STANISLAVSKIJ COSTANTIN SERGEEVIC (nome d’arte di K. S. ALEKSEEV). — Regista dramm. e d’opera attore e teorico teatrale russo, nato a Mosca il 5 genn. 1863, morto ivi il 7 agosto 1938. Artista nazionale dell’URSS dal 1936. 1) VITA E OPERE. — Figlio di un industriale, fabbricante di canutiglia d’oro e di broccato, S. discendeva, per parte materna a un’attrice francese che aveva recitato al Michajlovskij di Pietroburgo. La famiglia Alekseev coltivava fervidamente il teatro e la musica. Sin da ragazzo S. fu condotto con metodica assiduità al circo, ai balletti del Bol’soj, all’opera italiana (di qui i suoi entusiasmi per la Patti, Cotogni, Tamagno, ecc.), al Malyj (dove ammirò attori come Zivokini, Samarin, la Fedotova, la Ermolova), all’operetta nel teatro Ermitaz dell’impr. Lentovskij. A casa gli Alekseev imitavano gli spettacoli cui avevano assistito, soprattutto i vaudevilles e le operette. Si formò così lo Alekseevskij kruzok (Circolo Alekseev), che recitava ora in un capannone de tenuta di Ljubimovka presso Mosca ora su un palcoscenico che il padre di S. aveva fatto costruire nella propria casa di Mosca. Nell’Alekseevskij kruzok il giovane S. interpretò e mise in scena parecchie operette (particolare successo ebbe Mikado di Gilb Sullivan) e vaudevilles. Dal 1885 egli fu uno dei 5 direttori (accanto a Taneev, Cajkovskij, l’editore mus. P. Jurgenson, il mecenate S. Tret’jakov) del Russkoe muzykal’noe obcestvo (Società mus. russa). Frequentò per breve tempo una scuola drammatica diretta dalla Fèdotova, prese lezioni di canto da Fedor Komissarzevskij (vagheggiò per anni la carriera di cantante lirico), si prodigò in decine di spettacoli filodrammatici in circoli e associazioni diverse. Nel 1888, assieme a Aleksandr Fèdotov (marito de Fèdotova), a Komissarevskij e al pittore Fedor Sollogub, fondò l’Obcestvo iskusstva i literatury (Soc. d’arte e letteratura) che fu insieme club di amatori delle arti, scuola e circolo filodramatico. Qui interpretò il Barone in Skupoj rycar’ (Il cavaliere avaro) di Puskin, Ananij Jakovlev in Gor’kaja sud’bina (Un amaro destino) di Pisemskij, Ferdinando in Kabale und Liebe di Schiller, Paratov in Bespridannica (Senza dote) di Ostrovskij, ecc. Delle sue regie all’Obscestvo ricordiamo Plody prosvescenija (I frutti dell’istruzione) di Tolstoj, Selo Stepanlikovo i ego obitateli (Il villaggio di S. e i suoi abitanti) da Dostoevski, Uriel Akosta di Gutzkow, Hanneles Himmelfahrt e Die versunkene Glocke di Hauptmann, Othello di Shakespeare. Nel luglio 1889 sposò l’attrice Mania Lilina (Perevoscikova). Una svolta nella vita di S. segnò l’ormai leggendario incontro con Nemirovic Dancenko, il 21 giugno 1897: discussero dalle 2 del pomeriggio alle 8 del mattino, prima in una saletta riservata del ristorante Slavjanskij bazar di Mosca, poi a Ljubimovka. Fu decisa allora dai due uomini di teatro la creazione del Moskovskij Chudozest-vennyj obscedostupnyj teatr (Teatro d’Arte di Mosca accessibile a tutti). Già in quel colloquio essi posero le basi della futura collaborazione e tracciarono le linee del programma («non ci sono piccole parti, ci sono piccoli artisti», «oggi Amleto, domani comparsa, ma anche la comparsa dev’essere artista», ecc.). La compagnia fu formata di elementi della Filarmonica, dove insegnava Nemirovic Dancenko (I. Moskvin, O. Knipper, M. Savickaja, Vs. Mejerchol’d, E. Munt, I. Tichomirov, ecc.), di attori dell’Obcestvo iskusstva i literatury (M. Lilina, M. Andreeva, A. Sanin, A. Artem, V. Luìskij, ecc.) e di attori di provincia (A. Vignevskij, ecc.): in tutto 39 (23 uomini e 16 donne). Le prove cominciarono il 14 giu. 1898 in una grande rimessa presso Puskino, a 30 verste da Mosca. Sin dall’inizio gli attori si unirono in un’intesa cordiale, in un clima di fede e di dedizione all’arte, schivando quell’isteria, quei capricci, quella pigrizia che regnavano nei teatri imperiali. Sin dall’inizio il regista assunse un’inconsueta preponderanza (gli avversari parleranno poi di «redisserskoe zasil’e», ossia di strapotere registico). Sin dall’inizio condussero lunghe prove a tavolino (« zastol’naja rabota »), frammentando con furore analitico le parti, gli atti, le scene. S. (responsabile della messinscena) e Nemirovic Dancenko (preposto ai problemi letterari) si proponevano di scacciare dal teatro il falso pathos, la declamazione, la teatralità, le pessime consuetudini. Con l’aiuto di Simov, il primo scenografo del Teatro d’Arte, sostituirono agli inerti fondali e ai padiglioni standard verisimili muri con carta da parati, soffitto e stucchi; coprirono il piano scenico di tele disegnate e ne mossero la superficie con rialzi, piattaforme e rilievi, particolarmente utili nelle scene di massa. Allinearono sulla ribalta filari di tronchi d’alberi, perché gli attori balenassero come tra squarci di bosco. Offrirono insoliti spaccati e angolazioni di stanze e, volgendo i mobili col dorso e le spalliere al pubblico, allusero alla quarta parete. L’attore fu tenuto lontano dalla cupola del suggeritore e spesso disposto con le spalle alla platea. Ai costumi generici dei teatri imperiali opposero costumi documentati sulle fonti e sui materiali iconografici. Fu abolita la musica allegra (Suppé!), che dilettava gli spettatori negli intervalli, e dal sesto anno fu vietato agli attori di presentarsi alle chiamate, per non rompere la verità dello spettacolo. Il T. d’Arte si inaugurò a Karetnyj rjad il 14 ottobre 1898 con Car Fedor Ioannovic di A. Tolstoj, uno spettacolo che suscitò meraviglia per la sua precisione naturalistica, la ricchezza emamìnata delle scene e dei costumi, lo sfolgorio fiammingo delle masse. La moderna drammaturgia russa si affermò al T. d’Arte con Cajka (Il gabbiano) di Cechov che presto,divenne l’autore-pilota di questa scena e il prediletto di S., che pure non lo aveva in un primo momento apprezzato. Cechov sposò l’attrice Knipper del T. d’Arte; per fare assistere ai propri spettacoli Cechov malato, il T. d’Arte si recò a Jalta. Anche quando nel reperorio entrarono altri nomi di autori russi contemporanei (Gor’kij, Andreev ecc.), Cechov restò per il T. d’Arte un simbolo, come Ostrovskij per il Malyj, come Mai.akovskij per il TIM. Delle molte figure che appoggiarono e aiutarono S. vanno almeno ricordati il tolstojano Sulerickij e il Mecenate Savva Morozov, il quale collaborò col T. d’Arte come esperto di illuminotecnica e ne fece costruire a proprie spese il nuovo edificio a Kamergerskij pereulok. Nel suo libro di memorie Moja Zizn’ v iskusstve (La mia vita nell’arte, 1924), S. distingue l’attività del T. d’Arte sino a quell’epoca in diverse «linee»: linea storico-feriale (ossia tendenza al naturalismo, alle ricostruzioni da museo): Car Fedor Joannovic, Smert’ Ioanna Groznogo (La morte di Ivan il Terribile) di A. Tolstoj, The Merchant of Venice e Julius Caesar di Shakespeare, Vlast’ t’my’ (La potenza delle tenebre) di L. Tolstoj, Fuhrmann Henschel di Hauptmann; linea della fantasia: Snegurocka di Ostrovskij, L’Oiseau bleu di Maeterlinck; linea del simbolismo e dell’impressionismo: Ibsen, Andreev, Hamsun, ecc.; linea