Le supplici

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Le supplici
Statua di Teseo ad Atene
Ambientazione: Eleusi, Grecia
Data della prima rappresentazione: tra il 423 ed il 416 a.C. (?)
Personaggi:
Teseo, re di Atene
Etra, madre di Teseo
Adrasto, re di Argo
Evadne, moglie di uno dei caduti
Ifi, padre di Evadne
Atena
Araldo tebano
Messaggero
Coro delle madri dei guerrieri caduti a Tebe
Coro dei figli dei guerrieri.
N.B.: la tragedia, non per caso, è omonima di quella di Eschilo.
Trama:
Un gruppo di supplici di Argo si presenta ad Eleusi presso l’altare di Demetra: sono le madri dei
guerrieri argivi morti nel fallito assalto a Tebe (quello raccontato da Eschilo nei Sette contro Tebe), che
supplicano gli Ateniesi di aiutarle a dare degna sepoltura ai loro figli. I Tebani, infatti, negano la
restituzione dei cadaveri. Il re Teseo decide di aiutarle, e perciò ingaggia con l’araldo tebano un
intenso dialogo nel quale il re difende i valori di democrazia, libertà, uguaglianza di Atene,
contrapposti alla tirannide di Tebe, ma viene puntualmente confutato dall'araldo.
La guerra tra le due poleis diventa così inevitabile e si conclude con la vittoria di Atene e la
conseguente restituzione dei cadaveri. Il re di Argo Adrasto, che accompagna le madri, celebra i caduti
con un discorso funebre. Durante il rito funebre Evadne, moglie del caduto Capàneo, si getta da una
roccia sul rogo dove viene cremato il marito, in un atto di estrema dedizione coniugale.
Alla fine appare ex machina la dea Atena, che fa giurare ad Adrasto ed agli argivi eterna riconoscenza
verso Atene, predicendo la prossima caduta di Tebe.
Interpretazione della tragedia:
Di questa, che forse è la più politica fra le tragedie euripidee, sono state date interpretazioni
contrastanti, addirittura opposte.
Buona parte degli studiosi ritiene che il dramma sia stato scritto poco dopo la sconfitta di Atene contro
Sparta nella battaglia di Delio del 424 a.C., in piena guerra del Peloponneso. La tragedia avrebbe quindi
una funzione paideutica ed esprimerebbe un forte senso patriottico, ricordando agli Ateniesi la propria
grandezza nei confronti della rivale Sparta. Infatti, nel momento in cui il re Teseo confronta la
democrazia ateniese con la tirannide tebana, concludendo che solo la democrazia può garantire la
libertà, apparirebbe evidente - secondo tali critici - l’intenzione di Euripide di dimostrare la superiorità
di Atene sull’oligarchia spartana.
Questa interpretazione, come fa notare anche il Canfora, appare banalizzante e semplicistica, quanto
meno perché non tiene alcun conto dell'orientamento sempre più antidemocratico manifestato da
Euripide col passare degli anni (soprattutto a partire dalla morte di Pericle nel 429) ed evidente dal
suo stesso status di apràgmon, nonché dal suo auto-esilio finale. Si ricordi ad esempio l'ironia di
Aristofane nelle Rane del 405: quando Euripide afferma: "Ero un poeta democratico, io!", Dioniso
ribatte: "Lascia correre, amico. Meglio non toccare questo tasto." Questo, fra l'altro, mette in dubbio la
cronologia proposta, che potrebbe anche essere abbassata di non pochi anni (verso il 416).
Che poi Euripide non sia mai paideutico in senso stretto è evidente: non si comprende per quale
motivo questa tragedia dovrebbe fare eccezione.
Va chiarito anche un altro equivoco nel quale si rischia facilmente di incorrere: il risalto che l'autore dà
alle esequie per i morti in guerra è un chiaro indizio del sostanziale antimilitarismo di Euripide
(evidente anche in altre tragedie quali le Troiane e l'Elena), ma questo non solo non lo qualifica come
democratico nel senso moderno del termine, ma al contrario lo pone in sicuro contrasto con la pòlis
democratica ateniese: infatti la democrazia radicale, come sappiamo, fin dai tempi di Temistocle è
caratterizzata da un marcato orientamento imperialistico e fa della guerra contro Sparta la sua
bandiera ideologica.
Non è comunque solo la "democrazia realizzata" quella che Euripide prende qui di mira, ma la
democrazia tout court. Dal dialogo tra Teseo e l’araldo tebano traspaiono infatti tutte le riserve di
Euripide a proposito di questo sistema di governo: Teseo descrive il sistema democratico per come
dovrebbe essere (lo Stato appartiene a tutti i cittadini, i quali hanno uguali diritti a prescindere dalla
loro ricchezza), ma l’araldo ribatte che in sostanza si tratta di un ritratto teorico, impossibile da
tradurre in realtà fattuale; al di là delle belle intenzioni programmatiche, molti e inevitabili sono i
difetti della democrazia per come è, a cominciare dall'ignoranza del popolo - la canonica accusa di
amathìa - che lo fa essere perennemente in balìa dei demogoghi. Come se non bastasse, alle puntuali
critiche dell'araldo tebano il re risponde con frasi fatte e luoghi comuni, e poi cambia argomento,
certamente suscitando non poca irritazione nel pubblico.
