asc incontri: giammello La scena si sente L e cose fatte, per quanto possano essere maestose o profonde, vanno immediatamente superate, perché difficilmente reggono la corsa del tempo. Bisogna dunque aggiornarsi, affinare le ingenuità e confrontarsi senza paura con i mille linguaggi in cui sono scritti gli spazi della contemporaneità. Anche dopo trent’anni di carriera e oltre cento spettacoli teatrali costruiti assieme a personalità come Lavia, Ronconi, Missiroli, Job, Luzzati… È il caso di Carmelo Giammello, scenografo cresciuto all’ interno dell’ ufficio tecnico del Teatro Stabile di Torino, fra ingranaggi amministrativi e sogni ingegneristici. Luca Ronconi fu il primo a comprendere appieno la sensibilità artistica incastonata nell’ottimo direttore degli allestimenti e a lanciarlo come scenografo. Un’ intuizione convalidata dai premi ottenuti negli ultimi anni e dalla costante qualità degli spettacoli firmati da Giammello. 50 di gianni sorrentino intervista a carmelo giammello Lo abbiamo incontrato al Teatro Argentina durante l’allestimento di Memorie dal sottosuolo, in scena a fine marzo con la regia di Gabriele Lavia. Documentare visivamente la storia del teatro è un antico problema irrisolto. Del vostro lavoro non resta quasi nulla perché le immagini non riescono a restituire la forza di uno spettacolo. Tu stesso sei più conosciuto per un’installazione realizzata in occasione delle Olimpiadi invernali che per trent’anni di carriera… È vero. Le due edizioni di Luci d’artista mi hanno dato una visibilità, anche internazionale, maggiore di quella avuta con anni di teatro. Da un lato devo ringraziare Internet, perché ha diffuso rapidamente il nostro lavoro in tutto il mondo. Dall’altro, mi vien da riflettere sulla fatica che il nostro teatro compie per raggiungere il grande pubblico. Per quella rassegna hai portato il cielo sulla terra per le vie di Torino… L’evento era nato per aiutare la città da un punto di vista turistico. Una vetrina incentrata sull’arte contemporanea di Torino, con temi molto legati al periodo natalizio durante il quale si svolgeva. Ho pensato così ad un cielo stellato un po’ perché, normalmente, in città siamo tutti distratti e non alziamo mai la testa. E poi, se anche la alziamo, fra nuvole e inquinamento non è che si veda un granché. Ho così ricostruito circa 24 costellazioni che sono state installate per oltre un chilometro da Piazza Castello a Porta Susa, nella prima edizione, e sui due tronconi di via Roma nella seconda. Al primo anno, a New York, un rivista d’arte ha dato un calendario che aveva in copertina la mia installazione, pensa un po’… asc incontri: giammello Non è stato l’unico caso in cui hai scritto gli spazi urbani torinesi. Era avvenuto anche alle Porte Palatine assieme a Luzzati… Realizzammo insieme un muro scenografico per la Sindone nel 2000, in occasione della visita del Papa. C’era un cantiere, a Porta Palazzo, sorto in una situazione un po’ degradata e fu deciso di costruire una sorta di palizzata attorno a questa piazza di fronte alle Porte Palatine. Doveva essere una semplice staccionata ma è diventata un’opera imponente di duecento metri, con duemila metri quadrati di materiali dipinti a mano lungo quattro facciate che arrivavano anche a sei metri d’altezza. Il tutto si doveva inserire ed integrare con le architetture preesistenti della piazza. Una bella sfida. Un modo di combattere il degrado con la fantasia che annullava i confini fra scena e città… Temevamo fortemente le incursioni degli squatter. Sull’unico cartello bianco presente apparve subito una scritta poco incoraggiante: “stronzi”. Per il resto non è mai stato fatto uno sberleffo, nessun imbrattamento sulle parti dipinte in oltre tre anni di permanenza. Un rispetto che ci ha veramente stupito… Forse un segno di riconoscenza, per quanto raro, alla bellezza… Il merito è di Luzzati. Una persona straordinaria dal punto di vista umano, mai egocentrico, molto aperto e disponibile che mi ha sempre permesso di contribuire anche nella fase ideativa senza mai imporre le sue idee. In quest’occasione mi commissionò un modellino che poi rielaborò, restituendomene uno più grande con delle immagini ritagliate da riviste, giornali, libri. Abbiamo poi utilizzato della lamiera dapprima tagliata al laser, poi rivestita in tela ed infine ridipinta da Fulvio Lanza, un pittore straordinario che purtroppo è mancato. Durante