dell’intuizione e del sentimento Cechov, Turgenev, Dostoevskij, ecc.; linea social-politica: soprattutto i lavori di Gor’kij. Basterebbe questa suddivisione per sfatare le affermazioni di coloro che vedono nel T. d’Arte niente altro che una roccaforte del naturalismo. Episodio assai significativo delle ricerche di S. in direzione opposta a quella realistica fu la Studija na Povarskoj, che egli affidò a Mejerchol’d, nel 1905 anche se lo Studio non andò più in là della prova generale di La Mort de Tintagiles di Maeterlinck, i suoi esperimenti simbolisti o, come allora si diceva, « convenzionali» a, esercitarono un grande influsso sull’arte di S. Intorno al 1905 S. sentì in modo acutissimo la crisi del realismo e, dopo la prima tournée del T. d’Arte l’estero, tentò anche lui, come Mejerchol’d, l’allegoria simbolistica, il teatro irreale. Poi, negli anni precedenti la Rivoluzione del 1917, il T. d’Arte si volse di preferenza ai classici russi. Dopo la Rivoluzione il T. d’Arte si trovò in una situazione difficile, sia per gli attacchi dei teatri di sinistra che considerava antiquato il suo psicologismo, sia perché parte della sua compagnia recatasi nel giugno 1919 in tournée a Char’kov, fu tagliata fuori dall’esercito di Denikin. S. condusse allora una attività da laboratorio, tenendosi in un operoso riserbo. Scarso successo ebbe nel 1920 la sua regia del Caino di Byron, nel quale egli voleva trovai allegoriche corrispondenze con la Rivoluzione. Il T. d’Arte si risollevò dal periodo di crisi, dopo la trionfale tournée americana (1922-24). E si inserì nell’arte sovietica militante con spettacoli come Dni Turbinych (I giorni dei Turbiny) di M. Bulgakov (1926) e Bronepoezd 14-69 (Il treno blindato 14-69) di Vs. Ivanov (1927). S., dopo il ritorno dall’America, firmò soltanto poche regie, tutte di lavori classici, limitandosi in altri casi a una supervisione artistica della messinscena altrui. Preferì il lavoro al Opernaja Studija del Bol’soj Teatr, fondata già nel 1918, e poi, d 1935, all’Operno-dramaticeskaja studija. Con questi studi, oltre a mettere in scena opere liriche, condusse una minuziosa ricerca nel campo dell’interpretazione, sviluppando i canoni del su famoso «sistema». Non va dimenticato che nell’Opernodramaticeskaja studija egli accolse, in anni difficili, Mejerchol’d perseguitato, quel Mejerchol’d che era stato suo allievo e poi suo grande avversario e che negli ultimi tempi, col crescere della reazione staliniana, s’era venuto sempre più avvicinando a lui. 2) S. REGISTA DRAMMATICO. — Chi si occupa oggi di S. deve in primo luogo liberarlo dalla ragnatela di luoghi comuni in cui è stato imprigionato da zelanti glossatori. S. fu uno dei più irrequieti e mutevoli uomini di teatro che abbia avuto la Russia, non un fagotto di formulette prefabbricate, un arido missionario della Coerenza, ma un acceso ricercatore di nuove strade, e la sua arte un seguito di contraddizioni, di esperimenti, di « subtilités travailleuses ». All’inizio si mosse nella scia dei Meininger, che furono a Mosca due volte: nel 1885 e nel 1890. La loro minuziosità archeologica, la loro fedeltà ai segni delle epoche rappresentate, la loro disciplina ebbero su lui un grande influsso sin dai tempi dell’Obscestvo iskusstva i literatury. Per Othello di Shakespeare egli studiò a Venezia affreschi e dipinti e a Parigi le pose e il costume di un conoscente arabo. Il palcoscenico era gremito di mobili, ricami, broccati, cianfrusaglie che i coniugi S. avevano acquistato nella città dei dogi e S.