La Lettera di Giacomo: “Mostrami la tua fede senza le opere e io ti

Paolo Atzei
Arcivescovo di Sassari
La Lettera di Giacomo:
“Mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò
la mia partendo dalle opere” (2,18)
Riflessione alle Caritas diocesane
della Regione ecclesiastica della Sardegna
Macomer, Casa dei Saveriani
sabato 26 ottobre 2013, ore 10, 00
Per la Caritas di Sassari
Sassari, San Giorgio
1 Dicembre 2013
Domenica, I di Avvento, ore 16,00
0.1. “Salute” a voi! Questo il termine usato da Giacomo nella Lettera.
Da buoni sardi, aggiungiamo il termine “pace” e mutuamente ci salutiamo: “Salute e pace”.
“Salute” è per il ben-essere o stare. “Pace” condensa la somma dei beni soteriologici, salvifici,
che Cristo risorto ci ha donato col suo Spirito.
0.2. Qui, oggi, a Macomer, le Caritas diocesane della Regione Ecclesiastica Sarda, insieme
per riflettere, alla luce della fede, su la ragione dell’essere e dell’agire come Caritas, e
chiaramente, anche pregare e contemplare Dio-Amore trinitario. Se la Carità è il Mistero di
Dio, la sua natura stessa, essere-vivere e operare la carità non è una pura funzione.
Rendo/ rendiamo merito alla Caritas Italiana, anzi alla Caritas Internazionale, che grazie
all’Enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI, è stata come ri-codificata, ossia ristabilita sulle
ragioni teologiche costitutive della carità. Dopo aver parlato del proprium teologico della
Carità nella prima parte, nella seconda tratta de “l’esercizio dell’amore da parte della Chiesa
quale comunità d’amore”, ossia del compito della Chiesa (nn. 20-25), delle molteplici strutture
di servizio nell’odierno contesto sociale (n. 30), del profilo specifico dell’attività caritativa
della Chiesa (n. 31) e dei Responsabili dell’azione caritativa (nn. 32-39).
Credo che da quella Enciclica, del 25 dicembre 2005, non si torni indietro circa l’accezione
o la concezione della vera Carità e sui criteri per operare. Ecco la prima contestualizzazione
della Lettera di Giacomo (Gc): essa è soprattutto finalizzata all’essere per agire.
0.3. Una riflessione spirituale, alla luce di questa Lettera, deve saper abbracciare, dentro le
coordinate epistolari (finalità, destinatari, linguaggio, argomenti, linee teologiche tendenziali,
messaggi essenziali) le intenzioni preminenti e focalizzare, per il nostro caso, quanto
soprattutto Giacomo vuole dire.
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L’Autore non è l’apostolo, fratello di Giovanni, soprannominati “figli del tuono”, e neppure
Giacomo di Alfeo; più probabilmente, è Giacomo “fratello o cugino del Signore” (1Cor 15, 16),
se non un giudeo non ben identificato, conoscitore dei libri sapienziali, aperto al Vangelo e
preoccupa della condotta dei cristiani, in risposta alla casistica quotidiana ricorrente, senza
assurgere a concezioni dottrinali universali.
0.4. Da qui, la non grande unità interna dello scritto, ritenuto una specie di “caleidoscopio”
di problemi e di risposte per risolverli. Tanti “problemi” affastellati, scriveva già Lutero, e
“senza nesso fra loro”, dicono gli odierni commentatori.
Così, –secondo Lutero– si capirebbero i dubbi sulla canonicità, dato che “non insegna Cristo
come si dovrebbe, non si ricorda mai la sua passione, la risurrezione e l’invio dello Spirito Santo”.
Nonostante tutto, il Concilio di Trento (1545-1563) dichiarò la canonicità del libro, pur
riconoscendo la fondatezza di alcune obiezioni.
0.5. La Lettera viene definita “un’opera letteraria con intento morale”, nel senso che ha oltre
sessanta termini che non sono presenti nel Nuovo Testamento (NT), alcuni neologismi, una
buona sintassi, un ottimo periodare, uno stile dialogale efficace, ricco, con un continuo lancio
di messaggi esortativi e di ammonizioni.
Insomma, è una lettera moraleggiante, una parenesi continua.
Chiari riferimenti a Paolo (una diecina) al quale a tratti si ispira e da cui riceve evidenti
influssi.
