LA FORMAZIONE DELLO STATO MODERNO E LE SUE GIUSTIFICAZIONI TEORICHE Prima di parlare del concetto di assolutismo, è d’obbligo un cenno riassuntivo sul processo che porta alla formazione dello stato moderno. Come sostengono molti storici, infatti, il fenomeno della costituzione degli stati moderni e la costruzione dell’assolutismo vengono a sovrapporsi se non addirittura a coincidere. Nel periodo che va dal XV al XVIII secolo assistiamo in Europa alla definitiva dissoluzione dei poteri particolaristici delle società feudali, che da sempre tentavano di sganciarsi dal potere centrale. Di conseguenza, il sistema legislativo non è più basato sul diritto signorile, ma su norme codificate e razionali: ciò accade soprattutto in Francia, Spagna e Inghilterra. Il sovrano concentra su di sé quei poteri e funzioni prima condivisi con i ceti (o stati o ordini) della società feudale. Le assemblee rappresentative (come le cortes o gli stati generali) perdono i loro poteri, che vengono trasferiti ai funzionari regi. Il re detiene un potere assoluto, nel senso che egli stesso è fonte del diritto, ma non soggetto ad esso (legibus solutus): un potere che egli detiene per diritto divino. Tuttavia, non può esercitarlo in maniera dispotica: infatti, per i teorici dell’assolutismo al di sopra delle leggi positive (cioè, quelle storicamente determinatesi in un certo periodo) stanno sempre e comunque: il diritto divino, appunto, il diritto naturale (di cui parleremo tra poco), leggi fondamentali come l’integrità del territorio statale (che il sovrano non può mettere a repentaglio) e il rispetto delle regole di successione al trono. In questo contesto, tutti sono sudditi di fronte al re, ma tra di essi c’è una strutturale disuguaglianza giuridica, ossia privilegi ed esenzioni a vantaggio di clero e nobiltà. La recente storiografia, in effetti, fa notare come lo stato occidentale moderno, nella sua prima fase, abbia coinciso con quello assoluto. Se a livello filosofico l’idea di fondo di questo sistema di potere coincide con la secolarizzazione e razionalizzazione della politica, separata da morale e religione (Machiavelli docet), l’organizzazione operativa di questo potere si configura sulla base di un esercito regio permanente, una burocrazia fedele al sovrano (nobiltà di toga) e leggi valide in tutto il territorio dello stato, una tassazione su tutto il territorio nazionale, che finanzia la spesa statale, giudici professionisti dipendenti dal re, un mercato nazionale favorito da una legislazione protezionistica, una diplomazia stabile. Peraltro, questo processo ha tempi e caratteristiche differenti da stato a stato. L’ASSOLUTISMO 1) Aspetto storico Lo sviluppo dell’assolutismo interessa tutto il continente europeo, con le eccezioni dell’Olanda, dell’Inghilterra (che diede vita, come vedremo, ad una rivoluzione per superare il regime assolutistico) e delle colonie americane, se vogliamo inserire il discorso in un più ampio contesto occidentale. Guarda caso, come hanno fatto notare alcuni storici, il mondo nordeuropeo, protestante, dal destino atlantico (in buona parte di matrice calvinista) si oppone all’assolutismo. Analizziamo ora che rapporto instaura lo stato assoluto con i ceti dominanti: da un lato, limita il potere della nobiltà, concedendo però in cambio forti esenzioni e privilegi, soprattutto nella sfarzosa vita di corte. I nobili, privati del potere politico, continuano a godere di un altissimo prestigio sociale. Dall’altro, la borghesia si arricchisce grazie alla protezione economica dello stato (il mercantilismo) e dà vita ad un’ascesa sociale che non coincide con il potere politico, saldamente nelle mani del re: ascesa che è visibile con la nobiltà di toga, ossia funzionari e tecnici della politica, scelti dal re per le loro competenze e con lo standard di vita elevato (in Francia) riguardo al quale però i borghesi si adeguano, imitandolo, ai nobili, visto che il loro stile di vita sarà uno status symbol per tutto il ‘600. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, fanno eccezione l’Olanda, dove la borghesia impose un proprio stile di vita e le colonie americane, perché qui la nobiltà era assente. Ricordiamo che l’estensione dello stato non riguarda solo l’ambito della politica, ma anche quello economico: il mercantilismo ne è una dimostrazione lampante. L’Inghilterra rompe questo schema e fa eccezione: il parlamento e in modo particolare la Camera dei comuni, espressione delle forze sociali più dinamiche del paese, giunge ad una autonomia politica dal sovrano rivendicando il diritto di promulgare le leggi e di confermare le tasse volute dal re e dal suo entourage. In questo caso, quella che era un’antica consuetudine inglese, diventa de jure prerogativa parlamentare. 2) Aspetto teorico La questione centrale che investe la costruzione dello stato moderno è la legittimità del potere: quando può definirsi legittimo il potere di chi governa? Su quali basi si giustifica? Le risposte, come vedremo, sono assai diverse ed articolate. Filosofi e giuristi riprendono e rielaborano su basi completamente nuove un concetto antico, quello di diritto naturale, un insieme di norme che diano un fondamento allo stato con le stesse garanzie di razionalità che la scienza della natura stava elaborando nel suo campo di appartenenza. Già questo basta a farci capire che è la stessa esigenza culturale ad animare la filosofia politica e la rivoluzione scientifica. In questo nuovo contesto, sorge una visione dell’uomo per cui ogni singolo individuo, solo per il fatto di esistere, è depositario di diritti innati, quali vita (e sicurezza), libertà e proprietà; fondamento di questi diritti naturali è la ragione. Naturale non significa dunque soltanto per natura, ma soprattutto è sinonimo di razionale. Il diritto positivo, quell’insieme di leggi di uno stato così come si sono storicamente determinate, non deve in linea di massima contrastare il diritto naturale. La principale dottrina che si fonda sul diritto naturale è il giusnaturalismo, nato tra ‘600 e ‘700, che si andrà affermando come una delle dottrine giuridiche più importanti della modernità, alla base delle rivoluzioni dell’occidente, quali quelle inglese, americana e francese. Come si può comprendere, tale complesso di dottrine (visto che non vi è un solo teorico) è in contrasto con l’assolutismo. Proprio a partire dal diritto naturale, si può anche studiare l’origine dello stato, per cui il giusnaturalismo è strettamente collegato con un’altra dottrina giuridica, il contrattualismo: lo stato non ha un fondamento naturale o divino, ma deriva da un accordo o patto o contratto, stipulato tra gli uomini, che cedono alla comunità i loro diritti sopra menzionati, affinché essa li salvaguardi. Su questa base, sono i cittadini che conferiscono legittimità ed autorità allo stato, il quale si fonda sulla volontà dei singoli. Le teorie contrattualistiche, pur molto diverse tra di loro, hanno una comune base giusnaturalistica: infatti, dal modo in cui si concepiscono i diritti naturali (e il contratto sociale) derivano conseguenze notevoli per il tipo di sovranità e il rapporto tra questa e i diritti dei cittadini. Non dovrà dunque meravigliare che appartengano al contrattualismo, pur dandone una diversa impostazione, due filosofi così diversi tra loro, come il liberale Locke e l’assolutista Hobbes. Dopo queste precisazioni, essenziali ma di carattere generale, addentriamoci ora nel dettaglio. Distingueremo per comodità i teorici dell’assolutismo dai suoi avversari, facendo notare nello specifico l’influenza che giusnaturalismo e contrattualismo hanno avuto nell’elaborazione delle loro dottrine. A) Assolutismo: secondo questa concezione, gli uomini conferiscono allo stato ogni loro diritto (è legittimo il potere assoluto). a) Jean Bodin (1530-1596), Francia. Al servizio della monarchia durante le guerre di religione. Si schiera con il partito dei politiques: è necessario un re forte ed autorevole, super partes, in grado di ristabilire pace e ordine sociale. Nella sua opera I sei libri sulla repubblica (dove respublica=stato) viene data questa definizione della sovranità: potere sommo capace di unire tutte le membra e parti dello stato. La sovranità, pertanto, deve essere assoluta, perpetua e indivisibile. La monarchia assoluta è la forma istituzionale che meglio soddisfa queste condizioni, nell’ambito della quale egli è sciolto da tutte le leggi positive emanate. L’unico limite che egli incontra è rappresentato dalle leggi divine, naturali, o che garantiscano l’integrità del regno. Chi violi quest’ultimo complesso di norme è un tiranno. b) Thomas Hobbes (1588-1679) e Bossue (1627-1704): concezione ascendente e discendente del potere Hobbes è uno dei teorici più significativi dell’assolutismo; tra l’altro, visse nel periodo della prima rivoluzione inglese parteggiando per la monarchia nel suo contrasto con il parlamento. Egli parte da una constatazione: nell’ambito dello stato di natura, homo homini lupus, ossia si ha uno scontro tra gli uomini senza alcuna regola, perché ognuno punta, spinto da una bramosia naturale, ad affermare in maniera illimitata i suoi diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà . Ne deriva, dunque, uno stato di guerra permanente che rischia di mettere in pericolo la concordia tra gli uomini. Possiamo certamente notare un sostanziale pessimismo antropologico da parte del filosofo inglese, che lo accomuna in modo significativo a Machiavelli. Si rende necessaria, allora, la nascita di un contratto o patto tra gli uomini, che ha una duplice caratteristica: è da un lato un Pactum unionis, un patto di associazione, in virtù del quale i contraenti si mettono insieme; dall’altro è un pactum subiectionis, un patto di sottomissione, in base al quale gli individui delegano in modo totale i loro diritti e l’esercizio degli stessi allo Stato, che nasce come conseguenza del contratto. Lo Stato, per Hobbes, è il Leviatano, dal nome del mostro biblico (un serpente marino) tipico della tradizione ebraica, che dà il nome all’opera del filosofo inglese: esso indica l’assolutezza del suo potere. Lo Stato, che può essere rappresentato sia da un monarca che da un’assemblea di più individui, è legibus solutus: gli individui lo fanno nascere, uscendo dallo stato di natura, per proteggere i loro diritti naturali, ma ciò ha un prezzo, appunto la perdita della libertà. Il potere dello stato è indivisibile, nel senso che non può essere frammentato e questo ci fa capire l’avversione che Hobbes ha nei confronti del nascente liberalismo. Il patto è anche irreversibile, ossia una volta stipulato, gli uomini non hanno la possibilità di revocarlo in alcun modo. Come giustifica Hobbes tale concetto? Oltre all’anarchia in cui sprofonderebbe la società intera, egli sostiene che lo stato sorge in virtù della volontà dei singoli, i quali, in virtù del patto di associazione, danno vita ad un’unica volontà. Il sovrano a cui essi delegano integralmente i propri diritti e che li rappresenta, sia esso un singolo monarca o un’assemblea, è membro di quella stessa comunità, non un individuo estraneo. Pertanto, destituire il sovrano o commettere qualunque atto ingiusto verso di lui sarebbe come punire se stessi, arrecare danno all’intera volontà collettiva. Nell’ambito di questa volontà unica del corpo collettivo, ognuno autorizza le azioni dello stato come se fossero le sue. A questo punto, è il caso di soffermarci su una differenza importante tra la concezione hobbesiana e quella dell’assolutismo per diritto divino tipica di Luigi XIV e teorizzata da Bossuet, il vescovo francese che fu anche precettore del re Sole. Quest’ultima è infatti una concezione discendente e regale del potere: il sovrano riceve direttamente da Dio la sua autorità, prova ne sia che ha anche la capacità, in base alle credenze del tempo, di guarire gli ammalati con il semplice tocco della mano (sul ruolo dei cosiddetti re taumaturghi nella storia della Francia e dell’Inghilterra parleremo tra qualche lezione). Hobbes, viceversa, ha un’idea ascendente e laica del potere: lo stato nasce come frutto di un contratto realizzato in base alla volontà degli uomini, e si fonda su un’esigenza puramente razionale e, in quanto tale, autonoma dalla religione: la sicurezza collettiva. Lo stesso stato di natura cui allude Hobbes, così come lo stesso Locke, non corrisponde ad un periodo storicamente determinabile delle vicende umane, ma è un ente di ragione, un concetto formulato a livello teorico e dunque puramente astratto per giustificare la nascita dello stato. Costituisce, insomma, una pura ipotesi della ragione, una realtà virtuale che, se si realizzasse, porterebbe alla possibile estinzione del genere umano, in virtù dell’anarchia globale e indiscriminata. Di qui l’indispensabilità del contratto che dia vita allo stato. B) Avversari dell’assolutismo a) Monarcomachi (coloro che combattono il monarca): sono un gruppo di intellettuali, soprattutto di area francese, che