il comportamento - Liceo Stella Maris

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IL COMPORTAMENTO
Da comportare; dal latino comportare, comp. di cum “con” e portare “portare”.
Il comportamento è il modo di agire e reagire di un oggetto o un organismo messo in relazione con
altri oggetti, organismi, o semplicemente con l'ambiente, che è l'esternazione di un atteggiamento, il
quale si basa su una idea o una convinzione che può essere anche un pregiudizio. Il comportamento
può essere conscio o inconscio e volontario o involontario.
Il comportamento può essere inteso come la manifestazione oggettiva ed esterna dell’ attività
globale degli organismi viventi, ovvero è il prodotto dell’ interazione tra una serie di fattori
genetici, ambientali e maturazionali. I fattori genetici costituiscono i processi interni all’essere
vivente, mentre i fattori ambientali rappresentano l’insieme dei processi esterni che modificano i
fattori genetici. Il comportamento presenta così la capacità di modificarsi sotto l’influenza
dell’ambiente. Nel rapporto cervello-comportamento assumono un ruolo fondamentale anche i
fattori maturazionali.
Dal punto di vista psicologico è un termine che designa una sintesi di attività osservabili e
contrapponibili a quelle introspettive. Dal punto di vista sociologico il comportamento è analizzato
nella prospettiva dei ruoli sociali intendendo per ruolo la posizione occupata dagli individui
all’interno di un rapporto sociale.
RAPPORTO TRA ATTEGGIAMENTO E COMPORTAMENTO
L’atteggiamento è il modo in cui una persona si pone nei confronti di persone, gruppi, oggetti ed
eventi. Oltre ai differenti rapporti che l'atteggiamento ha con diversi processi psicologici come
l'emozione, è importante anche analizzare il rapporto tra atteggiamenti e comportamento. Su questo
tipo di rapporto vi sono posizioni teoriche critiche fra loro. Per esempio, Wicker ritiene che tra gli
atteggiamenti ed il comportamento non vi sia un legame tale che dati gli atteggiamenti sia possibile
prevederne il comportamento. Seppure questa posizione teorica è stata invalidata, attestandosi su un
campione troppo ristretto per consentire una generalizzazione, sta di fatto che molti condividono
l'opinione che la previsione, conosciuti gli atteggiamenti, possa essere a volte possibile. Si è
osservato, d'altronde, come medesimi atteggiamenti possano dar luogo ad azioni differenti, per cui
si presuppone che la capacità di prevedere l'azione dato l'atteggiamento è possibile se come azione
intendiamo un insieme di possibili comportamenti. Sono stati individuati dei fattori che hanno la
possibilità di ridurre o rafforzare il legame tra gli atteggiamenti ed il comportamento. Uno di questi
fattori è 1) l'intervallo di tempo, tra la misura, da parte dei ricercatori, dell'atteggiamento e la
registrazione del comportamento. Per cui si possono avere correlazioni atteggiamentocomportamento maggiore o minore in relazione ad intervalli di tempo ampi/stretti ed, anche, in
funzione del contesto; 2) La sicurezza dell'atteggiamento, che quanto più è ancorato all'esperienza
dell'individuo, tanto meno è sensibile al cambiamento. Fishbein afferma che gli atteggiamenti
influenzano il comportamento quando ci si comporta coerentemente alle proprie idee. Inoltre anche
gli atteggiamenti sono influenzati dall'aspettativa dei risultati, che motiverà o meno all'azione da
intraprendere, e dal valore dei risultati previsti. In conclusione le azioni di ognuno dipendono sia
dagli atteggiamenti che dalla pressione sociale, e per prevedere l'azione altrui bisogna conoscere il
modo in cui l'altro percepisce e valuta le proprie azioni nonché la percezione e la valutazione altrui
sulle nostre azioni.
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I TIPI DI COMPORTAMENTO
COMPORTAMENTO ASSERTIVO, AGGRESSIVO, PASSIVO
COMPORTAMENTO ASSERTIVO
Il termine “assertività” deriva dall’inglese “ assertiveness” e dal latino “assero” e il significato
comune del termine assertivo nella lingua italiana è quello di affermativo e affermativo a sua volta è
sinonimo di positivo e riuscito basta questa brevissima analisi linguistica per comprendere come nel
tema dell’assertività coesistono almeno 2 diversi significati L’AFFERMARE, cioè il dire le proprie
opinioni e i propri atteggiamenti e contemporaneamente l’IMPEGNO A RISOLVERE
POSITIVAMENTE le situazioni ed i problemi.
L’assertività è stata definita in molti modi, tra i quali come l’espressione dei propri bisogni in modo
chiaro ed esplicito, mantenendo positivi i rapporti con gli altri. Quindi il comportamento assertivo è
tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere
aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri,
decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono, a stima di sé e dell’altro ,
sa esprimere le proprie opinioni ed emozioni in modo funzionale e sa raggiungere i suoi obiettivi.
L’assertività può essere considerata come un punto medio ideale posto tra 2 polarità opposte: il
comportamento aggressivo, da un lato, e il comportamento passivo, dall’altro.
Passività
←
Assertività
→
Aggressività
La struttura concettuale dell’assertività è quindi un sistema complesso di abilità e di concetti
ordinati funzionalmente su 5 livelli:
1- al primo livello si colloca l’abilità di riconoscere le emozioni proprie ed altrui.
2- al secondo livello vi è la capacità di comunicare emozioni e sentimenti attraverso molteplici
strumenti comunicativi(mimici e gestuali)
3- al terzo livello vi è la consapevolezza dei diritti della persona. Il terzo livello ha un ruolo centrale
nella teoria dell’assertività, perché è sui diritti e sul principio di reciprocità che si fonda la
distinzione tra comportamenti passivi, aggressivi e assertivi.
4- al quarto livello vi è la disponibilità ad apprezzare se stessi e gli altri. Rilevante diventa quindi
l’eliminazione dei pensieri irrazionali.
5- al quinto livello vi è la capacità di autorealizzarsi con la consapevolezza di poter decidere sui fini
della propria vita.
Il comportamento assertivo provoca:
-emozioni e cognizioni prive di insicurezza ed ansia
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-attenta considerazione degli altri
-fiducia in sé e negli altri
-scelte autonome
-dignità propria ed altrui
COMPORTAMENTO PASSIVO
Nel 1959 Wolpe per primo parla di “assertion” che definisce come espressione esterna di tutti i
sentimenti che non siano l’ansia.
Il comportamento passivo è tipico della persona che subisce gli altri. La persona passiva tende ad
inibire le emozioni a causa di momenti di imbarazzo o tensione, o di sentimenti di colpa. Si sente
spesso oppressa dagli altri e si scusa eccessivamente, anche quando non vi è il caso. Il suo
comportamento verso gli altri è condizionato dalla ricerca di mete personali, tanto che non si
oppone dalle influenze che subisce e si realizza in situazioni che risultino essere positive per gli altri
che per se stesso. Il comportamento passivo provoca:
-frustrazione, ansia, senso di colpa, inibizione.
-violazione del mondo interiore.
-mortificazione della propria dignità.
COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
L’aggressività si manifesta come un attacco diretto o indiretto verso l’oggetto o il soggetto ritenuto
causa della frustrazione. La personalità aggressiva è caratterizzata dall’incapacità di affrontare gli
ostacoli e da una percezione distorta della realtà, in cui vengono costantemente intravisti pericoli e
minacce in sé. Quando l’aggressività è diretta verso qualcuno, pur essendo pericolosa in sé, aiuta
l’individuo a scaricare la tensione. Quando non è possibile affrontare direttamente i propri
avversari, l’individuo evita le punizioni scaricando le proprie tensioni su un elemento
neutro(aggressività dislocata). Aggressività e violenza sono comportamenti talmente generali da
indurre alcuni studiosi a sostenere che siano dovuti alla nostra NATURA, e cioè a fattori innati,
ereditari. Ad esempio secondo Freud l’uomo ha una pulsione distruttiva, o di morte, che spinge
all’aggressività e al disfacimento.
Il soggetto aggressivo è una persona che non rispetta i limiti degli altri, è concentrato sui propri
desideri senza badare a coloro che gli sono intorno. Per fare questo utilizza qualsiasi mezzo a
propria disposizione, anche distruttivo e violento. La tendenza è quella di dominare gli altri e
l’unico obiettivo che si pone è il potere personale e sociale. Alla base di questo tipo di
comportamento vi sono ancora delle componenti d’ansia accompagnate però da rabbia e ostilità.
C’è anche un disprezzo degli altri e un mancato riconoscimento della dignità altrui. Il
comportamento aggressivo comporta:
-senso di colpa e difesa personali
-collera e ostilità
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-umiliazione e disprezzo per gli altri
-mortificazione della dignità degli altri.
LA PERSONALITÀ : LA COSTANZA DEL NOSTRO COMPORTAMENTO
Con il termine personalità si intende l’insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità
comportamentali che definiscono il nucleo delle differenze individuali, nella molteplicità dei
contesti in cui la condotta umana si sviluppa. Ogni nucleo teorico, in psicologia, concettualizza la
personalità entro modelli diversi, adoperando metodi, obiettivi e modalità d’analisi anche molto
dissonanti fra loro.
La personalità tende a mantenersi costante nel corso della vita, anche se le esperienze che si
compiono possono portare dei cambiamenti.
Il tratto di una personalità si intende un singolo aspetto di questa che tende a rimanere stabile nel
tempo. Ciascun tratto è posseduto dai diversi individui secondo gradazioni diverse.
LE TEORIE DELLA PERSONALITÀ
Le teorie della personalità sono dei tentativi di spiegare le differenze di personalità che esistono tra
gli individui. La psicologia differenziale ha contribuito con le sue ricerche allo studio della
personalità, fornendo dati empirici a diverse teorie della personalità. Studiando le differenze
individuali alcuni psicologi hanno costruito delle tipologie, ossia modalità che permettono di
raggruppare diverse caratteristiche in un quadro coerente, il tipo psicologico. Una delle tipologie
più famose è stato costruita da Jung. Si tratta di un modello psicodinamico che, partendo da quello
che per Jung è l’atteggiamento (orientamento verso il mondo esterno: estroversione; orientamento
verso il mondo interno: introversione) combinato con la funzione (manifestazione della libido; per
Jung le funzioni possono essere quattro in tutto: due razionali, pensiero e sentimento, due
irrazionali, sensazione ed intuizione) determina otto tipi psicologici. A seconda del prevalere
dell’una o dell’altra caratteristica si hanno tipi che basano la loro vita psicologica maggiormente su
dati oggettivi (estroverso) o sulla risonanza soggettiva che gli stessi dati producono (introverso), e
che si confrontano con il mondo utilizzando maggiormente valutazioni (funzioni razionali) o
percezioni (funzioni irrazionali).
Alcuni studiosi sostengono che le differenze di personalità dipendono da fattori biologici ereditari.
IL TEMPERAMENTO
Il termine temperamento viene usato per indicare appunto la mescolanza degli aspetti innati della
personalità. Il temperamento è costituito da una serie di inclinazioni verso determinati stati d’animo
e stili di reazione. Esso è definito dall’intreccio di tratti comportamenti ed emotivi innati, in parte
già osservabili nel neonato, che tendono a restare stabili nel tempo.
Sin dai primi giorni di vita è possibile notare delle differenze tra i neonati che dipendono dal
temperamento.
Thomas e Chess intervistarono un campione di madri ogni 3 mesi per i primi due anni di vita dei
figli e a intervalli più lunghi fino a 7 mesi. I tratti del temperamento che emersero dalle interviste
sono quelli che sembrarono importanti ai genitori vale a dire il livello di attività, la ritmicità,
l’irritabilità la tendenza a distarsi, l’attenzione la reattività la soglia della sensibilità di adattarsi a
nuovi eventi.
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I bambini nascono con almeno 9 tratti comportamentali ed emotivi fondamentali che, intrecciandosi
variamente tra di loro vanno a costruire il temperamento di ognuno. Questi tratti tendono a restare
stabili nel tempo e, soprattutto quando sono accentati, un buon osservatore può riconoscere alcuni
fin dai primi mesi di vita.
I 9 tipi di temperamento sono:
1.
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8.
9.
Aperto-retratto
Adattamento veloce- adattamento lento
Bassa intensità-alta intensità
Umore positivo-umore negativo
Poco attivo-molto attivo
Prevedibile- imprevedibile
Soglia sensoriale alta- soglia sensoriale bassa
Bassa distraibilità- alta distraibilità
Perseveranza-scarsa perseveranza.
I DISTURBI DELLA PERSONALITÀ
Per lo psicologo una persona è “normale” quando, pur avendo dei problemi, sa controllare l’ansia e
vedere le cose in modo realistico.
La “nevrosi” è una malattia psicologica in cui la persona prova un senso penoso di tensione e
incertezza che gli impedisce di condurre una vita affettiva e lavorativa soddisfacente. Non esiste un
chiaro confine tra nevrosi e normalità: la differenza sta solo nella misura in cui viene esibito un
certo comportamento. Ad esempio è normale cercare di evitare le malattie, è da nevrotici essere
terrorizzati dall’idea di prendersi un raffreddore. Secondo gli psicologi i disturbi nevrotici vanno
curati con la psicoterapia (che non agisce sul sintomo ma direttamente sulle sue cause profonde)
piuttosto che con i farmaci.
RELAZIONE TRA COMPORTAMENTO E PERSONALITÀ
LA PROSPETTIVA PSICODINAMICA
Si sviluppa in Europa con l’opera di Freud e la psicoanalisi. Studia i meccanismi e i processi
psichici che governano il comportamento di un individuo e che, più in generale, sono riferibili alla
sua personalità. L’inconscio è uno dei concetti fondamentali trattati dalla psicoanalisi; esso agisce
sotto ogni livello di inconsapevolezza ma determina il comportamento. In questo modo si mette in
secondo piano l’idea che l’uomo sia un essere completamente razionale. La personalità e il
comportamento sono considerati il risultato di dinamiche complesse che intervengono tra le diverse
strutture della personalità. Lo sviluppo dell’affettività del bambino e le sue relazioni con le figure
genitoriali e con altre figure significative sono particolarmente studiati perché determinano
l’equilibrio psicologico dell’adulto. Gli autori più importanti sono Freud (introdusse il concetto di
inconscio, cioè come aerea della personalità che sfugge al controllo della parte razionale ma che è
in grado di emergere con il comportamento; la libido, ovvero la carica energetica della persona che
si manifesta in modi diversi in relazione all’età; introduzione di una specifica terapia nei casi di
disturbo psichico, cioè la psicoanalisi) ed Erikson (ha valorizzato il ruolo della società e ha
individuato fasi di sviluppo sociale fino all’età senile).
ESEMPI DI RELAZIONE TRA COMPORTAMENTO E PERSONALITÀ
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INTROVERSIONE ED ESTROVERSIONE
Carl Gustav Jung, un allievo di Freud, riteneva che la personalità umana avesse in sé due forti
tendenze: l’INTROVERSIONE, in cui l’energia psichica è rivolta verso l’interno, e
l’ESTROVERSIONE, in cui l’energia psichica è rivolta verso l’esterno. Secondo Jung,
l’introversione è la caratteristica dell’individuo di natura lenta, riflessiva e chiusa, il quale evita gli
altri, si pone facilmente sulla difensiva e guarda le cose con sospetto. La persona introversa è quindi
poco espansiva, amante della solitudine, facile ad offendersi, ma capace di mantenersi ferma nelle
proprie idee senza badare troppo se gli altri le approvano o meno. Essa non si sottomette né
sottomette gli altri; non dà valore alla posizione sociale o economica, ma al significato generale
della vita. Ha bisogno di spazi intorno a sé. E’ molto sensibile e attento alle sensazioni intime, ai
pensieri, alle idee, alle fantasie. Per quanto in ogni personalità siano presenti e tendenze sia
all’introversione che all’estroversione, nel singolo individuo di solito una tendenza prevale
sull’altra.
COMPORTAMENTO ANALITICO
Una persona analitica pensa sempre alle cose, analizzandole, ponderandole. Essa prima di fare una
cosa, si informerà e analizzerà tutti i fatti e conseguenze. L'analitico è uno dei 4 tipi di personalità.
Gli altri 3 sono organizzatore, sostenitore e controllore. La maggior parte delle persone ha una parte
di tratto di ogni personalità.
COMPORTAMENTO SINTETICO
È una persona che ha una forte capacità di sintesi. Nei fatti analizza l’essenziale e a volte da ciò trae
opinioni troppo frettolose che possono portare a reazioni sbagliate.
COMPORTAMENTO ATTIVO
È colui che agisce con impegno, ottenendo buoni risultati pratici. Collabora con gli altri e si mostra
attento nell’opinione dell’altro.
COMPORTAMENTO PASSIVO
È colui che non collabora, subendo l’azione dell’altro. Si mostra privo di volontà o di iniziativa.
Accetta passivamente tutto quello intorno a lui.
L’ALTRUISMO
Si parla di comportamento altruistico quando c’è l’intenzione di aiutare l’altro, il prestare aiuto non
è determinato da obblighi, ma è una libera scelta, la motivazione di un’azione altruistica è
rintracciabile nel solo desiderio di aiutare gli altri. Secondo alcuni i comportamenti altruistici sono
il risultato di una decisione che si prende considerando alcune questioni:
-prima di aiutare un altro ci chiediamo se questi ha davvero bisogno di aiuto
-ci chiediamo se spetta a noi aiutarlo
-calcoliamo i costi e i benefici e se vale la pena aiutarlo
-ci si chiede cosa si può fare per portare aiuto.
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In questa prospettiva la persona agisce in modo altruistico soltanto se i vantaggi previsti superano
gli svantaggi. Oltre le aspettative di ricompensa ci sono altre due motivazioni alla base del
comportamento di aiuto:
-il desiderio di ridurre le proprie emozioni dolorose prestando aiuto, si tratta di un comportamento
pro sociale da ricondurre ad una motivazione egoistica.
-il senso di partecipazione e di preoccupazione per la sofferenza degli altri.
EGOISMO
Per egoismo si intende un insieme di comportamenti finalizzati unicamente, o in maniera molto
spiccata, al conseguimento dell'interesse del soggetto che ne è autore, il quale persegue i suoi fini
anche a costo di danneggiare, o comunque limitare, gli interessi del prossimo (questa è già
un'accezione peggiorativa dell'egoismo). Il comportamento opposto all'egoismo è l'altruismo. I
comportamenti egoistici possono a volte degenerare in forme patologiche, determinando condizioni
di solitudine sociale che possono sfociare persino nel suicidio (il "suicidio egoistico" teorizzato da
Émile Durkheim). In sociologia e politica si parla a volte di "egoismo sociale", con riferimento a
gruppi di persone che, sentendosi avvantaggiate, di solito economicamente, rispetto ad altri gruppi
di persone appartenenti alla loro stessa compagine sociale, si adoperano per mantenere ed ampliare
il proprio stato di vantaggio, per esempio appoggiando le organizzazioni politiche e sindacali più
conservatrici. L'opposto dell'egoismo sociale è la solidarietà.
L’egoista è colui che tende a seguire i propri interessi e desideri senza considerare quelli altrui.
COMPORTAMENTO PRAGMATICO
Pragmatico è colui che è dotato di un forte senso pratico, ha una spiccata concretezza senza
pregiudizi ideologici. Quindi bada soprattutto al concreto, ai risultati pratici; dà molto significato ai
fatti più che alle parole. Talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di
necessità virtù, conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare. La teoria è
qualcosa di più di un piacevole lusso. Il pragmatismo è conservatorismo sotto la veste dell'azione.
Esso conserva l'esistente. Il massimo di cambiamento prodotto dai pragmatici consiste nello scavare
una buca per riempirne un'altra: una terapia dell'occupazione anziché occupazione, un gioco a
cambiare anziché cambiamento.
COMPORTAMENTO IDEALISTA
È colui che giudica la realtà attraverso l’idea che se n’è fatto per quello che effettivamente lui
pensa. Ha fede nei propri ideali e si comporta di conseguenza.
COMPORTAMENTO AFFILIATIVO
Il comportamento affiliativo è costitutivo di gruppi e di aggregazioni sociali che soddisfano il
bisogno di accettazione reciproca tra i membri con manifestazioni di scambio amichevole che,
quando è finalizzato, si trasforma in autentico comportamento cooperativo. Le tendenze affiliative
seguono uno schema evolutivo che muove dal particolare sistema affettivo della relazione genitorifigli fino ai rapporti di gruppo(già a livello di condotte ludiche)in cui manifestazioni aggressive
vengono inibite dai rapporti associativo-affettivi.
IL CONFORMISMO
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Il conformismo è la tendenza ad adeguare le proprie idee e il proprio comportamento a quello della
maggioranza. Il conformismo è quindi una tendenza a una visione acritica di idee, valori,
atteggiamenti, bisogni e aspirazioni dominanti del gruppo sociale a cui si appartiene. Il
conformismo può scaturire da due motivazioni molto diverse tra loro:
1) dalla necessità di usare gli altri come fonte di informazione quando ci troviamo in una situazione