L’Autore è, dunque, uno sconosciuto moralista cristiano.
0.6. Scritto indirizzato “alle 12 tribù disperse nel mondo” (1, 1), perciò alla Chiesa tutta,
nuovo Popolo di Dio; direttamente, ai cristiani che provengono dal giudaismo.
Sembra che la comunità cristiana attraversi un momento difficile, una prova (1, 2-4):
“Ritenete tutto una gioia, fratelli miei, quando voi vi battete in tentazioni n tentazioni svariate,
sapendo che la genuinità provata della vostra fede produce la perseveranza, la perseveranza poi
è quella che deve portare a perfezione l'opera, in modo che siate perfetti, completi, senza che vi
manchi niente...”. Potrebbe essere questa fede generatrice di quella sapienza pratica con cui
siamo chiamati a vivere.
Composta alla fine del I secolo, l’opera rimanda a un’organizzazione comunitaria, a una
cristologia appena (seppure!) abbozzata, a una più chiara dottrina su fede e opere, di stampo
paolino, anche se con originalità proprie.
Da qui, lo schema di riflessione spirituale, organizzato sui vari passaggi della Lettera, con i
seguenti punti (cfr. U. VANNI, Lettera di Giacomo):
I.
la Parola di Dio nella vita del cristiano
II.
la fede e sue concrete esigenze
III.
fede e opere
IV.
i limiti della persona umana
V.
la vita cristiana da i frutti: la carità
VI.
immoralità della ricchezza
VII.
il senso della vita in ordine alla definitività.
Se andate a considerare questi punti, forse rimanete un po’ delusi, rispetto a quanto agitato
e ruota attorno al punto centrale della Lettera, ossia: fede e carità, fede e opere.
Se invece siete così discreti da non aspettarvi niente di più di quanto la Lettera dice, allora
potreste cogliere qualche preziosità impensata, molti spunti per approfondire e che, forse, mai
si potrebbero immaginare.
In fondo, a considerare i titoli, avremmo ben altri, più classici e sostanziosi riferimenti
biblici sugli stessi.
Pensate alla Parola di Dio, o anche a fede e opere, a vita cristiana e frutti, alla ricchezza
immorale, al valutare tutto alla luce dell’aldilà.
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Proprio questa discrezione, lo stare alle parole dette, scelte in quel contesto, senza nulla di
più, può permettere di ricavare molto dallo scritto.
Ci vengono richieste semplicità e docilità per accogliere le parole di questa lettera per il suo
contributo, nel contesto del N.T., sorprendente anche, o soprattutto, per gli stimoli offerti agli
Operatori della Caritas.
Due, metodologicamente, le parti:
- la prima è una semplice lettura, non una lectio in senso stretto; ma una lettura piana del
testo ‘sicut jacet’, ossia così come giace o si presenta;
- la seconda è un’applicazione o un tentativo di verifica aperta al confronto, e/o contributi,
per tornare a casa con un messaggio e vivere con più intensità il Mistero di Dio-Amore,
mostrando coi fatti di glorificarLo.
PRIMA PARTE
1. La sapienza cristiana (1, 2-15)
Accennavo alla primitiva comunità in sofferenza: le molteplici difficoltà e tentazioni
esistenziali più che abbattere devono essere motivo di gioia –scrive Giacomo–, ossia di letizia
perfetta (di francescana memoria), quella che si sente dentro, quando si ha fede e si continua a
gioire, nonostante le batoste.
Sapienza, qui, non è semplice “saggezza umana”, ma “dono dall’alto”, da chiedere
incessantemente, per una retta prassi di fede (poi, vedremo le qualità di tale “sapienza”).
Per esempio, il ricco, di fatto, è un povero, perché la sua ricchezza è precaria, ossia non
assoluta. Egli “appassirà nei suoi affari” (v. 11). E il povero è ricco, perché evoca il mistero
dell’onnipotenza di Dio, che preferibilmente si china sui poveri. Grandezza è lasciarsi svuotare
per essere riempiti di Dio, non pieni di sé e chiusi ad ogni altro da sé e all’Altro che è Dio.
La tentazione (=essere chiusi) non è un male in sé, ma “prova” per una maggior autenticità:
come Dio permetteva agli ebrei nel deserto di essere provati da più parti (cibo, divinità,
nostalgia delle cipolle d’Egitto,...), così permette che siamo tentati per confermare la fedeltà a
Lui.
