L`ARDITA AVVENTURA

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L’ARDITA AVVENTURA
DELL’IDEALISMO TEDESCO
Introduzione a Fichte1
I filosofi non si arrendono mai. Spesso e volentieri mettono in discussione le cosiddette
"conquiste" del passato, anche quelle più consolidate, più "convincenti " E' l'habitus che
sarebbe opportuno che tu acquisissi: l'abitudine ad usare costantemente l'arma dei dubbio, di
non dare mai niente di scontato, di mettere in discussione anche le "verità' sbandierate dai
“grandi”.
Come sai, se vuoi essere un “filosofo” - cioè un ricercatore della verità - devi avere
l'atteggiamento tipico del "bambino”: devi, cioè, provare STUPORE, MERAVIGLIA di fronte al
mondo, alla vita Non devi, cioè, abituarti a vedere tutto come “familiare”, come qualcosa di
“scontato” e che quindi non merita essere messo in discussione. La vita, il mondo, sono
sicuramente qualcosa di STRANO, hanno qualcosa di “MISTERIOSO”, di ENIGMATICO.
Si tratta di uno STUPORE che gli "adulti” (e forse sei anche tu un “adulto”, anche se sei
giovane di età) perdono. Io, nei panni di Socrate, ho cercato in questo lungo VIAGGIO di
risvegliare in te la meraviglia, la curiosità che avevi da bambino E lo farò ancora nel percorso
che stiamo per intraprendere
E’ contraddittorio pensare ad un mondo esterno al pensiero?
Per i "critici " di Kant (vedi, ad esempio, Reinhold, Schulze, Maimon, Beck) la "cosa in sé
kantiana è un concetto CONTRADDITTORIO Puoi intuire in che senso?
E' quanto abbiamo finora detto: il concetto di cosa in sé significa che la cosa in sé è
“concepita", ma se è concepita, non può essere in sé. In altre parole la cosa in sé sarebbe
'concepita' in quanto abbiamo il concetto di essa e “non concepita" in quanto la consideriamo
'cosa in sé'.
Di questo passo, però, dovresti negare anche l'esistenza di casa tua indipendentemente dal tuo
pensarla: proprio perché la pensi - concepisci - indipendentemente dal tuo pensiero, ti
contraddici. Non ti sembra troppo?
Mi sembra però coerente il discorso.
1
Johann Gottlieb Fichte nasce a Rammenau, in Germania, nel 1762. Di famiglia estremamente povera, studia solo
grazie agli aiuti di un mecenate. Diventa dottore in teologia. Per alcuni anni fa il precettore, professione che lo porta in
diverse località della Svizzera e della Germania. Nel 1790 incomincia a leggere le opere di Kant, opere che gli lasciano
un segno marcato. Nel 1792 pubblica la "Critica di ogni rivelazione", saggio che per un disguido esce anonimo. Viene
subito accolto con grande entusiasmo come un'opera di Kant. Quando quest'ultimo rivela il nome dell'autore, Fichte
diventa ben presto un astro nella cultura filosofica tedesca. Nel 1794 pubblica il suo capolavoro: i "Fondamenti
dell'intera dottrina della scienza" (titolo originale: Grundlage der gesamten Wissenschaftlehre). Viene chiamato - grazie
all'appoggio di Goethe - ad insegnare all'università di Jena dove rimane fino al 1799. Prepara alcune nuove versioni
della "Dottrina della scienza", dottrine che saranno pubblicate postume. Nel 1798 scoppia la cosiddetta "disputa
sull'ateismo" (Atheismusstreit) che ha origine da un articolo di Fichte che sostiene la concezione di un Dio non come
una Persona trascendente, ma come ordine morale del mondo. Fichte subisce un'indagine accademica alla fine della
quale si trova isolato ed è costretto di fatto a dimettersi dall'insegnamento. Si trasferisce a Berlino dove rimane fino al
1805 tenendo lezioni private. Qui inizia un profondo travaglio filosofico che lo conduce ad una svolta in senso mistico.
Nel 1905 viene chiamato all'università di Erlangen, ma vi rimane solo un semestre a causa della guerra in corso contro
Napoleone. A Berlino pubblica "I tratti caratteristici dell'età presente", "L'essenza del dotto e le sue manifestazioni nel
regno della libertà" e l'"Introduzione alla vita beata". Nel 1808 riscuote un nuovo successo con i famosi "Discorsi alla
nazione tedesca", un documento politico di grande rilievo. Nel 1810 diventa rettore dell'università di Berlino, incarico
che mantiene fino al 1812. Muore nel 1814 a causa di una febbre infettiva che si sviluppa durante la guerra
antinapoleonica (quinta coalizione).
Questo è, infatti. in sintesi il senso di fondo della critica dei critici di Kant (al di là delle diverse
posizioni individuali). La cosa in sé sarebbe, cioè, un concetto "contraddittorio”.
Abbiamo definito il termine “percepire”. Ora utilizziamo il termine 'pensiero' come sinonimo di
“percepire” (è in fondo il significato di Cartesio: cogito significa “percepire qualcosa", "aver
presente qualcosa. Se il concetto di "cosa in sé” è contraddittorio, questo vuol dire che non vi è
"nulla al di fuori del pensiero”. 0 no?
Certo. Riprendo il discorso fatto proprio all'inizio di questo percorso: se ci fosse qualcosa di
esterno al pensiero (percepire), per verificarne l'esistenza dovrei uscire dal percepire per
percepire che esiste qualcosa di esterno al percepire il che sarebbe contraddittorio.
Ma.. come si può negare che le stelle hanno una foro esistenza in sé, indipendentemente dal
tuo pensiero? Non esistono anche se tu non le pensi, anche se l'uomo non fosse mai nato a
pensarle?
Che sia una tesi che va contro il senso comune è un fatto. Ma è certo che sarebbe assurdo
percepire qualcosa di esterno al percepire.
Proviamo ad analizzare il concetto di "al di fuori" Chi si sbarazza del concetto di “'cosa in sé '
come contraddittorio, arriva a sostenere che non vi è nulla "al di fuori" del pensiero. Cosa si
intende per questo "al di fuori”?
