tacito mette bene in chiaro questa
distinzione per confermare che la Repubblica è di fatto finita, anche se lo stato non è stato
completamente sovvertito. Tacito scrive di come Augusto ha svuotato di potere le magistrature
repubblicane e le ha riempite della sua autorità, impadronendosi dello stato romano senza incontrare
opposizione. Queste osservazioni sono riportate anche da Augusto nelle Res Gestae, sebbene non in
modo altrettanto esplicito.
I due testi quindi hanno parecchi argomenti in comune, ma usati per supportare tesi differenti:
Augusto infatti deve legittimare il suo potere, Tacito invece afferma che il principato era sì
necessario, ma tutti devono rendersi conto che Augusto ha in pratica fatto scomparire la Repubblica.
7. Opere pubbliche per legittimare il potere.
Nel corso del suo principato Augusto avviò un’importante campagna di opere pubbliche sia per far
rinascere la città dopo il lungo periodo di guerre civili che aveva preceduto il suo avvento sia per
legittimare il proprio potere dando prove concrete del suo interesse per il bene di Roma e dei suoi
cittadini.
Sotto il suo governo, vennero spese ingenti somme di denaro per fornire Roma di riserve di grano,
acqua e di corpi di polizia, e per l'erezione o il restauro di pubblici edifici.
“Roma non era all'altezza della grandiosità dell'Impero ed era esposta alle inondazioni e agli
incendi, ma egli l'abbellì a tal punto che giustamente si vantò di lasciare di marmo la città che
aveva trovato fatta di mattoni.” (Svetonio, Augustus)
Nelle Res Gestae c’è un intero capitolo dedicato ai restauri e alla costruzione di edifici e
monumenti.
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“Ho fatto costruire la Curia e il Calcidico che la limitava, il tempio di Apollo (…), il tempio del
Divo Giulio, il Lupercale, il portico presso il circo Flaminio (…), il tempio sul Capitolino di Giove
Feretrio e di Giove Tonante, il tempio di Quirino…”
Evidentemente è molto importante per Augusto sottolineare con un elenco molto dettagliato tutte le
sue opere a favore di Roma.
Soffermiamoci ora sulle più significative per riportare anche la loro funzione “pratica” ed
“ideologica”.
È particolarmente significativa la costruzione di un nuovo foro accanto a quello di Cesare, il Foro di
Augusto. Disposto ortogonalmente rispetto al precedente Foro di Cesare, ne riprese l'impostazione
formale. Come lo stesso Augusto ricorda nelle Res Gestae, il nuovo complesso monumentale venne
eretto ex manubiis, ossia finanziato con il bottino di guerra ottenuto con le proprie vittorie, e in solo
privato, ossia su un terreno acquistato a proprie spese da privati, collocato sulle pendici del
Quirinale. Il Foro venne inaugurato, probabilmente non ancora del tutto completato, nel 2 a.C., anno
nel quale Augusto ottenne il titolo di pater patriae. Nei portici del complesso monumentale si
svolgevano le attività giudiziarie dei pretori urbani.
Foro di Augusto, ricostruzione
La ricostruzione del foro è particolarmente significativa perché la piazza è il luogo dove la città
vive, dove si incontrano i cittadini per discutere. Il foro, da questo punto di vista, è il cuore pulsante
della città.
Sono da ricordare anche la ristrutturazione della Curia (sede del Senato) e del Tempio di Giove
Ottimo Massimo sul Campidoglio, dove il principe depose un bottino composto da sedicimila libbre
d'oro, con pietre preziose e perle per un valore di cinquanta milioni di sesterzi.
La Curia Iulia era la sede del Senato romano, posta al culmine del lato breve del Foro. Si tratta di un
grande edificio in mattoni che deve il suo nome alle assemblee dei "curiati", cioè dei cittadini
ponderati in base al censo, che si svolgevano nel Comizio. L’edificio fu terminato e inaugurato da
Augusto il 28 agosto del 29 a.C.
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Come abbiamo detto precedentemente, uno dei cardini della figura di Augusto è la sua auctoritas.
Con il ricostruire la Curia, forse Augusto voleva riconfermare la sua autorità sopra il Senato che in
essa si riuniva, come se volesse ricordare ai senatori che, sebbene il Senato fosse ancora un organo
molto prestigioso, il vero potere stava nelle mani del principe.