giudicano arbitrario il potere assoluto del sovrano e ne contestano la legittimità, in base alla necessità che i cittadini controllino l’azione del governo (che è poi oggi uno dei pilastri del principio democratico). Il popolo ha pertanto il diritto alla ribellione nel caso in cui il potere del re diventi tirannico; anzi, essi sostengono la legittimità morale e il dovere politico, di fronte alla propria coscienza e a Dio, di condannare a morte un re che avesse tradito il suo popolo e la religione. Alla base di tale concezione ci sono sia motivazioni etico -religiose che giuridico – politiche. I monarcomachi sono soprattutto protestanti (specie calvinisti), ma figurano anche cattolici in questo gruppo. La loro dottrina influenza atti di regicidio, come quelli che portano alla morte di Enrico III ed Enrico IV in Francia o rivolte come quella degli ugonotti francesi, la guerra di liberazione olandese, la rivolta puritana in Inghilterra. b) John Locke (1632-1704) Anche Locke vive le vicende della rivoluzione inglese (la seconda, come vedremo), ma schierato dalla parte del parlamento. Egli concorda sul fatto che gli uomini, alla nascita, godano di diritti inalienabili come quelli già menzionati. A differenza di Hobbes, non crede che lo stato di natura conduca necessariamente ad un bellum omnium contra omnes, perché gli individui hanno uno strumento per evitare tutto ciò: la ragione. Tuttavia, non sempre essi ne fanno uso nel modo più adeguato e spesso l’uso della ragione non è sufficiente per evitare la violazione dei diritti naturali: non tutti gli uomini si autoconvincono a rispettare i diritti altrui con il puro esercizio della razionalità. Ecco allora che si rende necessario il contratto, che tuttavia non comporta la delega totale dei diritti allo stato, ma fissa i limiti che il potere dello stesso deve avere, per salvaguardare i diritti dell’individuo. Locke, dunque, contrario all’assolutismo hobbesiano, è il grande teorico del liberalismo: i cittadini conservano i loro diritti fondamentali e affidano allo stato il compito di difenderli tramite leggi a cui anche chi comanda è sottoposto. Questa ideologia, perciò, afferma le libertà fondamentali dell’individuo, che nell’ambito della società civile sono i cosiddetti diritti civili, ossia la libertà di opinione, di parola, di stampa, di associazione, di religione, che lo stato deve difendere, ma nei confronti dei quali non può interferire. L’individuo ha così un primato nei confronti dello stato. Naturalmente, liberalismo non vuol ancora significare democrazia: perché questi diritti diventino nella prassi storica prerogativa di tutti e perché ognuno possa anche godere dei diritti politici (di voto, passivo ed attivo), il cammino sarà ancora lungo e dovremo arrivare ai primi del ‘900. Locke, inoltre, si fa convinto portavoce della divisione dei poteri: il potere legislativo, che è esclusivo del parlamento (promulgare le leggi), quello esecutivo (renderle esecutive, compito del re e del governo), quello federativo, in base al quale uno stato tesse relazioni con gli altri stati. Il potere legislativo, in un sistema liberale (come nelle moderne democrazie), è il più importante, perché espressione della volontà popolare. La concezione che propugna la divisione dei poteri si chiama costituzionalismo e qui Locke anticipa Montesquieu, che ne è considerato a giusta ragione il padre. Anche la concezione lockiana è ascendente: è il popolo il detentore della sovranità e, su questa base, conferisce a determinate istituzioni, come il parlamento e il governo, il potere di legiferare e rendere esecutive le leggi. I due poteri in questione debbono essere rigorosamente distinti, pena il rischio di approdare ad una tirannide. Nel caso in cui si verificasse questa malaugurata ipotesi, nel secondo trattato sul governo Locke teorizza il diritto del popolo alla resistenza e alla rivoluzione, per potersi riprendere quella sovranità che gli spetta di diritto. E’ un testo significativo, con cui Locke giustifica la rivoluzione inglese e che sarà un punto essenziale di riferimento della Rivoluzione americana. Il filosofo inglese è noto anche per aver pubblicato, nel 1689, la famosa Lettera sulla tolleranza. In questa opera, egli sostiene che la tolleranza esercitata dallo stato deve essere completa nei confronti delle convinzioni dei