Qualcosa di "non pensato", di "non percepito”.
Non siamo alle solite? Se leggi l'espressione in questo senso, non arrivi a negare l'esistenza di
qualcosa che non è pensato e anche l'esistenza di qualcosa quando non è pensato? Ora questo
non ti pare degno di chi ha… la testa nelle nuvole? Non è questa la critica che spesso si fa ai
filosofi?
Nuvole o no, qui ci troviamo di fronte ad un discorso che ha una logica stringente.
Ti propongo una nuova pista Quando si dice che non esiste nulla al di fuori dei pensiero, cosa si
intende per “pensiero”? Il “mio” pensiero?
E' ovvio: il "cogito" (il pensiero di cui parlo) non può che essere "mio”.
Se fosse corretta la tua interpretazione, non farebbe cadere la tesi secondo cui non vi è nulla al
di fuori dei pensiero? Se, infatti, per pensiero intendo il "mio” pensiero, potrei benissimo
affermare che al di fuori del mio pensiero esistono cose pensate da altri, al limite da Dio. Non è
vero?
Perché sia contraddittorio il concetto di “cosa in sé”, occorre che intendiamo la cosa in sé come
non concepita tout court (non concepita da me). Perché mai non potremmo pensare che
esistono cose anche se non sono presenti a me? Perché non potremmo pensare, cioè, che
esistono cose pensate da altri, in ultima analisi da Dio?
Perché per dire che esistono altri che pensano, dovrei uscire dal percepire per percepire che
esistono altri al di fuori dei percepire, il che è impossibile.
Ma questo non è solipsismo (esiste solo l’”io”), cioè una sorta di… paranoia?
Sarà solipsismo, ma non vedo vie di uscita.
Stiamo cercando faticosamente la verità, un “fondamento” che sia roccioso. E questo nello
spirito cartesiano, con l'atteggiamento, cioè, di mettere in discussione tutto, anche quello che
ci sembra indiscutibile (come l'esistenza di altri "io", come l'esistenza delle stelle al di là del
fatto che sono pensate). Senti: la tesi che considera contraddittoria la cosa in sé (il noumeno),
mette in discussione anche il fenomeno?
Se il fenomeno è la cosa in quanto appare, non essendoci più la cosa in sé, non vi è più
neanche la cosa 'in quanto appare', ma la cosa che appare è la 'cosa' e basta.
La tesi secondo cui "non esiste niente al di fuori del pensiero” è il cuore dell'IDEAMSMO
TEDESCO (di cui parleremo a lungo). La tesi secondo cui esiste qualcosa di esterno al pensiero
(qualcosa che esiste in sé, prescindendo dal fatto che sia pensato) è il cuore dei REALISMO. Vi
è, secondo te, qualcuno che ha anticipato la tesi idealistica?
Certo: Berkeley. E' lui che ha sostenuto che l'essere delle cose consiste nel loro essere
'percepite': non dice ESSE EST PERCIPI?
Berkeley ha in qualche modo anticipato l'idealismo tedesco (nella misura in cui per lui è
assurdo pensare che vi sia qualcosa di esterno al pensare, per cui la cosa consiste nel suo
essere percepita). In qualche misura, però, in quanto per lui la Realtà suprema - Dio - è al di
fuori del pensiero umano. Un'ulteriore chiarificazione: per l'idealismo la tesi "non vi è nulla al di
fuori dei pensiero" equivale alla tesi 'non vi è nulla al di fuori dello spirito”. Puoi intuire il
perché?
Certo: l'idealismo è sulla scia di Cartesio, scia che, tramite l'empirismo humiano, arriva fino a
Kant, secondo cui pensiero e spirito sunt idem, sono cioè la stessa cosa.
Di sicuro è sulla scia di Cartesio (riprenderemo il discorso), ma non puoi dire che per
l'empirismo humiano il pensiero sia "spinto” (lo sai che l'empirismo ha demolito il concetto di
"sostanza pensante” cartesiana, sostanza intesa come spirituale).
Sulla scia di Cartesio l'idealismo traduce la tesi "non vi e nulla al di fuori del pensiero" come
“non vi è nulla al di fuori dello spirito”. Questo vuoi dire che non esiste la materia, che la
penna che hai in mano è... spirito?
Non posso pensare che per gli idealisti le cose siano spirito. Se siamo coerenti con quanto
finora detto, dobbiamo dire che le cose sono oggetto del pensiero, cioè oggetto delle spirito,
ma non sono spirito.
Ma se non vi è nulla al di fuori dello spirito, come si fa a dire che le cose non sono spirituali,
ma semplicemente oggetto dello spirito? Non ti sembra una presa in giro?
Nessuna presa in giro: l'oggetto dei pensiero non è tout court pensiero!
Non vi è nulla al di fuori del pensiero=il pensiero è infinito?
Non vi è nulla al di fuori del pensiero (o non vi è nulla al di fuori dello spirito): questo vuol dire
che il pensiero è INFINITO?
Mi pare la logica conseguenza: se non vi è nulla al di fuori dei pensiero, il pensiero non è
“delimitato" da nulla, cioè non ha limiti, non ha confini ("fines” in latino), cioè è non finito, cioè
è in-finito.
Ma non ci troveremmo di fronte ad una vera e propria "bestemmia"? Non si affermerebbe,
cioè, che l'uomo è Dio!
Bestemmia o no, questa è la logica conseguenza dell’idealismo!
Ti ho impostato "il problema" E te l'ho impostato nella sua complessità, evidenziando anche le
conseguenze del percorso idealistico Prima di passare all'esame dell'avventura (proibita?)
dell'idealismo, è utile che tu sappia che i critici della cosa in sé di Kant (che spianano la strada
all'idealismo) sentono l'esigenza di superare i vari "dualismi” di Kant (non solo tra fenomeno e
noumeno, ma anche fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale).