C’è un processo positivo nella prova della fede: “produce perseveranza”, meglio pazienza, e
questa affina, fa maturare.
Bisogna chiedere la sapienza senza doppiezza o interesse, con immediatezza e senza
tentennamenti, per non essere “come canne sbattute dal vento” (v. 6).
Quando la tentazione proviene dal diavolo, “beato” chi la sostiene con fedeltà (vv. 12-15).
Dio non tenta, permette che l’uomo sia tentato; infatti, ciascuno è proclive al male per
l’innata concupiscenza. Questa, se vittoriosa, produce la morte.
2. La Parola di Dio nella vita del cristiano (1, 16-27)
Anche su questo punto, abbiamo ben altri riferimenti della Rivelazione. Ma ci interessa, quiora, che cosa dice Giacomo.
In undici versetti (del 1° capitolo: 16, 26), benché in modo discontinuo, ma con una certa
logica interna, Giacomo afferma alcuni principi: esistiamo per un atto divino di amore,
assolutamente gratuito; ossia, siamo da Dio e dono di Dio, che è immutabile, fedelissimo,
sempre imperturbabilmente Se stesso.
Siamo stati generati, suscitati all’esistenza e battezzati, per un atto di elezione dalla “Parola
di verità”, diventando anche noi “opera delle sue mani”, “primizia”.
Tutto questo, “fratelli miei”, grazie alla Parola di verità che è generatrice. Così strutturati
(siamo dentro la visione antropologica cristiana), “ciascuno sia pronto all’ascolto, lento a
parlare, lento all’ira”. In poche righe, si è passati dalla teoria alla pratica: la Parola ci codifica,
struttura, relaziona. Un ascolto superficiale non è sufficiente, anzi insufficiente. Infatti,
potrebbe creare illusioni e delusioni.
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Questa tipo di religiosità non è aperta, non accoglie, non integra gli altri, è sconsiderata nel
parlare e omittente nella carità. (Si aggiungerà, poi, il come ascoltare la Parola.)
L’ira dell’uomo, di fatto, ne smentisce la sua situazione di figlio di Dio: l’ira non giustifica,
perché è assolutamente contraria all’amore salvifico, ossia all’amore perdonante che da Dio si
irradia nella reciprocità dei comportamenti fraterni.
Siamo stati battezzati per smettere ogni interiore “immondezza” o impurità, tutto il cumulo
di cattiveria, ma soprattutto per accogliere con mitezza, con disarmo interiore, la Parola di Dio
che è stata seminata in noi, come in un campo che dobbiamo coltivare, perché cresca e
fruttifichi, per intrinseca forza, e porti salvezza a tutto l’essere.
Ed ecco l’immagine dell’ascoltatore-esecutore della Parola: “Siate ascoltatori attenti e non
distratti”, ossia ascoltatori praticanti e non solo udenti, quasi per autocompiacersi e
ingannarsi. Chi ascolta soltanto e non pratica è come uno che si guarda allo specchio, ma
subito dimentica le sue fattezze, avendo un’immagine superficiale di sé, allo stato progettuale,
perché si perde nel vago, non dura e svanisce.
Chi invece entra nello spirito del Vangelo, “nella legge della libertà, egli persevera”, cioè
impara a prestare attenzione e sarà “felice”, perché lo Spirito accompagna il suo agire. La
Parola è per sua natura verità e la “verità rende liberi”, non costringe mai nessuno, si fa
persuasione interiore, affranca da ogni possibile condizionamento.
Torna poi l’esortazione a “tenere a freno la lingua”, perché “inganna il cuore”, fa stare sopra
le righe, svuota di valore la religiosità, il nostro credo, il nostro culto a Dio, basato su fede e
vigilanza, prudenza e carità.
Qual è, allora, la vera religiosità di chi ha fede? La visita (o custodia dei deboli e senza
diritti) agli orfani e alle vedove sofferenti; è l’immunizzarci dalla “mondanità”, intesa, nel senso
giovanneo, come rischio di peccato.