la realizzazione mi sono poi accorto che si poteva lavorare sulla struttura dell’opera ed ho inserito più piani per creare diverse illuminazioni. È stato davvero un onore poter collaborare con Luzzati. Ritieni che il suo lavoro abbia influenzato la tua identità artistica? Luzzati ha un segno molto caratteristico che sin dall’Accademia ho studiato a fondo. I miei primi passi nell’ambito teatrale hanno dunque tenuto conto della sua magia anche se oggi sento la mia identità artistica piuttosto lontana dalla sua. Non saprei darti una risposta definitiva anche perché un po’ tutto il teatro sperimentale della seconda metà degli anni Settanta è stato fortemente influenzato dalla sua poetica: l’uso di materiali comuni, gli accatastamenti, quel dare un senso nuovo agli oggetti quotidiani che diventavano architetture fantastiche… a fianco: immagini ritraenti il muro scenografico realizzato insieme a Lele Luzzati alle Porte Palatine (2000). nella pagina precedente: scenografia costruita da Carmelo Giammello per Il sogno del principe di Salina: l’ultimo Gattopardo (2006) 51 asc incontri: giammello Chi ti ispirava quando facevi l’Accademia? Mi vengono in mente Gordon Craig e Appiah anche se, devo dirti la verità, durante quegli anni ero piuttosto in crisi. Inizialmente volevo fare il pittore e non pensavo proprio al teatro. Ancora prima avevo lavorato in fabbrica e, quando potei iscrivermi al liceo artistico, mi buttai freneticamente nel lavoro per recuperare gli anni perduti. Avevo bisogno di riferimenti concreti e cercavo di acquisire al più presto una manualità costruendo modellini su modellini, facendo proposte agli insegnati e poi, come è giusto, sbrigandomela un po’ da solo. I veri maestri li trovi poi sul campo quando inizi a lavorare e a capire la macchina teatrale, i suoi spazi. Raccontiamo allora questo percorso… Sono partito da zero. Ho cominciato con le compagnie dei ragazzi e il massimo che potevo fare era dipingere e dare l’ignifugo. La mia fortuna è stata quella di entrare nel teatro stabile di Torino e passare all’ufficio tecnico dove, preparando gli allestimenti, sono entrato in contatto con registi e scenografi. Fra questi mi piace ricordare Enrico Job che per me è sempre stato un maestro e un punto di riferimento importante per come ha saputo utilizzare lo spazio scenico e l’invenzione. Quando sono stato nominato nella terna degli Olimpici assieme a lui e ci siamo seduti accanto in attesa del risultato ho provato un’emozione indescrivibile. Al Teatro Stabile di Torino incontri Luca Ronconi, il regista che ti fa esordire come scenografo. Puoi descriverci la vostra collaborazione? Ho avuto il privilegio di lavorare con Ronconi seguendo diciotto spettacoli come direttore degli allestimenti, di cui sei come scenografo, fra i quali una versione del Misura per misura che ha rappresentato la mia prima esperienza. Dire che è un genio è quasi superfluo ma la cosa interessante è che Ronconi è anche un grande scenografo. Non ha bisogno 52 di disegnare perché ha sempre una visione chiarissima dell’opera che sta costruendo in cui ti fa entrare lentamente, non spiegandoti tutto subito. È un procedimento molto interessante e stimolante perché ti prende per mano e ti porta al risultato finale, pur lasciandoti un tuo spazio creativo all’interno di questo rapporto. I suoi spettacoli sono caratterizzati da una ricerca estetica estrema ed hanno un’impronta e uno standard ben definiti, chiunque sia lo scenografo. Gli sono grato perché è il regista che per primo mi ha aiutato a capire veramente lo spazio teatrale. All’uscita dei suoi spettacoli, solitamente, in molti si chiedono: “perché le sedie e i mobili si muovevano?”… Perché in Ronconi la scenografia non è mai un elemento di arredamento. La scenografia è un attore e quindi recita. È una cosa che a volte gli rimproverano perché fa spendere soldi e poi perché gli attori a volte si arrabbiano – è accaduto con Albertazzi – perché secondo loro il teatro è l’attore… Qual è la tua opinione? Il teatro parla della vita degli uomini. Senza scenografia si può fare, senza l’attore no, e te lo dice uno scenografo convinto. Fare una scena per la scena non ha senso perché la scena deve sempre far parte di un progetto drammaturgico e deve aiutare l’attore ad essere in un contesto. Se il regista è debole usa l’artificio per coprire delle carenze ma, se si parla di Ronconi, sai