Importanti sono anche la costruzione di numerosi nuovi templi,
come quelli dedicati ad Apollo sul Palatino, con la vicina
biblioteca greca e latina Apollinis; quello dedicato al padre
adottivo, il Divo Giulio, oltre al Pantheon costruito tra il 27-25
a.C.; si aggiunga la costruzione di nuovi acquedotti, ossia l’Aqua
Iulia, l’Aqua Virgo e Aqua Alsietina.
Tempio di Apollo sul Palatino.
Da non dimenticare è anche la ricostruzione della Basilica Iulia, situata al posto dell’antica basilica
Sempronia, fatta erigere dal censore Tiberio Sempronio Gracco, padre dei due famosi tribuni della
plebe, nell'anno 170 a.C. Un nuovo edificio più grande, la basilica Iulia, venne iniziato da Cesare
attorno all'anno 54 a.C. Inaugurata incompleta nel 46 a.C. fu terminata dopo la morte di Cesare da
Augusto.
La ricostruzione parziale del Campo Marzio, luogo in cui, in occasione delle assemblee, si riuniva
l’esercito in armi, è forse l’opera di ricostruzione e di restauro più significativa tra quelle attuate da
Augusto.
Ricostruzione del Campo Marzio.
Obelisco nel Campo Marzio.
La zona era composta da boschi e radure ricche di vegetazione dove si respirava un grande clima di
sacralità, ed era delimitata dal corso del fiume Tevere e dalla Via Flaminia. Era nel Campo Marzio
che si riunivano i comizi centuriati, ossia l’assemblea dell’esercito. Nei pressi della zona si trovava
il pomerium pre sillano, ossia il limite oltre il quale l’esercito non poteva passare senza aver prima
deposto le armi.
Conosciamo l’importante opera di Augusto non solo grazie alle sue Res Gestae, ma anche grazie
allo storico greco Strabone (primi anni del I secolo d.C.).
Nel Campo Marzio erano situati già alcuni importanti edifici come il Teatro di Pompeo e il portico
di Ottavia.
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A sud-est trovava posto il Mausoleo di Augusto, ossia la sua
tomba monumentale in cui trovarono sepoltura le persone a
lui più vicine. Il giovane Marcello, nipote amatissimo di
Augusto, fu il primo uomo a riposare per sempre nel
Mausoleo.
La costruzione era di forma circolare, e si sviluppava su più
livelli decorati con statue ed alberi sempreverdi come il
cipresso, richiamo all’immortalità. Nella parte sopraelevata e
centrale del monumento si trovava il vero e proprio luogo di
Mausoleo di Augusto.
sepoltura.
A sud-est invece c’era un monumentale orologio solare, una grande meridiana costituita da un
obelisco decorato con dei geroglifici che Augusto aveva fatto portare a Roma dopo la campagna
militare in Egitto. L’ombra dell’obelisco era proiettata su una pavimentazione amplissima, oggi
purtroppo non visibile perché i marmi di cui era composta vennero sottratti o riutilizzati per altri
scopi.
Alla base dell’obelisco c’è un iscrizione che riporta tutte le cariche di Augusto al momento
dell’inaugurazione dell’orologio e dice che Augusto stesso dedicò l’obelisco al sole.
“ IMP. CAESAR DIVI FIL. / AUGUSTUS / PONTIFEX MAXIMUS / IMP. XII COS XI TRIB POT XIV /
AEGYPTO IN POTESTATEM / POPULI ROMANI REDACTA / SOLI DONUM DEDIT.”
Una volta sciolte le varie abbreviazioni, il significato del testo è il seguente.
“L'imperatore Augusto, figlio del divino Cesare, pontefice massimo, proclamato imperatore per la
dodicesima volta, console per undici volte, che ha rivestito la potestà tribunizia per quattordici
volte, avendo condotto l'Egitto in potere del popolo romano, diede in dono al sole”.
Davanti all’obelisco c’era l’ara pacis, ossia
l’altare della pace, costruito nel 13 a.C. per
volere del Senato quando Augusto portò a
termine le ultime campagne militari di
pacificazione, per celebrare la conclusione delle
guerre e l’arrivo della tanto desiderata pace. È
costituita da un parallelepipedo aperto su due
lati, dentro cui si trova l’altare vero e proprio che
veniva utilizzato per i sacrifici. L’ara venne consacrata nel 9 a.C.. Si tratta di un monumento con un
un sistema ideologico e figurativo molto complesso.
