B. PASCAL, Grandezza e miseria dell’uomo.
370. La grandezza dell'uomo. La grandezza dell'uomo è cosí evidente che s'inferisce dalla sua stessa
miseria. Invero, ciò che negli animali è natura, nell'uomo lo chiamiamo miseria: riconoscendo cosí che,
essendo oggi la sua natura simile a quella degli animali, è decaduto da una natura migliore, che era un
tempo la sua.
Infatti, chi si sente infelice di non essere re, se non un re spodestato? Forse che Paolo Emilio era
considerato infelice, perché non era piú console? Al contrario, tutti lo stimavano fortunato di esserlo stato,
perché la sua condizione non era di esserlo sempre. Invece, si giudicava infelicissimo Perseo di non essere
piú re, giacché la sua condizione era di esserlo sempre: tanto che pareva strano che sopportasse ancora la
vita. Chi si stima disgraziato per aver soltanto una bocca? e chi invece non si giudicherà disgraziato di non
avere se non un occhio solo? A nessuno forse è mai passato per la mente di affliggersi di non aver tre occhi;
ma chi ne è del tutto privo è inconsolabile. [...]
377. L'uomo è solo una canna, la piú fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che
l'universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d'acqua bastano a ucciderlo. Ma,
quand'anche l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe pur sempre piú nobile di quel che lo uccide, perché
sa di morire, e la superiorità che l'universo ha su di lui; mentre l'universo non ne sa nulla.
Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiam cercare la ragione di elevarci, e non nello
spazio e nella durata, che non potremmo riempire. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della
morale.
B. Pascal, Pensieri S. 370, 377; B. 409, 347
B. PASCAL, Le ragioni del cuore
144. Noi conosciamo la Verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest'ultimo modo
conosciamo i princípi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d'impugnare la certezza. I
pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne
giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell'incapacità serve solo a dimostrare la debolezza
della nostra ragione, e non come essi pretendono, l'incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la
cognizione dei primi princípi - come l'esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri -, è
altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e
dell'istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo
spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri
quadrati l'uno dei quali sia doppio dell'altro. I princípi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto
con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore
prove dei suoi primi princípi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse
alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle.
Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e
non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d'istruirci. Piacesse a Dio, che,
all'opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la
natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie;
tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento.
Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben
legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l'hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del
ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente
umana, e inutile per la salvezza.
146. Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il
cuore ama naturalmente l'Essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui
o verso di sé; e che s'indurisce contro l'uno o contro l'altro per propria elezione. Voi avete respinto l'uno e
conservato l'altro: amate forse voi stessi per ragione?
B. Pascal, Pensieri S. 144, 146; B. 282, 277
HEIDEGGER, Sull’esserci
Heidegger considera in questa lettura il rapporto che noi abbiamo con noi stessi, con l’Essere e con il
mondo. Dell’ontologia dell’esserci il filosofo tedesco mette in evidenza la categoria fondamentale della
temporalità.
Nella delineazione dei compiti relativi alla “posizione” del problema dell'essere, è venuto in chiaro che non
è sufficiente stabilire quale sia l'ente da interrogarsi per primo, ma che occorre anche il possesso esplicito e
la sicura garanzia della giusta via d’accesso a questo ente.
Abbiamo già discusso quale sia l'ente che giuoca il ruolo principale in seno al problema dell'essere. Ma
dobbiamo chiederci come questo ente, l'Esserci, possa riuscire accessibile e, per cosí dire, esser preso di
mira nell'interpretazione comprendente.
Il primato ontico-ontologico che si dimostrò proprio dell'Esserci potrebbe sviarci nella falsa opinione che
questo ente sia anche il primo a esser dato in sede ontico-ontologica, non solo nel senso di una afferrabilità
“immediata” di questo ente stesso, ma anche nel senso di una altrettanto “immediata” accessibilità al suo
modo di essere. Certamente l'Esserci non solo ci è onticamente vicino, o anche il piú vicino di tutto, ma noi
stessi lo siamo anche sempre. Nonostante ciò, o proprio per ciò, esso è ontologicamente ciò che vi è di piú
lontano da noi. Certo rientra in ciò che il suo essere ha di piú proprio di avere una comprensione di tale
essere, nonché di mantenersi già sempre in un certo stato di interpretazione del proprio essere. Ma con ciò
non si vuole assolutamente dire che questa piú prossima interpretazione pre-ontologica di se stesso possa
fungere da filo conduttore adeguato, quasi fosse accertato che tale comprensione dell'essere debba
scaturire da una riflessione tematicamente ontologica della piú propria costituzione dell'essere. L'Esserci,
piuttosto, a causa di un modo di essere che gli è proprio, tende a comprendere il proprio essere in
base all'ente a cui si rapporta in linea essenzialmente costante e innanzitutto, cioè in base al “mondo”. Fa
parte dell'Esserci, e perciò della comprensione d'essere che gli è propria, ciò che noi mostreremo come il
riflettersi ontologico della comprensione del mondo sulla interpretazione dell'Esserci.