perfettamente che verrà compiuto un lavoro sull’attore – e quindi sulla parola – estremamente rigoroso. Quando questo lavoro è abbinato, l’artificio diventa un altro attore o se preferisci una componente che aiuta e mette in condizioni l’attore di dargli quella sensazione per dire quello che sta dicendo. O per metterlo in difficoltà. Ricordo che ne Gli ultimi giorni dell’umanità Ronconi aveva lasciato Popolizio appeso a sei metri su una sedia che ogni tanto faceva capriole… serviva per mettere l’attore in una condizione diversa, non naturalistica, per consentirgli di trasmettere qualcosa che in quel frangente assumeva una forza maggiore. Purtroppo, non sono molti i registi che sanno dare alla scenografia quel forte taglio drammaturgico che trovo assolutamente necessario. Un altro è sicuramente Gabriele Lavia. Ci puoi raccontare il suo approccio alla scenografia? Gabriele rappresenta una genialità diversa, che si fonda su un rapporto più semplice e più schietto rispetto ad altri registi. Mi ha insegnato a dare un po’ un’anima, un calore. Nei suoi spettacoli la scena ha sempre un cuore e trasmette tantissimo. La sua esperienza gli consente delle intuizioni notevoli, spesso geniali, che cerco di tradurre mettendo la mia professionalità e la mia esperienza al suo servizio. Abbiamo collaborato in più di dieci spettacoli e non saprei da dove partire… asc incontri: giammello Mi viene in mente L’avaro, in cui veniva proposta una lettura molto intrigante del testo di Molière. Un esempio di come le quattro pareti del teatro riescono ad aprirsi e ad aprire gli occhi verso la società esterna… In quel caso la scenografia cercava di contribuire al racconto del naufragio della famiglia. L’idea che mi aveva trasmesso Gabriele era questa: la crisi della famiglia, la sua dispersione e disgregazione contemporanea. Per rappresentarla immaginammo una casa in bilico, destinata a crollare in breve tempo e tanti particolari per esprimere i concetti che ne seguivano. Esemplifica, a mio avviso, il modo corretto d’intraprendere la progettazione di uno spazio. Un forte significato drammaturgico ed un aiuto all’attore per esprimere la lettura del testo. Senza dimenticare mai la forte presenza del regista. Io mi pongo solo come un tecnico che ha una capacità e una formazione artistica e che cerca di interpretare le intenzioni del regista. Come il regista dice le sue intenzioni all’attore così le comunica allo scenografo, al costumista e al datore di luci. Queste competenze, sommate, danno valore allo spettacolo di cui il regista è la componente fondamentale. Senza di lui naufraga tutto… Rimanendo in tema, ricordo un Edipo Re andato in scena al Teatro Greco di Siracusa… La scenografia esprimeva un concetto simile, seppur in un contesto totalmente diverso, perché anche lì c’era un edificio crollato, ricoperto di sabbia, alto quindici metri e largo ventidue, caratterizzato una fortissima inclinazione che comunicava un disagio, un senso di vertigine che in fase costruttiva procurò parecchi dubbi all’ingegnere e perfino a Gabriele. C’era anche un grande sipario di ventidue metri, seppellito nella sabbia, che nella scena finale sbucava improvvisamente, gonfiandosi ed ergendosi a muro. In quell’occasione vidi diecimila persone alzarsi in piedi ed applaudire, un vero stadio con tanto di ola. Indimenticabile. Fra gli spettacoli di maggiore impatto segnalerei anche Il misantropo… Fu uno spettacolo notturno, marcatamente trasgressivo dal punto di vista dell’interpretazione e molto attualizzato, in grado di cogliere le nevrosi della metropoli. Un lavoro molto complesso che fondeva luci, acqua, botole motorizzate, materiali diversissimi come il vetrocemento e il marmo, con cui creammo una pedana con un suo particolarissimo impatto sonoro. Può sembrare assurdo ma il suono sta acquisendo un’importanza crescente e percepire i passi sul marmo è molto differente dagli scricchiolii di una pedana. Quell’esperienza mi ricordò uno dei motti di Job: “la scena si sente, non solo si vede”… Sta per arrivare a Roma Memorie del sottosuolo. Ce ne puoi parlare? È la ripresa di uno spettacolo fatto al Teatro India, dove il sottosuolo era stato ambientato in un capannone lungo trenta metri, annullando le volte con delle capriate per dare maggiore profondità. Nella versione teatrale che an- a fianco: il naufragio della famiglia interpretato visivamente da Carmelo Giammello ne