E' quanto abbiamo fatto noi parlando di 'percepire ", 'pensiero " nell'accezione di "aver
presente qualcosa" (loro, invece della distinzione tra sensi ed intelletto, parlano di
"rappresentazione, "coscienza", con lo stesso significato di “percepire”, “pensiero”.
Il pensiero è infinito, in ultima analisi è Dio (se l'infinito è l’attributo per eccellenza di Dio). Ti
sembrerà blasfema, addirittura delirante (espressione del delirio di onnipotenza dell’uomo!).
Di sicuro, quello idealistico, è un percorso arditissimo. Vediamo di approfondirlo.
L’idealismo: un ritorno alla metafisica?
Per Kant la metafisica è impossibile. E per l’ottica idealistica?
Mi pare scontato: dato che la cosa in sé, esterna al pensiero, non esiste, allora ciò che appare
è il Tutto, cioè il classico oggetto della metafisica.
Se per metafisica intendiamo lo studio dell’essere, non
essendoci nulla al di fuori del pensiero, ciò che appare è
TUTTO L’ESSERE, cioè l’oggetto classico della metafisica.
Il pensiero è Tutto, l'Intero, non è una cosa tra le cose perché ogni cosa di cui parliamo è
appunto… pensato, cioè rientra nell’orizzonte del pensiero. Non si tratta, quindi, del pensiero
inteso come atto di un individuo: tutte le cose, e quindi anche tutti gli individui sono in
quanto “pensati”, in quanto rientrano nell’orizzonte del pensiero. Anche I’"Io penso” di Kant
non è l'atto di un individuo. E il pensiero - nell'ottica idealistica - va oltre I"'lo penso" di Kant.
L"'lo penso" kantiano, infatti, non è in
finito in quanto lascia fuori di sé il
noumeno, la cosa in sé. Cosa dici di tutto questo discorso?
Mi pare letteralmente folle separare il pensiero dal singolo uomo che pensa: se non ci fosse un
cervello, come si potrebbe pensare, aver presente qualcosa? Il coma non è la conseguenza di
lesioni cerebrali?
Sarà folle, ma - se si vuole essere coerenti con l'abolizione della cosa in sé - vi sono
alternative?
Cos'è il cervello se non qualcosa di cui parliamo, cioè qualcosa che è "è presente”, che "entra
nell'orizzonte del pensiero”?
Scaviamo. Se un mondo esterno al pensiero non esiste (né l'universo, né Dio), se cioè non
esiste qualcosa di esterno al pensare che causa ciò che appare, allora ciò che appare è
prodotto…
Non vedo altra soluzione: è prodotto dallo stesso pensiero.
Non ti sembra demenziale il tuo discorso? Non lo sanno tutti (senza scomodare Cartesio e
Kant) che noi siamo passivi di fronte alle cose che appaiono e, quindi, non possiamo noi
esserne i creatori?
Macché demenziale! E' solo coerenza.
Una volta escluso un mondo esterno quale causa di ciò che compare, dovremmo dire che il
mondo che appare è il prodotto dello stesso pensiero. Questo, però, cozza contro il fatto
(indubitabile) che noi ci sentiamo passivi di fronte alle cose che appaiono (almeno a quelle che
Cartesio chiamava "idee avventizie). E allora?
Allora l’idealismo si trova in un... cul de sac e, quindi, non sta in piedi.
Ma in cul de sac non si trova chi sostiene l’esistenza di qualcosa di inconoscibile al di là del
pensiero? Non ne abbiamo già chiarito l'assurdità?
Allora, o si trova una soluzione al problema della “passività” della mente umana di fronte alle
cose che appaiono, oppure si deve fare retromarcia mantenendo quella x che è la cosa in sé,
mantenendo, cioè, quello che è stato dichiarato un concetto "contraddittorio”. Si può allora,
all'interno dell'idealismo, giustificare la passività della mente umana?
Io ti propongo di immergerti nel primo pensatore idealista Johann Gottlied FICHTE.
Fichte parte da un fatto, vale a dire la COSCIENZA (parte cioè dalla semplificazione – contro i
dualismi kantiani - operata dai discepoli di Kant stesso). Proviamo leggere questo “fatto" di
che cosa è costituito?
Ovviamente di un "soggetto” e di un "oggetto”: la coscienza, cioè, è coscienza da parte dì un
soggetto di un oggetto (è l'aver presente qualcosa da parte di un soggetto).
Ma Hume non ha spazzato via il concetto di “io" riducendolo ad un fascio di percezioni?
E' vero. Per Fichte, tuttavia, non ci sarebbe la "coscienza” se non ci fosse un “io” (un
"soggetto”) che percepisce e non ci fosse un “oggetto” percepito. In altre parole per Fichte la
coscienza è costituita da un "io " che percepisce e da qualcosa che è "di fronte” all’io, "contro”
l'io (appunto l'oggetto). Cosa ne dici?
Eureka! Se l'oggetto implica il soggetto, allora l'oggetto non ha bisogno, per essere spiegato,
di un inondo esterno alla coscienza (al pensiero, al percepire).
Il problema non ti sembra un altro? Questo oggetto - che è percepito dal soggetto - proviene
dall’esterno del pensiero o dall'interno? Ora non può provenire dall’interno perché noi ci
sentiamo passivi di fronte alle cose!
E allora? Non vi è alcuna via di uscita?
Fichte è convinto di aver trovato la soluzione ai problema riprendendo l'antica dottrina di
Eraclito secondo la quale gli opposti si implicano a vicenda. Il concetto di "io” implica il
concetto di "non io", il concetto di "soggetto" implica il concetto di "oggetto": non vi è l'uno
senza l'altro. Vediamo di scavare. Il mondo (la "natura", gli "oggetti", il "non io”) è un
prodotto dell’io o no?
Come potrebbe essere un prodotto dell’io se l'io è spirito e la natura ha caratteristiche che si
contrappongono allo spirito?
Ma so la natura non fosse prodotta dall'io, non si dovrebbe spiegarla riesumando il concetto
"contraddittorio" di cosa in sé?
Come si spiega all'interno dell'idealismo la passività della mente umana? Questo è il problema.