La sua struttura richiama il tempio del dio bifronte Giano che si trova esattamente alla parte opposta
di Roma. Mentre Giano è un riferimento alla guerra, l’ara vuole essere una celebrazione della pace.
L’apertura principale dell’ara è rivolta ad ovest, in un simbolico rapporto con l’orologio.
Il 23 settembre, equinozio di autunno data di nascita di Augusto, l’obelisco proietta la sua ombra
esattamente al centro dell’ara pacis; il 9 ottobre, festa del tempio di Apollo (per altro nei pressi del
tempio c’era la casa di Augusto), il sole tocca perfettamente l’obelisco al centro dell’ara pacis.
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In tutto questo c’è un forte rimando alla presunta origine divina di Augusto, che si proclama figlio
di Apollo e quindi figlio del sole.
L’ara pacis è senza dubbio un’opera di intento propagandistico. Viene considerata uno dei
capolavori della scultura classica, ed è stata realizzata da scultori non romani, probabilmente attici.
Le
decorazioni
interne
non
sono
particolarmente significative, ma quelle che
figurano all’esterno non solo hanno un
indiscusso valore artistico, ma anche fanno
dei continui richiami al principato di
Augusto.
Sul lato sud dell’ara, orientato verso
l’orologio, è rappresentata una processione.
Gli storici a lungo hanno discusso su quali
fossero i personaggi ritratti. Secondo
l’’interpretazione più comune si tratta di una
processione di sacerdoti di diverso grado, come flamini ed auguri. È ritratto anche Augusto, con una
veste sacerdotale ed una corona di alloro. Sono rappresentati anche Agrippa, Caio Cesare suo figlio
e Livia, la seconda moglie di Augusto. Forse la processione rappresenta il giorno dell’inaugurazione
dell’ara, ma si tratta solamente di un’ipotesi.
Sulla parte inferiore, sotto la processione, sono raffigurate
decorazioni floreali e piccoli animali che fanno riferimento
all’armonia, al ritorno della prosperità e alla natura. Durante
la pace di Augusto, anche la natura sboccia.
Sul lato nord, la parte inferiore è sempre decorata con motivi
floreali, mentre in alto sono ritratti i membri minori della
gens Iulia. Si possono vedere tutti i parenti meno stretti di
Ara pacis.
Augusto almeno fino a Nerone.
Sul fronte occidentale la parte inferiore è sempre decorata con dei fiori, mentre sopra ci sono dei
pannelli figurativi che descrivono scene mitiche. Purtroppo questa è la parte più rovinata dell’ara.
Nel primo pannello è raffigurato Enea che sacrifica una scrofa ai Penati, ossia alle divinità tutelari
di una casa romana. Accanto si può ammirare la lupa che allatta Romolo e Remo. C’è qui un forte
richiamo all’origine della gens Iulia, ossia all’origine della divina stirpe di Augusto nata, secondo il
mito, da venere, madre di Enea, padre di Iulo.
Sul fronte orientale si trovano altre due formelle. Nella prima sono raffigurati una donna che
rappresenta la terra feritile e due bambini ritratti tra le sue braccia, che vogliono simboleggiare i
frutti della terra. Dal terreno spuntano spighe e piante, simboli di prosperità. Ai lati sono raffigurate
due divinità femminili, probabilmente delle ninfe. Quella ritratta a sinistra, seduta su un cigno,
rappresenta l’aria. In basso si possono vedere degli animali, altro simbolo di prosperità e fertilità.
Sulla seconda formella si può vedere una figura femminile identificata come la dea Roma, seduta su
un ammasso di armi da dea vittoriosa.
All’interno dell’ara sono raffigurate delle ghirlande di fiori ed una staccionata. Studiando il marmo
si è scoperto che anticamente l’ara pacis era dipinta a colori vivaci.
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Personificazione della terra fertile.
Processione raffigurata sull’ara.
8. I ritratti di Augusto.
Abbiamo numerose raffigurazioni di Augusto in cui il princeps è ritratto in modi differenti. Questo
perché Augusto, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, ricopriva diverse cariche. Una celebre
raffigurazione di Augusto è quella in cui il principe figura in veste di pontifex maximus. Si tratta di
una statua dell’imperatore a figura intera, in marmo, alta 2,07 m.
