3) N. 108 27 Maggio 2007 - NOI GENITORI & FIGLI inserto AVVENIRE VIVACI ANCHE TROPPO SALUTE Sono disattenti, disturbano in classe, si rendono insopportabili ai compagni. Ma non sono maleducati, piuttosto malati. L'Adhd, il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, si può controllare a volte ricorrendo anche ai farmaci. Fa discutere il via libera al Ritalin per il trattamento dei bambini. di Nicoletta Martinelli Psicofarmaci ai bambini? C'è chi dice no. Ha aperto il dibattito e acceso le polemiche il ritorno del Ritalin, che l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha sdoganato per la cura dell'Adhd, sigla che sta per Attention deficit hyperactivity disorder e che si traduce in italiano con Disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Sono due i farmaci approvati il mese scorso dall'Agenzia: il metilfenidato, prodotto da Novartis (il principio attivo del Ritalin, appunto), e 1'atomoxetina (che sta alla base dello Strattera) messa in commercio da Lilly. Entrambi gli psicofarmaci possono venir prescritti esclusivamente da centri specialistici dopo un rigido iter diagnostico. Regole ferree per prevenire ogni abuso: perché è giusto salvaguardare i diritti di chi ha veramente bisogno di questi farmaci senza, comunque, dimenticare che sono da considerarsi una risorsa - l'ultima - a cui ricorrere quando tutto il resto è già stato tentato. «Come si fa a immaginare che un genitore somministri con leggerezza gli psicofarmaci ai propri figli?». Patrizia Stacconi è presidente dell'Associazione italiana famiglie Adhd: «Adhd vuol dire sofferenza, emarginazione, bassa autostima, poche relazioni sociali, scarso rendimento scolastico. Mio figlio - racconta Patrizia - non è un iperattivo classico, appartiene al sottotipo disattento, sempre con la testa tra le nuvole... ». Cosa che ha reso ancor più difficile mettere a fuoco il problema e approdare a una diagnosi. «Per anni abbiamo brancolato nel buio più totale. Lui presentava un deficit di attenzione associato a dislessia e disgrafia ma non era del genere vivace, che disturba la lezione e quindi cattura per forza l'attenzione. Veniva messo in un angolo. Non solo dalle insegnanti, che si limitavano a classificarlo come poco dotato, ma anche dai coetanei. Un tipo così non è un buon compagno di giochi perché non si dimostra abbastanza pronto, non è sveglio né simpatico. Alla fine, anche i soggetti come lui, esattamente come quelli troppo vivaci, finiscono emarginati e incompresi. Non c'è da stupirsi se, tenuti alla larga da tutti, finiscano con il diventare aggressivi». Alla cura farmacologica, Patrizia si è convinta quando il figlio aveva già 15 anni, dopo aver intrapreso senza risultati apprezzabili la strada della terapia comportamentale: «Ci siamo sottoposti a sedute di parent training, abbiamo fatto ricorso alla logopedia e alla psicoterapia. Ma mio figlio - spiega - presentava una situazione ormai abbastanza grave, con disturbi dell'apprendimento che non miglioravano neppure quel tanto necessario ad avere la sufficienza a scuola. Certo, grazie all'aiuto del logopedista la dislessia era migliorata. Ma leggere bene un testo, concentrandosi sulla pronuncia corretta, non significa comprenderne anche il significato e memorizzarlo». Grazie al farmaco, che allora non era prescrivibile né reperibile in Italia, il disturbo del figlio di Patrizia ha avuto - come la definisce lei -«un'evoluzione benigna. La terapia farmacologica ha aiutato e potenziato le sue prestazioni. Adesso non soffre più come prima. E noi con lui. Non c'è niente di peggio che disperarsi per la disperazione di tuo figlio». Di bambini e adolescenti come il figlio di Patrizia Stacconi, stando ai dati che indicano la presenza dell'Adhd nel 3/4 per cento della popolazione pediatrica, ce n'è almeno uno per classe. «Possibilissimo. Per questo il ruolo delle insegnanti è fondamentale. Anche perché, in qualche caso, sono sufficienti pochi accorgimenti, i consigli giusti ai genitori perché imparino a gestire il disturbo e a tenere sotto controllo la situazione. In qualche altro caso si ricorrerà alla terapia comportamentale, in rarissime circostanze al farmaco»: Lucia Rizzi, milanese, ha alle spalle una trentennale carriera da insegnante e una decennale esperienza con i bambini iperattivi. «Il mio interesse per l'Adhd è cominciato a causa di un mio allievo, dieci anni fa. Gli altri insegnanti - racconta - volevano che fosse allontanato dalla scuola perché era indisciplinato, disturbava continuamente rendendo impossibili le lezioni, infastidiva i compagni. Io mi opposi. E fui l'unica». A quei tempi Lucia Rizzi neppure sapeva cosa fosse l'Adhd ma riusciva istintivamente a stabilire con il bambino una relazione corretta, ottenendo che le sue ore - quelle di italiano - fossero proficue anche per lui. «Nel frattempo, i genitori del piccolo erano stati indirizzati a uno specialista newyorkese. Quando partirono per gli Stati Uniti mi chiesero se ero disposta a incontrare quel neuropsichiatra. Accettai». Da allora, ogni anno, Lucia trascorre le vacanze scolastiche presso il Child Development Centre di Irvine, in California, una struttura destinata ai bambini iperattivi. «Il centro - spiega l'insegnante - è gestito direttamente dagli specialisti dell'Università di Irvine. Lì viene applicata la terapia comportamentale che negli Stati Uniti è obbligatoria nei casi di Adhd e coinvolge sia i genitori sia gli insegnanti. Lì ho imparato e continuo a imparare quello che oggi insegno a mia volta alle famiglie alle prese con l'Adhd e alle scuole che ne fanno richiesta». Negli scorsi due anni l'ospedale San Paolo, a Milano, ha arruolato Lucia perché tenesse questo genere di corsi, gratuitamente, alle mamme e ai papà interessati, «ma quest'anno non sono arrivati i fondi necessari per replicare l'esperienza». Anche Lucia è stata una bambina iperattiva: «Così come lo è stato mio figlio e due dei miei nipotini. Mio figlio, che oggi è laureato e felice padre di famiglia, quando andava al liceo, piuttosto che rimanere seduto in classe lavava i vetri delle finestre, nei corridoi. Le bidelle lo adoravano... ».