Il fatto della coscienza indica chiaramente la passività: l'io si trova "di fronte" qualcosa che
non è io, qualcosa che si trova, appunto, di fronte, qualcosa, in altre parole, di fronte al quale
si sente passivo. La dottrina eraclitea risolve veramente il problema?
Mi pare una trovata e basta: come farei io a sentirmi passivo di fronte alla natura che appare
se detta natura fosse “implicata” dall’io?
Come no? E’ vero che gli opposti si implicano a vicenda (per cui non vi è l'uno senza l'altro),
ma non è anche vero che gli opposti si avvertono "come opposti"? L'io, quindi, perché non
dovrebbe sentire come opposto il "non io", come passivo di fronte ad esso?
Quali sono le condizioni che rendono possibile il fatto della coscienza?
Seguiamo il percorso di Fichte. Ti anticipo che è piuttosto complesso. Ti consiglio, quindi, di
armarti di concentrazione (non perdere alcun passaggio e rifletti sempre!). La coscienza e un
“fatto. Come si spiega questo fatto? 0 meglio quali sono le condizioni che rendono possibile
questo fatto? Cerca di intuire!
Perché ci sia coscienza, occorre (immagino) che l'io sia cosciente a se stesso: come potrebbe
avvertire che ha di fronte qualcosa che è "altro dall'io", se non avesse presente se stesso?
Ma.. non è vero che gli animati percepiscono il mondo? Ora ti sembra che gli animali, per
percepire tale mondo, siano autocoscienti?
Credo di no.
Fichte parla dell’uomo, o meglio della coscienza umana e, per lui, la coscienza di altro da sé
presuppone l’autocoscienza. Perché l’io possa percepire qualcosa di altro da sé, occorre che
l’io “rifletta” su se stesso. Il “fatto” della coscienza (checché ne dicessero i discepoli critici di
Kant che abbiamo visto) non è il Principio , non è il 'punto di riferimento’, non è il
'fondamento' del sapere: il 'fatto" della coscienza presuppone un A TTO, un'attività, l'attività
dell'io che riflette su se stesso.
Nel momento dell'autocoscienza l'io non ha di fronte qualcosa di altro da sè, non è, cioè,
limitato da altro. Proprio perché si tratta di un io non delimitato da altro, Fichte lo chiama IO
INFINITO o IO PURO (nel senso di non condizionato da limiti). La coscienza, quindi (la
coscienza limitata dell’uomo, l’aver presente, cioè, da parte dell'uomo qualcosa di altro da sé)
presuppone un IO infinito, un IO (lo scriviamo con la lettera maiuscola) che è ATTIVITA’.
Siamo di fronte, dunque, ad un Io che si “autocrea" nel senso che si coglie come IO
"riflettendo" su se stesso, con attività. Si "tra di un I0 che si fa (se intendiamo per fare "
l'attività con cui l’Io riflette su sé stesso). Cosa ne dici?
Ho qualche difficoltà a seguire il discorso. Mi pare convincente il discorso secondo cui per
percepire qualcosa di altro da me, io ho bisogno di cogliermi come IO, ma non riesco a capire
come si possa aggiungere che questo 1O è infinito. Mi pare un salto non motivato.
E' comprensibilissima la tua reazione. Qui si tratta di intenderci: se per "infinito” si intende
qualcosa di "non delimitato da altro da sé”, allora l'autocoscienza che è l'atto del cogliersi
dell’io, non può che essere infinita (nell'autocoscienza non vi è l'oggetto in quanto “altro”
dall’io).
L’autocoscienza, il presupposto della coscienza, è, per Fichte il FONDAMENTO assoluto, il
PRINCIPIO. Per lui lo stesso principio di identità noti è un “principio” in quanto presuppone
l'autocoscienza nel senso che A =A SOLO SE 'A ' VIENE POSTO DALL’IO.
Forse le tue meningi si stanno fondendo (o no?). Ti chiedo, quindi, un grande sforzo
intellettuale. Cerchiamo di chiarire meglio i termini. Il principio di identità è l'altra faccia del
principio di non contraddizione. 0 meglio le due formulazioni (identità e non contraddizione
sono due facce dello stesso principio (proprio perché A =A, A non può essere sotto lo stesso
aspetto A e non A). Ti ricordi perché per Aristotele il p. a. n. c. è un principio “primo”?
Certo: è il primo perché non è dimostrabile.
Ma… che sapere è un sapere che non dimostra i suoi principi?
E come dimostrarli? Il principio di non contraddizione non è deducibile da altro perché qualsiasi
altra proposizione presuppone il principio di non contraddizione.
E' quanto sostiene Aristotele: per lui se si dimostrasse tutto, si avrebbe un processo
all'infinito…
Si tratta (il p. d n. c.) di una convenzione?
Ovviamente no: come può essere una convenzione, se ogni proposizione presuppone il
principio di non contraddizione?
Ma non lo sanno tutti che i principi (postulati, definizioni) che sono alla base delle scienze della stessa geometria - sono delle convenzioni?
No: per Aristotele gli stessi principi che si trovano alla base della geometria presuppongono il
p. d. n. c.
Infatti. Aristotele arriva a dire che il principio di non contraddizione è tanto “primo” che chi lo
nega si contraddice. Torniamo a Fichte. Per lui il principio di identità non è “primo " perché
presuppone che vi sia un "io” che parli di A, che lo pensi (che lo 'ponga' se vogliamo usare il
linguaggio fichtiano). Solo se A viene pensato, posto da un "io”, allora A =A. Ora l'io non può
pensare A se prima non ha pensato a se stesso, se non ha colto sé come esistente.
Il principio di identità, dunque, non è il principio primo della scienza in quanto presuppone
un'altra identità: l’IO=IO (presuppone, cioè, che l'io si colga - con l'autocoscienza - identico a
se stesso). E’ I'autocoscienza (o meglio Autocoscienza), quindi, il FONDAMENTO di ogni sapere
(o, come chiama la filosofia della “SCIENZA”.