3. Le esigenze della fede (2, 1-14)
Non possiamo dire di credere nel “Signore nostro Gesù Cristo”, se facciamo preferenze o
abbiamo “riguardo di persona”. Tanto più di fronte al popolo di Dio, convocato in assemblea
liturgica. Questo perché la fede deve attestarsi nelle opere e le opere rimandare alla fede.
“Fratelli miei”, dice Giacomo, niente favoritismi, contrari a Dio e alla fede cristiana!
Può capitare, così, di assistere a questa scena: entra nell’assemblea un ricco, membro della
comunità o anche un occasionale e gli si riserva il posto migliore.
Entra un povero e lo si confina all’ultimo posto, magari dicendogli: “Stai in piedi” che non
c’è posto!
Ma non vi siete messi in crisi, o non avete mai dubitato di voi stessi per un comportamento
ispirato a “pensieri perversi”?
Ancor più accoratamente insiste Giacomo: “Ascoltate, fratelli carissimi”! Che dire
dell’evidente discriminazione tra ricchi e poveri?
Il Vangelo ci porta ad avere uno sguardo di fede: Dio ha scelto i poveri per essere ricchi di
fede, eredi del Regno perché essi lo amano, ripongono tutta la fiducia e qui speranza solo in
Lui; “Voi, invece, avete offeso il povero”. Di fatto, chi vi trascina dispoticamente dinanzi ai
tribunali, per farvi condannare? Solo i ricchi, sempre i ricchi, “bestemmiatori” del nome del
Signore!... Certo, se osservate la regola d’oro dell’amore verso il prossimo (“amerai il prossimo
tuo come te stesso”), “fate bene”. Se, invece, fate preferenza di persone, “commettete peccato”,
perché venite meno all’amore e vi rendete colpevoli.
La legge di Cristo è un tutt’uno, indivisibile, e deve essere osservata interamente. Basta “un
solo punto” trascurato, o non osservato, “per rendere tutto il resto colpevole”!
È sempre l’unica legge, la stessa Parola nelle dieci parole o Comandamenti da osservare.
Unico legislatore che le ha dettate: “Non commettere adulterio” e “Non uccidere”. Se non
osservi entrambi questi dettami, sei un trasgressore.
Dovete parlare e agire “in base alla legge della libertà”. Liberi e fedeli in Cristo!
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La nuova legge del cristiano è l’amore misericordioso, fatto di compassione, comprensione,
benevolenza, misericordia, perdono.
4. Fede e opere (2, 14–26)
Ed eccoci al cuore della concezione di Giacomo circa fede e opere. Ascoltiamolo: “Fratelli
miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere, che gli giova? Potrà forse la (sola) fede
salvarlo?”. Bisogna fare attenzione: qui non si è in contraddizione o in contrapposizione con
San Paolo. L’uno e l’altro dicono, in modo diverso, e da altre prospettive e preoccupazioni, la
stessa cosa. Giacomo afferma che non esiste una fede teorica, inerte; esiste sempre una fede
pratica, che si invera nelle opere. Paolo dice ai connazionali: avete talmente assolutizzato “le
opere” con la vostra risposta, fino alle estreme minuzie (i 613 precetti, di cui 365 negativi e
248 positivi) della Legge, che ne avete fatto un’arma per rivendicare (il diritto alla) la
salvezza, assolutamente gratuita, puro dono di Dio.
Paolo non nega “le opere”, nega che abbiano in sé o contengano una specie di diritto.
Giacomo ne fa un tutt’uno: la fede c’è, se subito autenticata dalle opere. Queste non possono
esistere senza la fede.
Senza le opere la fede è come un corpo senza vita, morta!
Così Giacomo non si preoccupa tanto di definire la fede quale virtù teologale, che i suoi
uditori ben conoscono. Egli non ne fa una questione di principio, ma è solo mosso dal
desiderio di una prassi migliore; quindi, non ci può essere dissociazione tra fede e opere; né
può esistere una fede falsa: “Chi dice di avere fede, ma non ha le opere”, è un povero illuso. Ecco
l’esempio: se c’è un “fratello” o una “sorella” senza vestito e cibo, e qualcuno di voi li respinge
o congeda, dicendo “andate in pace, scaldatevi e saziatevi da soli”, non dando a loro il
necessario, siete persone che non hanno capito: la vostra ‘fede’ “non giova a nulla”.