La statua che ci è pervenuta è una copia di età tiberiana di un
ritratto dell'imperatore eseguito alla fine del I secolo a.C. o
all'inizio del I d.C. I tratti somatici piuttosto emaciati infatti
suggerirebbero la realizzazione negli ultimi anni della sua vita,
con i segni già visibili della malattia e della stanchezza. Si
tratta del più importante ritratto augusteo di questo periodo
"finale", tra i pochi trovati a Roma.
Il capite velato è dovuto alla funzione di pontifex maximus
dell'imperatore: il braccio destro, spezzato, aveva
probabilmente in mano una patera, piatto rituale per lo
spargimento di vino durante un sacrificio. La testa venne
scolpita a parte, da uno specialista.
Uno dei ritratti più importanti e significativi giunti fino a noi è la statua di Augusto nota come
“Augusto Loricato” in cui il principe è raffigurato con la lorica, ossia con l’armatura, o come
“Augusto di Prima Porta”. Originariamente la statua era di bronzo, ma oggi abbiamo una copia in
marmo. È alta 2,08 metri, mentre la statura di Augusto probabilmente si aggirava intorno al metro e
settantacinque. Al momento della realizzazione della statua Augusto aveva giù superato il
quarantesimo anno di età, ma viene rappresentato con le fattezze di un giovane. Si riconosce la
fisionomia di Augusto, ma molti tratti sono simili a quelli di Alessandro Magno.
Le figure sulla corazza di Augusto rappresentato il momento in cui
il principe recupera le insegne militari che erano state sottratte nel
53 a.C. a Crasso dai Parti.
Sotto c’è una piccola raffigurazione di Eros, figlio di Venere, che
costituisce un altro richiamo alle presunte origini divine di Augusto.
Ancora più in basso sono raffigurate delle donne, personificazioni
delle province sottomesse da Augusto.
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Nella parte superiore della corazza inoltre è raffigurato a
sinistra il carro del sole con Apollo, al centro una
divinità che personifica il cielo, e a destra la dea Aurora
che regge una torcia. In basso è raffigurata la madre
terra con una cornucopia, simbolo d’abbondanza.
Le fibbie della corazza invece sono decorate con una
sfinge, simbolo del sigillo utilizzato da Augusto in
persona per ufficializzare i documenti. La sfinge
rappresenta un chiaro riferimento all’Egitto, la cui
conquista rimane molto simbolica.
Augusto, come tutti gli dei e gli eroi, è raffigurato
scalzo; questo è un ulteriore segno delle sue presunte
origini divine.
9. La politica di Augusto: ripristinare i valori tradizionali.
Uno dei punti fondamentali della politica di Augusto è la restaurazione del mos maiorum, ossia del
costume degli antenati, delle tradizioni di Roma. Nel secolo prima della sua ascesa al potere, turbato
dalle guerre civili, i valori di morigeratezza, di rispetto delle leggi e dello stato erano andati via via
perdendosi, e Augusto si propone di riportare Roma alla condizione di un tempo.
Da un punto di vista propagandistico, il fatto di voler riportare la pace completa a Roma è un
argomento molto forte a favore di Augusto, argomento che va diffuso in modo che tutti si rendano
conto di nuovi orizzonti che si aprono con l’avvento di Augusto. Il suo progetto di restaurazione
degli antichi valori appare più o meno evidente in molte fonti letterarie scritte, ad esempio, da
Orazio e Virgilio, poeti membri del circolo di Mecenate.
Mecenate è un grande sostenitore di Augusto, un uomo ricchissimo ed estremamente influente che
ricopre un ruolo di grande prestigio a Roma. Si autoproclama protettore delle arti, e per questo
raccoglie attorno a sé numerosi artisti, poeti e uomini di cultura che in cambio dei favori ricevuti,
nelle loro opere inseriscono dei richiami più o meno evidenti al principato di Augusto, esaltandone i
valori, gli ideali e i benefici che porta a Roma.
I poeti membri del circolo di Mecenate però non si lasciano totalmente condizionare da Mecenate
stesso e dai suoi ideali: pur elogiando Augusto ed il suo impero, mantengono intatta la loro identità
morale, per così dire, e non si lasciano troppo influenzare dal pensiero altrui.
È anche per questo motivo che non possiamo dire che i testi che prenderemo in considerazione
costituiscono una vera e propria forma di propaganda. La celebrazione del princeps e del suo
operato avviene spesso tra le righe e non si palesa mai del tutto. Rimangono i riferimenti alle paure,
ai desideri dei Romani che non dipendono strettamente da Augusto, quindi si può dire che le fonti
che leggeremo non sono da definirsi forme di propaganda diretta.