Proseguiamo. La coscienza (umana, limitata da qualcosa di altro da sé) non presuppone, però,
solo l'ATTO dell'autocoscienza ma…
(mi pare scontato) presuppone che l'Io produca il non io, l'oggetto, la natura: come si
spiegherebbe, altrimenti, la presenza di qualcosa di altro dall’io se non fosse lo stesso IO a
produrla?
Ma se fosse così, l’Io infinito, nella misura in cui ha di fronte qualcosa che è altro da sé, non
sarebbe ... finito (cioè delimitato da altro)?
Infatti.
La formula fichtiana è L'IO PONE IL NON IO. Fichte non vede alternative: la coscienza umana,
una volta si è abbattuto il concetto contraddittorio di una realtà esterna al pensiero,
presuppone che il mondo che appare - dato che non può essere prodotto da un mondo esterno
al pensiero - venga “posto” (prodotto) dallo stesso lo. Il mondo, cioè (checché ne dica l'uomo
della strada o anche il filosofo realista) non ha una sua autonomia rispetto al pensiero.
Il mondo, cioè - inteso come "non-io ", come qualcosa che si trova contrapposto all'Io - non ha
una autonomia rispetto al pensiero, ma è, in sintonia con la DIALETTICA di Eraclito – in stretta
relazione con l'Io (è l'Io che implica il non-io; l'Io non avrebbe senso senza il suo opposto).
L'io, quindi, non solo è ATTIVO nella misura in cui si autocrea (riflettendo su se stesso), ma
ponendo anche il mondo di fronte a sé. Va chiarito che il non-io è, sì, opposto all'Io, ma tale
non-io non viene posto, ovviamente, fuori dell'Io (fuori dei pensiero), ma "nell'Io ", nel
pensiero stesso. Quindi…
(se ho capito bene) l'Io è insieme "finito" - in quanto si trova limitato dal non-io - ed "infinito"
in quanto il mondo esiste solo all’interno dell'Io.
Ma se fosse così, Fichte violerebbe lo stesso principio di non contraddizione?
E allora?
Non si tratta di una contraddizione: l'Io, infatti (secondo Fichte) è infinito ed infinito sotto
aspetti diversi
L’Io finito, cioè delimitato da altro da sé, non è che la "coscienza umana" da cui siamo da cui
partiti, una coscienza che è costituita da un soggetto (io) e da un oggetto (non-io). Fichte
chiama questo io delimitato l'io empirico", cioè finito. Naturalmente anche il mondo (la natura
ciò che appare, il non-io), che si trova di fronte all’io empirico, è "finito”. Fichte, anzi, parla di
più "io empirici " e più “cose”.
Queste la formula tecnica di Fíchte. Dopo il primo principio "IO PONE L'IO " e il secondo “L’IO
PONE IL NON IO", Fichte introduce un terzo principio: L'IO OPPONE MELL'IO ALL'IO DIVSIBILE
UN NON-IO DIVISIBILE”. Tenendo conto che Fichte usa il termine "divisibile” per "molteplice ,
fìnito”, l’astrusa formula non vuol dire altro che quanto abbiamo già detto: l'Io oppone, al
proprio interno, alle coscienze umane (io empirici, finiti) un mondo finito, molteplice.
La coscienza, quindi, (se vogliamo riepilogare) non è il FONDAMENTO del sapere (o della
"scienza " come dice Fichte) in quanto presuppone l'attività dell'Io che 'pone se stesso'. che
'pone il non-io' e che "oppone all'io empirico un mondo finito”. A questo punto ti chiedo: l’Io
Puro, - dato che non è la coscienza umana, cos’è?
Immagino che sia Dio (naturalmente un Dio non trascendente, ma immanente). Ho
l’impressione, infatti, di trovarmi di fronte - anche se il linguaggio è diverso - alla funzione
creatrice di Dio.
Perché mai si dovrebbe scomodare Dio? Perché l’Io non dovrebbe essere lo stesso pensiero
umano?
Ma l'Io ha le caratteristiche divine quale l'infinità e la capacità di creare.
Che abbia caratteristiche divine quali l’infinità e la capacità di creare (“porre”) è vero. Fichte,
però, lo caratterizza come IO in quanto è il presupposto dell'io empirico (di quell'io, cioè che
nella coscienza umana ha di fronte un non-io).
Per Fichte IO PURO non è altro che il “pensiero umano ", non è altro che “l’insieme degli io
finiti. L'IO PURO, anche se presenta caratteristiche divine, viene caratterizzato da Fichte come
"Io", come Soggetto (da qui l'espressione "IDEALISMO SOGGETTIVO" con la quale si denomina
l'ídealismo flchtiano). Torniamo a questo punto al “problema” per eccellenza. come si spiega,
all'interno dell'idealismo, la passività della nostra mente di fronte al mondo? Il complesso
discorso di Fichte risponde in modo convincente al quesito?
Ho qualche dubbio. Non riesco a capire come mai il mondo - che pure è prodotto del pensiero
- a noi risulta come qualcosa che ha una sua autonomia rispetto al pensiero, qualcosa di
fronte a cui l'uomo si sente passivo
Hai focalizzato bene la questione. Il problema della passività della mente umana di fronte al
mondo (che percepisce come un “dato”, come qualcosa che ha una sua indipendenza dal
pensiero) è, indubbiamente, IL PROBLEMA dell'idealismo. Fichte introduce un'espressione (che
ruba a Kant): L’IMMAGINAZIONE PRODUTTIVA”. Si tratta dell'attività dell’Io Puro che pone il
mondo, un’attività che non può che essere INCONSCIA perché la coscienza presuppone che vi
siano un "soggetto "ed un "oggetto”.
Non so se ti ha convinto. A questo punto mi interessa che tu comprenda lo sforzo teoretico
di Fíchte. Se la “coscienza” - dice - presuppone la distinzione di un “soggetto” e di un
“oggetto”, presuppone, cioè, che vi sia un "io" che ha di fronte un “non-io”, è chiaro che
l'Io Puro, nel suo atto creativo, non ha ancora un non-io di fronte e quindi la sua attività è
INCONSCIA. Ecco perché, secondo Fichte, il mondo - pur essendo prodotto dall'Io - viene
percepito dall'uomo come indipendente.