Una fede senza le opere non esiste! Per assurdo, qualcuno retoricamente potrebbe dire: “Tu
hai la fede e io ho le opere”. Bene. “Mostrami la tua fede senza le opere ed io ti mostrerò la fede,
partendo dalle mie opere”. Una sfida, in realtà, fondata su falsi presupposti, quindi irreale,
perché i termini o i riferimenti, fede-opere, sono indissociabili.
Teoricamente si potrebbe distinguere: da una parte c’è la fede, dall’altra le opere. Ma
Giacomo risponde: non c’è una fede astratta, senza il riscontro pratico delle opere. Per cui, non
si può mostrare la fede senza le opere; mentre è più facile che io mostri la mia fede incarnata
nelle opere che compio.
In conclusione: non esiste una fede cristiana se non incarnate nelle opere, né opere
cristiane se non fondate, motivate, svolte con fede.
Ancora: “Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene, anche i demoni ci credono e tremano” al solo
pronunciare il suo Nome. Ma il loro credo è equivoco, improprio: dicono ciò che non sono e di
fatto non credono.
Continua con tono acceso Giacomo: ti dimostro, “insensato”, come la Scrittura provi che
fede e opere vanno di pari passo.
Abramo, offrendo in sacrificio a Dio, che glielo chiedeva, il figlio Isacco, per questa sua
obbedienza fu giustificato.
Potrebbero sembrare i versetti successivi ancora di polemica tra Giacomo e Paolo. Invece –
come abbiamo detto– Giacomo ha solo la preoccupazione di mettere insieme la fede con la
pratica delle opere, dato che l’una senza l’altra non può esistere.
Anche Raab, la prostituta che ospita gli esploratori mandati da Giosuè a Gerico (Gs 2, 1-21),
è una donna che crede in Jahwè a modo suo, ne riconosce la supremazia assoluta e perciò
aiuta gli uomini di Giosuè. È un modello di fede, lodata anche in Ebrei (11, 31), perché fa
un’opera buona: “per fede Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, avendo accolto
pacificamente gli esploratori”.
La conclusione è una massima riassuntiva: la fede senza le opere è come un corpo senza lo
spirito, senza soffio vitale, ossia è come un cadavere, morta, una negazione di se stessa.
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5. Limiti della natura umana (3, 1-11)
Ancora: “Fratelli miei” (vocativo che fa da cerniera tra le due parti!).
Grande responsabilità e rischio l’ufficio di “maestro”, a partire dal ministero della Parola, da
cui può dipendere la salvezza. Se qualcuno, quando, parla, si domina è “un uomo perfetto”. È
come se mettesse il freno in bocca ai cavalli: obbediscono e si riesce a guidarli.
Anche le grandi navi, spinte da venti impetuosi, sono governate dal nocchiere con un
minuscolo timone. La lingua, organo altrettanto minuscolo, può vantare imprese
straordinarie, nel bene e nel male. Essa è come il fuoco: può incendiare una foresta, tanto è
travolgente e inarrestabile!
E per i suoi aspetti negativi, è un “mondo di malizia”: contamina la persona, la sua condotta,
brucia e devasta, inaridisce tutta l’esistenza. L’uomo che può domare gli animali più pericolosi,
deve riuscire a imporsi su se stesso, sulla propria lingua, che non dà tregua, non lo lascia
tranquillo. Essa è “piena di veleno mortale” (Sal 140, 4). Benedico e lodo Dio, ma maledico gli
uomini, sua immagine. È biforcuta: benedice e maledice. C’è un in noi come una contraddizione
inammissibile: non è pensabile che dalla stessa fonte zampilli il dolce e l’amaro.
6. Frutti di vita cristiana: la carità (3, 12-4,12)
Riprende, con “Fratelli miei”. Ogni albero produce il suo frutto: fico dal fico, olive dall’olivo,
secondo natura. Il frutto rimanda all’albero, alla sua genuinità.
L’acqua salata non dà mai acqua dolce.
Così, in materia di fede: uno è maestro e sapiente se è la sua condotta a dichiararlo, la sua
mitezza.
Quando invece c’è invidia amara, cruda, acida, o ambizione egoistica, basta un nonnulla, un
vanto qualsiasi per diventare menzogneri, contro la verità rivelata da Dio e che come cristiani
dovremmo ben conoscere.
