La tragedia del Dottor Dappertutto Omaggio funebre a Vsevolod Mejerchol’d (1874-1940) nel centenario della Rivoluzione russa / 23.10.2017 di Daniele Bernardi Il 1937 incombe. Despota dagli «occhiacci da blatta», dai vertici del Cremlino Stalin intima agli artisti di apprestarsi ai festeggiamenti per il ventennale della Rivoluzione di ottobre. Da un anno è stato istituito il «Comitato per gli affari delle arti», capeggiato da Platon Keržencev; compito dell’organo è tenere a bada la produzione artistica del paese e ricacciare ogni «formalismo» (ossia qualsivoglia deviazione avanguardistica o naturalistica) in nome del realismo socialista. Anche Vsevolod Mejerchol’d, il demone dei palcoscenici russi, il «Dottor Dappertutto», come era chiamato all’epoca dei fantasmagorici cabaret della «Casa degli Intermezzi», a suo modo si prepara alla ricorrenza. Certo, preferirebbe non rimandare l’allestimento del Boris Godunov di Puškin, ma, dall’alto, sopraggiungono minacce come lampi: «mancano testi sovietici nel repertorio del teatro», gracida il compagno Keržencev, «basta con i classici». Mejerchol’d, quindi, corre ai ripari. Interrotte le prove del Boris, rimpiazza la pièce con una lettura scenica del Convitato di pietra. Poi, si industria nella produzione di due nuove drammaturgie: Nataša, di Lidija Sejfullina, e, in vista dell’anniversario, Una vita, riduzione teatrale del romanzo Come fu temprato l’acciaio di Nikolaj Ostrovskij. Presto però la commedia della Sejfullina viene giudicata densa di «umori controrivoluzionari» e il Comitato ne vieta la rappresentazione. Con tutta la sua infuocata inventiva, allora, Mejerchol’d si dedica a Una vita. «Chi assiste alle prove», scrive Fausto Malcovati in L’ultimo atto. Interventi, processo e fucilazione (La casa Usher, 2011), «parla di alcuni momenti impressionanti, come la scena della danza nel dormitorio: il protagonista Pavel Korčagin, malato e stravolto dalla stanchezza, è disteso nella branda. È l’alba. Si alza nel silenzio: accenna a qualche passo di danza al centro della camerata tra gli sguardi divertiti dei compagni (...). Qualche altro si unisce alla danza: prima uno, poi due, tre. Il battito delle mani si fa sempre più forte, diventa un rombo, mentre al centro ci sono dieci, venti persone. Al battito si aggiunge il suono dei tamburi dell’orchestra, i riflettori che illuminano debolmente la scena cominciano a oscillare a tempo, creando una travolgente fantasmagoria luminosa». Ma a Mejerchol’d, al geniale didatta che, con la biomeccanica, ha saputo portare l’attenzione della nascente pedagogia teatrale sulle potenzialità del corpo, all’inventore di sogni capace di infondere malefiche malinconie nell’animo degli astanti, al bolscevico riottoso, che si aggirava per Mosca con la rivoltella in tasca, allo spericolato sperimentatore che, nel 1931, gelava intere platee scaricando – a salve – raffiche di mitra rivolte agli spettatori, più non giova la ridda dei suoi talenti. Quando convoca il Comitato alle prove, è ancora fiducioso. Presto si dovrà ricredere: tacciato di pessimismo, «formalismo» e falsificazione ideologica, lo spettacolo viene bocciato dalla cosca dei burocrati. «L’ultima parte della vita è come una marcia forzata», si legge nelle pagine de Il trucco e l’anima. I maestri della regia del teatro russo del Novecento di Angelo Maria Ripellino (Einaudi, 1965); e così sarà per Mejerchol’d: infatti, con le accuse al suo lavoro su Ostrovskij ha inizio lo scontro col potere che lo condurrà alla morte. Ad alcune settimane dall’evento appare sulla «Pravda» l’articolo Un teatro estraneo, firmato dallo stesso compagno Keržencev. L’alto funzionario muove accuse che suonano come chiare incriminazioni: il regista non si sarebbe impegnato a celebrare l’anniversario di ottobre; la sua carriera, prima e dopo la Rivoluzione, risulta inquinata da misticismo, simbolismo, corruzione, «palesi deviazioni formalistiche» e da una «inaccettabile manipolazione ideologica dei testi»; il suo atteggiamento rivela odiose simpatie trockiste, comprovate da una dedica al «traditore menscevico» in occasione dello spettacolo La terra in subbuglio; in vent’anni di attività postrivoluzionaria, Mejerchol’d non si è sufficientemente speso nell’affermazione della drammaturgia sovietica. È il principio di una campagna diffamatoria, che vede aderire anonimi, esponenti del mondo della cultura e della scienza. Seguono tre giorni di dibattito tra l’accusato e il collettivo teatrale. Qui, nonostante ripetuti tentativi di autocritica, Mejerchol’d assapora l’odio dei propri collaboratori; fra questi, solo un falegname, Kanyškin, lo difende parlando della sua natura di «inventore». Ma alla fine il giudizio è unanime: «lo spettatore sovietico non ha bisogno di un teatro simile». Nel gennaio del 1938 vanno in scena le ultime repliche de La signora delle camelie e de Il revisore. Pochi giorni dopo, sarà ufficialmente decretata la chiusura del teatro. Passati i mesi, la mattina del 20 giugno Vsevolod Mejerchol’d è sequestrato dagli sgherri del regime – l’ultimo a vederlo, la sera prima, sul pianerottolo delle scale, è l’amico Dmitrij Šostakovič. A una ventina di giorni dall’arresto, degli sconosciuti penetrano nel suo appartamento e accoltellano sua moglie, l’attrice Zinaida Rajch. Intanto il calvario è cominciato: sconvolto da atroci torture, costretto ad ammettere il falso pur di alleviare le pene, Mejerchol’d cede agli aguzzini inventando crimini non commessi, facendo nomi di complici inesistenti. A nulla varranno le successive ritrattazioni, le missive inviate a Berija, a Molotov e a Vjačeslav: il Collegio Militare della Corte suprema dell’URSS lo dichiara colpevole di attività antisovietica trockista. L’esecuzione si svolge il 2 febbraio del 1940. A sessantasei anni, in un qualsiasi punto del nulla, il regista che aveva accolto con esultanza la Rivoluzione dei bolscevichi viene fucilato e gettato non si sa dove.