E' il caso di chiarire che per Fichte l'Io autocosciente, l'Io che pone il non-io e l'Io che oppone
al proprio interno all'io finito un mondo finito, non sono tappe cronologiche (per cui “prima” vi
è l’Io autocosciente, poi…), ma momenti "logici", nel senso che la coscienza presuppone
logicamente (altrimenti non si spiegherebbe) dette attività. A questo punto è opportuno - per
evidenziare ulteriormente il pensiero di Fichte - confrontare l’approccio "idealistico”
e
I’approccio “realistico”.
Riesce a spiegare meglio la coscienza umana l’ “idealismo” o il “realismo”?
Ti sembra che l'approccio 'realistico' spieghi meglio la coscienza dell'approccio
"idealistico"?
Mi pare ovvio: nell'ottica realistica (l'ottica dell’uomo comune) il problema principe
dell’idealismo - cioè la passività della niente umana di fronte al mondo che appare - è
spiegato benissimo (anzi il problema non esiste neanche): noi siamo passivi perché il mondo
che appare è prodotto da un mondo che ha una sua indipendenza rispetto alla stessa mente.
Ma… nell'ottica realistica, nell'ottica, cioè, secondo cui esiste il mondo indipendente dal
pensiero e il pensiero non fa altro che rispecchiare questo mondo - come si potrebbe spiegare
la nascita della coscienza? Pensa all'approccio evoluzionistico: come farebbe la coscienza - che
è spirito - derivare dalla natura che è materia?
E
allora
?
Per Fichte il realismo si trova di fronte un grosso problema: se prima vi è un mondo materiale,
come può da tale mondo essere scaturito lo "spirito” (la coscienza)? Un interrogativo analogo
varrebbe per la “libertà” - se prima vi è il mondo materiale, come è possibile che da tale
mondo (considerato il Regno della necessità dalla scienza newtoniana scaturisca la “libertà”?
Secondo Fichte l'idealismo ha una superiorità "teoretica” nei confronti del realismo in quanto
mentre il realismo si trova in difficoltà a dedurre lo spirito-libertà dalla natura l'idealismo,
partendo dallo spirito, riesce a spiegare sia lo spirito che la natura Cosa ne dici?
Fichte non riesce a stregarmi. La sua è un'operazione di travisamento del realismo: il realista
non deduce lo spirito dalla natura, ma dice semplicemente che la natura ha una sua
indipendenza dallo spirito (per cui la natura esiste autonomamente dalla coscienza)
Ma il realista, proprio perché sostiene che l'uomo è nato dopo che già esisteva l'universo, di
fatto - anche se non lo dice – non fa derivare la coscienza (lo spirito) dalla natura?
Sviluppiamo il discorso della "libertà”. Per Fichte la libertà è la stessa "attività” dell’Io. E’ l’Io,
cioè, che ponendo di fronte a sé dei non-io, cioè dei limiti a sé, si realizza come essere
“libero”. Hai colto la matrice di questo concetto di libertà?
Immagino sia quella cristiana: per il Cristianesimo l'uomo è veramente libero nella misura in
cui in lui lo spirito si libera dalle tentazioni della carne.
Vi è di sicuro una certa sintonia col Cristianesimo: anche per Fichte la libertà si realizza nella
misura in cui lo spirito vince su ciò che contrasta lo spirito (la "carne”, i limiti). La matrice
diretta, però, è quella kantiana: lo sai che per Kant la legge morale - che è la legge dello
spirito - impone all'uomo di lottare contro tutto ciò che è egoismo, utilitarismo, edonismo.
Fichte: teorico dello "streben" romantico?
Chiariamo. Per Fichte l’Io produce (pone) il mondo, la natura, la "carne” come "limiti” da
superare. Se l’lo non si ponesse dei limiti, non potrebbe realizzarsi come “libero” in quanto lo
spirito è libero proprio nella misura in cui si libera dai limiti, vince ciò che lo contrasta, ciò
che, appunto, lo limita. La ragione, quindi, per cui lo spirito crea la natura è di natura
"morale": lo spirito si crea di fronte dei limiti per superarli, per liberarsi da essi, per
assoggettare la natura allo Spirito. Da qui la denominazione "idealismo etico” (oltre a
"idealismo soggettivo”) per caratterizzare l'idealismo di Fichte. Tu forse stenti a capire. 0 no?
Non riesco a capire come mai lo spirito possa superare la natura, superare i limiti: capisco il
discorso kantiano - che è anche il discorso cristiano - secondo cui lo spirito deve lottare e
vincere contro la carne, ma non vedo come possa lo spirito vincere la natura.
Per Fichte assoggettare la natura, superarla in quanto “limite”, in quanto "altro” dallo spirito,
significa assoggettare la natura al volere razionale dell'uomo.
Questa lotta contro i “limiti” è per Fichte una lotta INFINITA. Secondo lui il compito
dell'umanità (l'Io) è diventare Dio "all'infinito”. Compito dell'uomo, cioè, è di superare i limiti
all'infinito (assoggettare gli istinti alle esigenze dello spinto e assoggettare la natura al volere
razionale dell'uomo). Cosa ne dici?
Mi ricorda lo “streben" romantico, la tensione, cioè,
all’infinito.
Infatti: Fichte esprime bene l’ansia di infinito che è tipica dell’atmosfera culturale in cui vive,
cioè il romanticismo tant’è che viene visto proprio come l'ideologo dei romanticismo. Fichte
interpreta pure bene anche altre istanze del romanticismo, come l'esaltazione della libertà
(dei singoli, dei popoli oppressi). La filosofia di Fichie può essere definita come un "inno alla
libertà”- (la realtà, la storia non sono “libertà”?)
La libertà fichtiano- romantica è un concetto dinamico: libertà è superamento all’infinito di
limiti. Cosa dici di tale concetto?
A me pare si tratti di un concetto illuministico: cos'è il "progresso" esaltato dagli illuministi se
non un superamento all’infinito (tramite la scienza e la tecnologia) di "limiti?