I riferimenti precisi al contesto politico dell’età augustea quindi ci sono, ma non sempre sono
espliciti. Emergono temi come la grande paura delle guerre civili che avevano sconvolto la città, e
la conseguente ricerca di sicurezza dopo un lungo periodo di tumulti; il ritorno alla vita nei campi,
vista come età dell’oro; l’esaltazione della pax augustea finalmente raggiunta e dell’antimilitarismo
che garantisce la sicurezza; la centralità della famiglia. Sono presenti anche alcuni riferimenti alla
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concezione negativa che si ha del mondo orientale, nonché rimandi a forti poteri personali (Augusto
e Mecenate) con tracce di propaganda più o meno dirette.
Molti di questi temi si ritrovano in Orazio (autore latino nato nel 65 a.C. e morto nell’8 a.C.), uomo
di origini piuttosto umili, entrò nel circolo di Mecenate nel 38 a.C., e divenne suo grande amico fino
alla morte. Sempre pronto a restituire ciò che gli veniva dato, collaborò con il suo potente protettore
a consolidare il regime di Augusto. Nelle sue Odi Orazio da particolare attenzione alla grande paura
del ritorno della guerra civile che si respira a Roma. Da questo consegue l’esaltazione della pax
augustea e dell’antimilitarismo, e il senso di pace che pervade il cuore dei romani durante il
principato di Augusto si affianca all’esortazione a vivere una vita pura e semplice, nei campi, alla
riscoperta degli antichi valori tradizionali, nonché alla conseguente critica nei confronti delle altre
culture caratterizzate da stili di vita differenti, in particolare verso la cultura orientale e i popoli che
vivono oltre gli estremi confini dell’impero di Roma.
“Con Cesare alla guida dello stato né guerra civile né alcuna violenza potrà scacciare la pace, né
l’ira che forgia le spade e inimica l’una all’altra le città infelici”.
In questo passo è molto evidente sia l’esaltazione della figura di Augusto come portatore della pace,
sia l’attenzione posta sulla pace stessa, raggiunta dopo tanto tempo, che va conservata e preservata
come un tesoro anche se, nel parere di Orazio, è stata forgiata con così tanta forza da non poter
essere spezzata né dall’ira, né dalla guerra, né dalla violenza.
Sempre nelle Odi di Orazio, in particolare nella 37^ del primo libro, si percepisce il grande
disprezzo nei confronti delle altre culture, specialmente nei confronti di quella orientale. In questo
testo infatti si ritrovano chiarissimi riferimenti alla regina Cleopatra. All’elenco delle nefandezze di
cui sono propri i sudditi della regina d’Egitto, segue un inatteso riscatto finale della figura di
Cleopatra, in cui si considera che, benché donna e, per di più, egiziana, la regina è andata incontro
alla morte con grande valore.
Un’altra nota opera del poeta Orazio è il Carmen Seculare, che gli venne commissionato da
Augusto in occasione dei ludi seculares che si tennero nel 17 a.C. per inaugurare la nuova epoca di
pace e prosperità, un saeculum aureum.
In questo testo si riscontrano numerosi rimandi alla tradizione romana, affiancati da forti richiami al
potere personale di Augusto e al modo in cui si prodigò per riportare Roma al suo antico splendore
anche a livello morale. È anche qui evidente la continua ricerca della sicurezza propria degli animi
dei cittadini Romani.
“Dei, buon costume ai giovini sottomessi date e ai vegliardi placida quiete; dei, beni e prole alla
romulea gente date e ogni gloria (…); di lustro in lustro egli proroghi il romano stato ed il Lazio a
liete sorti e a tempi sempre più belli”.
Significativi sono anche i rimandi alla centralità della famiglia. Augusto a questo proposito prese
alcuni provvedimenti, soprattutto legislativi. Nel citarne qualcuno, ricordiamo la lex iulia de
maritandis ordinibus, una legge fatta approvare da Augusto nel 18 a.C. Questa legge limitava i
matrimoni tra diverse classi sociali e puniva i celibi; inoltre si stabilì che l'eredità vacante, in caso di
mancanza o inerzia di creditori ereditari, andasse all'erario. Venivano anche concessi premi di vario
genere alle famiglie più numerose.