-Otello sfoggiava alla ribalta un’autentica spada veneziana, per far notare al pubblico che si trattava di oggetto prezioso, non di un attrezzo di cartapesta. Per Car Fedor di Tolstoj S. consultò annali, incisioni, libri di chiesa, visitò botteghe di rigattieri e case di contadini alla ricerca di vecchi ricami, vestiari, ornamenti, e fece perfino delle spedizioni: una a Jaroslavl’, Rostov Suzdal’skij, sul Volga, osservando chiese e monasteri e raccogliendo stoffe, cab ture, gabbani, l’altra alla fiera di Ninyj Novgorod, do comprò antiche stoffe ricamate in oro, gottazze, intar intagli. Per Na dne (Bassifondi) di Gor’kij, volle visitare Chitrov rynok, ossia il quartiere malfamato dove vivevano in grandi dormitori, i bosjaki gor’kiani, i vagabondi. Per Vlast’ t’my (La potenza delle ténebre) di L. Tolstoj, si recò nel governo di Tula a disegnare isbe, cortili, a osservare r usanze, portandone, non, solo vestiti, vasellame, oggetti domestici, ma anche due contadini, un vecchio e una vecchia (che si dimostrò poi attrice eccezionale). Questa smania di oggettività, questo scrupolo (in Vlast’ t’my fu posto persino autentico fango dinanzi all’isba di Petr) sconfinavano spesso nella « pricudlivost’ » (bizzarria) e diventavano stilizzazione. È noto che Cechov si burlava di tutti gli orologi, campanelli, sonagli, stridi di grilli, di cui il T. d’Arte riempiva i suoi lavori (i grilli in Djadja Vaija divennero simbolo di « stanislavscina »). Ma, nella resa Cechov, il centro di gravità della regia di S. si spostava dalla ricerca di verisimiglianza esterna a un minuzioso scandaglio interiore, che voleva trarre alla luce il « corso subacqueo » (« podvodnoe tecenie ») del lavoro, ricrearne il clima, il «nastroenie » (si direbbe il « mood ») far corrispondere alla profonda semplicità cechoviana una schiva e trepida semplicità scenica. I procedimenti delle regie cechoviane divennero stampi, quando furono applicati ad altri autori, e gli interpreti del T. d’Arte furono spesso prigionieri del loro cechovismo. Nella sua perenne insoddisfazione S. passò, dopo il 1905, dalla scrupolosità naturalistica a uno schematismo allusivo, applicando, in spettacoli come Livets Spil di Hamsun e Zizn’ Celoveka (La vita dell’Uomo) di Andreev accorgimenti propri di Mejerchol’d (disposizione dei gruppi a mo’ di bassorilievi, immobilità, ombre cinesi, schematizzazione pittorica della scena). Non fu l’ultima volta che si ricordò di Mejerchol’d: dopo Rivoluzione, il suo Gorjacee serdce (Cuor ardente) di Ostrovskij risentì, nel carattere di baraccone e nell’accentazione grottesca, della regia mejerchol’diana di Les (La Foresta) dello stesso Ostrovskij. Nel periodo del simbolismo S. diede gran risalto alle possibilità sceniche del « velluto nero» («cèrnyj barchat »), secondo il principio dei baracconi e della camera oscura (nero su nero scompare), e se ne servì come d’un mezzo magico in Zizn’ Celoveka, dove rendeva a meraviglia l’atmosfera pessimistica e delirante di Andreev, e in L’Oiseau bleu. In questi spett. il disegno psicologico, sempre molto curato e approfondito, si arricchiva di« forme teatrali ». La verità è che S. amava i trucchi non meno dei registi antirealistici («Amo inventare diavolerie in teatro. Mi piace trovare dei trucchi che ingannino lo spettatore: «Moja zizn’ v iskusstve»), e che in spettacoli come Snegurocka (dove i cespugli si mutavano in esseri viventi, dalle enormi braccia-rami, e un’orchestra di fischietti, raganelle, traccole, pifferi, cri-cri, macchinette d’ogni sorta fingeva