È quindi da escludere che Euripide, con questa tragedia, intenda esaltare la democrazia: al
contrario, ancora una volta, la sua si configura come una beffa nei confronti del pubblico (a quanto
pare riuscita, vista anche la credulità dei critici): con l'apparenza di elogiare il sistema democratico, in
realtà ne mette in risalto i punti deboli, questa volta non solo a livello di interpretazione concreta e
storicamente determinata della democrazia, ma proprio a livello teorico.
È evidente, peraltro, che il titolo non è stato scelto casualmente: si tratta infatti di un chiaro rimando
alle Supplici di Eschilo. Come si ricorderà, nel dramma eschileo anche il re Pelasgo difendeva le
supplici dall'intervento dell'araldo (in quel caso egizio) ed in un precedente contrasto fra il re e le
Danaidi si dibatteva della possibilità o meno del governante di decidere da solo in questioni di Stato
importanti; il re finiva per affermare, del tutto anacronisticamente, che non gli era possibile decidere
alcunché senza consultare l'assemblea popolare, perché "solo decisione d'assemblea è come chiodo
ben confitto": un'appassionata dichiarazione di fede da parte di Eschilo nelle istituzioni democratiche,
qui rispedita al mittente da Euripide.
La democrazia assembleare viene così ridicolizzata per bocca dello stesso Teseo: "Ecco che cos'è
libertà: «Chi ha qualche consiglio utile e vuole offrirlo alla città?». Chi se la sente diventa celebre di
colpo; e chi non se la sente se ne sta zitto. Esiste uguaglianza più perfetta?"
Un'affermazione talmente grossolana che non si capisce come si possa prenderla sul serio.
È presente anche, ma in secondo piano, il tema già trattato dell'auto-sacrificio, in questo caso di
Evadne, moglie di Capàneo: abbiamo già visto come su questo argomento l'opinione di Euripide sia
molto scettica, per cui ben difficilmente il gesto della donna andrà interpretato in senso positivo.
BRANI
(Entra un araldo di Tebe)
ARALDO:
Dov'è il re di questa terra? A chi devo recare il messaggio di Creonte, che ora ha il potere in Tebe, dopo
che per mano del fratello Poliníce alle sette mura di Tebe Etèocle è caduto?
TESEO:
Prima di tutto sei partito da un errore, o forestiero, visto che in Atene tu cerchi un re: qui non comanda
uno solo: la città è libera: comanda il popolo, con i suoi rappresentanti, eletti a turno anno per anno; e i
ricchi non hanno privilegio alcuno: il povero ha uguali diritti.
ARALDO:
Tu mi hai concesso un punto di vantaggio, come al gioco dei dadi. La città dalla quale sono giunto è
governata da un uomo solo, non dalla folla. E qui non c'è nessuno che a ciance esalti il popolo per il
proprio tornaconto, e lo mandi di qua e di là. Tutti miele, costoro, tutti lusinghe prima, che poi si
traducono in danno. E con calunnie nuove nascondono gli errori precedenti, e sfuggono alla giustizia.
D'altronde, come potrebbe il popolo, che non sa guidare neppure il proprio raziocinio, reggere uno
Stato? Per insegnare questa dottrina ci vuole tempo, e non la fretta; e un povero bifolco, anche se non
fosse ignorante, distolto dal suo lavoro, non potrà badare agli interessi pubblici. È un malanno grande,
per gli onesti, quando un uomo malvagio e venuto su dal nulla acquista credito e con le sue chiacchiere
domina il popolo.
TESEO:
È sottile questo araldo, e sa usare con abilità le parole, anche se è impudente. Ora, poiché tu hai
proposto tale gara e mi inviti alla disputa, ascoltami. Nulla per uno Stato è più nocivo di un re assoluto.
Qui, per primissima cosa, le leggi non sono uguali per tutti. In casa propria un uomo solo detiene le
leggi e il potere; e l'uguaglianza non c'è. Ma quando esistono leggi scritte, il ricco e il povero ottengono
uguale giustizia. Il debole può, quando lo insultano, confutare il potente; il piccolo, quando ha ragione,
può vincere il grande. Ecco che cos'è libertà: «Chi ha qualche consiglio utile e vuole offrirlo alla città?».