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Una seconda legge da ricordare è la lex iulia de coercendis adulteriis, emanata con lo scopo di
limitare i casi di adulterio purtroppo molto frequenti che minavano la stabilità delle famiglie.
Un altro autore e poeta latino che trovò posto nel circolo di Mecenate è Virgilio (nato nel 70 a.C. e
morto nel 19 a.C.), anch’egli di umili origini. Conquistò il favore di Ottaviano e Mecenate con la
pubblicazione delle sue Bucoliche nel 39 a.C.; con le sue Georgiche (37-30 a.C.) rese soddisfatto
Mecenate, che lo esortava a contribuire alle direttive del nuovo regime per un ritorno alla vita nei
campi. Su pressante invito di Augusto si accinse a comporre tra il 29 ed il 19 a.C. l’Eneide, opera a
cui non poté dare l’ultima mano poiché la morte lo colse anzitempo.
Nel primo libro delle Georgiche, è molto evidente che Virgilio è rimasto profondamente toccato
dalle sventure che hanno colpito il popolo Romano durante il lungo periodo di guerre civili. Guerre
fratricide, soldato romano contro soldato romano, fratello contro fratello. Guerre terribili perché la
terra troppe volte si è bagnata, secondo Virgilio, del sangue Romano.
Ed è in questa situazione che si inserisce Augusto. L’arrivo del giovane sembra il sole dopo la
tempesta, l’ultima possibilità di salvezza per Roma.
“Dei della patria, eroi tutelari e tu Romolo, tu madre Vesta (…) non impedite almeno che questo
giovane soccorra la nostra società in rovina (…); da tempo ormai l’Olimpio a noi t’invidia, Cesare,
e si lamenta che tu abbia a cuore soltanto trionfi terreni”.
In questo brano Virgilio supplica gli dei, benché invidiosi di Augusto stesso per la sua grandezza e
per la sua magnificenza, di lasciare che il giovane salvi Roma e i suoi cittadini.
Nel secondo libro delle Georgiche invece, Virgilio loda meravigliosamente la terra d’Italia. In un
momento in cui sembra che Roma stia perdendo il suo ruolo di centralità, e pare che le nuove terre
come il misterioso e sconfinato Oriente potrebbero diventare il nuovo cuore pulsante dell’impero
lasciando all’Italia il misero ruolo di provincia, Virgilio afferma che nessuna terra, ricca e bella che
sia, potrebbe superare l’Italia.
“Qui c’è una perpetua primavera (…), le bestie sono due volte gravide, due volte gli alberi sono
adatti per i frutti (…). Aggiungi a tutto le eccellenti città e il lavoro e la fatica”.
L’unione tra la ricchezza del territorio e la tenacia, lo spirito di sacrificio delle genti che lo abitano,
fanno dell’Italia un mondo talmente unico per bellezza e grandezza, che né le foreste dei Medi, né il
bellissimo Gange potrebbero gareggiare con i pregi dell’Italia.
Nella prima Bucolica, scritta tra il 42 e il 39 a.C., Virgilio fa parlare due pastori, Titiro e Melibeo.
Uno dei due è stato graziato dalla sorte, mentre l’altro ha perso tutto, ha perso le sue terre perché
fossero date ad un soldato per lui senza nome. Questo testo è particolarmente interessante non solo
perché si pone molta attenzione sui poveri e sui sofferenti, ma anche perché Virgilio, un po’ tra le
righe, polemizza il fatto che i poveri cittadini romani sono stati costretti a dare le loro terre, la loro
unica ricchezza, ai veterani che avevano servito nell’esercito. Questo tema sta particolarmente a
cuore a Virgilio perché lui stesso era stato privato della sua terra da Augusto ancora prima della
battaglia di Azio, ed era ancora molto toccato dalla sua sorte, sebbene dopo essere entrato nel
circolo di Mecenate fosse stato abbondantemente risarcito.
“O Melibeo, un dio creò per me questa pace; e, infatti, egli sarà per me sempre un dio”.
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All’esaltazione ed alla divinizzazione di Augusto come dio quindi si affianca una critica piuttosto
velata al principe; inoltre in tutto il brano si ricorda la bellezza dell’autarchia e della vita nei campi.
Nella quarta Bucolica invece si parla di un bambino, identificato come Augusto, che farà nascere
l’età dell’oro in tutto il mondo, porterà la pace e la sicurezza per tutto il popolo Romano.