Questa non è sapienza, perché non legata alla prassi, non viene dall’alto, non è autentica,
ma terra terra, basata sull’istinto, animalesca, addirittura demoniaca.
L’invidia e l’egoismo sono la radice di tutti i mali sociali. La sapienza “che viene dall’alto”,
invece, porta la pace: è misericordiosa, docile, aperta, ferma, priva di doppiezza o falsità. Il
frutto della salvezza viene seminato nella pace: lo possederanno coloro che operano la pace.
Si chiede l’Autore: donde sorgono o quale le cause e l’origine delle guerre? Dalla cupidigia
sfrenata e contraddittoria, che agita l’uomo; dal male che ha dentro.
Gli esempi:
- una bramosia inappagata, che non ottiene quello che vuole, anche con mezzi illeciti, porta
violenza e tensione sociale (a battagliare e guerreggiare);
- ci sarebbe la preghiera: ma se non chiedete a Dio la grazia, non l’avrete; o se chiedete, non
ricevete, perché chiedete male e per una vita più dissoluta. Così, siete “adulteri”, cioè tradite lo
Sposo Cristo perché amate il mondo e rinnegate Dio. Forse che la Scrittura parla a vuoto? È un
amore geloso, quello di Cristo, che dà una grazia più grande: Dio “resiste ai superbi e dà grazia
agli umili”. Sottomettersi a Dio è rendere efficace la grazia dello Spirito; a un tempo, bisogna
opporsi al diavolo impersonato da qualunque forma di male. La stessa esortazione viene fatta
con altri verbi.
“Avvicinatevi a Dio”, perché Lui “si avvicini” a voi.
Chi è peccatore, si purifichi, come pure chi è esitante purifichi profondamente il suo cuore,
per rafforzare la condotta.
Fate penitenza, affliggetevi, piangete, mutate il riso in pianto, l’esultanza in tristezza.
Se vi umiliate, sarete esaltati da Dio!
Non dite male gli uni degli altri, perché solo Dio è giudice, Lui la legge e il legislatore.
Lui solo può salvare e mandare in rovina: “tu chi sei che giudichi il prossimo? Come ti
permetti?”.
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7. Vanità e immoralità della ricchezza (4, 13-5, 6)
Di fatto, argomento del brano è: i ricchi e la vita cristiana.
In primo luogo, la ricchezza in sé (vv. 13-17), in secondo luogo (5,1-7), la ricchezza in
rapporto agli altri.
I sogni del ricco è “fare affari”, “guadagnare”, andando di “città in città”, nel corso dell’anno.
Non sapete quale sarà la vostra vita! Voi avete progetti ambizioni, ma la vostra vita è un fil
di futuro: appare e scompare in un baleno. Nonostante tutto, continuate a progettare, a
vantarvi. Siete perversi, perché chiudete nella sola ricchezza tutto l’orizzonte umano.
Chi può fare il bene e non lo fa è nel peccato, perché totalmente immerso nella mondanità!
Voi ricchi siete fatti in modo tale da essere chiusi a Dio: “piangete e lamentatevi, per le
sciagure che cadranno su di voi”. Ostinati e ciechi come siete, tutto verrà all’improvviso.
La vostra ricchezza è “putrida”, non serve: avete gli indumenti pieni di tarme, l’oro e
argento arrugginiti, e la ruggine vi accusa e divora.
Avete accumulato per che cosa? Avete defraudato agli operai mietitori nei vostri campi e le
loro grida sono giunte all’orecchio di Dio!
Avete vissuto nel lusso e nel piacere, vi siete ingrassati, quasi pronti al macello, vi siete
abituati a condannare e uccidere il giusto che non può resistervi (v. 6).
8. Vita cristiana in prospettiva escatologica (5, 7-20)
“Fratelli”, siate di animo generoso, pazienti nell’attesa di Dio. Pazienti come l’agricoltore
che attende il frutto della terra e le piogge, le prime e le ultime, secondo stagione. Siate
pazienti e rafforzatevi nell’attesa.
Non giova lamentarsi gli uni degli altri, o contro gli altri, per non essere giudicati, il Giudice
è alle porte.
Imitate i profeti, che parlavano a nome di Dio.
Noi diciamo “beato” chi ha perseverato come Giobbe, e sappiamo l’esito, opera di Dio, ricco
di bontà e di misericordia!