L’avaro (2003) 53 asc incontri: giammello in alto: Misura per misura immaginato per Luca Ronconi drà in scena all’Argentina ci siamo ovviamente accorciati e abbiamo dato uno sfogo all’altezza, ricreando una sorta di pozzo, un baratro dove incontriamo i personaggi… …che sono solo tre a differenza del precedente Misura per misura dove erano più di venti, passando dall’affresco di una società decadente al racconto viscerale del “pozzo” di un individuo… Il mio compito è sempre lo stesso: comprendere le intenzioni del regista e cercare di realizzarle. È lui che detta i limiti. Per me affrontare spazi grandi o piccolissimi è sempre un divertimento, una sfida con lo spazio. Non trovo differenze. Una volta ho curato un monologo dove c’era un unico oggetto meccanizzato e mi sono concentrato sui pochi movimenti che voleva il regista. Fra l’altro lo spazio dell’India dove abbiamo fatto Memorie dal sottosuolo era ancora più grande dell’Argentina che ospitò il Misura per misura… Quest’osservazione ci fa capire quanto sia fondamentale il luogo della rappresentazione. Il luogo è importantissimo. Ho lavorato ad uno spettacolo che aveva la prima al Teatro Verdi di Firenze e poi andava a Locarno, in uno spazio piccolo come questa stanza. In casi come questo, dal punto di vista scenografico, i rapporti vanno a farsi friggere. Più in generale, la posizione dello spettatore è sempre determinante nella combinazione dello spazio: se siamo in teatro sappiamo che c’è una convenzione; all’India, ad esempio, lo spettatore vive una sensibilità nettamente diversa. La lontananza, in molti casi, aggiusta tutto ma, se sei vicino, devi dare agli oggetti un valore diverso. Come nel cinema quando inquadri da vicino e l’oggetto ripreso deve “reggere”. A teatro funziona una convenzione che rende possibile tutto, anche che una sedia diventi castello. Al cinema è molto più difficile, c’è una poetica diversa che rincorre maggiormente il realismo. In teatro, infine, hai la possibilità di vedere quello che vuoi, il regista sei tu e dialoghi con la componente interpretativa dello spazio scenografico creato. Detta così sembro rifuggire il cinema ma in realtà mi piacerebbe tantissimo provare a farlo… 54 So che con Marco Tullio Giordana avete tentato un “teatro cinematografico” portando in scena Morte di Galeazzo Ciano di Enzo Siciliano… Quando ci siamo incontrati, Marco mi disse: “io non so niente di teatro e mi affido a te”. In modo incosciente ho pensato di utilizzare un concetto cinematografico nei movimenti scenografici: tutti a vista; pareti che si stringevano e si allargavano, tre nastri trasportatori che permettevano l’ingresso di oggetti scenici e degli stessi attori, grate che scendevano dall’alto, un plafone da cui entrava la luce e via dicendo. Una vera e propria macchina cinematografica che permetteva di passare da un tempo presente ad uno passato con dei movimenti di scena. Un regista di teatro avrebbe avuto paura perché l’apprensione sarebbe stata tanta. Giordana si è affidato completamente alla squadra tecnica nonostante avessimo poco tempo per le prove. Da qui l’incoscienza del progetto… C’è un regista, fra quelli con cui non hai ancora collaborato, con cui ti piacerebbe lavorare? Lavorerei volentieri con Massimo Castri, con cui ho collaborato solo come direttore degli allestimenti. Castri è un regista vero, molto profondo, lavorare con lui sarebbe un’esperienza istruttiva. Peccato che abbia già uno scenografo bravissimo come Maurizio Balò… Vorrei infine chiederti se percepisci una disaffezione dei più giovani verso il teatro e se puoi dargli dei buoni motivi per tornare sui loro passi… C’è sicuramente un problema di linguaggio che riguarda il 90% degli spettacoli, vissuti con insofferenza dai ragazzi, a volte molto a ragione. Ma l’altro 10% vale veramente la pena perché a teatro trovi il momento e, in modo del tutto affascinante, sei inconsapevolmente partecipe di quello che sta accadendo. È un po’ un rito e questo gli attori lo sentono molto. È un momento corale, dove spettacolo e pubblico devono andare in simbiosi. Quando accade questo, lo spettacolo diventa un rito fondamentale, unico e irripetibile. E poi è un fatto di cultura, come leggere un bel libro o una poesia, un po’ per elevare sé stessi anche se è una cosa più faticosa, che ti fa pensare e che devi capire. Per questo dico che sei partecipe: perché il teatro non è mai passivo.