“Tu, o casta Lucina, sii favorevole al bambino, che nasce ora, sotto il quale i primo luogo finirà in
tutto il mondo l’età del ferro e nascerà quella dell’oro; già regna il tuo Apollo”.
Anche se, come detto prima, verosimilmente si pensa che il bambino di cui Virgilio parla sia
Augusto, i cristiani videro nel testo una profezia della nascita di Gesù Cristo, e per questo cedettero
Virgilio un profeta di Cristo.
Un ultimo testo di Virgilio è molto significativo come esempio della politica culturale di Augusto:
l’Eneide. Ci sono due episodi in particolare che prenderemo in considerazione: nel primo assistiamo
ad una discussione tra Venere e Giove, mentre nel secondo siamo spettatori del viaggio compiuto da
Enea nell’oltretomba.
Nel primo libro dell’Eneide troviamo Venere, preoccupata per la sorte di suo figlio Enea, che
discute con Giove, il re degli dei, il quale rassicura la dea e le promette che Giunone favorirà i
Romani.
“Nascerà troiano di splendida origine Cesare, farà confinare un impero che si estende su tutte le
terre emerse con l’Oceano, Giulio, che discende dal grande nome di Iulo”.
Augusto viene esaltato e divinizzato come nuovo Enea, e Giove profetizza che l’impero da lui
forgiato si estenderà per tutte le terre del mondo conosciuto, fino al fiume Oceano.
Nel quarto libro dell’Eneide l’eroe Enea, disceso nel regno dei morti, incontra suo padre Anchise,
che gli mostra alcuni uomini che stanno per reincarnarsi. Tra questi, ovviamente, non può mancare
il futuro Augusto.
“Qui è Cesare, e tutta la progenie di Iulo che verrà sotto l’ampia volta del cielo. Questo è l’uomo
che spesso ti senti promettere, l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà di nuovo il secolo
d’oro nel Lazio”.
Giove ha promesso ad Enea che la sua discendenza, ossia Roma, sarà del tutto straordinaria. Non è
quindi difficile intuire che la discendenza straordinaria di cui si parla altri non è che Augusto stesso.
I testi che abbiamo preso in considerazione contengono riferimenti velati o meno ai temi che più
stanno a cuore al popolo Romano: la pace, la libertà, la grande paura della guerra, la continua
ricerca della tranquillità e della sicurezza. Possiamo soltanto immaginare quanta forza avessero letti
ad un pubblico di cittadini di Roma, pieni di spes e di fides nei confronti di Augusto.
10. Conclusione.
Siamo giunti alla fine di questo viaggio attraverso il principato di Augusto. Abbiamo potuto
cogliere gran parte delle sfaccettature, dei lati oscuri e luminosi del governo di Augusto, leggendo
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l’opinione di personaggi illustri come Tacito, analizzando da vicino opere d’arte immortali come
l’ara pacis.
Dopo aver preso in considerazione tutte queste fonti letterarie, storiche ed artistiche, è possibile
farsi un’idea propria sul principato di Augusto, nonché sul concetto di necessità dell’impero.
Personalmente ritengo che il principato di Augusto non solo abbia risollevato Roma e il suo impero
da un punto di vista strettamente oggettivo, rendendo possibile la ristrutturazione di edifici antichi e
la costruzione di nuove strutture pubbliche e private, ma anche da un punto di vista soggettivo;
pensiamo ad esempio alla restaurazione del mos maiorum che stava tanto a cuore di Augusto.
La società romana era cambiata dai tempi dei Gracchi. I valori tradizionali avevano perso di
significato, il modo di vivere dei cittadini era cambiato, come d’altronde è inevitabile nell’arco di
un secolo. Tenendo anche conto del fatto che Roma doveva ormai gestire un territorio vastissimo,
formato da innumerevoli culture diverse, popolazioni diverse, la repubblica a mio parere non poteva
essere una soluzione concreta per gestire una situazione talmente articolata. Se pensiamo anche alla
corruzione che minava le basi della repubblica, rendendola via via sempre più fragile, con il senno
di poi potremmo dire che continuare a gestire un impero così vasto con un sistema di governo così
instabile avrebbe costituito un rischio troppo grande che avrebbe potuto portare alla rovina totale
dell’impero e della città di Roma.
Dunque che ritengo che il principato fosse, di fatto, necessario per la sopravvivenza dello stato
romano per il seguente, semplice motivo.