l’ululo della tormenta) si avvicinò alla féerie, alla pièce à spectacle, come si recitavano nei balagany e nel teatro di Lentovskij. Nonostante l’avversione per la teatralità, S. non disdegnò i più appariscenti mezzi scenici (né il suo naturalismo era sciatto o incolore): e quando si accorse che Simov apparteneva alla generazione superata dei pittori-peredviniki, si rivolse a quelli di « Mir iskusstva» (Dobuinskij, Benois, ecc.) Ma che cosa può esser più teatrale delle sue soluzioni per Caino di Byron? Comparse vestite di neri costumi portavano su lunghi bastoni neri degli enormi striscioni raffiguranti lucidi pianeti: nere figure e neri bastoni si perdevano sullo sfondo del velluto nero, sicché pareva che i pianeti i fluissero in cielo. C’è da pensare che il migliore S., quello che si avvicinava al teatro «convenzionale» col corredo d’un profondo psicologismo, non abbia potuto svilupparsi in pieno, soprattutto per l’attaccamento degli attori e del pubblico del T. d’Arte al realismo ottocentesco e ai motivi di Cechov (non è un mistero che per lungo tempo, dopo il 1906, una frattura si formò tra lo sperimentalismo di S. e la fedeltà dei suoi attori ai principi degli inizi del T. d’Arte).Il discorso su S.-regista non può prescindere da un accenno al suo modo di provare. Al T. d’Arte si provava a lungo, attorno a un tavolo, sminuzzando il testo in frammenti, sostituendo parole proprie alle battute dei personaggi, tacendo e incontrandosi con gli occhi, divagando su argomenti psicologici. Spesso lo sforzo di penetrare a freddo nella parte dava risultati scialbi, e S. interveniva con sue dimostrazioni («pokazy »), con improvvisazioni geniali, che contraddicevano la sua dottrina del lento, organico maturare della parte. Questi momenti di grazia riscattavano la lentezza analitica e non di rado pedantesca delle lunghissime prove. 3) S. ATTORE. A leggere le pagine di Moja zizn’ v iskusstve, si nota che S. era — straordinariamente esigente con se stesso, con proprie interpretazioni. Egli ebbe insuffìcienti mezzi vocali, una dizione non troppo pura, e per lungo tempo diede scarso risalto al peso semantico della parola. Ciò che fu causa del suo insuccesso come Salieri nella tragedia breve di Puskin, lo rese intransigente coi cantanti nella resa della pienezza verbale (lui stesso,nel 1919 frequentò i corsi di dizione di S.Volkonskij e poi di N. Safonov alla Opernaja Studija, di cui era dir.). Tutta la vita S. agognò di interpretare personaggi tragici, ma non ne aveva le doti né il temperamento; né d’altra parte il repertorio del T. d’Arte , faceva gran posto alla tragedia. Come Uriel Akosta e come Otello, egli si dimostrò privo di pathos e di slancio. Riusciva invece in parti di carattere. Con la sua alta statura i suoi nobili tratti, il gesto plastico, la ricca spiritualità portava nelle sue interpretazioni di commedia un che di magnanimo,di luminoso. Indossava nobilmente i cenci di bosjak in Na Dne di Gor’kij:si disse che impesonava Satin come se fosse Don Cesare di Bazan. Tutti i suoi personaggi (l’ottuso generale Kriitickij in Na vsjakago mudrega dovol’no prostoty [Anche il più furbo ci casca], il bonario Famusov in Gore ot uma [Che disgrazia l’ingegno],il malato immaginario di Molière) avevano una luce spirituale. E lo stesso si dica per figure come Astrov in Djadja Vanja o il dottor Stokmann di Ibsen:interpretazione quest’ultima, che divenne popolare per la perfetta fusione che S. vi raggiunse tra verità esteriore e psicologia .Miope, con la barbetta a punta, col corpo inclinato in avanti, con l’indice e il medio delle mani puntati verso gli interlocutori, lo Stockmann di S. era una chiara prova che questo attore—regista cercava di rivestire di appariscente teatralità l’analisi psicologica. 