cittadini: lo Stato non si prefigge tra i suoi scopi la salvezza, perché non può ritenersi il detentore della verità assoluta su questo campo. Nessuno, infatti, può dimostrare la verità di un dogma rispetto ad un altro. Un principio, questo, chiaramente laico, che separa la ragione dalla fede, la politica dalla religione. La chiesa, riconosce Locke, avendo come fine la salvezza, può non tollerare chi non rispetta le credenze e i riti atti a raggiungere tale scopo. Tuttavia, l’intolleranza dogmatica può approdare al massimo all’espulsione dalla chiesa e alla scomunica, ma non perseguitare lo scomunicato con strumenti coercitivi, che sono di esclusiva pertinenza del potere civile, cioè dello stato: solo esso detiene il monopolio della forza, che usa nel momento in cui la salvaguardia dei diritti individuali, che lo stato liberale è deputato a difendere, sia in pericolo. Inoltre, vi è anche un motivo spirituale alla base della non liceità della persecuzione: una fede dovrebbe perseguire l’amore verso il prossimo e risulterebbe contraddittorio commettere violenza verso qualcuno, fermo restando che la fede nasce dalla coscienza di ognuno di noi e nessuna costrizione può riuscire nel suo intento di convertire con l’arma della paura. Tuttavia, la concezione della tolleranza di Locke manifesta un punto debole: essa non è ammessa verso chi attenti la pace comune, ossia i cattolici e gli atei. I primi sono intolleranti e pretendono, con l’arma della scomunica, di privare i sovrani inglesi del loro regno. I cattolici sono visti, dallo scisma anglicano in poi, nemici interni dell’Inghilterra e pertanto la convinzione del filosofo inglese si radica appieno nel contesto storico in cui vive. Invece, chi fa pubblica professione di ateismo deve essere perseguito, perché negare Dio significa negare il fondamento di ogni vincolo sociale e di ogni patto. Locke, del resto, pur essendo un empirista, ritiene che l’esistenza di Dio sia dimostrabile con prove a posteriori; inoltre, la sua funzione è proprio quella di confermare la garanzia sui patti e sui giuramenti, su cui si basa la sopravvivenza dello stato. Peraltro, nonostante i suoi limiti, la posizione di Locke è sicuramente avanzata, se paragonata all’intransigente concezione di Luigi XIV, che abolirà l’editto di Nantes o a quella hobbesiana, che lascia al Leviatano assoluta sovranità anche in questo campo. c) Ugo Grozio (1583-1645): è il nome latinizzato del filosofo olandese Huig De Groote, che può essere a giusta ragione considerato il padre del giusnaturalismo (di cui abbiamo già parlato a parte). Inoltre, nella sua opera De iure belli ac pacis, egli propone per primo il principio della libera navigazione sui mari e della libertà di commercio: nelle relazioni internazionali non può esservi libertà senza condizioni di sicurezza (concetto già visto, del resto, nell’ambito della formazione dello stato). Pertanto, i rapporti tra gli uomini, sui mari come all’interno degli stati, si fondano sui diritti naturali che nessuna legge positiva può contraddire (e naturali significa, va ribadito, razionali). La validità di tali diritti sarebbe tale, sentenzia Grozio, perfino se Dio non esistesse. Quindi, pacta servanda sunt: senza il rispetto dei patti i rapporti tra gli uomini non potrebbero stare in piedi; non solo, ma i principi giuridici non possono essere sospesi neanche in tempo di guerra, la quale è comunque, per il filosofo olandese, strumento estremo per risolvere le controversie internazionali. Come si potrà notare, quindi, il giusnaturalismo si presenta in antitesi all’assolutismo e la sua concezione si salda poi inevitabilmente, nella filosofia di Locke, con quel liberalismo che rappresenta l’ideologia fondamentale alla base delle stesse democrazie occidentali del XX e XXI secolo. Resta il fatto che, dovendo interrogarsi sulla legittimità del potere, lo stesso Hobbes faccia propria la necessità di un contratto a salvaguardia di quei diritti naturali tipici di ogni uomo: Bodin, invece, che ci ha fornito la prima giustificazione teorica dell’assolutismo, pone il diritto divino e quello naturale come fondamento del potere sovrano, senza riferimento ad un patto tra gli uomini. Per Hobbes, lo stato è sì Dio mortale, ma la sua legittimità deriva dal contratto e dunque dalla volontà collettiva che ne fonda la legittimità.