Pensiamo alle caratteristiche della repubblica romana come sistema di governo: le magistrature
venivano attribuite a cittadini romani che avessero determinate caratteristiche (reddito adeguato,
esperienza in campo militare ecc.), il senato costituiva l’assemblea dei cittadini che teneva le redini
dello stato. Talvolta poteva capitare che qualche magistrato, infervorato e deciso a mettere in pratica
una sua idea di riforma, prendesse il potere illegalmente e riuscisse a gestire la situazione, seppur
con difficoltà, per qualche tempo, prima di essere ucciso o deposto. Non appena qualche uomo
lungimirante prendeva in considerazione l’idea di proporre un provvedimento per cambiare in
meglio la situazione dello stato, si provvedeva a dichiararlo nemico pubblico e a farlo uccidere.
Innumerevoli i casi di corruzione, ovviamente (un esempio banale è costituito dai pubblicani che si
occupavano dell’esazione delle tasse).
È piuttosto ovvio che un tale sistema di governo non poteva essere materialmente in grado di tenere
le redini di un impero vasto come quello di Roma. I tempi di decisione erano troppo lenti,
l’aristocrazia senatoria preferiva mantenere i propri privilegi e non si abbassava a mescolarsi con i
cavalieri o i popolari, ed era preoccupata prima di tutto dei propri interessi.
Sull’altro piatto della bilancia sta un sistema di governo totalmente differente: il principato.
Governo fondamentalmente di un solo uomo, che si occupa di gestire lo Stato avendo uno sguardo
globale su tutti gli ambiti dell’amministrazione (mentre con la repubblica questo non è possibile dal
momento che gli edili si occupano dell’edilizia pubblica, i questori, i pretori ecc. avevano differenti
zone di competenza e quindi non era possibile avere una coscienza complessiva della situazione).
Le decisioni vengono prese più in fretta siccome dipendono da un solo uomo, si evitano i tempi
morti propri da sempre dell’amministrazione statale repubblicana. Un solo uomo si occupa di
amministrare lo stato, ovviamente basandosi anche sull’aiuto di consiglieri e sottoposti.
C’è un unico, importante problema che potrebbe significare il fallimento del principato: un princeps
incompetente. Fortunatamente non è affatto il caso di Augusto, che durante il lungo periodo in cui
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stette al potere si prodigò con anima e corpo per risollevare lo stato dalla situazione di crisi in cui si
trovava. Per questo il suo principato rappresenta un momento di rinascita per Roma.
Per tutti questi motivi il principato, a mio parere, era necessario per Roma. Ovviamente aveva le sue
luci e le sue ombre, non si può dire che fosse una forma di governo perfetta, non possiamo ignorare
il fatto fondamentale che la libertà dei cittadini fosse venuta meno con l’avvento del principato.
Tuttavia, se mettiamo la repubblica ed il rischio della rovina dell’impero su uno dei piatti della
bilancia, e sull’altro poniamo il principato di Augusto, la restaurazione dello stato, insieme ai lati
negativi di questa nuova forma di governo, è evidente che la bilancia pende a favore del principato.
Il principato fu in sostanza una dura necessità, uno sviluppo inevitabile, altrimenti Roma sarebbe
crollata prima a causa della sua estensione.
Concludo con una frase di Tacito, che ci fa capire quanto il concetto di necessità sia volubile nelle
mani di noi esseri umani. Se il principato sia stato di fatto assolutamente necessario, non lo sapremo
mai. Forse se si fosse trovato un modo alternativo di risollevare la repubblica, se si avesse avuto la
forza di rischiare la salvezza dello stato romano pur di farla rimanere stabile, allora il principato non
si sarebbe rivelato indispensabile.
Ma gli eventi seguono il proprio corso, un uomo solo non può cambiare il suo mondo da cima a
fondo nel modo migliore possibile. Per questo, alla luce di tutte le fonti lette ed analizzate,
possiamo dire che nella situazione in cui di fatto versava Roma il principato era necessario.
Dice Tacito:
“... Io dubito se le cose umane siano regolate dal destino e da una immutabile
necessità o se trascorrano a caso”.
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Bibliografia.
Materiale didattico messo a disposizione dalla professoressa.
Libro di testo.
Enciclopedia “La biblioteca del sapere” Rizzoli Larousse.
Sitografia.
Wikipedia per le immagini.
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