nuova o di incertezza;
2) dalla paura di essere esclusi dal gruppo se non ci adeguiamo a ciò che fanno gli altri.
Esistono diverse forme di conformismo:
- Compiacenza: vi sono persone che, per timore di non essere stimate e accettate, si comportano in
modo compiacente;
- Condiscenza: altre persone, quando ricevono indicazioni o ordini si astengono dal giudicare e si
limitano ad eseguire quanto viene deciso da altri. Questo atteggiamento condiscendente può
associarsi a vari sentimenti (aggressività o falsa benevolenza) che si manifestano per compensare il
carico emotivo e il costo di quelle forme di conformismo;
- Acquiescenza: induce le persone a rispondere e comportarsi con modi socialmente accettati,
indipendentemente dalla propria opinione. Si ritiene che la persona conformista si di solito
psicologicamente passiva e insicura.
Il conformismo è quindi un modo per ottenere l’approvazione degli altri con il solo adeguarsi alla
moda o allo stile di vita corrente. Alcune ricerche classiche e la psicologia sociale hanno dimostrato
che la personalità autoritaria è conformista e tende ad adeguarsi ai valori della classe media. Al
conformismo dovrebbe contrapporsi l’anticonformismo. Questo non è sempre vero: a volte
comportamenti eccentrici fuori dalla norma sono invece la regola in piccoli gruppi ai quali il
singolo si adegua, appunto, per bisogno di approvazione (ad esempio, un comportamento deviante e
anticonformista di un adolescente può essere invece conformista rispetto al gruppo di riferimento).
COMPORTAMENTO ANTISOCIALE
La caratteristica essenziale del disturbo antisociale della personalità è un quadro di comportamenti
che viola i diritti degli altri e le regole sociali principali. Gli individui con disturbo antisociale
hanno un comportamento caotico e scarsamente in sintonia con le richieste della società. Sono
frequentemente disonesti e manipolativi per trarre profitto o piacere personale. Le decisioni
vengono prese sotto l’impulso del momento, senza considerazione delle conseguenze per sé e per
gli altri . Dinanzi ad un loro comportamento antisociale possono minimizzare le conseguenze
dannose oppure semplicemente mostrare completa indifferenza; generalmente non provano senso di
colpa.
La loro visione del mondo è dunque personale piuttosto che interpersonale. Non riescono a tenere in
considerazione il punto di vista di un altro allo stesso modo del proprio e pertanto non riescono a
mettersi nei panni di un altro. Tendono a mostrare un comportamento irritabile e aggressivo verso
gli altri e ad essere cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti e delle sofferenze altrui.
Questi individui mostrano anche comportamenti di non salvaguardia della propria salute personale.
Gli individui con disturbo antisociale di personalità considerano i loro problemi come il risultato di
una incapacità delle altre persone ad accettarli o del desiderio altrui di limitare la loro libertà.
L’ORIGINE DEL COMPORTAMENTO
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In senso storico il comportamento moderno dell’umanità ha avuto origine con la nascita della stessa
specie umana. Le pratiche artistiche e simboliche, come il pensiero religioso-magico, presenti fin
dall’Homo Sapiens, sono state considerate l’inizio delle capacità cognitive e culturali moderne,
circa 200.000 anni fa in Africa e Eurasia. Allo stesso modo un’analoga struttura sociale e affettivocomportamentale era condivisa dai neandertaliani. Per prove certe le capacità cognitive e il
comportamento che oggi appartengono all’uomo moderno furono le stesse che lo caratterizzarono al
momento della nascita della propria specie, quelle che avrebbero consentito ugualmente di
innovare la sua cultura. Per capire lo sviluppo storico del comportamento è necessario parlare di
Darwin e la sua idea di selezione naturale: è l’insieme dei processi che, all’interno di una
popolazione, fa si che gli individui che possiedono le caratteristiche più idonee alla sopravvivenza
abbiano più probabilità di riprodursi. L’evoluzione (sviluppo progressivo di organismi complessi a
partire da organismi originari più semplici) quindi dipende dalla capacità di adattamento. I caratteri
ereditari di una specie possono in casi rari mutare spontaneamente e, se ben adattati all’ambiente, la
selezione naturale ne favorisce la diffusione in una popolazione che può dar origine a una nuova
specie.
Dopo averne analizzato l’origine storica, il comportamento deve essere inteso come conseguenza
dell’interazione tra vari fattori psicologici, biologici e sociali, i quali contribuiscono a creare una
certa azione, cioè uno specifico comportamento. La psicologia ha come oggetto il comportamento, i
processi mentali e la vita interiore degli uomini. I comportamenti umani possono essere semplici,
come quando il bambino cerca di stare vicino alla madre, o complessi. I comportamenti sono
causati da processi mentali, quali la percezione, la memoria, l’intelligenza, il pensiero e trovano la
propria origine nella vita interiore della persona, cioè nelle sue emozioni e motivazioni.
ORIGINE BIOLOGICA E FISIOLOGICA
Ogni comportamento è espressione di una funzione cerebrale. L’attività cerebrale non solo è la base
di comportamenti relativamente semplici ma anche di manifestazioni cognitive ed affettive
complesse come i sentimenti, il pensiero. Ciò significa che i disturbi delle funzioni affettive
(emozioni) e cognitive (pensiero) che caratterizzano le malattie nervose e mentali devono essere il
prodotto di disturbi cerebrali. Lo scopo delle neuroscienze è quello di scoprire la base biologica
delle varie espressioni mentali e dei comportamenti degli uomini. Cercano di individuare i processi
biochimici che sono alla base di emozioni, pensieri e comportamenti; cercano di capire in che modo
dal cervello ha origine il comportamento e come il cervello può essere influenzato sia dall’attività
di altre persone sia dai vari fattori ambientali. Lo studio delle relazioni che esistono tra cervello e
comportamento è stato eseguito da varie neuroscienze (sperimentali): la neuroanatomia (con Golgi e
Cajal che formularono la dottrina del neurone, cioè il principio per cui il sistema nervoso è
composto da elementi distinti chiamati neuroni, capaci di generare e trasmettere messaggi);
neurofisiologia (con Galvani, il quale sostenne che le cellule nervose generano elettricità);
farmacologia biochimica (con Bernard e Langley che dimostrarono la trasmissione sinaptica
chimica: alcune sostanze chimiche possono interagire con molecole recettrici specifiche situate
sulla superficie delle cellule); la psicologia (lo studio del comportamento e le manifestazioni esterne
delle attività mentali, con Darwin e la sua opera sull’evoluzione del comportamento, divenne una
scienza sperimentale). In particolare la fusione di queste scienze scoprirono la presenza di sostanze
chimiche che consentono il passaggio dell’impulso nervoso da neurone a neurone: questi
“messaggeri”, denominati neurotrasmettitori, inviano le informazioni che costituiscono la base
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biologica dei fenomeni mentali connessi ai comportamenti umani. Flourens cercò di stabilire una
correlazione tra le parti del sistema nervoso e il comportamento, ma Jackson e i suoi studi su
persone epilettiche intuì che le convulsioni hanno origine in una parte determinata del corpo,
dimostrando così che le attività motrici e sensitive potevano venir localizzate in parti diverse del
cervello. Dopo Gall (affermò che il cervello è costituito da 27 aree diverse, le quali corrispondono a
funzioni mentali specifiche) Wernicke dimostrò che le manifestazioni del comportamento sono
mediate da regioni cerebrali specifiche attraverso vie individuabili che mettono in rapporto strutture
sensitive con strutture motrici. Perciò le diverse aree del cervello sono specializzate per funzioni
differenti: quando viene danneggiata una regione o una via, altre vie sono spesso in grado di
compensare parzialmente il danno, attenuando in tal modo le prove della localizzazione che
derivano dall’alterazione del comportamento. Broca, dopo alcune ricerche che portarono alla
scoperta della correlazione tra dominanza dell’emisfero e uso preferenziale della mano, permise
grazie alle sue introduzioni ed esperimenti ad altri studiosi di individuare zone cerebrali relative a
funzioni comportamentali. Dai numerosi studi sulla relazione tra cervello e comportamento sono
nati due diversi schieramenti sul modo di considerare questa: i frenologi (sostengono che la
corteccia è costituita da specifiche aree, le quali svolgono determinate funzioni: anche gli attributi
mentali astratti sono localizzati in singole zone specializzate) e coloro che sostengono la teoria dei
campi cerebrali associati (le funzioni mentali non possono essere collocate in una specifica zona ma
sono distribuite uniformemente nella corteccia cerebrale). Wernicke sostenne inoltre che le funzioni
mentali di base in rapporto con attività percettive e motrici semplici sono localizzate in aree
corticali ben delimitate. Le singole zone deputate a queste funzioni sono connesse tra di loro. Perciò
secondo questa teoria le funzioni più complesse prendono origine dall’interazione delle diverse aree
cerebrali deputate alle attività percettive e motorie semplici e sono mediate dalle vie nervose che le
interconnettono. Una stessa funzione può essere elaborata sia in serie sia in parallelo in diverse
regioni cerebrali, mentre i singoli componenti specifici della funzione vengono analizzati in sedi
particolari. Le connessioni reciproche delle diverse cellule nervose sono fisse e precise, questo
significa che ogni cellula può rispondere soltanto a certi stimoli sensitivi specifici e non ad altri.
All’inizio del ventesimo secolo molti studiosi sostenevano che piccole aree del cervello fossero sedi
di comportamenti specifici. Tuttavia non venivano considerate localizzabili nel cervello le funzioni
affettive ed emotive. Solo recentemente da esperimenti su animali è stato ritenuto possibile
collocare le emozioni in determinate regioni cerebrali. Ci sono molte dimostrazioni a favore di ciò:
1. oltre agli aspetti formali del linguaggio rappresentati nelle aree di Wernicke e di Broca
dell'emisfero sinistro, esiste anche una componente affettiva del linguaggio che consiste
nell'intonazione musicale del discorso. Una lesione dell'area temporale destra, omologa a
quella di Wernicke dell'emisfero sinistro, determina disturbi della comprensione delle
componenti emotive del linguaggio, mentre una lesione dell'area frontale destra, omologa a
quella di Broca, determina un'alterazione della capacità di esprimere queste stesse
componenti. Perciò anche i disturbi affettivi specifici del linguaggio, detti aprosodie,
possono essere localizzati in particolari regioni del cervello e possono venir classificati
come sensitivi, motori e di conduzione, analogamente alle afasie.
2. l’osservazione dei pazienti affetti da epilessia cronica del lobo temporale ha permesso di capire
che questi soggetti presentano alterazioni del comportamento emotivo. . Alcune di queste
alterazioni si presentano durante gli attacchi epilettici e sono chiamati fenomeni dell'ictus (dal
latino ictus, colpo). Altre alterazioni del carattere si manifestano anche in assenza di attacchi e
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sono detti fenomeni interictali. Fra le manifestazioni più comuni cui vanno incontro i pazienti
durante gli attacchi di epilessia del lobo temporale vi sono: sensazione di distacco dalla realtà o
al contrario di «dejà vu» (sensazione di essere già stati in un certo luogo o di avere già visto un
determinato gruppo di immagini), allucinazioni visive o acustiche transitorie, senso di
spersonalizzazione, di timore, di rabbia, false sensazioni, appetiti sessuali e paranoia. Tuttavia le
alterazioni più importanti sono quelle presenti nei pazienti durante gli intervalli fra gli attacchi
convulsivi. Queste manifestazioni interictali sono interessanti perché costituiscono una vera
sindrome psichiatrica. Da un’analisi dettagliata della personalità di questi pazienti si osserva
che molti pazienti di epilessia dei lobi temporali perdono ogni interesse relativo alla sfera
sessuale. La diminuzione della libido è spesso accompagnata da aumento dell'aggressività. La
personalità della maggior parte dei pazienti presenta anche uno o più tratti caratteristici:
emotività intensa, fervore religioso, moralismo estremo o mancanza di senso dell'umorismo.
Molti pazienti affetti da epilessia del lobo temporale destro presentano esagerazione delle
tendenze emotive (iperemotività). Al contrario, i pazienti affetti da epilessia del lobo temporale
sinistro manifestano caratteristiche ideative particolari come il senso di avere una missione
personale, una sviluppata autocritica sul piano morale e la tendenza a trovare spiegazioni
filosofiche per ogni cosa. Ciò dimostra che talune funzioni affettive possono essere localizzate
nel lobo temporale (anche se interessano altre aree cerebrali) e che esiste un'asimmetria degli
emisferi cerebrali sia per gli aspetti emotivi che per quelli cognitivi della personalità. A
differenza dei pazienti affetti da epilessia del lobo temporale quelli con foci epilettici localizzati
al di fuori del lobo temporale non presentano generalmente anormalità dell’emotività e del
comportamento. Mentre le lesioni di tipo distruttivo determinano una perdita di funzione, spesso
dovuta anche all'interruzione delle vie che connettono aree specializzate, i processi epilettici, al
contrario, possono determinare una iperattività delle regioni interessate, che conduce a
espressioni emotive eccessive. Alcuni dei sintomi osservati nell'epilessia del lobo temporale
sono presenti anche nella schizofrenia. I pazienti epilettici tuttavia, differiscono da quelli
schizofrenici in quanto i primi possono stabilire relazioni interpersonali coerenti, sono capaci di
affetti profondi e i loro pensieri appaiono logici.
3. Un terzo tipo di disturbo dell'affettività, chiaramente definito e localizzato nel lobo temporale, è
costituito dagli attacchi di timore panico. Gli attacchi di timore panico sono disturbi ansiosi
acuti, caratterizzati da brevi episodi spontanei di terrore senza causa apparente. Nei pazienti che
soffrono di ricorrenti attacchi di timore panico un'alterazione circoscritta nel giro
paraippocampico destro. Perciò la predisposizione verso questo tipo di disturbo emotivo può
essere fatta risalire a una alterazione anatomica permanente e localizzata del tessuto cerebrale.
Questi studi permettono di capire che le manifestazioni del comportamento sono collocabili in
regioni specifiche del cervello. La neuroanatomia descrittiva fornisce una “mappa del
comportamento” perché consente di localizzare le origini fisiologiche di un comportamento nelle
diverse zone cerebrali: utilizzando questa analisi e le manifestazioni del comportamento di un
paziente si può risalire alla sede delle lesioni. Una lesione che interessa un’area particolare non
determina la scomparsa della sua funzione specifica: anche se la funzione può scomparire, essa può
ritornare in parte in seguito perché i centri rimasti indenni possono sia assumere direttamente la
funzione o modificarsi in modo tale da poter svolgere il compito principale. Le funzioni mentali
possono essere considerate anche come il prodotto di molte catene disposte in parallelo: quando si
interrompe una delle connessioni, si interrompe solo una delle catene, ma ciò non compromette in
maniera permanente le prestazioni dell’intero sistema. È molto difficile descrivere e misurare
11
obiettivamente i vari aspetti del comportamento. Per studiare con successo le relazioni che
intercorrono fra comportamento e localizzazioni cerebrali bisogna essere prima di tutto in grado di
identificare in maniera scientificamente rigorosa le proprietà del comportamento, le relazioni che
intercorrono tra il cervello e il comportamento per poi analizzare e localizzare le specifiche aree in
cui quest’ultimo ha origine. Il cervello è enormemente complesso e sia la struttura che la funzione
di molte delle sue parti sono ancora scarsamente conosciute. Le neuroscienze tutt’oggi sono
convinte che esistono i mezzi per esplorare l’organo che è sede della mente e che è possibile
arrivare a comprendere i meccanismi biologici che sono alla base delle funzioni mentali superiori,
per poi infine capire la relazione esistente tra cervello e comportamento e le basi biologiche e
fisiologiche di questo.
ORIGINE DEL COMPORTAMENTO: INTERAZIONE
CEREBRALI-INDIVIDUALI E L’ AMBIENTE
TRA
ASPETTI
Il comportamento può essere inteso come prodotto dell’interazione tra una serie di fattori genetici,
ambientali e maturazionali. Nel rapporto cervello-comportamento assumono un ruolo fondamentale
anche i fattori maturazionali. La maturazione delle funzioni cerebrali avviene in un periodo molto
lungo nella specie umana rispetto agli animali. Durante questo periodo le funzioni cerebrali
programmate geneticamente maturano in tempi più o meno fissi, ma in relazione con la
stimolazione ambientale. Quindi, la complessità e la maturazione delle funzioni cerebrali si realizza
solo grazie all’interazione con un ambiente esterno altrettanto ricco e complesso. Il comportamento
perciò può essere inteso come risposta del cervello a uno stimolo, il quale determina un’azione per
cui si agisce nell’ambiente e ne consegue una probabile modificazione dell’ambiente stesso.
L’individuo, così, risponde ad uno stimolo il quale viene elaborato dal cervello e dai rispettivi
processi cerebrali. Questa risposta, la quale ha origine nel cervello e nelle sue componenti, viene
espressa all’esterno dell’organismo e considerata quindi la manifestazione, l’espressione e l’origine
di un determinato comportamento in seguito ad una specifica situazione.
LO STIMOLO
Si definisce stimolo ogni evento, situazione esterna o interna, che ha un impatto sull’organismo tale
da modificarne in modo evidente il comportamento. Vi sono quattro caratteristiche che permettono
di descrivere uno stimolo:
1. Uno stimolo può essere quantificato e quindi è misurabile;
2. Uno stimolo deve rientrare all’interno del campo di recettività dell’organismo;
3. Uno stimolo deve produrre una risposta o evocare un’azione, un comportamento da parte di
un organismo;
4. Uno stimolo deve essere o esterno o interno all’organismo.
Uno stimolo è quindi una informazione che può essere esterna o interna. Gli stimoli esterni
provengono dall’ambiente e vengono classificati sulla base dei sensi che permettono la loro
ricezione. Gli stimoli interni provengono dall’interno dell’organismo stesso e sono recepiti con gli
organi di senso interni.
GLI ORGANI DI SENSO
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Gli esseri viventi entrano in contatto con il mondo esterno attraverso delle aperture, rappresentate
dagli organi di senso. Le informazioni raccolte da questi per i singoli tipi di stimolo vengono
regolarmente inviate al cervello tramite collegamenti molto particolari. Si distinguono perciò due
processi quando si entra in rapporto con la realtà: la ricezione e la sensazione.
La ricezione dello stimolo è possibile grazie ai recettori distribuiti nei sensi. Ci sono quattro sensi
speciali: la vista, l’udito, il gusto e l’olfatto. Sono detti speciali perché i quattro organi cui sono
strettamente connessi, cioè l’occhio, orecchio, lingue e naso sono tutti collocati sul capo, sono
complessi e altamente specializzati. I recettori che si trovano in questi organi sensoriali ci
permettono di vedere la luce, ascoltare suoni, ecc. A questi sensi speciali bisogna aggiungere i sensi
cutanei, chiamati così perché sono distribuiti sull’intera superficie della pelle. I recettori per tale
tipo di sensibilità sono attivati da stimolazioni specifiche. Si ricevono informazioni non solo
dall’esterno ma anche dall’interno del nostro corpo. I recettori dei sensi interni forniscono
informazioni che provengono dagli organi interni. Anche le informazioni che riguardano la
posizione degli arti, il loro movimento e la forza muscolare che viene impiegata sono di competenza
dei sensi interni. In quest’ultimo caso si parla di cinestesia per indicare la sensazione di movimento
o di posizione del corpo.
La sensazione anche se avviene nei recettori non è provocata solo dalla ricezione dello stimolo. La
sensazione implica una “trasduzione” dello stimolo, cioè una trasformazione dello stimolo. La
trasduzione delle informazioni esterne nei recettori avviene grazie agli impulsi nervosi che vengono
trasmessi al cervello seguendo vie molto particolari e passando da una cellula nervosa all’altra, cioè
da un neurone all’altro. Il neurone deve passare le informazioni, cioè gli impulsi nervosi e le deve
trasmettere ad altri neuroni. Per effettuare questo passaggio deve prima ricevere e poi inviare i dati.
Quindi il neurone dispone di una zona d’ingresso (dendriti) e di una zona d’uscita, cioè di
trasmissione (assone). Un’informazione quindi compie il seguente percorso: arriva ai dendriti, da
qui giunge al corpo cellulare attraversando la membrana e infine si dirige verso l’assone per essere
trasmessa ad un altro neurone. Mentre il percorso di uno stimolo e dell’informazione è in sintesi:


uno stimolo esterno è recepito dai recettori specializzati collocati nei singoli organi di senso;
nei recettori avviene la trasduzione. La sensazione, a sua volta, indica due processi iniziali di
recezione e trasduzione dell’informazione. Tutte queste informazioni sensoriali si producono
alla periferia del nostro corpo, sia interna che esterna, e da qui vengono inviate al cervello.
Il cervello è il centro a cui giungono informazioni dall’intera periferia del nostro corpo sia esterna
sia interna e da cui partono tutte le risposte. Perciò questo deve essere collegato con i sensi, interni
ed esterni, ed è grazie a questo collegamento che riceve, decifra e risponde alla informazioni. Ogni
azione o reazione richiede dunque l’attività del sistema nervoso.
IL SISTEMA NERVOSO
Il sistema nervoso si suddivide in Sistema Nervoso Centrale (SNC) e Sistema Nervoso Periferico
(SNP), che costituiscono il centro e periferia. I fili sono fasci di nervi, composti da milioni di
neuroni che attraversano il corpo come tanti cavi elettrici e costituiscono il Sistema Nervoso
Periferico. Il Sistema Nervoso Centrale è il centro dove giungono tutte le informazioni per essere
elaborate e da cui partono le risposte. Il Sistema Nervoso è suddiviso in due parti: somatico (ha il
compito di mediare con la realtà esterna) e autonomo (regola le funzioni vitali involontarie, cioè
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non sottoposte a un controllo cosciente, come la respirazione, la digestione). Il Sistema Nervoso
Centrale si suddivide in due parti: l’encefalo e il midollo spinale. L’encefalo è composto da due
emisferi, destro e sinistro, la cui superficie è detta corteccia cerebrale, costituita da quattro lobi per
ogni emisfero: frontale, parietale, occipitale e temporale. Nei lobi si trovano tre aree che assolvono
funzioni specifiche: sensoriali (arrivano gli stimoli), motorie (partono movimenti volontari del
corpo) e associative (combinano tra loro le informazioni giunte all’area sensoriale con quelle
dell’area motoria). La corteccia cerebrale pianifica le azioni e la risoluzione dei problemi, inoltre
controlla e reprime schemi di comportamento (es. quando si controllano reazioni violente provocate
da uno stato di collera).
ORIGINE DEL COMPORTAMENTO: INTERAZIONE TRA GENETICA E
AMBIENTE
Il comportamento, come si è detto, può essere inteso come prodotto dell’interazione tra una serie di
fattori genetici, ambientali e maturazionali. I fattori genetici costituiscono i processi interni
all’essere vivente, mentre i fattori ambientali rappresentano l’insieme dei processi esterni che
modificano i fattori genetici. Il comportamento presenta così la capacità di modificarsi sotto
l’influenza dell’ambiente.
LA GENETICA DEL COMPORTAMENTO
La genetica del comportamento studia i rapporti che esistono tra i geni e il comportamento,
compreso quello patologico. Gli individui hanno una vasta variabilità di comportamenti che dipende
dall’interazione tra i fattori genetici e quelli ambientali. I numerosi studi hanno confermato
l’influenza sia dei fattori ereditari sia dei fattori ambientali. I progressi della genetica consentono
oggi di decodificare le informazioni presenti nei geni e di stabilire correlazioni tra geni, eventi
biochimici a livello dei neuroni e comportamenti diversi. I geni agiscono sulla biochimica del
cervello e non sui comportamenti, le emozioni o i pensieri. I fattori biochimici creano delle
predisposizioni comportamentali su cui agiscono numerose influenze ambientali. Queste
intervengono sulle emozioni e sui pensieri dell’individuo, influenzando necessariamente anche i
processi biochimici del suo cervello. L’influenza dei geni e dell’ambiente è molto complessa. I
caratteri ereditari dipendono dall’azione combinata di più geni. L’azione dell’ambiente deriva da
fattori generali: il più importante sono le relazioni che si instaurano tra le vari persone. Così ad
esempio i gemelli monozigoti (con lo stesso patrimonio genetico), anche se condividono lo stesso
ambiente familiare, vivono ognuno relazioni diverse con le varie persone della famiglia. Per quanto
riguarda i caratteri più complessi come l’intelligenza o la personalità non è possibile separare
l’azione dell’ambiente da quella dei geni. I geni predispongono l’azione dell’ambiente e l’ambiente
innesca, a sua volta, l’azione dei geni: è un’interazione e un processo continuo e reciproco.
L’esempio più evidente dell’interazione tra genetica a ambiente sono gli istinti, che permettono di
innescare determinati comportamenti per la sopravvivenza. Gli istinti innati con l’evoluzione della
specie si sono modificati per permettere un adattamento all’ambiente sempre migliore che favorisse
la sopravvivenza. È ambientalmente stabile ogni carattere biologico, anche il comportamento, il cui
sviluppo è poco influenzato da variazioni ambientali. È ambientalmente labile ogni carattere
biologico il cui sviluppo è molto influenzato da variazioni ambientali. Il comportamento, perciò, è il
risultato di una complessa rete di fattori in cui l’eredità genetica e l’apprendimento nell’ambiente si
intrecciano in modo indissolubile.
14
LE DIFFERENZE INDIVIDUALI
Nella realtà esistono notevoli differenze tra individuo ed individuo. Queste differenze individuali
sono dovute sia a fattori ereditari sia a fattori ambientali. Ogni individuo nasce dotato di un certo
patrimonio genetico (genotipo); le informazioni contenute nel patrimonio genetico, però, non
vengono attuate automaticamente, ma attraverso l’interazione con l’ambiente che determina un
comportamento specifico. L’insieme dei caratteri osservabili di un individuo (fenotipo) deriva
dall’espressione di un dato genotipo in un dato ambiente.
ESEMPI E METODI ADOTTATI

Tutti i neonati sono dotati fin dalla nascita di alcuni riflessi innati che permettono loro di
rispondere agli stimoli ambientali e imparano ad adattarsi con alcuni comportamenti
all’ambiente di vita. Ciò nonostante è possibile individuare alcune differenze del
temperamento ed inoltre differenze fisiche.
 Il metodo familiare si basa sul presupposto che i comportamenti a base genetica saranno più
simili tra i membri di una stessa famiglia che non tra estranei, non tiene conto del fatto che
la somiglianza di comportamento può derivare dall’aver vissuto in ambienti di vita simili.
 Il metodo gemellare è analogo al metodo familiare ma si basa su paragoni fra gemelli.
 Il metodo basato sulle adozioni consiste nel confrontare il comportamento di due individui
geneticamente affini ma cresciuti in ambienti diversi, e di chiarire in che misura un certo
comportamento dipende da fattori ambientali.
COMPORTAMENTO: LE SITUAZIONI SCATENANTI
RAPPORTO TRA EMOZIONE E COMPORTAMENTO
L’emozione è caratterizzata da: un evento- stimolo che attiva l’emozione; la valutazione che
l’individuo dà dello stimolo; l’esperienza soggettiva o sentimento; una modificazione fisiologica
che dipende dall’attivazione del sistema nervoso autonomo (le modificazioni fisiologiche sono le
stesse ma è diversa l’interpretazione e la valutazione cognitiva che il soggetto dà allo stimolo,
etichettando così una stessa reazione fisica come emozioni diverse a seconda del contesto in cui si
trova); un impulso ad agire ed un comportamento manifesto. Le emozioni sono diverse perché
dipendono dalle valutazioni cognitive dell’evento e dall’attivazione fisiologica. Questi due aspetti si
influenzano reciprocamente, sono due fattori interni che avviano l’emozione provata
soggettivamente ed esibita all’esterno. Ogni tipo di emozione si fonda sulla stessa attivazione
fisiologica ma si differenzia l’una dall’altra perché deriva dall’interpretazione cognitiva del
soggetto che le prova. Quando si è emozionato, si ha:


Sensazioni intime: è un’esperienza soggettiva, intima. Le sensazioni provate dalla persona
emozionata sono sia organiche sia psicologiche. Le prime sono il risultato dell’attivazione
fisiologica, possono anche non essere avvertite. Le sensazioni psicologiche sono collegate ai
vari stati emotivi, possono essere positive o negative.
Comportamento esterno. La persona, quando è emozionata, si comporta in modi
obbiettivamente osservabili dall’esterno. Il volto assume una grande varietà di espressioni,
come la stessa postura cambia, da cui possiamo capire lo stato emotivo. Dal comportamento,
dalle singole azioni, dall’espressione degli occhi è possibile intuire le emozioni che una
persona sta provando.
15
Il comportamento espressivo non si limita a segnalare un’emozione, ma serve a intensificare e
anche a dare avvio ad un’esperienza emotiva. L’interazione tra gli elementi dell’emozione danno
origine a un processo unitario e articolato che può essere identificato come esperienza emotiva, cioè
la somma di aspetti cognitivi, fisiologici ed espressivi. L’esperienza emotiva è quindi composta da:
evento-stimolo; valutazione dell’evento; eccitazione fisiologica; sentimento; impulso ad agire;
comportamento/azione; effetto dell’azione. In ogni momento di questa catena di eventi che
rappresentano un’esperienza emozionale, il soggetto ricava dall’ambiente informazioni che gli
consentono di valutare diversamente lo stimolo oppure di definire con più precisione il sentimento
provato.
L’EMOZIONE E RAZIONALITÀ
L’emozione è importante perché permette di valutare la realtà, le ricadute delle nostre azioni, le
conseguenze di decisioni che non hanno soltanto un aspetto razionale. Gran parte delle nostre azioni
e decisioni implicano valutazioni emotive: non percepire questa componente “non razionale” può
portare a uno stato di indecisione o a non valutare le conseguenze di ciò che si fa, ad avere quelli
che la società definisce comportamenti “antisociali”. La conoscenza dell’importanza delle emozioni
nel nostro comportamento, scelte e decisioni in particolar modo, risale a un caso ormai lontano, il
caso Gage che a causa di una lesione cerebrale cambiò personalità.
RAPPORTO TRA MOTIVAZIONE E COMPORTAMENTO
Con il termine motivazione si intende un processo che ha origine da un bisogno biologico e che
attiva un comportamento che ha come scopo la sua soddisfazione. La motivazione ha origine con
l’emergere di un bisogno ma che comporta anche la spinta all’azione, orientata verso un obiettivo. Il
comportamento dell’uomo è motivato da una serie di cause, è orientato al raggiungimento di
determinati scopi e alla soddisfazione di specifici bisogni attraverso singole azioni o un insieme di
attività tra loro coordinate. Esistono motivazioni meno legate a bisogni biologici e più influenzate
dai bisogni che emergono dall’interazione sociale e da esigenze che sono proprie dell’essere umano.
Le motivazioni e i conseguenti comportamenti sono diversi da individuo ad individuo perché
persone diverse possono agire in modo simile per motivi che sono completamente diversi. Le
motivazioni non sempre sono consapevoli, ma a volte non si conosce la ragione per cui compiamo
un determinato comportamento. Freud sottolinea come buona parte dei nostri comportamenti abbia
un’origine inconscia e perciò sfuggano alla nostra consapevolezza. Le motivazioni intrinseche e
estrinseche si intrecciano ed interagiscono nel comportamento umano in modo tale che è spesso
difficile discriminarle.
GLI ISTINTI
Qualsiasi organismo è dotato di capacità necessarie per la sopravvivenza. Queste sono totalmente
indipendenti dalla volontà ma indispensabili per la vita. Vi sono altre attività rivolte verso l’esterno
che sono necessari per procurarsi il nutrimento e a riprodurre la specie. Una buona parte dei
comportamenti è regolata dagli istinti. Nelle specie più evolute gli istinti interagiscono con reazioni
emotive, l’apprendimento e il pensiero che rendono più complessa la relazione con l’ambiente.
Nella specie umana l’interazione tra i comportamenti istintivi, l’apprendimento e la cultura è
talmente forte che è molto difficile individuare, in un determinato comportamento quanto è dovuto
a fattori innati e quanto a fattori ambientali. Gli istinti sono comportamenti che, pur avendo basi
16
innate, sono innescati e guidati da stimoli presenti nell’ambiente, definiti dagli etologi stimoli
chiave. Il comportamento istintivo consiste in una sequenza di azioni ognuna delle quali è innescata
da uno stimolo chiave. Gli istinti erano considerati inizialmente come motivazione i quali davano
possibilità di sopravvivenza ad una specie, contribuivano così all’adattamento (Darwin). Un
esempio è l’esperimento compiuto da Lorenz. L’imprinting può essere considerato nell’uomo come
una predisposizione innata che può comunque essere modificata dall’interazione tra contesto e
soggetto. Anche lo schema dell’attaccamento, pur essendo basato su schemi prefissati, si differenzia
in seguito poiché dipende dal rapporto tra madre e figlio.
LE PULSIONI
Il concetto di istinto non può spiegare l’infinita varietà dei comportamenti umani. Con il termine di
pulsione si fa riferimento alla dimensione psicologica del bisogno che si esprime con uno stato di
disagio o di tensione interna e che l’individuo tende ad eliminare attraverso uno specifico
comportamento. A volte si presenta il bisogno senza che ci sia necessariamente la pulsione e
viceversa. Le pulsioni hanno sempre un’origine interna all’individuo e per questo sono
tradizionalmente distinte dagli incentivi o rinforzi che rappresentano eventi esterni in grado di dare
una risposta ai bisogni dell’individuo. Spesso gli incentivi sono socialmente e culturalmente
determinati.
RAPPORTO TRA PENSIERO, LINGUAGGIO E COMPORTAMENTO
Pensiero, azione e linguaggio sono fortemente interconnessi. Esistono teorie diverse per spiegare il
rapporto tra questi processi psicologici. I bambini difficilmente controllano il proprio
comportamento quando pensano, mentre negli adulti l’autocontrollo è maggiore e l’azione che
segue il pensiero prende la forma della decisione che può essere espressa e comunicata tramite il
linguaggio.
I termini pensiero (attività mentale che permette di entrare a contatto con il mondo esterno e di
costruire ipotesi sul mondo), azione (si interviene nell’ambiente) e linguaggio (codice che permette
di trasmettere, conservare ed elaborare le informazioni) comprendono fenomeni molto ampi che
possono essere distanti l’uno dall’altro. La scuola comportamentista ha postulato il pensiero come
azione. Secondo questi psicologi, il pensiero non è altro che un comportamento motorio, un
discorso silenzioso. Quando si pensa alla soluzione di un problema si parla con se stessi in silenzio,
muovendo ugualmente i muscoli utilizzati quando si parla ad alta voce. Quando si programma
un’azione si compiono piccoli movimenti degli arti utilizzati per eseguire quel comportamento.
Questo rapporto è evidente nei bambini molto piccoli dove pensiero ed azione sono strettamente
intrecciati. Solo crescendo i bambini diventano capaci di controllarsi, separando pensiero e
comportamento. I comportamentisti consideravano il linguaggio come una forma di comportamento
e il pensiero come un linguaggio interiorizzato, da considerare come un comportamento. È stato
notato che è possibile risolvere un problema anche quando i muscoli della bocca sono occupati in
altre attività o sono paralizzati. Il pensiero non è collegato necessariamente al linguaggio silenzioso
o alla motricità. Caso mai nei bambini avviene il contrario: il pensiero di questi può straripare nel
comportamento motorio.
LA DECISIONE
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Diversi studi hanno indagato in un altro tipo di rapporto tra pensiero ed azione, il momento della
decisione, ovvero quando un pensiero si trasforma in azione. I processi della decisione non sono
facili da individuare poiché molti fattori incidono su di esso. Di sicuro quando avviene il passaggio
da pensiero ad azione, conta molto il giudizio. Esistono due tipi di giudizi: giudizi di probabilità
(cercano di stabilire quante probabilità di successo hanno le azioni che si intendono compiere) e i
giudizi di valore (criteri individuali di successo/insuccesso). In teoria occorrerebbe stabilire la
propria decisione su dati oggettivi. Nella realtà, però, si prendono decisioni e si agisce quasi sempre
sulla base di opinioni personali, impressioni, informazioni incomplete o pregiudizi.
LE TEORIE DEL COMPORTAMENTO
Il comportamentismo o behaviorismo nasce e si sviluppa nel Nord America nel 1913, quando
Watson pubblicò un articolo dal titolo “La psicologia così come la vede il comportamentista”.
Secondo i comportamentisti l’oggetto di studio principale è il comportamento. Infatti se la
psicologia voleva diventare una scienza sperimentale, se la psicologia doveva diventare scientifica,
era necessario che si occupasse di fenomeni direttamente osservabili e indagabili in modo empirico
e oggettivo. Così il comportamento osservabile è l’unico oggetto possibile, mentre i processi
mentali non sono controllabili e quindi sono estranei allo studio scientifico diretto. Negli
esperimenti di Pavlov sui riflessi condizionati venivano valutati soltanto i dati obiettivi. Ebbe così
inizio con il comportamentismo la psicologia obiettiva o psicologia senz’anima (perché la
psicologia precedente si era occupata dello studio dell’anima, dato non osservabile). Ciò nonostante
i comportamentisti non negano l’esistenza di una vita interiore, ma affermano che può essere
studiata solo nelle sue manifestazioni osservabili dall’esterno. Il comportamento è il risultato
dell’adattamento all’ambiente perciò il comportamento è sempre posto in relazione con l’ambiente.
Il principio che guida e spiega lo sviluppo dei comportamenti e le loro modificazioni è quello del
condizionamento. Il condizionamento può avvenire tramite associazione Stimolo-Risposta oppure
per associazione Stimolo-Risposta-Rinforzo. I principali esponenti del comportamentismo sono:
Watson, Skinner, Tolman, Bandura, Thorndike, Pavlov e Hull.
IL COMPORTAMENTO
Il comportamento è stato inteso dagli stessi comportamentismi in maniera differente.
I comportamentisti hanno optato per il “corpo-esibente un comportamento” per i seguenti motivi:

di carattere metodologico: si sceglie di osservare il comportamento e di preferire le leggi
comportamentali perché il comportamento appare osservabile in maniera più “scientifica”
della psiche;

di carattere filosofico: il comportamento appare una variabile più importante per attingere
una reale conoscenza dell’uomo psicologico.