Se siamo autentici di fronte a Dio, non c’è bisogno di giuramenti, né di conferme, basta
essere lineari e trasparenti: sì-sì, no-no.
E nelle difficoltà morali e fisiche, pregate!
Ecco, infine, il testo costitutivo del Sacramento dell’Unzione degli Infermi.
Il malato vero “mandi a chiamare gli anziani della comunità ed essi preghino su di lui, dopo
averlo unto con olio nel nome del Signore”. I presbiteri non fanno una visita di cortesia, ma
sviluppano un preciso rituale, con preghiere e monizioni.
Così la preghiera della fede, accolta, salverà l’infermo e il Signore lo solleverà (“risusciterà”).
E se ha peccati, gli saranno rimessi.
Confessate i peccati a vicenda: un’usanza, questa, al di fuori del Sacramento, come avveniva
anche tra le religioni pagane, in modo “da essere guariti”, perché la preghiera del giusto è
potente.
Elia pregò e dopo tre anni e sei mesi, piovve.
E di fronte il fratello che si allontana “dalla via della verità”, bisogna cercare di recuperarlo,
stornarlo dalla sua condotta, farlo tornare indietro. Se uno saprà farlo recedere, “salverà la
vita” dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati, perché questo significa fare carità nella
verità!...
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SECONDA PARTE
PER UNA VERIFICA
DELL’ESSERE E OPERARE IN CARITAS
Scrivevo che, leggendo e rileggendo Giacomo, si ha come la sensazione di essere di fronte a
una lettura policentrica, con vari punti essenziali, non sempre facilmente componibili, pur
provenendo da un comune linguaggio e intento. La lettera agli esperti appare come un
“caleidoscopio” (Harnack) o, come diceva Lutero: “tante parti poste una sull’altra”, o
sovrapposte. Una lettera strutturata con frasi invertite (chiasmo), una lezione sapienziale,
un’esposizione delle varie tensioni sociali della comunità cristiana di fine primo secolo, forse
quella gravitante attorno a Gerusalemme.
Non c’è unità di pensiero, ma c’è uno sviluppo e un’impostazione letteraria originale.
Sbagliato, per esempio, tipicizzarla solo come la lettera dell’intrinseco rapporto fede-opere
tanto caro a tutti gli operatori del volontariato ecclesiale e, in specie, della Caritas.
Sbagliato anche scindere questo punto dal resto: dalla Parola e dalla preghiera, dalla
ferialità o dal “terribile quotidiano”, da una carità che è fondamento e frutto della vita cristiana,
dall’immoralità della ricchezza, o dal giudizio ultimo, o sulla realtà definitiva.
In una parola, proprio attenendoci al testo e tenendoci lontani da forzature, la Lettera dice
agli Operatori delle Caritas diocesane di contestualizzare la Carità alla fede trinitaria, la fede
alla Chiesa, al suo essere “Sacramento della Carità di Dio nella storia”, a partire dalla comunità
cristiana, dove si autentica la prima carità nel rapporto con Dio e tra noi; dove non ci devono
essere maldicenze, preferenze indebite, ricchi sfrontati, né poveri calpestati; dove non si
dimentica il giudizio di Dio sull’amore; dove è chiaro il nostro tendere alle realtà ultime per
riempire il cesto di opere buone, d’amore.
Allora, in questa ricentratura della Lettera, cerchiamo di cogliere insieme alcuni elementi
per un rafforzamento dell’identità Caritas, in quanto vocati e mandati, cioè investiti di un
compito, che è diventato anche la condizione cristiana nella quale il Signore vi offre la grazia
della santificazione, tramite il vostro operare nella Caritas, e perciò quali testimoni di Carità.
Consentitemi di riprendere, con una mia rielaborazione, i punti trattati dalla Lettera e che
propongo, attualizzandoli e aprendoli già ad un piccolo confronto (che potete prolungare in
un laboratorio).
1. Primo punto: la chiamata alla vita, alla fede e, nella Chiesa, alla Caritas.
Trovo lo spunto in un passaggio che abbiamo fatto: “essere generati dalla Parola di verità”.
Siamo stati suscitati all’esistenza e alla fede da un atto di amore elettivo del Padre, sulla
causalità ed esemplarità del Logos, che ci ha come codificati per essere compiutamente
realizzati.