Il primato ontico-ontologico dell'Esserci è dunque la causa del fatto che all'Esserci resta nascosta la sua
specifica costituzione d'essere, intesa nel senso della struttura “categoriale” che è propria di esso. L'Esserci
è, onticamente, “vicinissimo” a se stesso, ontologicamente lontanissimo, ma pre-ontologicamente tuttavia
non estraneo.
Con ciò non si è voluto che far vedere provvisoriamente come un'interpretazione di questo ente incontri
particolari difficoltà, che si fondano nel modo di essere dell'oggetto tematizzato e dello stesso
comportamento tematizzante e non in una difettosa dotazione delle nostre facoltà conoscitive o nella
mancanza, apparentemente facile a eliminarsi, di un apparato concettuale adeguato.
Ma poiché l'Esserci, oltre a implicare la comprensione dell'essere, è tale che questa comprensione si
sviluppa o fallisce col mutevole modo di essere dell'Esserci stesso, viene a essere disponibile un ricco
patrimonio di interpretazioni. La psicologia filosofica, l'antropologia, l'etica, la “politica”, la poesia, la
biografia, la narrativa storica hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le
facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell'Esserci. Ma resta da vedere se queste interpretazioni furono
condotte con quella originarietà esistenziale che può darsi posseggano sul piano esistentivo. Le due cose,
anche se non si escludono, non vanno necessariamente assieme. L'interpretazione esistentiva può esigere
una analitica esistenziale qualora la conoscenza filosofica sia stata intesa nella sua possibilità e nella sua
necessità. Ciò che è stato finora raggiunto in fatto di interpretazione dell'Essere potrà ottenere la sua
giustificazione esistenziale solo quando le strutture fondamentali dell'Esserci saranno state
sufficientemente analizzate in un orientamento esplicito nel problema dell'essere stesso.
L’analitica dell'Esserci resta dunque l'esigenza prima nel problema dell'essere. Ma, in questo caso, il
problema del reperimento e della assicurazione della via d'accesso all'Esserci incomincia a diventare
veramente scottante. Esprimendoci negativamente: non è lecito far ricorso a un'idea casuale dell'essere e
della realtà, per “ovvia” che essa sia, e poi applicarla all'Esserci con procedimento costruttivo e dogmatico;
non è lecito costringere l'Esserci a sottostare a “categorie” desunte da quell'idea, senza un appropriato
esame ontologico. Le modalità di accesso e di interpretazione debbono piuttosto esser scelte in modo che
questo ente possa mostrarsi da se stesso e in se stesso. E in verità l'ente dovrà mostrarsi cosí
com'è innanzitutto e per lo piú, nella sua quotidianità media. Di essa non verranno poste in luce strutture
qualsiasi e accidentali, ma quelle essenziali, cioè quelle che si mantengono ontologicamente determinanti
in ogni modo di essere dell'Esserci effettivo. Con riferimento alla costituzione fondamentale della
quotidianità dell’Esserci avrà quindi luogo la chiarificazione preparatoria dell'essere in questo ente.
L'analitica dell'Esserci cosí intesa è completamente orientata nel senso del compito conduttore della
elaborazione del problema dell'essere. Con ciò si determinano anche i suoi confini. Essa non pretende di
offrire un'ontologia completa dell'Esserci, ontologia che deve certamente esser costruita se qualcosa come
un’antropologia “filosofica” deve poggiare su basi filosoficamente sufficienti. In vista di un'antropologia
possibile o della sua fondazione ontologica, l'interpretazione che segue non offre che alcuni “frammenti”,
anche se tutt'altro che inessenziali. Ma l'analisi dell'Esserci, oltre che incompleta, è anche provvisoria. Essa
incomincia col porre semplicemente in luce l'essere di questo ente, ma non offre l'interpretazione del suo
senso. Essa deve piuttosto preparare l'ostensione dell'orizzonte dell'interpretazione dell'essere piú
originaria di tutte. Una volta assolto questo compito, l'analitica dell'Esserci di carattere preparatorio
richiede la sua ripetizione su basi ontologiche piú alte e autentiche.
La temporalità (Zeitlichkeit) verrà chiarita come il senso dell'essere dell'ente che chiamiamo Esserci. Questa
dimostrazione dev'essere comprovata mediante la ripetizione dell'interpretazione delle strutture
dell'Esserci provvisoriamente esibite come modi della temporalità. Ma l'interpretazione dell'Esserci come
temporalità non costituisce, come tale, la risposta al problema conduttore che concerne il senso dell'essere
in generale. Essa appronta però il terreno per trovare questa soluzione.
M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, 1927, trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976,
II, pagg. 32-35