Se per progresso intendi l’assoggettamento progressivo delle forze della natura al volere
razionale dell'uomo, questo è presente nel concetto della tensione all'infinito di Fichte, ma non
esaurisce tale tensione (vi è, infondo, un respiro morale che non c’è nell'Illuminismo).
Perché mai per Fichte il compito dell’uomo è infinito, vale a dire l'uomo non riuscirà mai a
diventare Dio?
La ragione mi pare semplice (la rubo, in qualche modo, a Kant). La perfezione non è mai
raggiungibile: quando uno può dire di essere perfetto?
Il concetto è corretto. Dovresti chiarire che nel contesto teorico di Fichte la perfezione è la
liberazione da limiti. Ora la liberazione totale dai limiti è impossibile perché, se si realizzasse,
lo spirito (che è essenzialmente attività) morirebbe. Ti propongo un brano tratto da "La
missione dei dotto ":
"SOTTOMETTERE A NOI TUTTO CIO' CHE ESISTE DI IRRAGIONEVOLE, DOMINARLO
LIBERAMENTE E SECONDO LA LEGGE A NOI PROPRIA, E' IL FINE ULTIMO DELL'UOMO; FINE
ULTIMO IL QUALE E' AFFATTO IRRAGGIUNGIBILE E RIMRRA’ IRRAGGIUNGIBILE TRANNE CHE
L'UOMO NON DEBBA CESSARE D'ESSERE UOMO E DIVENIR DIO. E’ IMPLICITO NEL
CONCETTO STESSO DI UOMO, CHE IL FINE ULTIMO DEBBA ESSERE IRRAGGIUNGIBILE, LA
SUA VIA VERSO DI ESSO INFINITA.
LA MISSIONE DELL'UOMO, QUINDI, NON E’ DI RAGGIUNGERE QUESTO FINE. MA EGLI PUO' E
DEVE AVVICINARSI SEMPRE PIU’ ALLA SUA META: ORA DUNQUE L'AVVICINARSI A QUESTA
META E’ LA VERA MISSIONE DELL’UOMO IN QUANTO UOMO, CIOE' IN QUANTO ESSERE
RAGIONEVOLE MA FINITO, IN QUANTO ESSERE SENSIBILE MA LIBERO”.
A questo punto fu potresti obiettore che se Dio è una meta irraggiungibile, un modello a cui
tendere all’infinito, vuol dire che Fichte è ateo. O no?
Mi pare ovvio. Se Dio è la libertà assoluta da limiti e se tale libertà è irraggiungibile, questo
non può che significare che Dio non c'è, ma è semplicemente un Modello, un "dover essere".
E' questa l'interpretazione che sta dietro l'accusa di "ateismo" che ha subìto Fichte (accusa che
gli fa perdere la cattedra all'università di Jena).
Ci siamo gradualmente tuffati nel clima culturale in cui vive Fichte. Anche se i romantici in un
secondo tempo vedranno in Schelling il loro più autentico interprete, Fichte è stato percepito
dai romantici come il filosofo dei valori romantici. Abbiamo visto il tema della libertà e quello
della tensione all’infinito. Altri valori romantici di cui Fichte è interprete?
Il bisogno di metafisica
Se per metafisica intendi il bisogno dell'Infinito, dell'Intero, dell'Assoluto, questo è sicuramente
un bisogno della cultura romantica, oltre che della filosofia fichtiana. Fichte, indubbiamente,
interpreta il bisogno di Assoluto, di Infinito, di Intero, un bisogno che e tipico del
Romanticismo, il bisogno, cioè, di andare oltre il mondo fenomenico, il mondo dell'esperienza,
oltre la “parte” che è l'oggetto della scienza. Riprendiamo un discorso già aperto. Per Fichte
I’idealismo ha una superiorità teoretica (ha, cioè, una maggiore capacità di spiegazione) del
"realismo”- vedi la spiegazione della “libertà” (come fa il "realista” a dedurre la libertà dalla
natura, dalla materia?). Il realista, quindi, non solo, per Fichte, non riesce a dedurre lo "spirito,
ma anche la “libertà” dalla natura. Cosa ne dici?
M pare che l'impostazione della tesi fichtiana di cui sopra sia ingannevole: è ormai noto - da
quanto abbiamo finora detto - che lo "spirito" è la stessa cosa che la libertà!
Sicuramente "spirito" e “libertà” sono associati (nel senso che lo spirito è libero), ma la libertà
non esaurisce il concetto di spirito: lo spirito non è in primo luogo coscienza e autocoscienza?
Per Fichte potrebbe non essere decisiva ai fini della scelta tra "idealismo” e "realismo” (o come
è definito da Fichte “dogmatismo”) la superiorità teoretica dell'idealismo. Per lui la scelta
potrebbe essere dettata dal "carattere”. In che senso?
Mi delude Fichte: dove va a finire il "rigore" filosofico se la motivazione per la scelta di una
dottrina (che Fichte chiama addirittura “scienza") ha una motivazione caratteriale? Mi sembra
che qui Fichte (che ha cercato il "fondamento"), scada a livelli bassissimi!
Non ti sembra di essere un po’ ingeneroso nei confronti di Fichte? L'uomo non è pura ragione
(Fichte stesso non dice che la ragione umana deve continuamente lottare contro gli istinti?),
per cui le scelte non sempre hanno un fondamento teoretico : non vi è chi sostiene l'esistenza
di Dio sulla basi di un'esigenza psicologica?
Infatti.
Per Fichte uno con un carattere indolente, pigro, fatalista non potrà mai abbracciare
l'idealismo. Perché mai?
Provo a congetturare: uno pigre, fiacco, uno che non ha fiducia nella propria capacità di
vincere le passioni, è portato a credere che ci sia qualcosa che sia esterno, lo determina, lo
costringe ad essere così com’è.
E’ quanto sostiene Fichte.
Il compito dello Stato? Educare i cittadini alla libertà che questi non abbiano più
bisogno dello Stato.