di carattere filosofico radicale: nega ogni rilevanza (se non addirittura l’esistenza) alla
coscienza e agli stati interiori, e teme che la sua introduzione confonda la spiegazione
scientifica.
Nel privilegiare il comportamento, la relazione comportamento-mente può essere intesa in diversi
modi:
18

un parallelismo psico-comportamentale in cui ogni evento psichico ha un suo corrispettivo
comportamentale;

una priorità del comportamento, da cui si originano in un secondo tempo i fenomeni psichici
(ad esempio, il pensiero si genera dall’azione, il livello motivazionale è provocato dalle
contingenze esterne di rinforzo, ecc.)
Il comportamento può essere inteso come un aspetto dell’uomo psicologico. Il comportamento, così
come ogni altro fenomeno psichico, è determinato, esistono cioè degli antecedenti, dati i quali, il
comportamento in questione non poteva non risultare. Se così non fosse, in psicologia sarebbe
possibile solo la descrizione, non la spiegazione. Le leggi psicologiche sono analoghe alle leggi che
governano il mondo fisico: l’uomo può perciò essere considerato come un meccanismo
perfezionato.
COMPORTAMENTO E SCIENTIFICITÀ
Motivo di questa posizione è l’aspirazione ad una fondazione scientifica della psicologia che ne
garantisse la capacità di progresso e la costante popolarità di cui godevano le scienze naturali.
Nei comportamentisti c’è l’esigenza di una psicologia che da un lato sia capace di risolvere i grandi
problemi incontrati dall’uomo di fronte alla macchina e all’urbanesimo, e dall’altro rispettosa di
taluni valori tipici dell’american way of life, quali l’ethos utopistico-democratico, che nega in
chiave egualitaristica un ruolo all’eredità e mette a fuoco la modificabilità "in positivo" della
personalità umana. Diversi psicologi hanno fatto l’implicita identificazione fra metodo sperimentale
e comportamentismo metodologico. Il comportamentista si è lasciato guidare dai risultati della sua
ricerca piuttosto che dalle assunzioni filosofiche dei suoi capiscuola.
LE CRITICHE AL
L’EVOLUZIONISMO
COMPORTAMENTISMO
E
IL
RAPPORTO
CON
Sebbene il comportamentismo continua ad avere una notevole influenza nella psicologia moderna
per la sua metodologia obiettiva e alla sua applicabilità dei meccanismi dell’apprendimento
nell’ambito dell’educazione, ha comunque dei limiti. Non spiega, infatti, come un bambino possa
risolvere un problema mai affrontato in precedenza e sul quale non ha agito nessun rinforzo o come
una persona che ha ricevuto un insegnamento in una direzione possa poi cambiare spontaneamente
le proprie convinzioni. Il comportamentismo inoltre, non tiene conto del ruolo attribuito agli
impulsi, ai desideri e alle inclinazioni personali.
Il comportamentismo fu influenzato dalla teoria evoluzionista di Darwin nella seconda metà
dell’ottocento. Ma tre queste vi è una importante differenza: l’evoluzionismo dava ai fattori
ereditari un ruolo che i comportamentisti non riconoscevano. Darwin individuò le relazioni tra
comportamento e ambiente (selezione naturale) e le affinità tra i comportamenti umani e animali,
nascendo da qui la psicologia animale e più tardi l’etologia. L’evoluzionismo aveva chiarito che tra
l’uomo e le altre specie animali non vi erano differenze radicali, per cui studiando il comportamento
animale si potesse arrivare a quello umano (come è avvenuto ad esempio per la teoria
dell’attaccamento con Lorenz, Harlow).
GLI AUTORI
19
I primi studi sul comportamento vennero effettuati, così, sugli animali per capire il comportamento
umano.
PAVLOV
Pavlov iniziò dall’osservazione dei suoi cani. Questi quando vedevano il cibo iniziavano a salivare:
rappresentava una risposta innata ad uno stimolo. Prima della presentazione del cibo venne fatto
suonare un campanello e dopo alcune presentazioni, al campanello non venne fatto seguire il cibo,
ma Pavlov notò che il cane presentava ugualmente una risposta salivare per lo stimolo precedente.
Pavlov definì il cibo stimolo incondizionato; il campanello stimolo condizionato e di conseguenza
chiamate risposta incondizionata la presentazione del cibo e risposta condizionata il suono della
campanella. Il condizionamento classico di Pavlov si basa quindi sull’associazione di uno stimolo
condizionato (per sua natura neutro, come il suono) ad una risposta incondizionata (cioè innata e
non appresa). Il cibo è considerato incondizionato perché causa la salivazione, cioè una risposta
innata o incondizionata. Se tale associazione avviene in un piccolo spazio di tempo, si avrà una
risposta incondizionata (salivazione) anche di fronte a uno stimolo condizionato (campanello) e
non solo a quello incondizionato (cibo). Pavlov definisce il comportamento come risposta ad uno
stimolo che, in passato, è stata associata ad una particolare esperienza. Dagli studi sul
condizionamento classico sono state individuate due principali leggi:

generalizzazione: anche piccole variazioni dello stimolo condizionato (ad esempio un suono
diverso di un oggetto simile alla campanella nell’esperimento di Pavlov) provocano il
fenomeno della generalizzazione

estinzione: se lo stimolo condizionato per un certo tempo non viene più accostato allo
stimolo incondizionato, perderà il suo effetto. Tuttavia, se si accosteranno di nuovo,
l’apprendimento dell’animale sarà abbastanza rapido (fenomeno del recupero).
THORNDIKE
Studiò il comportamento dei topi che chiusi in una gabbia potevano uscire solo azionando una leva
e come premio fuori trovavano del cibo. Per arrivare a quel traguardo i topi non seguivano un
metodo ma tentavano a caso finché non colpivano la leva. Col tempo essi imparavano a risolvere il
problema ed uscivano sempre più rapidamente. Thorndike spiegò questo comportamento con la
legge dell’effetto: si impara a ripetere determinati comportamenti che in passato hanno portato al
successo, mentre si dimenticano quelli negativi. Questo tipo di apprendimento è chiamato “per
tentativi ed errori” dato che si impara come risolvere un problema provando e scartando vari
comportamenti o varie idee finché non si trova quella giusta. Con il condizionamento operante il
soggetto apprende a operare in modo consapevole sull’ambiente con un comportamento che porta o
dovrebbe portare ad un certo risultato.
20
SKINNER
Nella Skinner box c’è un topo che può premere un tasto o spingere una leva per aprire una dispensa
di cibo. L’animale, spinto da un alta attivazione motivazionale, cerca il cibo. Per prove ed errori il
topo premerà un tasto per arrivare al cibo, che è un rinforzo positivo. Questo comportamento, se
rinforzato, tende ad essere più frequente fino a quando l’animale arriva a premere il tasto giusto. È
possibile inserire un rinforzo negativo, costituito da una leva che può dare una scossa elettrica.
L’animale ha appreso involontariamente un’operazione condizionata dal rinforzo positivo del cibo e
negativo della leva. Rispetto al precedente autore, Skinner inserisce il concetto di rinforzo che è lo
stimolo che aumenta la probabilità che si verifichi una data risposta, quella desiderata. Dunque un
rinforzo aumenta la possibilità che una persona compia i lavori che gli chiediamo di fare, perché sa
che alla fine otterrà una ricompensa, ad esempio la proposta di una ricompensa alla fine di un lavoro
aumenta la probabilità che noi risponderemo positivamente a quel lavoro, quando lo porteremo a
termine. In sintesi il rinforzo è fondamentale nella vita di tutti i giorni: tutti noi agiamo in un certo
modo perché alla fine avremo un rinforzo, che può essere costituito da una qualsiasi motivazione. Il
rinforzo è positivo quando si otterrà la comparsa della risposta che ci si aspetta; è negativo quando
sarà più probabile la comparsa di una risposta tale da evitare quello stimolo. La differenza tra
rinforzo negativo e punizione è che il primo aumenta la probabilità di risposta di evitamento dello
stimolo da esso rappresentato, mentre la punizione agisce direttamente a scoraggiare lo stimolo. La
punizione è spesso imprevedibile e somministrata direttamente per scoraggiare il comportamento
dopo che si è manifestato. La punizione non è efficace come il rinforzo negativo perché provoca un
sentimento di angoscia che non contribuisce a far rendere conto di quello che si è fatto. I rinforzi nel
condizionamento operante spiegato da Skinner posso essere:
- primari (come il cibo, il sonno, dare da bere) o secondari, come i soldi, i complimenti,
gratificazioni. Il voto scolastico può essere un rinforzo secondario quando lo studente studia per il
voto, e quindi, per riconoscimento, accettazione, soldi, premi, paghette…
- continuo (ad ogni volta avviene il rinforzo) o parziale (ogni tanto avviene il rinforzo). Il rinforzo
parziale è più lento ad instaurare ma più subdolo perché tiene legato il soggetto al comportamento
senza la garanzia di un rinforzo. Esempi nel regno “umano” sono il gioco d’azzardo, i gratta e vinci
dal tabaccaio, i casinò…
Secondo Skinner, il condizionamento operante agisce anche nella formazione del linguaggio dei
bambini. Quando il bambino punta a una cosa e dice la parola giusta, il genitore rafforza con un
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“bravo”, quando, invece, sbaglia associazione tra oggetto e parola, il genitore corregge e non
rinforza. Questa semplice spiegazione alla formazione del linguaggio ha però suscitato critiche da
Chomski per essere troppo riduttiva ma indicativa.
WATSON
Era certo che l’individuo fosse, nella sua totalità, il prodotto di condizionamenti ambientali e
attribuiva poca importanza ai tratti originari individuali tanto da affermare che egli poteva
prevedere ogni cosa di ogni persona e indirizzarla nella direzione da lui voluta purché gli fosse stata
data la possibilità di addestrarlo fin dall’infanzia. Il comportamentismo di Watson fonda su alcuni
concetti-chiave:
1. il metodo dell’introspezione deve essere sostituito dall’osservazione obiettiva del
comportamento;
2. la coscienza, anche se esiste, è del tutto irrilevante ai fini della spiegazione del
comportamento perché non suscettibile di trattamento scientifico;
3. le cause che determinano i comportamenti umani vanno ricercate nell’ambiente;
4. il comportamento è determinato da una serie di risposte apprese attraverso i processi di
condizionamento studiati da Pavlov;
5. oggetto di osservazione e studio deve essere il comportamento essendo l’esperienza conscia
imprecisa e difficile da delimitare e descrivere in termini esatti;
6. lo studio dei fenomeni mentali va sostituito con lo studio del comportamento, quest’ultimo è
osservabile in termini di connessioni fra stimoli e risposte: i processi mentali devono essere
studiati come risposte specifiche a specifici stimoli.
I principi cui Watson fa principale riferimento sono:


la frequenza e la sequenza: tali principi dicono che tanto più spesso o tanto più recentemente
un’associazione si è verificata, con tanta maggior probabilità si verificherà.
il condizionamento: il principio SI-RI-SC-RC di Pavlov.
Il condizionamento per il comportamentista è importante per due motivi:


individuava precise unità-stimolo (che consentivano di definire meglio l’ambiente cui
l’organismo reagisce) e precise unità-risposta;
offre un principio-chiave per spiegare la genesi delle risposte complesse: i comportamenti
complessi esibiti dall’uomo sono il risultato di una lunga storia di condizionamenti.
Importante è lo studio dell’apprendimento a cominciare dalle prime acquisizioni infantili.
L’ESPERIMENTO
Watson riprese l’esperimento di Pavlov e mise in pratica le associazioni su di un essere umano. E’
noto il suo esperimento con il bambino Albert e la creazione di una paura per associazione.
Albert veniva fatto giocare con un topolino bianco e peloso ed inizialmente non mostrava paura.
Mentre cercava di afferrare il topo, Watson associava l’azione con un suono molto forte e pauroso.
L’associazione topo e il rumore che spaventava Albert ebbe come risultato una generata paura in
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Albert, indotta per condizionamento e ripetizione. Albert, anche senza il rumore, ebbe sempre
paura dei topi.
Dunque:
SI (CONIGLIO)→ RI (AFFETTO)
SI (FORTE RUMORE)→RI (PAURA)
SI (CONIGLIO) ASSOCIATO A SC (RUMORE FORTE E PAUROSO)
SI (CONIGLIO) DIVENTA SC
SC (CONIGLIO) PRODUCE RC (PAURA).
APPRENDIMENTO EMOTIVO
La paura, la rabbia, è l’amore sono le emozioni elementari e si definiscano sulla base degli stimoli
ambientali che le provocano. A partire da quelle emozioni si costruiscono le altre. Studiando una
delle prime nevrosi sperimentali della storia della psicopatologia, (esperimento del piccolo Albert)
Watson provava ulteriormente che le nevrosi non sono né innate, né oggetti misteriosi, ma potevano
essere definite nei termini di risposte emozionali apprese (es: paura per i topi: topolino →SC e per
generalizzazione oggetti simili al topolino; rumore →SI; paura →risposta prima RI e poi RC dalla
presenza del topolino).
LE GRANDI TEORIE DELL’APPRENDIMENTO E IL RUOLO DELL’ESPERIENZA
Watson non riconosce la validità psicologica del concetto di istinto, anzi il bambino nasce senza
istinto. Più in generale l’uomo al momento della nascita non è dotato di un bagaglio psicologico
personale: è senza istinto, intelligenza o altre doti innate e sarà soltanto l’esperienza successiva a
caratterizzare la sua formazione psicologica (opzione ambientalista). Il neonato è una “tabula rasa”,
ha un repertorio di reazioni estremamente limitato e che interessa solo il corpo: riflessi posturali,
motorie, ghiandolari e muscolari, ma tali reazioni interessano solo il corpo e non sono tratti mentali.
Watson assume una posizione egualitaristica (gli uomini nascono tutti uguali) e ha fiducia di poter
influenzare lo sviluppo del soggetto controllando le esperienze cui esso viene esposto. Per Watson
l’uomo è totalmente il prodotto delle sue esperienze.
APPRENDIMENTO
Importanza centrale assume lo studio dell’apprendimento, cioè della maniera in cui l’uomo
acquisisce, attraverso l’esperienza, un repertorio di comportamenti motori, verbali, sociali, ecc. che
verranno poi ad essere gli elementi costitutivi della sua personalità complessiva. Gran parte delle
teorie dell’apprendimento elaborate fra il 1920 e il 1960 è riconducibile al comportamentismo. Le
più famose sono quelle di Tolman, Hull, Skinner e Bandura.
BANDURA
Bandura sostiene che l’apprendimento sociale avviene osservando le azioni degli altri nelle diverse
situazioni. Tale apprendimento presuppone anche processi cognitivi complessi e prevede l’uso di
rinforzi. L’apprendimento sociale è importante per lo studio delle comunicazioni di massa perché
nei contenuti dei media ci sono moltissime rappresentazioni o descrizioni della vita sociale. La
teoria dell’apprendimento sociale parte dal presupposto che le persone acquisiscano nuovi
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collegamenti tra stimoli presenti nel loro ambiente e modelli di azioni stabiliti che imparano a
compiere in risposta a quelle condizioni. Questi collegamenti, chiamati “abitudini”, tendono a
diventare ricorrenti quando vengono rinforzati. Il rinforzo è una piacevole esperienza che spinge a
rispondere ad un certo stimolo con un determinato comportamento. Quindi se un modello di azione
usato come risposta ad uno stimolo viene rinforzato, aumenta la probabilità che quel particolare
comportamento diventi un modello abituale di rispondere a quel determinato stimolo. Il rinforzo
perciò si realizza quando l’adozione di un modello di azione adeguato da parte dell’individuo dà
origine a qualche gratificazione. Se una figura-modello agisce secondo una particolare forma di
comportamento e se questa è identificata come soluzione ad un problema o come gratificazione,
aumentano le probabilità che venga adottata dagli altri. Se questa adozione ha conseguenze positive
è probabile che quel particolare modello resti come una parte più o meno permanente del repertorio
personale degli individui. L’apprendimento, così, può essere anche involontario e avere una precisa
volontà di manipolazione, come accade con la pubblicità.
L’APPRENDIMENTO SOCIALE E LA FORMAZIONE DELLA PERSONALITÀ
L’attaccamento ai pochi principi basilari della learning theory (basati sull’analisi degli
apprendimenti semplici di animali) ha portato all’estrapolazione meccanica di questi principi anche
a fenomeni quali il linguaggio, le interazioni sociali, le strutture di personalità, impedendo, per
lungo tempo, ai comportamentisti di offrire un contributo fondamentale alla comprensione della
specificità e della complessità dei fenomeni psicologici sociali relativamente a quelle parti della
personalità sociale prodotto di apprendimenti (piuttosto che il risultato della maturazione di strutture
geneticamente predeterminate).
TOLMAN
Tolman si discosta dagli altri comportamentisti (si parla anche di neocomportamentismo) poiché
considerò nella sua teoria anche idee cognitiviste e psicoanalitiche, ma continuò tuttavia ad
adottarne il metodo e il principale oggetto del comportamentismo, cioè il comportamento.
Tolman spiegò empiricamente la problematica dell'intenzionalità del comportamento. Lo scopo è
descrittivamente presente quando è presente almeno una delle seguenti condizioni:
• la costanza dell'oggetto-meta a dispetto delle variazioni nell'adattamento agli ostacoli intervenienti
• la variazione nella direzione finale corrispondente alle posizioni differenti dell'oggetto-meta
• la cessazione dell'attività quando un determinato oggetto-meta è tolto
In questi casi la descrizione del mero comportamento risulterebbe insoddisfacente senza la presenza
di un oggetto-meta. Tolman cita quindi soventemente il ruolo di variabili intervenienti riconoscendo
che un metodo oggettivo riesce a definire soltanto la variabile dipendente, in questo caso
rappresentata dal comportamento, ma da esso è possibile dedurre la presenza e le caratteristiche
delle variabili intervenienti mentali. Infatti riuscendo a definire i valori delle variabili indipendenti e
i valori del comportamento effettivo, è possibile dedurre le variabili intervenienti (proprietà che il
soggetto attribuisce all'oggetto, connessioni di scopo, capacità) che come dice Tolman sono entità
obiettive, definite nei termini delle funzioni "f" che le connettono alle variabili indipendenti da una
parte e al comportamento finale dall'altra. Secondo lo schema S-R dunque si ha:
R = f(S)
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la (R) risposta comportamentale è in funzione (f) dello stimolo (S) che l'ambiente esercita
sull'individuo. (Secondo il modello del comportamentismo ortodosso; vedi John Watson, ma anche
Burrhus Skinner)
ma devono essere riferite pure ad una variabile che interviene fra S e R: R = f(I * S)
S-I-R.
Il superamento della connessione S-R sarebbe avvenuto in un primo tempo in base all'importanza di
variabili intervenienti dell'organismo, in un secondo tempo con chiaro riferimento alla personalità.
HULL
Hull propose un modello di apprendimento meccanico. Oltre alle variabili stimolo-risposta, esistono
altri fattori che contribuiscono all’apprendimento di nuove informazioni:



Addestramento: il ruolo fondamentale dell'expertise nelle associazioni tra stimolo e risposta;
Deterrenti: il ruolo giocato dai distruttori, che ostacolano l'apprendimento;
Consolidatori: fattori che favoriscono l'apprendimento e consolidano la traccia nella
memoria.
Secondo Hull, l'apprendimento è visto come un "dispositivo meccanico" che funziona in base ad
una serie di interazioni tra le parti, in modo da creare una coerenza del processo. Secondo gli studi
di Hull, l'animale emette una risposta di fronte ad una situazione stimolo se la stessa risposta si è
rivelata utile alla riduzione della tensione di una pulsione (ad esempio la fame). Non si sviluppa
alcuna relazione S-R se non è presente una condizione fisiologica che generi una pulsione, una
spinta ad esplorare l'ambiente. Nella concezione di Hull la pulsione è un fattore interno, una
proprietà dell'organismo; è una variabile interveniente, un fattore che si colloca tra lo stimolo
(variabile indipendente) e la risposta (variabile dipendente).
COMPORTAMENTISMO CONTRO PSICOANALISI
Il comportamentismo è storicamente contrapposto alla psicoanalisi; il primo nega lo studio dei
processi che conducono a un dato comportamento. Dunque il cervello sarebbe una “scatola nera”,
che non è possibile studiare poiché non è direttamente osservabile, e ci si limita a studiare e a
quantificare i comportamenti umani a seguito di determinate stimolazioni (paradigma stimolorisposta). Il comportamentismo usa attivamente il metodo scientifico e lo studio avviene
rigorosamente in condizioni controllate di laboratorio. La psicoanalisi è molto diversa; lo studio non
avviene su campioni numerosi, è preferito lo studio clinico individuale. Non si presta la stessa
attenzione per il comportamento oggettivo ma si cerca di interpretarlo alla luce di motivazioni
consce e inconsce dell’individuo, soggettive, personali e difficilmente oggettivabili e dimostrabili
dal punto di vista sperimentale. Lo sperimentatore comportamentista è uno scienziato freddo e
distaccato, lo psicoanalista è invece partecipe dell’osservazione che segue nel suo complesso, non
nel dettaglio e non quantifica, ma interpreta liberamente seguendo anche (e a volte, soprattutto) le
proprie impressioni personali. Alla luce di questo non sorprende che ci sia uno scontro storico (che
dura ancora oggi) tra comportamentisti e psicoanalisti.
LA TERAPIA COMPORTAMENTISTA E COGNITIVISTA
L’approccio clinico dei comportamentisti è da sempre contrapposto a quello della psicoanalisi. Per
questi psicologi il sintomo non è il prodotto di un conflitto intrapsichico, ma un problema a sé
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stante. L’eliminazione del sintomo coincide con la guarigione. Le terapie comportamentiste sono
direttamente derivate dalle scoperte scientifiche. La scoperta del condizionamento di Skinner e
Pavlov hanno portato a terapie che cercano di rinforzare i comportamenti positivi ed eliminare
quelli negativi. Una delle principali tecniche è quella della desensibilizzazione sistematica,
particolarmente usata per la cura delle fobie. Con questa tecnica si cerca di associare allo stimolo
fobico una condizione di rilassamento. Le tecniche comportamentiste sono ritenute particolarmente
utili con quelle persone che sono troppo danneggiate per ricevere cure da psicoterapie basate sulla
comunicazione verbale. La terapia comportamentista è stata rinnovata dall’approccio cognitivocomportamentale. La terapia indaga sulle distorsioni del pensiero rispetto a ciò che la maggior parte
degli individui considererebbe un modo realistico di pensare e interpretare la realtà, cercando poi di
intervenire per modificare gli schemi mentali che causano il malessere.
LA PSICOANALISI
Il termine psicoanalisi indica contemporaneamente tre cose diverse: 1. un metodo terapeutico
finalizzato soprattutto alla cura dei pazienti nevrotici; 2. una teoria psicologica che cerca di spiegare
in modo unitario il comportamento; 3. un’applicazione di tale teoria allo studio dei fenomeni
culturali e sociali. Negli ultimi decenni dell’ottocento nasce un dibattito tra la psichiatria somatica,
che sostiene che le anomalie del comportamento siano sostanzialmente riconducibili a processi
patologici cerebrali, e la psichiatria dinamica, che ne cerca le cause anche nella sfera mentale. Il
fondatore della psicoanalisi è Freud che, dopo aver studiato i disturbi mentali, afferma che non
esiste una netta frattura tra il soggetto nevrotico e gli individui “normali”, così le scoperte compiute
nel campo della patologia possono essere applicate alla natura umana in generale. La psicoanalisi
diviene uno strumento efficace per comprendere tutti i fenomeni culturali e sociali nelle loro
dinamiche più profonde.
FREUD
Freud parte dal presupposto che non tutto quello che avviene nella mente sia trasparente alla
coscienza. La psiche non è esclusivamente coscienza ma è un apparato complesso nel cui ambito
esiste una molteplicità di forze e processi in conflitto tra loro e in gran parte inconsci. C’è una parte
della psiche, irrazionale, che influenza il comportamento all’insaputa dell’individuo: l’inconscio.
L’apparato psichico è descritto da Freud in termini di opposizione conscio-inconscio; ciò di cui
l’uomo è cosciente costituisce soltanto una piccola parte, mentre il resto che è non visibile
corrisponde all’inconscio. L’apparato psichico viene descritto secondo diversi punti di vita: 1. È
caratterizzato dal conflitto tra pulsioni (aggressive) e forze ad esse contrarie; 2. ha a disposizione
una certa quantità di energia (libido) che deve comunque trovare uno sfogo; 3. è dominato da tre
istanze dotate di funzioni diverse e spesso in conflitto tra di loro: Es, Io e Super-Io; 4. può essere
suddiviso in tre diverse sistemi: conscio, preconscio e inconscio. Il livello cosciente contiene tutto
ciò di cui siamo consapevoli; il livello preconscio è formato da esperienze che possono affiorare
alla consapevolezza in particolari circostanze; il livello inconscio è costituito da esperienze
generalmente risalenti all’infanzia, spesso accompagnate da sensi di colpa, che non possono
riaffiorare alla coscienza, perché susciterebbero nell’individuo un’angoscia intollerabile.
L’inconscio è la parte più vasta della psiche umana. Vi si trovano contenuti psichici e pulsioni che
sono stati rimossi e dimenticati dalla coscienza; tuttavia mantengono la loro energia pulsionale e
condizionano azioni, interessi e motivazioni degli individui. I contenuti inconsci possono essere
scoperti attraverso l’analisi di comportamenti in genere considerati di scarsa importanza, come i
comportamenti nevrotici, le libere associazioni, i lapsus ed in particolare i sogni. I conflitti emotivi
che si verificano nella vita psichica del bambino restano irrisolti nell’adulto nevrotico; possono
essere evidenziati ed eliminati attraverso la terapia psicoanalitica, fondata dallo stesso Freud.
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ES, IO, SUPER IO
Per Freud il sistema psichico è costituito da tre componenti:
1. Es, dominio delle tendenze irrazionali e dell’inconscio, costituito principalmente da istinti e
fattori ereditari;
2. Io, dominio della vita cosciente, costituito dall’interazione fra Es e ambiente;
3. Super Io, che comprende norme, leggi, divieti e precetti provenienti dai genitori e, in genere
dalla società, che il bambino interiorizza dai tre ai sei anni; svolge la funzione di censura
morale.
DETERMINISMO PSICHICO
Freud sostiene che ogni comportamento non avviene per caso ma è determinato da fatti precedenti,
questo è chiamato determinismo psichico. La psicoanalisi afferma che è sempre possibile trovare i
motivi, anche se non ci si rende conto della loro presenza. La formazione della personalità, secondo
Freud, avviene per fasi: il modo in cui vengono trascorse e superate teli fasi influenzerà, poi, il
comportamento adulto. Lo sviluppo, quindi, può procedere naturalmente o avere dei ritardi per
l’intervento della fissazione, che blocca lo sviluppo psichico, o della regressione, che lo fa tornare a
comportamenti ormai superati (possono comparire come sintomi nevrotici). Quindi la personalità è
caratterizzata da comportamenti specifici e precisi.
ISTINTI E COMPORTAMENTO: EROS E THANATOS
Le pulsioni (cariche innate che ci spingono verso una meta) per Freud sono suddivise in pulsioni di
vita e pulsioni di morte. Le pulsioni di vita (eros, come amore dal dio greco) tendono a mantenere la
coesione dell’organismo e comprendono le pulsioni sessuali e dell’io. Le pulsioni di morte
(thanatos, dal dio greco della morte) rappresentano la tendenza di ogni essere vivente a tornare allo
stato inorganico. Le pulsioni di morte agiscono in due modi: come forze che tendono a distruggere
l’individuo dall’interno o come proiezione di tale distruttività verso l’esterno. La descrizione di
Freud dell’eros comprende la creatività e gli istinti. L'istinto di morte è definito come un
comportamento istintivo finalizzato alla creazione di una condizione di calma, o non-esistenza. Le
manifestazioni dolorose e distruttive è vista da Freud come effetto delle pulsioni di morte, con le
quali è possibile spiegare anche il fenomeno per cui l’individuo nevrotico continui a ripetere le
esperienze per lui più dolorose: il nevrotico manifesta il desiderio di farsi del male. L’eros
determina comportamenti che permettono all’individuo di socializzare e vivere in comunità.
Le pulsioni di vita e di morte non appaiono mai del tutto separate.
L’APPROCCIO PSICANALITICO ALL’AGGRESSIVITÀ
L’aggressività per Freud deriva dall’azione dell’istinto di morte che allontana la distruttività dall’Io
proiettandola all’esterno.
L’analisi freudiana dell’aggressività muove da un’interpretazione della stessa come parte della
pulsione sessuale. Nella sua descrizione dello sviluppo psicosessuale infantile, l’elemento
aggressivo entra come una componente dell’evoluzione della pulsione. Pertanto da una prima fase
orale in cui aggressività e libido sono strettamente intrecciate (il piacere di succhiare diventa spesso
piacere di mordere, si approda alla fase anale, durante la quale le maggiori richieste dei genitori in
termini di controllo e di limitazione dei comportamenti, scatenano gli atteggiamenti aggressivi dei
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piccoli e preludono allo “scontro” con le istanze educative adulte. Durante questi anni, secondo
Freud, si inaugura la scottante problematica dell’educazione all’aggressività, poiché
dall’atteggiamento rigido o tollerante assunto dai genitori, specie rispetto ai problemi del controllo
degli sfinteri, dipenderà la qualità, la direzione dell’aggressività e la sua possibile sublimazione.
Nella terza fase (fallico, edipica), il conflitto edipico dirige l’aggressività, che si trasforma in
desiderio di morte, thanatos, verso il genitore dello stesso sesso, con il conseguente sviluppo di
sensi di colpa, paure di vendetta e di perdita d’amore da parte del “genitore rivale”. Nelle opere
successive Freud concepisce la carica aggressiva, come primaria manifestazione dell’istinto di
morte, connotandola di significati di distruzione che il soggetto rivolge verso se stesso o gli altri
Non più pertanto mescolata alla pulsione sessuale, ma indipendente da quest’ultima. Il significato
distruttivo, negativo dell’energia aggressiva, non viene condiviso dagli psicanalisti, cosiddetti
revisionisti, quali Adler e Fromm, i quali sottolineano il carattere di energia adattiva e tendente
all’autorealizzazione dell’aggressività . In particolare E. Fromm, in “Anatomia della distruttività
umana” distingue due tipi di aggressività, rimarcandone il significato positivo. Fromm distingue
un’aggressività benigna, positiva, funzionale, da un’aggressività maligna, negativa, che confina con
la distruttività. La prima, benigna, difensiva, al servizio della sopravvivenza dell’uomo e degli
animali. Si manifesta quando vengono attaccati interessi vitali, è filogeneticamente programmatica.
Cessa quando viene a mancare l’agente aggressore. Secondo Fromm essa è parte integrante della
natura umana, ma non deve essere considerata un “istinto”, nel senso consueto del termine.
L’aggressività maligna, la crudeltà, la distruttività è specifica degli uomini (lo dimentichiamo
spesso, purtroppo) ed è praticamente assente nella maggior parte dei mammiferi, non è
programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva. Se viene soddisfatta, spesso,
procura piacere. L’analisi di Fromm comprende non soltanto le componenti strutturali
dell’aggressività, ma anche quelle relazionali, situazionali, sociali. L’analisi di alcuni casi clinici,
quali Himmler, Stalin, Hitler e l’orientamento biofiliaco (amore per la vita), costituiscono, specie
quest’ultimo, riflessioni critiche e teoriche feconde.
CRITICHE ALLA CONCEZIONE PSICOANALITICA DELL’AGGRESSIVITÀ
Questa teoria freudiana è accettata dalla maggior parte degli psicoanalisti, tuttavia non mancano
polemiche e controversie. Alcuni studiosi vedono prevalere in essa la speculazione filosofica
rispetto all’osservatore scientifica. Freud stesso ammette che la teoria ha senz’altro un carattere
speculativo, anche se fornisce una spiegazione coerente di molte osservazioni cliniche.
L’APPROCCIO ETOLOGICO
Konrad Lorenz con il testo “Il cosiddetto male“ sostiene che l’aggressività sia un bene non un
male e che assolva a tre funzioni:



distribuzione territoriale (effetto di lotte ,conflitti)
selezione sessuale (lotte tra maschi, in seguito alle quali i più forti si accoppiano. Risultato:
discendenza
migliore)
difesa della prole
definizione di ordine gerarchico (società di animali gerarchicamente strutturato).
L’aggressività è pertanto funzionale e utile. Le deduzioni di Lorenz risultano esatte finché egli
inquadra l’aggressività come difensiva, ma Lorenz si spinge oltre, classificando tutta l’aggressività
umana come il risultato di un’aggressione originata biologicamente che determinati fattori
trasformano da forza benefica, positiva, in distruttività .Secondo Lorenz esistono tuttavia alcune
conseguenze nocive dell’aggressività. Quali i meccanismi frenanti, determinate dall’evoluzione, (i
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comportamenti di minaccia, di pacificazione, di sottomissione, di fuga). Tali comportamenti
riducono al minimo i danni dell’aggressività. Lorenz inoltre sottolinea il ruolo dei rituali dei
combattimenti che frenano le conseguenze nocive dell’aggressività. L’approccio etologico, in
ultima analisi, sostiene il modello psico-idraulico delle pulsioni, assunto altresì dalla psicanalisi
freudiana e ipotizza l’esistenza di centri neuronali dell’aggressività. I motivi che caratterizzano
l’aggressività umana, sempre più pericolosa e sovvertitrice dell’ordine naturale sono: uno è lo
sviluppo tecnologico, che impedisce il contatto personale tra aggressore e vittima che rende
impossibile, molto difficile l’attuazione dei meccanismi frenanti; un altro è la vita in città sempre
più sovraffollate e stressanti. Le soluzioni per ridurre l’aggressività: lotta ritualizzata (sports, ma
secondo alcuni non riducono, anzi incentivano l’aggressività); le ricerche ed i dati empirici
contraddicono le ipotesi degli etologi; la paleontologia, l’antropologia e la storia offrono ampie
prove contro le tesi istintivistiche degli etologie di psicanalisti. In primo luogo i gruppi umani
presentano gradi così diversi di aggressività che sarebbe impossibile spiegare i fatti col presupposto
che distruttività e crudeltà siano innate. In secondo luogo, i diversi gradi di distruttività possono
essere correlati ad altri fattori fisici ed alle differenze esistenti nelle relative strutture sociali. Infine
il grado di distruttività, nelle sue variegate forme, aumenta con lo sviluppo della “civiltà”, spesso
non accade il contrario. In ultima analisi, l’uomo si differenzia dagli animali perché uccide tortura
altri simili senza alcun motivo, biologico e spesso senza alcun motivo di carattere economico.
LA TEORIA FRUSTRAZIONE-AGGRESSIVITÀ
La teoria frustrazione aggressività formulata da Dollard e Miller mescola aspetti della psicanalisi e
della teoria comportamentistica americana. In primo luogo perché si avvale di una spiegazione
psicoidraulica, in quanto considera l’aggressività una reazione dell’io alla frustrazione e perché
dirige l’aggressività verso un bersaglio sostitutivo. In secondo luogo attribuisce alle influenze
dell’ambiente le cause del comportamento aggressivo. Gli autori, applicando il paradigma s-r,
stimolo risposta, caratteristico del behaviorismo, considerano la frustrazione una vanificazione di
uno scopo, di una finalità posta in essere dal soggetto. Quando la risposta meta subisce una
interferenza, un’interruzione si scatena di conseguenza una reazione aggressiva.
CRITICHE ALLA TEORIA FRUSTRAZIONE-AGGRESSIVITÀ
Alcuni autori sostengono che l’aggressività possa essere scatenata non sempre da un particolare
evento frustrante (d’altronde nelle vicissitudini della vita delle persone sono presenti in vari gradi e
misure conflitti e frustrazioni), determinato da eventi esterni, ma da uno stato di eccitazione, di
attivazione interna (arousal), meccanismo che regola le componenti fisiologiche delle motivazioni.
L. Berkowitz sostiene che se alle frustrazioni si associano indizi, cosiddetti aggressivi, la reazione
aggressiva è più probabile (effetto arma). Il comportamento aggressivo si presenta anche come un
attacco diretto o indiretto verso ciò che è ritenuta la causa della frustrazione.
CONCEZIONI BASATE SULL’APPRENDIMENTO
Secondo tale approccio di matrice comportamentistica l’aggressività è appresa tramite lo schema, il
paradigma del condizionamento operante, attraverso l’imitazione. Nelle indagini di laboratorio, per
effetto della manipolazione dei rinforzi è possibile sollecitare risposte aggressive. Ma è proprio vero
che l’aggressività è appresa? Nelle nostre società i comportamenti aggressivi non sempre vengono
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approvati. Tuttavia in alcuni contesti taluni comportamenti aggressivi vengono rinforzati
maggiormente di quelli pacifici. I mass-media, specie la televisione incoraggia ruoli e stereotipi,
tipicamente maschili basati sul machismo, sulla dominanza, sull’aggressività. La caratterizzazione
sessuale dei maschi si acquisisce nel corso del processo educativo. La mancanza di sufficiente
competenza nel controllo e nella gestione dei rinforzi che vengono somministrati genera talvolta
comportamenti violenti ed aggressivi. Lo psicologo W. Bandura sostiene l’importanza
dell’imitazione nella produzione di risposte aggressive. Lo psicologo prende le distanze dal
procedimento per tentativi ed errori del condizionamento operante, sottolineando che l’aggressività
è frutto dell’imitazione soprattutto se viene incentivata. Le teorie incentrate sull’apprendimento, in
definitiva attribuiscono estrema importanza all’ambiente, svalutano le componenti individuali della
persona, nonché le attribuzioni di senso, etici, che determinano i comportamenti umani, tralasciando
la riflessione sui fattori situazionali e contestuali che determinano l’aggressività.
La stessa persona è aggressiva in un contesto piuttosto che in un altro.
L’APPROCCIO DELLA SOCIAL COGNITION
La psicologia sociale cognitiva considera il soggetto attivo, elaboratore di informazioni, che attua
un costante monitoraggio della vita sociale, servendosi delle cosiddette euristiche o scorciatoie di
pensiero che gli consentono una immediata lettura, magari di tipo pregiudiziale, dei fenomeni
sociali. In tale contesto teorico, l’aggressività è relativa al tipo di percezione sociale offerta dal
singolo ed è relativa al contesto sociale. Le ricerche degli psicologi sociali si orientano verso
l’individuazione e l’analisi delle variabili del fenomeno aggressività, quali







l’antipatia,
il senso di giustizia, intesa come riparazione, giustificazione dell’atto aggressivo,
lo spirito competitivo,
l’obbedienza all’autorità (il famoso esperimento di Milgram),
le esigenze della situazione, del potere del gruppo (il conformismo),
le tensioni tra i gruppi,
l’acquisizione delle norme sociali aggressive (gli script aggressivi)
LA PSICOANALISI E LE SCIENZE UMANE
Alcuni pedagogisti, come Neil o Spielrein, crearono comunità infantili, ispirandosi alle idee
freudiane, in cui vivevano con grande libertà. Freud si occupò anche di antropologia quando studiò
le origini del totemismo e del tabù dell’incesto nelle società primitive. Inoltre si dedicò allo studio
della società: Freud sostiene che le forze che tengono unite il gruppo sono la libido e
l’identificazione.
STRESS
Il termine stress, etimologicamente proviene dall’inglese e significa “sforzo, spinta”. Nella nostra
lingua questo vocabolo è però un apporto recente, che si è diffuso tra i medici in occasione d’un
ciclo di conferenze tenute da Hans Selye in varie città italiane verso la metà degli anni ’50. Lo
stesso Selye indica con il termine stress lo stato di tensione aspecifica della materia vivente, che si
manifesta mediante trasformazioni morfologiche tangibili in vari organi, e particolarmente nelle
ghiandole endocrine che stanno sotto il controllo dell’ipofisi anteriore. Inoltre lo definisce come uno
stato molto vicino a quello dell’ansia e, come l’ansia può essere normale e a volte anche ottimale; è
uno stato emotivo e organico della persona che deve adattarsi ad un evento nuovo e/o valutato
“pericoloso” per sé. Tutte le novità, anche diverse tra loro, provocano, nell’organismo, sempre la
medesima risposta: per adattarsi a ciascuna di esse si ha sempre e solo un aumento di cortisone e di
30
adrenalina, cioè uno stato di attivazione, di allerta. Il cortisone è stato definito come ormone dello
stress, proprio perché è tipico di questo stato paragonato all’olio che lubrifica un motore e che, nella
giusta misura e per tempi limitati, è estremamente utile: ecco perché Seyle ha scritto che lo “stress è
il sale della vita”. In questo caso, noi siamo in perfetta forma fisica e psicologica e le capacità
intellettive sono potenziate al massimo. I disturbi cominciano quando lo stress, e le risposte
ormonali legate ad esso, superano la giusta misura e i tempi limitati. Un ambiente con poche
stimolazioni, monotono, provoca lo stesso disagio di quello con stimolazioni eccessive; la
conclusione è che il grado ottimale di stimolazioni e di stress sta nel mezzo. Questo grado varia da
persona a persona: alcuni si sentono a proprio agio e rendono di più quando hanno una vita
tranquilla altri, invece, preferiscono luoghi vivaci e lavori incalzanti.
FRUSTRAZIONE
Con il termine frustrazione s'intende quello stato psicologico derivante da un mancato o inibito
bisogno dovuto a cause esterne o a cause endogene ovvero lo stato psichico in cui ci si viene a
trovare quando si è bloccati o impediti nel soddisfacimento di un proprio bisogno o desiderio.
CAUSE
I blocchi o gli impedimenti alla realizzazione di una necessità, possono derivare da fattori
ambientali, sociali o endogeni.
1. Cause ambientali: sono gli ostacoli dovuti all'ambiente fisico geografico che ci circonda
Esempio, l'assenza di ombra nel deserto è un ostacolo al suo attraversamento, la lontananza
di un luogo impedisce la sua frequentazione continua; il rumore, la mancanza di igiene,
il freddo, la cattiva illuminazione dell'ambiente di lavoro, possono essere causa di
frustrazione ambientale.
2. Cause sociali: più difficili da accettare delle precedenti, sono gli ostacoli dati dalle regole
sociali, sia di interazione con i propri superiori in ambiente lavorativo, sia di iterazione tra
minoranze etniche o religiose. Es.: Il capo ufficio che non si interessa delle nostre richieste,
la situazione degli italiani sbarcati in America (e in generale di tutti gli emigranti del
mondo).
3. Cause endogene: sono le più difficili da accettare, sono dovute al conflitto tra due bisogni
della persona. Es.: nell'adolescente il conflitto tra autonomia e protezione familiare.
Le cause di frustrazione ambientali e sociali sono studiate anche da altre
discipline, geografia, ingegneria, sociologia, le cause endogene sono più propriamente studiate dalla
psicologia poiché sono derivate dalla complessità interiore dell'individuo che spesso si trova nella
situazione conflittuale secondo cui per soddisfare un bisogno deve rinunciare a un altro.
Una delle teorie che si è occupata del rapporto tra frustrazione e aggressività è quella di Dollard in
cui si afferma che alla base di un comportamento aggressivo (risposta) vi è sempre un evento
frustrante (stimolo).
Uno strumento di misura della frustrazione è il Picture Frustration Study di Rosenzweig. È
un test semi-proiettivo, formato da 24 vignette che illustrano altrettante situazioni in cui compare
una figura frustrante e una frustrata. Il test, nelle tre forme per bambini, adolescenti e adulti,
evidenzia due atteggiamenti, quale risposta indotta dall'identificazione con la figura frustrata:

la direzione dell'aggressività (rivolta all'esterno, all'interno o repressa);
31

il tipo di aggressività (prevalente e tipica del soggetto).
TESI SULLA FRUSTRAZIONE
-
L’inibizione dell’aggressione: attraverso la punizione, la minaccia, si può bloccare la
manifestazione del comportamento aggressivo, ma non la sua proporzione a riprodursi.
Lo spostamento dell’aggressione : quando è esposta al rischio della punizione, si orienta su
un soggetto meno minaccioso o cerca di mimetizzarsi(sarcasmo, ironia)
La catarsi: pone l’accento sul ruolo purificatore dell’aggressione, come scarica emozionale
che consente di diminuire la motivazione ad aggredire(propositi ironici, imprecazioni, colpo
di pugno sul tavolo…); la mancanza di movimento, di cibo, le eccitazioni forti, gli effetti del
calore e del rumore sono importanti fattori scatenanti dell’aggressività.
I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO NEL BAMBINO
CATTIVO COMPORTAMENTO DEL BAMBINO
TIPOLOGIE DEL COMPORTAMENTO SCORRETTO
AGGRESSIONE: Attacchi al livello fisico o verbale nei confronti dell’insegnante o di altri studenti
IMMORALITÀ: Azioni come imbrogliare, dire bugie, rubare.
DISTURBO/SCOMPIGLIO IN AULA: Parlare ad alta voce, urlare, andare in giro per la classe,
fare il buffone, lanciare oggetti..\
BIGHELLONARE/STARE IN OZIO: Scherzare, non consegnare i compiti, dondolarsi, distrarsi,
sognare ad occhi aperti.
ALTERAZIONI DEL COMPORTAMENTO DEL BAMBINO
LA MENZOGNA
La menzogna è l'alterazione consapevole della verità. Essa può essere considerata come una nuova
possibilità per il bambino legata all'acquisizione del linguaggio. Se, infatti, il linguaggio permette di
descrivere ciò che non è presente, allora il linguaggio potrà anche essere utilizzato per modificare
ciò che si vuole comunicare. Il bambino scopre non solo che può non dire tutto, ma che può anche
inventare. Chiaramente, per poter parlare di alterazione della realtà, è necessario capire quando il
bambino comprende la distinzione tra fantasia e realtà, tra vero e falso. In genere si considera che il
bambino consolidi queste capacità intorno ai sei, sette anni. La menzogna può essere un modo per
mantenere una immagine di sé perfetta, oppure per stabilire un confine tra sé e i genitori. Se da una
parte quindi la menzogna può asservire scopi utili, di conquista ed indipendenza, dall'altra il
bambino impara presto che dire la verità significa rispettare le esigenze sociali e ottenere la stima
degli altri. La verità sarà allora utilizzata per gratificare i genitori e per aumentare l'autostima,
mentre la menzogna manterrà un'illusione di perfezione, che non farà altro che abbassare
l'autostima.
Esistono tre tipi principali di menzogna:
 la menzogna utilitaristica
 la menzogna compensatoria
32

la mitomania.
La menzogna utilitaristica è quella più simile alla menzogna utilizzata dagli adulti: mentire per
evitare o ottenere qualcosa. Il fatto che le menzogne rimangano dei fatti isolati o diventino una
modalità comunicativa è strettamente connesso al comportamento e alla reazione dei genitori. Da
una parte sarà importante non svergognare il bambino e non avere un atteggiamento eccessivamente
moraleggiante. Infatti, in questo caso il bambino atterrito potrebbe essere tentato a mentire ancora
per cercare di cavarsela o farsi un'idea di sé come bambino cattivo, che non può meritare la stima
dei genitori, con la conseguenza che il bambino tenderà a comportarsi come i genitori si aspettano:
da bambino cattivo. Dall'altra parte un atteggiamento lassista o credulone rischia di spianare la
strada ad un utilizzo più frequente della menzogna, per cavarsela nelle varie circostanze. Forse, però
l'elemento più importante che determina i successivi comportamenti è la sincerità dei genitori stessi.
Essere sinceri permette di dare al bambino un'idea di affidabilità e solidità. Un atteggiamento
costruttivo implicherà di rilevare la bugia del bambino senza infierire su di lui e dandogli la
sensazione che aver fatto una "cattiveria" non significa essere un bambino cattivo.
La menzogna compensatoria è utilizzata dal bambino per ottenere un'immagine che ritiene
irraggiungibile e desiderabile. Il bambino può inventare di tutto, può dire di essere figlio di re, di
vivere in un castello, di avere un cavallo. Spesso i bambini inventano dei personaggi con i quali
dialogano. Questo comportamento non è preoccupante fino ai 6 anni, dopodiché può essere indizio
di immaturità, di alterazioni e incertezze nell'identificazione e nella coscienza di sé.
La mitomania rappresenta il grado estremo della menzogna compensatoria. È una tendenza al limite
tra il volontario e l'involontario. Nel bambino piccolo può essere considerata quasi fisiologica, ma
in genere la mitomania, essendo una manifestazione estrema si presenta in contesti di grave
deprivazione affettiva, in bambini che non hanno uno o entrambi i genitori, che non li hanno mai
conosciuti, e/o con gravi disturbi identificativi.
IL FURTO
Il furto è l'alterazione comportamentale più frequente e rappresenta il 70 per cento circa delle
condotte delinquenziali minorili. È commesso con una frequenza molto maggiore dai maschi
rispetto alle femmine. Per poter parlare di furto è necessario che il bambino abbia la nozione di
"proprietà", e che abbia inoltre sviluppato la nozione di "bene" e di "male". Il bambino piccolo,
infatti, considera ogni cosa come sua e solo dai sei, sette anni può, non solo capire che si sta
appropriando di una cosa non sua, ma anche che questo è sbagliato. Le diverse età sono
caratterizzate da diversi tipi di furto, non c'è necessariamente un rapporto di consequenzialità tra un
bambino che ruba e il fatto che diventi un ladro da grande. I bambini iniziano a rubare in casa, per
lo più cose che desiderano, poi dalla casa si passa ad ambienti frequentati come la scuola o negozi.
È un furto diverso dal precedente, infatti viene commesso non tanto per l'interesse per l'oggetto,
quanto per commettere l'atto del furto. Il senso di colpa spesso non è presente nei bambini più
piccoli, mentre caratterizza quelli più grandi. Questo spiega perché gli oggetti rubati vengano
spesso lasciati in posti visibili, quasi a suscitare una punizione. Nei ragazzi più grandi il furto
assume spesso un significato all'interno del gruppo rivelando caratteristiche più preoccupanti.
Il contesto familiare del bambino che commette furti è nella quasi totalità delle volte un contesto di
assenza, di carenze reali o affettive, degli estremi caratterizzati da massimo rigore o lassismo
completo. Molti autori hanno sottolineato che il bambino che ruba sta come cercando di
riappropriarsi di un qualcosa che gli spetta di diritto: la madre e il suo affetto. È fondamentale
cogliere questo aspetto e cercare di sostenere il bambino nella sua ricerca di risposte ed affetto. Il
furto può essere uno dei primi passi nel mondo della delinquenza, è finalizzato ad ottenere benefici
materiali e spesso il senso di colpa è assente. Non è raro che si inserisca all'interno di un rito di
iniziazione per l'ingresso in un gruppo (per lo più di tipo deviante).
33
LA FUGA
Per poter parlare di fuga, e cioè dell'abbandono del luogo in cui il bambino dovrebbe stare, è
necessario individuare il momento in cui il bambino è consapevole del suo domicilio. La fuga non è
lo smarrimento. Per questo motivo si può parlare di fuga a partire dai sei, sette anni. La fuga ha una
durata che può variare dalle poche ore ad alcuni giorni. Nel bambino piccolo le fughe sono per lo
più motivate dal desiderio di raggiungere un luogo o delle persone amate (come un genitore o dei
nonni) per sfuggire da un luogo temuto o detestato. La maggior parte delle volte il bambino si
aggira nei dintorni della casa e ha come obiettivo quello di farsi trovare. Non esistono caratteristiche
di personalità dei fuggitivi. Spesso si osserva la fuga in bambini che hanno vissuto molte
separazioni e distacchi, senza nessuno che li aiutasse ad elaborarli. (bambini in istituti o in famiglie
conflittuali). Un'altra fuga frequente è la fuga dalla scuola. Questa si presenta soprattutto in bambini
che hanno difficoltà di riuscita, in bambini ansiosi o con una fobia scolastica. Altre volte la fuga
rientra in un quadro psicopatico. La maggior parte delle volte questi episodi hanno fine o perché la
famiglia se ne accorge o perché il bambino non è più in grado di tollerare il carico di angoscia e
confessa. Non bisogna sottovalutare i benefici secondari che un bambino può ottenere nel vedere i
genitori arrabbiati e, soprattutto, preoccupati. È importante cercare di comprendere il disagio che
vive il bambino per evitare che la condotta della fuga venga utilizzata ogni qual volta il bambino
desidera affetto e considerazione nella mente dei genitori.
COMPORTAMENTO OPPOSITIVO PROVOCATORIO
Il bambino poco adattabile ,ribelle, ostinato ,prepotente ed oppositivo si pone spesso in posizione di
sfida nei confronti degli adulti e rende problematiche le relazioni con i compagni.
I QUATTRO SCOPI DEL BAMBINO OPPOSITIVO:
1. Richiamare su di sé l’attenzione (forte egocentrismo, incapacità di tener conto degli
altri)
2. Lottare per la supremazia e il potere (desiderio di primeggiare sempre, senza tener
conto dei limiti; incapacità di tollerare le frustrazioni e di adeguarsi alla realtà)
3. Vendicarsi di “ingiustizie” subite (reali o presunte) sul piano affettivo
4. Camuffare il senso di inferiorità i la scarsa autostima
La caratteristica fondamentale del Disturbo Oppositivo Provocatorio è una modalità ricorrente di
comportamento negativistico, provocatorio, disobbediente, ed ostile nei confronti delle figure dotate
di autorità che persiste per almeno 6 mesi ed è caratterizzato da frequente insorgenza di almeno
uno dei seguenti comportamenti: perdita di controllo, litigi con gli adulti, opposizione attiva o
rifiuto di rispettare richieste o regole degli adulti, azioni deliberate che danno fastidio agli altri,
accusare gli altri dei propri sbagli o del proprio cattivo comportamento, essere suscettibile o
facilmente infastidito dagli altri, essere collerico e risentirsi, o essere dispettoso o vendicativo.
Per definire il Disturbo Oppositivo Provocatorio, i comportamenti devono manifestarsi più
frequentemente rispetto a quanto si osserva tipicamente nei soggetti di età e livello di sviluppo
paragonabili e devono comportare una significativa compromissione del funzionamento sociale,
scolastico, o lavorativo (Criterio B). La diagnosi non viene fatta se l'anomalia del comportamento si
manifesta esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Psicotico o dell'Umore (Criterio C), o se
risultano soddisfatti i criteri per il Disturbo della Condotta o per il Disturbo Antisociale di
Personalità(in un soggetto con più di 18 anni).
34
I comportamenti negativistici ed oppositivi sono espressi con persistente caparbietà, resistenza alle
direttive, scarsa disponibilità al compromesso, alla resa o alla negoziazione con gli adulti o coi
coetanei. L'oppositività può anche includere la deliberata o persistente messa alla prova dei limiti,
di solito ignorando gli ordini, litigando e non accettando i rimproveri per i misfatti. L'ostilità può
essere diretta contro gli adulti o i coetanei e viene espressa disturbando deliberatamente gli altri o
con aggressioni verbali (di solito senza le più gravi aggressioni fisiche osservate nel Disturbo della
Condotta.
Le manifestazioni del disturbo sono quasi invariabilmente presenti nell'ambiente familiare, ma
possono non essere evidenti a scuola o nella comunità. I sintomi del disturbo sono tipicamente più
evidenti nelle interazioni con gli adulti o i coetanei che il soggetto conosce bene e possono quindi
non manifestarsi durante l'esame clinico. Di solito i soggetti con questo disturbo non si considerano
oppositivi o provocatori, ma giustificano il proprio comportamento come una risposta a richieste o
circostanze irragionevoli.
MANIFESTAZIONI E DISTURBI ASSOCIATI
Le manifestazioni e i disturbi associati variano in funzione dell'età del soggetto e della gravità del
Disturbo Oppositivo Provocatorio. Nei maschi, si è visto che il disturbo ha maggiore prevalenza tra
coloro che, nell'età prescolare, hanno temperamenti problematici (per es., alta reattività, difficoltà
ad essere tranquillizzati) o intensa attività motoria. Durante l'età scolare, possono esservi scarsa
autostima, labilità d'umore, scarsa tolleranza alla frustrazione, tendenza ad imprecare, e uso precoce
di alcool, tabacco e sostanze illecite. Vi sono spesso conflitti con i genitori, gli insegnanti, e i
coetanei. Può esservi un circolo vizioso in cui il genitore e il bambino mettono in evidenza l'uno la
parte peggiore dell'altro. Il Disturbo Oppositivo Provocatorio ha maggiore prevalenza nelle famiglie
in cui l'accudimento del bambino è turbato da un susseguirsi di diverse persone preposte
all'accudimento stesso, o in famiglie in cui sono comuni pratiche educative rigide, incoerenti, o
distratte. Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è comune nei bambini con Disturbo
Oppositivo Provocatorio. Anche i Disturbi dell'Apprendimento e della Comunicazione tendono ad
essere associati al Disturbo Oppositivo Provocatorio.
CARATTERISTICHE SPECIFICHE DI ETÀ E DI GENERE
Dal momento che un comportamento oppositivo transitorio è molto comune nei bambini in età
prescolare e negli adolescenti, si dovrebbe usare cautela nel fare la diagnosi di Disturbo Oppositivo
Provocatorio specie durante questi periodi di sviluppo.
Il numero dei sintomi di opposizione tende ad aumentare con l'età. Il disturbo ha maggiore
prevalenza tra i maschi che tra le femmine in epoca prepuberale, ma le percentuali sono
probabilmente uguali dopo la pubertà. I sintomi sono di solito simili in entrambi i generi, tranne per
il fatto che i maschi possono avere un comportamento con maggiore tendenza al confronto e
sintomi più persistenti.
DECORSO
Il Disturbo Oppositivo Provocatorio diviene di solito evidente prima degli 8 anni di età e di solito
non più tardi dell'adolescenza. I sintomi di opposizione spesso emergono nell'ambiente familiare ma
col tempo possono comparire anche in altri contesti. L'esordio è tipicamente graduale, e di solito
avviene nel corso di mesi o anni. In una quantità significativa di casi, il Disturbo Oppositivo
Provocatorio precede lo sviluppo del Disturbo della Condotta.
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FAMILIARITÀ
Il Disturbo Oppositivo Provocatorio sembra essere più comune nelle famiglie in cui almeno un
genitore ha una storia di Disturbo dell'Umore, Disturbo Oppositivo Provocatorio, Disturbo della
Condotta, Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività, Disturbo Antisociale di Personalità,
Disturbo Correlato a Sostanze. Inoltre, alcuni studi suggeriscono che le madri con un Disturbo
Depressivo hanno maggiori probabilità di avere bambini con comportamento oppositivo, ma non è
chiaro fino a che punto la depressione materna derivi dal comportamento oppositivo nei bambini
oppure ne sia la causa. Il Disturbo Oppositivo Provocatorio è più comune nelle famiglie in cui vi è
un grave disaccordo coniugale.
ADHD
ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder), o più semplicemente ADD (Attention Deficit
Disorder), è la sigla della sindrome da deficit di attenzione e iperattività.
Il Disturbo da deficit d'attenzione ed iperattività (ADHD) è un disturbo del comportamento
caratterizzato da inattenzione, impulsività e iperattività motoria che rende difficoltoso e in taluni
casi impedisce il normale sviluppo e integrazione sociale dei bambini. Si tratta di un disturbo
eterogeneo e complesso, multifattoriale che nel 70-80% dei casi coesiste con un altro o altri disturbi
(fenomeno definito comorbilità). La coesistenza di più disturbi aggrava la sintomatologia rendendo
complessa sia la diagnosi sia la terapia. Quelli più frequentemente associati sono il disturbo
oppositivo-provocatorio e i disturbi della condotta, i disturbi specifici dell'apprendimento
(dislessia, disgrafia, ecc.), i disturbi d'ansia e, con minore frequenza, la depressione, il disturbo
ossessivo-compulsivo, il disturbo da tic, il disturbo bipolare.
LE CAUSE DEL DISTURBO
Una specifica causa dell'ADHD non è ancora nota. Ci sono tuttavia una serie di fattori che possono
contribuire a far nascere o fare esacerbare l'ADHD. Tra questi ci sono fattori genetici e le
condizioni sociali e fisiche del soggetto.
Secondo la maggior parte dei ricercatori e sulla base degli studi degli ultimi quarant'anni il disturbo
si ritiene abbia una causa genetica. Studi su gemelli hanno evidenziato che l'ADHD ha un alto
fattore ereditario (circa il 75% dei casi). Altri fattori sono legati alla morfologia cerebrale, o anche
possono essere legati a fattori prenatali e perinatali o a fattori traumatici.
L'ADHD si presenta tipicamente nei bambini (si stima che, nel mondo, colpisca tra il 3% e il 5%
dei bambini) con un percentuale variabile tra il 30 e il 50% di soggetti che continuano ad avere
sintomi in età adulta. Si stima che il 4,7% di statunitensi adulti conviva con l'ADHD.
Studi sui gemelli hanno mostrato che tra il 9% e il 20% dei casi di malattia può essere attribuito a
fattori ambientali. I fattori ambientali includono l'esposizione ad alcol e fumo durante
la gravidanza e i primissimi anni di vita. La relazione tra tabacco e ADHD può essere trovata nel
fatto che la nicotina causa ipossia nel feto. Complicanze durante la gravidanza e il parto possono
inoltre giocare un ruolo nell'ADHD. Le infezioni (ad esempio la varicella) prese durante la
gravidanza, alla nascita o nei primi anni di vita sono un fattore di rischio per l'ADHD.
La World Health Organization afferma che la diagnosi di ADHD può fare emergere disfunzioni
all'interno della famiglia o nel sistema educativo o anche patologie psicologiche in singoli individui.
Altri ricercatori ritengono che i rapporti con chi si prende cura dei bambini ha un effetto profondo
36
sulle capacità di autoregolamentazione e di attenzione. Uno studio su bambini in affido ha
riscontrato che un numero elevato di loro mostrava sintomi molto simili all'ADHD. I ricercatori
hanno inoltre riscontrato elementi tipici dell'ADHD nei bambini che hanno sofferto violenze e
abusi.
SINTOMATOLOGIA
Disattenzione, iperattività e impulsività sono gli elementi chiave nel comportamento di soggetti
colpiti da ADHD. I sintomi dell'ADHD sono difficili da definire poiché è difficoltoso tracciare una
linea che demarchi i normali livelli di disattenzione, iperattività e impulsività da quelli che normali
non sono e per i quali si richiede un intervento medico. Affinché possa essere diagnosticato
l'ADHD occorre una osservazione dei sintomi in due situazioni diverse per almeno sei mesi al fine
di valutare se determinati tratti comportamentali siano diversi da quelli degli altri bambini della
stessa età.
I sintomi consentono una classificazione in base alla prevalenza di elementi di iperattivitàimpulsività o di disattenzione o di elementi combinati dell'uno e dell'altro (cosiddetto sottotipo
combinato).
La predominanza di sintomi di distrazione/disattenzione può includere:









l'essere facilmente distratti, perdere i dettagli, dimenticare le cose, e spesso passare da un'attività
all'altra
l'avere difficoltà a concentrarsi su una cosa
l'essere annoiato con un compito, dopo pochi minuti, a meno che si stia facendo qualcosa di
divertente
l'avere difficoltà a focalizzare l'attenzione sull'organizzazione e completamento di un compito o
nell'imparare qualcosa di nuovo
l'avere difficoltà a completare o svolgere compiti a casa, spesso perdendo le cose (per esempio,
matite, giocattoli, compiti) necessarie per completare le attività
non sembra ascoltare quando gli si parla
sognare ad occhi aperti, facilmente andare in confusione e muoversi lentamente
l'avere difficoltà di elaborazione delle informazioni con la stessa rapidità e precisione degli altri
difficoltà a seguire le istruzioni.
La predominanza di iperattività-impulsività può includere:






dimenarsi e contorcersi da seduti
parlare senza sosta
toccare o giocare con qualsiasi cosa sia a portata di mano
avere difficoltà a star seduti durante la cena, la scuola ecc..
essere costantemente in movimento
avere difficoltà a svolgere compiti o attività tranquille.
A queste si possono aggiungere ulteriori manifestazioni di impulsività:



essere molto impaziente
proferire commenti inappropriati, mostrando le proprie emozioni senza inibizioni, e agire senza
tener conto delle conseguenze
avere difficoltà nell'attendere cose che si vogliono o attendere il proprio turno di gioco
37
La maggior parte delle persone mostra alcuni di questi comportamenti, ma non nella misura in cui
tali comportamenti interferiscono significativamente con il lavoro di una persona, le relazioni, o
lo studio. I disturbi principali sono coerenti anche in diversi contesti culturali.
I sintomi possono permanere anche in età adulta per circa la metà dei bambini ai quali è stato
diagnosticato l'ADHD anche se tale stima è difficoltosa stante la mancanza di criteri diagnostici
ufficiali per gli adulti. I sintomi di ADHD negli adolescenti possono differire da quelli dei bambini
stante i processi di adattamento appresi durante il processo di socializzazione.
Nel 2009 uno studio ha rilevato che i bambini con ADHD si agitano molto, perché questo li aiuta a
stare sufficientemente focalizzati per completare compiti impegnativi.
PROBLEMI RELAZIONALI
Per quanto riguarda i problemi relazionali, i genitori, gli insegnanti e gli stessi coetanei concordano
che i bambini con ADHD hanno anche problemi nelle relazioni interpersonali (Pelham e
Millich 1984). Vari studi di tipo sociometrico hanno confermato che bambini affetti da deficit di
attenzione con o senza iperattività:

ricevono minori apprezzamenti e maggiori rifiuti dai loro compagni di scuola o
di gioco (Carlson et al, 1987);
 pronunciano un numero di frasi negative nei confronti dei loro compagni dieci volte superiori
rispetto agli altri;
 presentano un comportamento aggressivo tre volte superiore (Pelham e Bender, 1982);
 non rispettano o non riescono a rispettare le regole di comportamento in gruppo e nel gioco;
 laddove il bambino con ADHD assume un ruolo attivo riesce ad essere collaborante,
cooperativo e volto al mantenimento delle relazioni di amicizia;
 laddove, invece, il loro ruolo diventa passivo e non ben definito, essi diventano più contestatori
e incapaci di comunicare proficuamente con i coetanei.
ALTRI DISTURBI
All'ADHD possono accompagnarsi altri disturbi come l'ansia o la depressione. Tali elementi
possono complicare notevolmente la diagnosi e il trattamento. Studi accademici e ricerca in ambito
pratico suggeriscono che la depressione nell'ADHD sembra incrementarsi nei bambini
parallelamente alla loro crescita, con un più alto tasso di crescita nelle ragazze che nei ragazzi.
Quando un disturbo dell'umore complica l'ADHD sarebbe più auspicabile trattare prima il disturbo
dell'umore anche se i genitori dei bambini che hanno ADHD spesso desiderano che sia trattato
prima l'ADHD, dato che la risposta al trattamento è più veloce.
Disattenzione e di "comportamento iperattivo non sono gli unici problemi nei bambini con ADHD.
ADHD esiste da solo, senza altra patologia, in circa un terzo dei bambini diagnosticati. Molte
condizioni co-esistenti, richiedono altri tipi di trattamento e dovrebbero essere diagnosticate
separatamente invece di essere raggruppati nella diagnosi di ADHD.
Alcune delle condizioni associate sono:

Disturbo oppositivo provocatorio (Oppositional defiant disorder - ODD) (35%) e disturbo del
comportamento (26%) che sono caratterizzati da comportamenti antisociali come ostinazione,
aggressività, frequenti attacchi di collera, inganno, la menzogna, o il rubare, e che sono collegati
con il disturbo antisociale della personalità(ASPD).
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





Disturbo borderline di personalità che secondo uno studio su 120 pazienti di sesso femminile è
risultato associato all'ADHD nel 70% dei casi
disturbo primario della vigilanza (intesa come attenzione), caratterizzata da scarsa attenzione e
concentrazione, così come la difficoltà rimanere svegli. Questi bambini tendono ad agitarsi,
sbadigliare e sembrano essere iperattivi al fine di rimanere vigili e attivi
disturbi dell'umore: i ragazzi con diagnosi di sottotipo combinato hanno dimostrato di soffrire di
questo tipo di disturbo.
disturbi bipolari: il 25% dei bambini con ADHD soffrono di disturbo bipolare. I bambini con
questa combinazione possono palesare più aggressività e problemi comportamentali rispetto a
quelli affetti solo da ADHD.
disturbi relativi all'ansia: si è riscontrato essere comune nelle ragazze con diagnosi di sottotipo
caratterizzato da disattenzione di ADHD.
disturbo ossessivo-compulsivo: si ritiene ci sia una componente genetica comune tra tale
disturbo e l'ADHD.
DIAGNOSI
L'ADHD è diagnosticato attraverso un assessment psichiatrico; al fine di escludere altre potenziali
cause possono essere svolti esami fisici, radiologici e test di laboratorio.
In nord America, il DSM-IV è spesso usato come base per la diagnostica mentre in Europa viene
più utilizzato l'ICD-10. Utilizzando i criteri del DSM-IV una diagnosi di ADHD è più probabile
rispetto all'utilizzo del ICD-10. Tuttavia, nella pratica clinica, la diagnosi si basa anche su diversi
altri elementi che quelli contenuti nei manuali. Sono infatti tenuti in considerazione l'ambiente in
cui si muove il bambino, la scuola e altri fattori sociali.
Molti dei sintomi di ADHD si verificano di volta in volta in tutti ma in pazienti affetti da ADHD, la
frequenza di questi sintomi è più grande e la qualità della vita dei pazienti è drasticamente ridotta.
L'analisi deve avere riguardo a molteplici ambienti e situazioni per addivenire a una diagnosi di
ADHD.
Come per molti disturbi psichiatrici e medici, la diagnosi convenzionale è fatta da un professionista
qualificato nel settore sulla base di un determinato numero di criteri. Negli Stati Uniti questi criteri
sono stabiliti dalla American Psychiatric Association nel Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali (DSM-IV), 4 ª edizione. Sulla base dei criteri del DSM-IV elencati qui di seguito,
sono classificati tre tipi di ADHD :
1. ADHD di tipo combinato
2. ADHD con predominanza di disattenzione/distrazione
3. ADHD con predominanza di iperattività/impulsività.
L’ADHD è un vero problema, per l’individuo stesso, per la famiglia e per la scuola, e spesso
rappresenta un ostacolo nel conseguimento degli obiettivi personali. E’ un problema che genera
sconforto e stress nei genitori e negli insegnanti i quali si trovano impreparati nella gestione del
comportamento del bambino.
Sicuramente i genitori sono abituati a vedere come le altre persone reagiscono al comportamento
del bambino iperattivo: all’inizio, gli estranei tendono ad ignorare il comportamento irrequieto, le
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frequenti interruzioni durante i discorsi degli adulti e l’infrazione alle comuni regoli sociali. Di
fronte alle ripetute manifestazioni dell’assenza di controllocomportamentale del bambino, queste
persone tentano di porre loro stesse un freno all’eccessiva “esuberanza”, non riuscendoci,
concludono che il bambino sia intenzionalmente maleducato e distruttivo. Forse i genitori sono
anche abituati alle conclusioni a cui gli estranei giungono, come ad esempio: «I problemi di quel
bambino sono dovuti al modo in cui è stato educato; sarebbe necessaria una maggiore disciplina,
maggiori limitazioni e anche qualche bella punizione. I suoi genitori sono incapaci, incuranti,
eccessivamente tolleranti e permissivi, e quel bambino è il frutto della loro inefficienza».
DISTURBO DELLA CONDOTTA
CARATTERISTICHE DIAGNOSTICHE
La caratteristica fondamentale del Disturbo della Condotta è una modalità di comportamento ripetitiva e
persistente in cui i diritti fondamentali degli altri oppure le norme o le regole della società appropriate
per l'età adulta vengono violate.
Questi comportamenti si inseriscono in quattro gruppi fondamentali: condotta aggressiva che causa o
minaccia danni fisici ad altre persone o ad animali, condotta non aggressiva che causa perdita o
danneggiamento della proprietà, frode o furto, e gravi violazioni di regole.
Tre (o più) comportamenti caratteristici devono essere stati presenti durante i 12 mesi precedenti, con
almeno 1 comportamento presente nei 6 mesi precedenti. L'anomalia del comportamento causa
compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale, scolastico, o lavorativo. Il
Disturbo della Condotta può essere diagnosticato in soggetti che hanno più di 18 anni, ma solo se non
vengono soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità. La modalità di comportamento è
di solito presente in diversi ambienti, come la casa, la scuola, o la comunità. Dato che i soggetti con
Disturbo della Condotta tendono a minimizzare i propri problemi di condotta, il clinico deve spesso
affidarsi a ulteriori fonti di informazioni. Comunque, la conoscenza da parte degli informatori riguardo
ai problemi di condotta del bambino può essere limitata da un controllo inadeguato o dal fatto che il
ragazzo non li ha rivelati.
I bambini o gli adolescenti con questo disturbo spesso innescano comportamento aggressivo e
reagiscono aggressivamente contro gli altri. Essi possono mostrare un comportamento prepotente,
minaccioso, o intimidatorio; dare inizio frequentemente a colluttazioni fisiche; usare un'arma che può
causare seri danni fisici (per es., un bastone, una barra, una bottiglia rotta, un coltello, o una pistola);
essere fisicamente crudeli con le persone o con gli animali; rubare affrontando la vittima (per es.,
aggressione a scopo di furto, scippo, estorsione, o rapina a mano armata); oppure forzare un'altra
persona all'attività sessuale. L'aggressione può assumere la forma di stupro, violenza, o, in rari casi,
omicidio.
La distruzione deliberata dell'altrui proprietà è una tipica caratteristica di questo disturbo, e può
includere l'incendio deliberato con intenzione di causare seri danni o distruzione deliberata della
proprietà altrui in altri modi (per es., spaccare i vetri delle macchine, vandalismo a scuola).
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La frode o il furto sono comuni e possono includere la penetrazione in edifici, domicili, o automobili
altrui; frequenti menzogne o rottura di promesse per ottenere vantaggi o favori, o per evitare debiti od
obblighi (per es., raggirare altre persone); o rubare articoli di valore senza affrontare la vittima (per es.,
furti nei negozi, falsificazioni).
Tipicamente, i soggetti affetti da questo disturbo commettono anche gravi violazioni di regole (per es.,
scolastiche, familiari). I ragazzi con questo disturbo spesso hanno l'abitudine, che esordisce prima dei
13 anni, di stare fuori fino a tarda notte nonostante le proibizioni dei genitori. Può anche esservi
l'abitudine di star fuori da casa per tutta la notte. Per essere considerato un sintomo di Disturbo della
Condotta, la fuga deve essersi verificata almeno 2 volte (o solo una volta se il soggetto non è tornato
per un lungo periodo). Gli episodi di fuga che avvengono come diretta conseguenza di maltrattamento
fisico o sessuale non soddisfano tipicamente questo criterio. I ragazzi con questo disturbo possono
spesso marinare la scuola, iniziando a farlo prima dei 13 anni di età. Nei soggetti più grandi, questo
comportamento si manifesta con frequenti assenze dal lavoro senza valide ragioni.
MISURAZIONE DI UN COMPORTAMENTO
IL METODO SPERIMENTALE
I METODI DELLO PSICOLOGO
La psicologia si avvale, come le altre scienze, di metodi di studio e di ricerca che hanno come base
l’osservazione sistematica della realtà. Quando è possibile la realtà psicologica viene riprodotta in
condizioni controllate, misurata e quantifica degli strumenti di indagine
Offerti dal metodo sperimentale; tuttavia, poiché le reazioni psicologiche delle persone e degli
animali sono per lo più eventi complessi, che non sempre di prestano a essere riprodotti nell’ambito
angusto di un laboratorio, per avere un quadro completo di tutte le variabili e le condizioni che
possono intervenire in situazioni di vita reale si ricorre anche ai metodi non sperimentali, come
quello clinico.
Il medesimo fenomeno può essere studiato in ambito clinico e poi, a volte, riprodotto in laboratorio,
in tal modo lo si può conoscere in tutte le sue componenti. Altre volte è lo stesso oggetto di studio
che si presta a essere avvicinato con un metodo piuttosto che con un laboratorio, sia per le
peculiarità e complessità delle sue caratteristiche; per esempio, le interazioni che si verificano allo
stadio tra tifoserie diverse non possono che essere osservate dal vivo.
Per capire le motivazioni che inducono una persona a fare una determinata scelta o a manifestare un
dato comportamento può essere indispensabile conoscere la storia delle sue passate esperienze, i
suoi ricordi, le sue fantasticherie, i suoi sogni, le sue aspirazioni ecc.. e questo lo si può ottenere
tramite colloqui e inchieste cliniche, oppure osservando attentamente le modalità con cui la persona
risponde a stimoli standardizzati(test).
I metodi usati in psicologia sono: il metodo sperimentale e, tra i metodi non sperimentali,
l’osservazione sistematica, il metodo clinico e le inchieste.
Il metodo sperimentale ha come finalità quella di evidenziare i rapporti causa-effetto che legano due
eventi; a tal fine l’ambiente naturale viene modificato e le variabili sono poste sotto controllo. Uno
dei vantaggi di questo metodo è costituito dalla disponibilità che ha il ricercatore nello stabilire
quando e dove devono essere effettuate le osservazioni. In tal modo egli può avere un controllo
completo di tutti gli aspetti della realtà che si accinge a studiare: può infatti eliminare tutte le
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variabili di disturbo che sono presenti in condizioni di osservazione libera e che confonderebbero i
risultati della sperimentazione.
Nella sperimentazione si studia il rapporto che sussiste tra due tipi particolari di variabili: la
variabile indipendente, cosiddetta perché può essere manovrata dallo sperimentatore, e la variabile
dipendente (o controllo) che è la conseguenza dell’azione svolta dalla variabile indipendente sul
soggetto sottoposto a esperimento. Per usare un linguaggio tecnico, la variabile indipendente è lo
“stimolo” fornito dallo sperimentatore, mentre la variabile dipendente è il “comportamento” del
soggetto sotto l’azione di quello stimolo.
Per esempio, lo sperimentatore vuole misurare l’effetto rallentante che una determinata droga ha su
animali da laboratorio. Le variabili indipendenti sono il tipo di farmaco e la quantità che viene
somministrata (la quantità può essere variata in sedute successive); la variabile dipendente è la
velocità con cui gli animali riescono a uscire da un labirinto.
ESPERIMENTI
1- LA PRIGIONE DI STANFORD
Nel 1971 lo psicologo Philip Zimbardo ed i suoi colleghi organizzarono un esperimento per studiare
l'impatto psicologico differente tra un prigioniero e una guardia carceraria.
La domanda dei ricercatori era: "supponiamo ci siano ragazzi in salute sia mentale che fisica, e
togliamo loro i diritti civili portandoli in un ambiente simile a quello di una prigione. La loro bontà
e salute mentale trionferà anche in un ambiente simile?".
I partecipanti
I ricercatori allestirono una vera e propria prigione nei sotterranei della facoltà di Psicologia
dell'Università di Stanford, e selezionarono 24 studenti per far loro assumere i ruoli di guardia e
prigioniero. I partecipanti furono selezionati tra coloro che non avevano precedenti con la giustizia,
problemi mentali né fisici. Ai volontari fu concessa una paga giornaliera di 15$ al giorno per un
periodo dai 7 ai 14 giorni.
L'Allestimento
La prigione simulata includeva tre celle di 2 metri per 3. Ciascuna cella ospitava 3 prigionieri e
includeva 3 lettini. Altre stanze di fianco alle celle venivano occupate dai 'guardiani': uno spazio
davvero minuscolo fu destinato ad ospitare la cella di isolamento, ed un altro piccolo serviva come
'cortile' per l'ora d'aria.
I 24 volontari furono assegnati per sorteggio ai ruoli di guardia o prigioniero: i prigionieri restavano
in cella per 24 ore al giorno, i guardiani lavoravano in turni di 8 ore e a gruppi di 3. Telecamere
nascoste osservarono lo svolgimento delle giornate 'tipo'.
I Risultati
Nonostante fosse stato programmato per durare 14 giorni, l'esperimento di Stanford fu fermato dopo
appena 6 giorni per ciò che accadde: le guardie divennero prepotenti e i prigionieri iniziarono a
mostrare segni di estremo stress.
Anche se ai due 'ruoli' fu detto che potevano interagire nei modi che volevano, la relazione tra i
gruppi fu degradante ed ostile: le guardie iniziarono ad assumere comportamenti aggressivi e a
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commettere eccessi sui prigionieri, che d'altro canto divennero sempre più ansiosi e depressi: 5 tra
questi mostrarono importanti segni di cedimento emotivo, e chiesero di interrompere l'esperimento.
Gli stessi ricercatori persero il senso della realtà: Zimbardo, che agiva come il guardiano della
prigione, sottovalutò il comportamento eccessivo delle guardie sul "prigioniero" Christina Maslach.
"Solo poche persone sono in grado di resistere alle tentazioni fornite dal potere e dal dominio su
altri soggetti. Io stesso scoprii di non far parte di questa ristretta schiera," dichiarò poi il ricercatore
nel suo libro The Lucifer Effect.
Secondo Zimbardo e i suoi colleghi, l'Esperimento di Stanford dimostrò il ruolo importantissimo
che una situazione può esercitare sui comportamenti: poste in posizione di potere, le guardie
iniziarono a comportarsi in modo estremamente diverso rispetto a come avrebbero fatto nella vita di
tutti i giorni.
Critiche all'esperimento
L'Esperimento di Stanford viene spesso citato come esempio di ricerca non etica: non può essere
ripetuto dai ricercatori di oggi perché non rispetta gli standards del codice etico.
Nonostante questa e molte altre critiche, questo episodio resta piuttosto importante nel quadro della
comprensione di come una situazione può influenzare un comportamento umano: gli abusi nella
prigione irachena di Abu Ghraib suggeriscono che gli esempi 'reali' di come quegli studi fossero
esatti sono davanti ai nostri occhi.
2 - MILGRAM E L'OBBEDIENZA : IL CONFORMISMO
"La psicologia sociale di questo secolo ci ha dato una grande lezione: a volte non è tanto il tipo di
persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni" - Stanley
Milgram, 1974.
Se una persona in posizione di autorità ti ordinasse di scaricare una scossa elettrica di 400-volt su
un'altra persona, tu ubbidiresti? Molte persone risponderebbero senza esitare un bel "no", ma
Stanley Milgram, psicologo dell'Università di Yale condusse negli anni '60 una serie di esperimenti
sull'obbedienza che fornirono risultati sorprendenti.
Milgram iniziò i suoi esperimenti poco dopo l'inizio del processo al criminale di guerra Adolph
Eichmann: la difesa dell'ex nazista si basava sull'assunto che stesse semplicemente eseguendo degli
ordini. Milioni di ebrei uccisi: possibile che non si fosse ribellato?
L'esperimento
I partecipanti erano 40 uomini reperiti attraverso annunci pubblici sul giornale: in cambio del loro
impegno, furono pagati 4.50$. Milgram sviluppò un generatore di scosse elettriche in grado di
fornire uno shock che partiva dai 30volts sino ai 450. I vari gradi di intensità erano distinti da
etichette come "leggero shock", "shock moderato," "pericolo: shock grave" eccetera. Gli ultimi due
livelli erano semplicemente contrassegnati da tre croci: "XXX".
Ogni partecipante si calava nel ruolo di un "insegnante" che doveva fornire una scossa ad uno
"studente" ogni volta che fosse stata prodotta una risposta errata. Al progredire dell'esperimento
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(oltre il livello di 300 volts) gli effetti prodotti sugli "studenti" scoraggiavano gli "insegnanti", che
si rifiutavano di proseguire.
I ricercatori utilizzarono, per portare i partecipanti a seguitare, una serie di formule precise:
1.
2.
3.
4.
"continua, per favore"
"l'esperimento richiede che tu continui"
"è assolutamente essenziale che tu continui"
"non hai altra scelta, devi andare avanti".
I risultati
Il livello di shock che gli "insegnanti" arrivavano a fornire fu usato come metro di valutazione
dell'obbedienza: non più del 3% di un gruppo di studenti si disse disposto a fornire le scosse di
massima intensità. In realtà questa circostanza si verificò nel 65% dei casi.
Dei 40 partecipanti, 26 inviarono le scosse più terribili, mentre in 14 casi i partecipanti si
fermarono. Il tasso elevato di ansia e di rabbia maturato richiese un de-briefing durante il quale
furono spiegati gli scopi dell'esperimento. Al termine si disse contento di aver partecipato ben
l'84%.
Le critiche
Nonostante la ricerca di Milgram abbia sollevato serie questioni etiche sull'uso di soggetti umani
negli esperimenti, i suoi risultati furono verificati in seguito e trovati validi.
Perché così tanti partecipanti commisero atti così sadici in risposta a semplici istruzioni di una
figura autoritaria? Secondo lo studioso i fattori dell'obbedienza sono diversi:

La presenza fisica di una figura autoritaria riduce le capacità critiche di un soggetto;

Il fatto che lo studio si svolgesse a Yale (un'istituzione accademica importante) portò molti
partecipanti a credere che l'esperimento fosse comunque sicuro;
Esperimenti successivi mostrarono il valore della 'ribellione': in casi nei quali almeno un soggetto
rifiutò in pubblico di eseguire gli ordini, ben 36 partecipanti su 40 si fermarono prima di sottoporre i
soggetti a shock gravi.
"Persone normali, che fanno il loro lavoro e senza alcuna particolare ostilità nei confronti delle
vittime, possono diventare terribili parti attive in un processo di distruzione: anche quando gli effetti
si rivelano in tutta la loro gravità, poche persone hanno le risorse necessarie per resistere ad una
autorità" (Milgram, 1974).
L'esperimento di Milgram è diventato un classico della Psicologia, dimostrando la pericolosità
dell'obbedienza.
3 - I MACACHI DI HARRY HARLOW
Durante la prima metà del 20esimo secolo molti psicologi credevano che mostrare affetto ad un
neonato fosse un'abitudine gestuale che non aveva un reale scopo.
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Il comportamentista John B. Watson ammonì a questo proposito: "ricordate, quando siete tentati di
coccolare il vostro piccolo, che l'amore di mamma è uno strumento pericoloso". Secondo molti
studiosi dell'epoca, l'affetto poteva solo sviluppare disagi e portare a problemi psicologici in età
adulta.
Uno psicologo americano chiamato Harry Harlow, tuttavia, si interessò a questo argomento e si
adoperò per dimostrare gli effetti positivi di un fattore difficile da quantificare e misurare: L'Amore.
In una serie di esperimenti controversi condotti negli anni '60, Harlow ottenne il suo obiettivo
mostrando i disastrosi effetti della deprivazione affettiva sui macachi, e rivelò l'importanza
dell'amore di una mamma nel sano sviluppo di un figlio.
Si trattò di esperimenti crudeli e dal dubbio valore etico, che tuttavia (non ci nascondiamo)
fornirono spunti importanti.
Gli esperimenti
Molte teorie sull'amore si fondavano sull'idea che l'attaccamento della mamma al bambino nei
primissimi periodi di vita fosse solo legato al bisogno di cibo e ad altri bisogni fisiologici: Harlow,
tuttavia, credeva che ci fosse dell'altro.
Uno dei più famosi esperimenti consisteva nell'offrire ad un piccolo macaco la scelta tra due
mamme: una fatta di tessuto morbido ma 'arida' di cibo. L'altra costituita da fili di ferro, ma in grado
di erogare cibo da un biberon.
Harlow sottrasse i cuccioli alle loro madri naturali alla nascita, e li pose a contatto con queste
"mamme" surrogate. L'esperimento dimostrò che le scimmie passavano molto più tempo con i
fantocci di tessuto morbido che con quelli di fil di ferro: "questo dimostra che il contatto è una
componente importante nello sviluppo della risposta affettiva, che non dipende unicamente dal
bisogno di cibo".
Quando le 'mamme' surrogate venivano portate via dalla stanza, gli effetti erano drammatici: i
piccoli macachi perdevano ogni sicurezza, diventavano tristi e iniziavano ad agitarsi, gridare e
piangere.
L'impatto della ricerca di Harlow
Gli esperimenti di Harlow offrirono la prova inconfutabile che l'Amore è vitale per lo sviluppo di
un piccolo: successive prove mostrarono gli effetti a lungo termine della deprivazione affettiva, che
portava a stress psicologici ed emozionali, e talvolta alla morte dei soggetti.
Le scoperte dei ricercatori aiutarono lo sviluppo di approcci totalmente diversi nei servizi sociali e
nelle agenzie di adozione.
Per ironia della sorte fu proprio la vita di Harlow a mostrare i guai peggiori: dopo una malattia
grave di sua moglie, lo studioso divenne vittima di alcolismo e depressione. Fu descritto dai suoi
colleghi come un misantropo sciovinista e crudele: triste destino per colui che ha dimostrato
l'importanza dell'amore.
4 - LA NORMA DELLA CONFORMITÀ
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Pensate di essere conformisti o anticonformisti? Se siete nella media, probabilmente credete di
essere abbastanza anticonformisti da resistere ai condizionamenti di un gruppo quando sapete di
essere nel giusto, ma abbastanza conformisti da saper stare in mezzo agli altri.
Bene. Ora immaginatevi in questa situazione: avete partecipato ad un esperimento psicologico nel
quale vi hanno chiesto di completare un test. Seduti in una stanza con gli altri, vi hanno mostrato un
tratto scuro, chiedendovi di confrontarne la lunghezza con quella di 3 possibili 'tratti gemelli'. Qual
è quello della stessa lunghezza?
La domanda viene ripetuta a tutti gli astanti: in certe occasioni il gruppo sceglie la linea gemella
'giusta', in altre invece sembra unanime nel dichiarare che un'altra linea è quella buona.
Cosa farete voi quando il ricercatore vi porrà la domanda? Resterete con le vostre convinzioni, o vi
uniformerete al resto del gruppo?
In termini psicologici, il conformismo è la tendenza individuale a seguire regole o comportamenti
del gruppo a cui si ritiene di appartenere. Negli anni '50 lo psicologo Solomon Asch ha condotto
una serie di esperimenti per dimostrare il potere del conformismo nei gruppi.
I risultati
Il 75% dei partecipanti ha seguito il resto del gruppo almeno una volta: nel totale, i partecipanti
hanno seguito le scelte sbagliate del gruppo almeno un terzo delle volte. Quando non rapportati ad
un gruppo, i partecipanti hanno risposto correttamente nel 98% dei casi.
Gli esperimenti hanno puntato anche a scoprire l'effetto del conformismo in relazione alla
dimensione di un gruppo. Maggiore la dimensione, tanto più grande e significativo l'atteggiamento
di uniformarsi.
Cosa indicano questi risultati?
Al termine degli esperimenti, ai partecipanti fu chiesto perché avessero deciso come il resto del
gruppo: in molti casi, gli studenti dissero di non voler cadere nel ridicolo scegliendo altre soluzioni,
anche se sapevano intimamente di uniformarsi a quella sbagliata. Pochi furono gli ostinati, quelli
che dissero di essere convinti che la risposta del gruppo fosse giusta.
I risultati hanno dunque suggerito che il conformismo può essere influenzato sia dal bisogno di
appartenenza che dalla convinzione che gli altri siano più intelligenti di noi, o meglio informati. E
nella realtà di tutti i giorni questo atteggiamento è molto più forte, dato che gli stimoli sono molto
più ambigui e difficili da valutare rispetto alla lunghezza di una linea.
Il contributo alla Psicologia
Gli esperimenti di Asch sul conformismo sono tra i più famosi nella storia della psicologia, ed
hanno ispirato tutta una serie di ricerche ulteriori sul conformismo ed il comportamento dei gruppi
sociali.
5- IL PICCOLO ALBERT
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Quello del "Piccolo Albert" è stato un famoso esperimento condotto dal comportamentista John B.
Watson e dalla studentessa Rosalie Raynor, e prese spunto dalle ricerche di Ivan Pavlov sui processi
di condizionamento nei cani (ne abbiamo parlato ieri).
Watson prese spunto dai risultati di Pavlov per mostrare come le reazioni emotive possano essere
condizionate nelle persone.
Il protagonista (non credo volontario) fu un bambino di 9 mesi, ribattezzato da Watson e Rayner
"Albert B.", e noto oggi come il "Piccolo Albert". I due ricercatori esposero il bimbo ad una serie di
stimoli inclusi un topo bianco, una scimmia, maschere di varie foggie e giornali in fiamme (?!)
osservando le sue reazioni.
Inizialmente il piccolo non mostrò segni di spavento.
In una seconda fase, quando il bimbo fu avvicinato al topolino, Watson produsse un rumore forte
con un martello su un tubo di metallo: il bimbo saltò dallo spavento e iniziò a piangere. Ripetendo
l'associazione di topo-rumore, Albert iniziò a piangere alla semplice vista del roditore.
Watson e Rayner scrivevano: "nell'istante in cui è stato mostrato il topo, il bimbo ha iniziato a
piangere e a gattonare così velocemente nella direzione opposta che siamo riusciti non senza
difficoltà ad afferrarlo prima che cadesse dal tavolo".
Nell'esperimento fu valutato anche un piccolo corollario, quello della "generalizzazione dello
stimolo": dopo il condizionamento, il Piccolo Albert non aveva solo paura dei topolini bianchi, ma
anche di un'ampia varietà di oggetti bianchi dalla forma in qualche modo simile (inclusi una
pelliccetta della signorina Raynor e la barba di un costume di Babbo Natale).
La fine di Albert
Ecco uno dei piccoli misteri della Psicologia. Watson e Raynor non furono in grado di eliminare la
paura nel bimbo, che si dice abbia sviluppato da grande una strana fobia degli oggetti bianchi e
pelosi.
Di recente, tuttavia, la vera identità del bimbo è stata svelata dopo una ricerca durata ben 7 anni: il
piccolo si chiamava Douglas Merritte.
Lieto fine, magari? Macché: Douglas morì all'età di 6 anni, nel 1925. La ricerca era durata un anno
più della sfortunata vita del ragazzino.
6- IL CASO GAGE: L’EMOZIONE E COMPORTAMENTO RAZIONALE
Nel lontano 1848 Gage fu vittima di uno sfortunato ma indicativo incidente. Gage, che a quei tempi
aveva 25 anni, lavorava con altri artificieri alla costruzione della ferrovia attraverso il New England.
Il lavoro consisteva nel trapanare dei buchi nella roccia, riempirli con polvere pirica, versarvi sopra
della sabbia, comprimere il tutto con una bacchetta di ferro e infine esplodere la carica attraverso
una miccia. Un giorno di settembre Gage si distrasse e compresse la polvere pirica con la bacchetta
di ferro prima che vi fosse stata versata della sabbia: sfortunatamente la polvere esplose, scagliò la
bacchetta in alto e questa, dopo aver colpito la faccia del giovane sotto lo zigomo, penetrò nel
cervello, trapassò la volta cranica del povero minatore e atterrò a un centinaio di metri di distanza.
Gage doveva avere una tempra fuor del comune: dopo qualche momento di stordimento si allontanò
a piedi dal luogo dell’incidente e lo descrisse a viva voce ai suoi compagni e datori di lavoro.
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Ovviamente dovette ricorrere alle cure di un medico, di nome Harlow, che descrisse
dettagliatamente il rapido recupero della vittima di questa fatalità e il suo ritorno alla “normale vita
di lavoro”. Tuttavia, malgrado la pronta ripresa della salute, Gage dimostrò ben presto di non essere
più lo stesso uomo di un tempo: benché non presentasse deficit del linguaggio, dei movimenti o
dell’apprendimento – fatto insolito visto che era stata lesa una vasta parte della sua corteccia
frontale che può essere responsabile di queste funzioni- il giovane cominciò ad avere dei problemi
sul lavoro. Prima dell’incidente Gage era una persona calma, giudiziosa, che teneva fede ai suoi
impegni, amichevole e simpatia. Dopo l’incidente, come notarono i suoi stessi compagni, Gage era
diventato irriverente, capriccioso, aggressivo, privo di senso della responsabilità: soprattutto non si
poteva fare più nessun affidamento su di lui perché no prestava fede ai suoi impegni e non mostrava
nemmeno di curarsene molto. I suoi datori di lavoro lo licenziarono e, dopo una vita errabonda, il
povero Gage tornò dalla sua famiglia, in California, e trascorse a San Francisco gli ultimi anni della
sua esistenza, incapace di rifarsi una vita autonoma. Tredici anni dopo Gage morì, mentre ai tempi
dell’incidente egli era stato al centro delle cronache giornalistiche, la sua morte non fece notizia e i
medici non ritennero di dover fare un’autopsia, malgrado numerosi neurologi, americani e francesi,
avessero discusso del suo celebre caso. Il cranio dello sfortunato minatore venne affidato al museo
anatomico dell’Università di Harvard dove venne custodito, accanto alla bacchetta di ferro che lo
aveva trapassato, sino ai giorni. Intorno alla fine del Novecento il caso “Gage” è tornato
nuovamente agli onori delle cronache scientifiche. A distanza di oltre un secolo, è stato riesaminato
da un’èquipe di neurologi che, alla base dei fori d’entrata e d’uscita nel cranio, perfettamente
visibili e conservati, hanno simulato al computer il percorso della bacchetta di ferro, individuando
l’area della corteccia frontale che venne lesa in quella sfortunata giornata del 1848. Si è così riusciti
a chiarire i motivi del bizzarro comportamento del giovane minatore: in seguito all’incidente la
lesione cerebrale di Gage aveva interessato quella parte della corteccia frontale che media gli aspetti
emotivi con quelli cognitivi del comportamento, traducendosi, dal punto di vista sociale, nelle
cosiddette scelte razionali. Non esiste, quindi, una linea netta tra emozione e razionalità.
7- STRANGE SITUATION: ATTACCAMENTO E COMPORTAMENTO
Mary Ainsworth , una collaboratrice di Bowlby, elaborò una situazione sperimentale per
determinare il tipo di attaccamento tra madre e figlio. La situazione denominata strange situation 2
era suddivisa in otto episodi, ciascuno della durata di 3 minuti, dove il bambino veniva sottoposto a
situazioni potenzialmente generatrici di “stress relazionale” 3.
Nella strange situation i principali stili di comportamento attivati sono: il comportamento
esploratorio , il comportamento prudente o timoroso , il comportamento di attaccamento, il
comportamento socievole e il comportamento arrabbiato/resistente.
L’esperimento, che si dipara in 8 fasi, ha queste caratteristiche:
1° episodio. In una stanza apposita vengono fatti entrare e successivamente lasciati soli la madre
con il figlio.
2° episodio. Nella stanza sono presenti dei giocattoli in un angolo, il bambino ha cosi la possibilità
di esplorare l’ambiente ed ,eventualmente, giocare con lei.
3° episodio. Entra un estraneo che siede prima in silenzio, poi parla on la madre e successivamente
coinvolge il piccolo in qualche gioco.
4° episodio. La madre esce lasciando il bambino con l’estraneo.
5° episodio. Successivamente rientra la madre nella stanza ed esce lo sconosciuto.
6° episodio. In questo episodio la madre lascia di nuovo il bambino, è da notare che questa volta lo
lascia solo.
7° episodio. Entra l’estraneo e , se necessario, cerca di consolare il bambino.
8° episodio. La madre rientra nella stanza.
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I TIPI DI ATTACCAMENTO
La sequenza osservativa di tutte le fasi della strange situation permette di definire 4 tipologie di
attaccamento che legano la madre ( o la figura principale di accudimento) e il bambino:
Stile sicuro: Il bambino esplora l’ambiente e gioca sotto lo sguardo vigile della madre con cui
interagisce. Quando la madre esce ed entra uno sconosciuto il bambino è visibilmente turbato. Al
ritorno della madre si tranquillizza e si lascia consolare. (Quando sarà adulto, il bambino diverrà
autonomo e responsabile).
Stile insicuro evitante: Il bambino esplora l’ambiente ignorando la madre, è indifferente alla sua
uscita e non si lascia avvicinare al suo ritorno. (L’adulto è insicuro, non avrà fiducia nelle sue
capacità e sarà immaturo nel lavoro).
Stile insicuro ambivalente: Il bambino ha comportamenti contraddittori nei confronti della madre a
tratti la ignora, a tratti cerca il contatto. Quando la madre se ne va e poi ritorna risulta inconsolabile.
Stile disorganizzato: Il bambino mette in atto dei comportamenti stereotipici, ed è
sorpreso/stupefatto quando la madre si allontana.
Attraverso una serie di sperimentazioni con la strange situation, Mary Ainsworth e John Bowlby
hanno potuto notare come il comportamento di attaccamento osservato tra la madre e il suo
bambino, oltre a fornire protezione al piccolo, serviva a costruire una base sicura a cui il bambino
potesse ritornare nelle fasi di esplorazione dell’ambiente circostante. Questa base sicura permette
cosi di promuovere nel bambino un senso di fiducia in se stesso favorendone progressivamente la
sua autonomia. Dallo stile di attaccamento, è possibile individuare un eventuale comportamento e
personalità futura del bambino.
8- IL GRANDE FRATELLO
Il grande fratello è nato come esperimento per verificare il comportamento delle persone, se
osservate, e la tendenza dell’uomo alla socializzazione.
Alcuni concorrenti dovevano vivere necessariamente in una casa per mesi.
Si verificarono numerosi eventi: litigi, nacquero amicizie, amori, odi e gelosie.
Molti sostengono che questa casa era una piccola città, in cui le persone vivevano e parlavano con
gli altri. Sono molte le critiche su questo esperimento, a prescindere dal reality, tra coloro che
sostengono che sia rappresentativo della società perché può essere considerata un piccolo villaggio,
ad esempio come nascono fuori dalla casa relazioni, nacquero anche all’interno di questa, mentre
altri sostengono che i partecipanti abbiano modificato il loro comportamento e il loro modo di
essere perché sapevano di essere osservati, come afferma lo stesso principio dell’osservazione: non
modificare o compromettere il comportamento della persona osservata.
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