Domanda: la vostra presenza nell’organismo Caritas come si può definire e collocare:
è lì per caso, cioè precaria, per una qualche compensazione, per scelta convinta e totale
coinvolgimento o puro solidarismo umanitario?
E che cosa ha significato e significa, nel processo di maturazione della vostra fede,
essere evangelizzatori della Carità con le opere?
2. Secondo punto: tutti abbiamo una particolare struttura intrapsichica e come battezzati
una spiritualità, ossia una modalità di approccio al Mistero che è Gesù Cristo, attraverso i
Misteri della sua vita, qualcuno dei quali ispira le nostre scelte e le nostre azioni.
Domanda: a) Potrete dire che state crescendo, attraverso la formazione in Caritas,
nella conoscenza di voi stessi (pregi e difetti), degli altri, nel sapervi Chiesa non da soli,
e nella Chiesa, come Caritas, “posti sul moggio per fare luce” ed essere trainanti per
tutta la pastorale, a partire dalla liturgia o dalla dimensione interiore o contemplativa?
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b) Riuscite sempre a vedervi imprescindibilmente Chiesa, ad essere ed operare come
Chiesa e in sinergia con i Pastori?
3. Terzo punto: inutile nasconderlo, anche nella Chiesa esistono, ad ogni livello e per tutte le
componenti, rischi di ambizioni, cupidigie indebite, alto o basso carrierismo, ingiustizie,
sopraffazioni, invidie, colpi bassi, lingue biforcute, maldicenze e anche calunnie.
Domanda: com’è in merito la vostra esperienza in Caritas?...
4. Quarto punto: fede e opere. Con Giacomo diremmo: fede è operare, operare è farlo con
fede, per il bene di chi aiutiamo, a causa e per amore di Cristo e per la gloria di Dio.
Domanda: com’è la situazione nelle Caritas diocesane circa l’inscindibile binomio:
fede-opere? C’è perfetta armonia o una qualche dissociazione? C’è gente che dice solo di
credere o solo di operare?
O che non crede, ma fa un cammino di fede, operando con voi? O che crede, ma non
riesce a tradurre la fede in opere concrete?
E qual è il vostro reale atteggiamento e comportamento con i ‘poveri’? E il vostro
‘giudizio’ su i ‘ricchi’?...
Riuscite davvero ad evangelizzare oltre a voi stessi, anche coloro che incontrate
attraverso i normali rapporti dell’organismo, eliminando alla radice le cause delle
povertà (o almeno tentandoci)?
5. Ultimo punto: avete mai pensato che la Caritas è per voi vocazione e missione, e perciò
luogo di santificazione e di salvezza? Traduco così l’ultimo richiamo della Lettera, circa il
Sacramento dell’Unzione degli Infermi, viatico per il passaggio decisivo all’incontro col
Padre.
Domanda: avete sempre chiaro il senso dell’esistenza cristiana come vita per (proesistenza)? Ossia: “Qualsiasi cosa avrete fatto a uno solo dei fratelli più piccoli l’avete
fatto a me” (Mt 25, 40)? E perciò del relativo giudizio: “Venite benedetti del Padre mio,
ricevete il Regno preparato per voi fin dall’origine del mondo” (v. 34)?
Conclusione
La Caritas è tutta in questo annuncio nel tempo e per l’eternità, tutta per la pedagogia che
educa voi e tutti, tutta per informare la Chiesa di Carità, ossia per farla vivere, agire, crescere
secondo natura, per lievitarla continuamente, per essere la prima interfaccia con ogni genere
di istituzioni, di collaborazioni possibili, per brevi o lunghi tratti di strada insieme.
E concludo, riaffermando il mio ringraziamento, la stima e l’amore di noi Pastori, la
profonda comunione –e non può non essere che tale, come primi responsabili– con
l’organismo Caritas.
Al quale ricordo che, per essere il volto più bello, riconosciuto, atteso della Chiesa di Cristo,
oggi, deve ancor più contemplare, celebrare, servire l’Amore di Dio, perché sia ovunque,
sempre, da tutti glorificato!
Grazie per l’ascolto!

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p. Paolo Atzei
Arcivescovo
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BIBLIOGRAFIA
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- TOSATTO GIUSEPPE, La Lettera di Giacomo, in Il Messaggio della salvezza, vol. 5, Torino 1968, coll. 855908.
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