Nella “Missione del dotto” Fichte così scrive: 'Lo Stato, al pari di tutte le istituzioni umane, che
non sono se non semplici mezzi, tende allo scopo dei proprio annientamento: è lo scopo di ogni
governo, quello & render superfluo il governo. " (M La Nuova Italia, pag. 42). Cosa ne dici?
Mi pare proprio un... idealista (nel senso deteriore) questo Fichte: come si può pensare che un
giorno l'uomo non avrà più bisogno della forza della legge, della polizia, dei tribunali?
Ma che scopo ha lo Stato con le sue leggi, le sue sanzioni, se non quello di educare i cittadini
alla libertà, al rispetto della libertà altrui? Quando, cioè, le leggi saranno interiorizzate, non
credi che allora non avremo più bisogno dello Stato? Del resto cosa si propongono i genitori nei
confronti dei figli se non lo scopo di rendersi, ad un certo punto, superflui formando dei figli
autonomi e responsabili? E’ questa la motivazione di Fichte: lo Stato non è un fine, ma un
semplice "mezzo" finalizzato all’educazione alla libertà del cittadino; quando, dunque, i cittadini
avessero interiorizzato le leggi, non ci sarebbe più bisogno né di leggi esteriori né di sanzioni.
Ma... non ti sembra utopica questa convinzione? Ci sarà veramente un giorno in cui gli uomini
non saranno più belve (usiamo l'immagine di Hobbes), ma obbediranno solo alla legge morale
interiore di kantiana memoria?
Fichte è consapevole dei tempi lunghi necessari prima di arrivare all'estinzione dello Stato
(parla di miriadi di anni o di miriadi di miriadi di anni), ma è certo che un giorno la pura
ragione (e non la forza ne l'astuzia) sarà universalmente riconosciuta. Aggiunge, però, che il
riconoscimento universale di tale ragione non significherà automaticamente che non ci saranno
danni a terzi: "anche allora gli uomini potranno errare e per errore danneggiare i loro simili;
ma essi allora avranno tutti la volontà pronta a lasciarsi convincere dell'errore, e appena
convinta di ciò, a ritrarsene e a risarcire il danno. " (ib. pag. 42). Cosa ne dici?
Anche proiettata in un tempo lontano, mi pare che la prospettiva di Fichte sia dei tutto
utopistico: la Forza dello Stato non serve solo a reprimere, ma anche a prevenire la violazione
dei diritti degli altri per cui, quand'anche la gente arrivasse spontaneamente a ravvedersi di
quello che ha fatto e risarcisse spontaneamente il danno provocato, ci sarebbe comunque
bisogno di uno Stato in grado di prevenire e dissuadere reati.
Sei molto realista. Fichte dimostra di essere sicuramente un utopista. Però non pare un
ingenuo. Egli pone questo obiettivo (la piena responsabilizzazione dei cittadini) come una sorta
di ideale cui tendere, un ideale a cui lo Stato (come i genitori) deve tendere.
L'idea politica di cui abbiamo parlato non è l'unica di Fichte. In altre opere parla di uno Stato di
stampo liberale, di un Stato, cioè, che ha il compito di garantire i diritti naturali dei cittadini
(tra cui, ovviamente, la libertà). E nello "Stato commerciale chiuso" (1800) arriva a delineare
uno Stato in qualche misura socialista: uno Stato che non solo tutela i diritti naturali, ma
anche il diritto al lavoro. Da qui il compito dello Stato di pianificare l’economia in modo da
combattere la povertà, da distribuire a tutti il reddito. Da qui la necessità di una "autarchia”
(chiusura commerciale nei confronti degli altri Stati - chiusura con l'eccezione delle materie
prime di cui il Paese è sfornito). Cosa ne dici?
Mi pare una tesi dei tutto anacronistica (mi ricorda, ad esempio, l'autarchia dei fascismo), in
netto contrasto con i principi dei libero mercato che oggi sono condivisi da gran parte dei Paesi
civili ed una tesi nettamente sconfessata dalla storia (pensiamo alla pianificazione sovietica).
Quanto dici è sostanzialmente corretto: il libero mercato sta ora diventando un patrimonio
degli stessi Paesi dell'ex Urss. Non dimenticare, tuttavia, i possibili svantaggi in termini di
occupazione: in un regime in cui tutto è pianificato dalla collettività il lavoro può essere
garantito, non altrettanto in un regime di libera concorrenza.
La nazione tedesca? Ha un primato spirituale.
Fichte, poi, nei celeberrimi 'Discorsi alla nazione tedesca" (1807-1808), scritti in seguito
all’occupazione della Prussia da parte delle truppe napoleoniche, arriva a parlare di “primato”
della nazione tedesca, della sua "missione" civilizzatrice. In che senso? Fichte ha una
concezione romantica di "nazione " (come entità spirituale). E perché la Germania avrebbe un
primato ed una missione da svolgere nel mondo? Secondo Fichte la Germania è l'unico Paese
in cui il sangue noti si è mescolato al sangue di altre razze, in cui la lingua è rimasta quella
originaria, espressione della vita spirituale del popolo (non derivata da altre lingue), in cui la
religione cristiana è quella che Lutero ha riportato alla purezza originaria, in cui la cultura (da
quella filosofica a quella letteraria ed artistica) esprime la coscienza dell'umanità. Cosa ne
dici?
Mi paiono tesi pre-naziste, indegne di un pensatole che ha inneggiato alla libertà di tutti gli
uomini.
Di sicuro si tratta di tesi che sono state strumentalizzate dai nazisti. Sono proprio tesi prenaziste? Tieni presente che Fichte parla di un primato spirituale. E tieni pure presente il
contesto dei "Discorsi”: Fichte intende dare al popolo tedesco - che è sotto il dominio dei
Francesi - una motivazione profonda per una sua rinascita.
Una postilla. Vi è un "secondo Fichte ", un Fichte che è approdato ad una fase "religiosa”:
mentre, cioè, il Fichte che abbiamo incontrato identifica l’infinito nell'umanità, il secondo
Fichte vede l’Infinito, l'Assoluto al di fuori dell'umanità.
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