Chi se la sente, diventa celebre di colpo; e chi non se la sente, se ne sta zitto. Esiste uguaglianza più
perfetta? E dove il popolo è sovrano del Paese, si è fieri di avere una florida gioventù nella città; invece
un principe assoluto la considera nemica, e uccide i più forti e quelli che considera più assennati,
perché teme per il suo regno. E come, allora, può diventare forte una città, se c'è chi tronca, come a
Primavera le spighe dal prato, ogni ardore, e stronca il fiore dei giovani? E a che serve procurare agi e
ricchezze ai figli: perché il lusso del tiranno cresca di più? A che scopo crescere fanciulle costumate in
casa, se dovranno essere il sollazzo del signore a suo piacimento: per seminare lacrime? Che io possa
morire se qualcuno dovesse mai violare mia figlia! Con questi colpi rintuzzo i tuoi colpi.
Ma quale scopo ti porta a questa terra? Con tuo malanno saresti giunto qui, se tu non fossi araldo:
perché tu chiacchieri piú del dovuto; e un messaggero dovrebbe esporre quanto gli fu imposto, e
andarsene al più presto. E d'ora in poi, Creonte ci mandi messaggeri meno loquaci di te.
CORO:
Ahimè, ahimè! Se un dio accorda la fortuna ai malvagi, come se dovessero sempre aver buona sorte,
insolentiscono.
ARALDO:
E sia: parlerò. Quanto alla nostra disputa, tu sei convinto di una cosa, io del contrario. Adesso io ti
proibisco, e tutto il popolo di Cadmo è con me, che si accolga Adrasto in questa terra; e se vi è giunto,
prima che il sole tramonti devi sciogliere l'incanto delle sacre bende e scacciarlo di qui, e non devi
riscattare le salme per forza: non c'è legame che ti vincoli alla città di Argo. Se mi darai retta, la nave
della città potrai governarla senza tempesta; se no, grandi flutti di guerra già piombano su noi, su te,
sui tuoi alleati. Bada che, adirato come sei per le mie parole, tu che governi una città libera, confidando
nel valore del tuo braccio, non debba gonfiare troppo la tua risposta. È un pessimo male l'eccesso di
fiducia, che accende l'ira al punto estremo e spinge molte città alla guerra. E quando nell'assemblea del
popolo si pone la guerra ai voti, non c'è nessuno che metta in conto la propria morte; e dirotta la
sciagura sugli altri. Se invece, quando vota la guerra, ognuno se la ponesse davanti agli occhi, l'Ellade
non andrebbe in rovina per mania di guerre. Eppure ogni uomo distingue il bene e il male, e sa bene
giudicare fra guerra e pace, quanto questa sia migliore di quella. Alle Muse la pace è carissima, odiosa
alle Furie; e ama la ricchezza, e i bambini; e noi buttiamo via questo bene, stolti, e scegliamo le ragioni
del forte e la guerra, per cui lo Stato è asservito allo Stato e l'uomo all'uomo.
Ora tu soccorri i nemici morti, che morirono per la loro tracotanza, e vuoi che abbiano riscatto e
sepoltura. Ma non fu giusto che Capàneo, colpito dalla folgore, piombasse a terra, lui che, appoggiando
la scala alle mura, aveva giurato avrebbe preso Tebe con o senza la volontà di Dio? E un baratro
apertosi all'improvviso non rapì il vate degli uccelli, e una voragine non inghiottí la sua quadriga? E
giacciono presso alle porte gli altri comandanti, hanno le ossa rotte alle giunture dai macigni.
Ora, o tu presumi di essere più saggio di Giove, o ammetti che i Numi sterminano a buon diritto i
malvagi. Un uomo di senno deve amare prima i figli, poi i genitori, e poi la patria, e fare in modo che
prosperi, e non che sia distrutta. Ben poco affidabile è un comandante temerario, un temerario
nocchiero; e saggio è l'uomo che sa essere tranquillo quando bisogna. E per me, anche la prudenza è
coraggio.
CORO:
È sufficiente che Giove li abbia puniti: offenderli a tal punto, a noi non si conviene.
ADRASTO:
Disgraziato!
TESEO:
Taci, Adràsto, frena la lingua, e non voler parlare prima di me: ché questo araldo fu spedito a me, e non
a te; e a me spetta rispondere. E confuto per primo il primo punto. Non mi risulta che Creonte sia il mio
padrone, né che sia tanto più forte di me da poter costringere Atene al suo volere. Se ci lasciassimo fare
imposizioni, i fiumi dovrebbero risalire alle loro sorgenti. Io, questa gara non l'ho provocata, non ho
fatto irruzione nella terra cadmèa, con questi supplici. Senza fare danni a Tebe, e senza portarvi guerre
micidiali, io intendo dare un sepolcro alle salme degli eroi, difendere una legge comune a tutti i Greci.
Che c'è di ingiusto in ciò? Se avete ricevuto un torto dagli Argivi, ebbene, ora sono morti, i nemici li
avete sconfitti, con vostra gloria e con vergogna loro, e trionfa la giustizia. Ora consentite che le loro
salme siano rese alla terra, che tornino là da dove viene alla luce ogni elemento: all'etere lo spirito e le
membra alla terra: esse ci furono concesse perché fossero l'albergo della nostra vita: e poi le deve
recuperare chi le nutrì.
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