4) S. TEORICO. — La dottrina pedagogica, il cosiddetto sistema di S. é difficilmente riassumibile in poche parole, sia perché si venne formando, attraverso ricerche e ripensamenti, nel corso di parecchi anni, sia perché è stato alterato dalle chiose, dagli inserti, dalle aggiunte posticce di veri e falsi discepoli. Vi fu un tempo infatti in cui nell’Unione Sovietica, S., che i comunisti di dopo la Rivoluzione avevano considerato campione d’un attardato psicologismo, divenne nume di tutti i teatri, portavoce d’uno squallido realismo livellatore. S’intende, S. non aveva in questo una colpa: gli si attribuivano concetti e formule, che egli non aveva mai espresso. Per tutta la vita S. fu tormentato da questo problema: come far sì che la parte, ripetuta tante volte, non diventi iterazione meccanica di stampi esteriori. E per tutta la vita egli condusse un’infaticabile, ossessiva lotta contro gli stampi. Da questa lotta nacque il «sistema» .Esso si articola in due momenti: lavoro interiore ed esteriore dell’artista su se stesso e lavoro interiore ed esteriore dell’artista sulla parte. Principio fondamentale del «sistema» è la dottrina del «tvòrceskoe samocuvstvie» (stato creativo), che S. voleva sostituire, nella creazione scenica, all’«aktèrskoe samocuvstvìe» (stato attorico). Prima di spiegare questa contrapposizione, avvertiamo il lettore che la terminologia di S., ripresa in notevole misura da Ribot è, come osservò anche Nemirovic-Dancenko, spesso imprecisa e insufficiente. L’«aktèrskoe samocuvstvìe» è lo stato per cui, sulla scena, l’attore è costretto a mostrare esteriormente ciò che non sente nell’intimo, una «slogatura » («vyvich ») per cui l’anima vive delle sue cure quotidiane, dei suoi pensieri feriali, mentre il corpo deve esprimere slanci e passioni. Da questo squilibrio nascono gli artifici teatrali, gli stampi. I «tvòrceskoe samocuvstvie» è invece una condizione di pieno distacco dagli interessi abituali e dai problemi della vita comune. Per scoprire il modo di suscitare nell’attore il «tvòrceskoe samocuvstvie », S. fece ogni sorta esperimenti, tormentando sé e gli altri con minuziosità analista. Egli era infatti persuaso che il «tvòrceskoe samocuvstvie» nascesse da lunghi esercizi su se stessi, da un intenso allenamento psichico. Secondo S. l’attore giunge alla creazione solo se riesce a dominarsi e a concentrare tutta la propria sostanza corporea e spirituale, se allenta e rilassa la tensione dei muscoli e sottomette alla volontà l’apparato fisico. Dominare dunque se stessi, liberarsi dai tic, dagli spasmi, conquistare una piena sicurezza di se: tutto questo è essenziale. Inoltre, prima della creazione, è necessaria una preparazione interiore, una « toletta spirituale» (l’esempio viene a S. da Salvini), per il momento in cui ci si fonderà col personaggio. Ma soprattutto l’attore deve crede con fede quasi infantile in ciò che avviene attorno a lui. La creazione comincia infatti nel momento in cui nell’anima e nella fantasia dell’artista compare il magico «se » («esli by»), cioè un’immaginaria verità, in cui egli crede più che nella verità autentica. Con un «cuvstvo pravdy » (senso del verità) acutissimo egli si trasferisce dalla superficie della vita reale in un’altra vita illusoria, cessa perciò di recitare e vive la vita del personaggio. L’allenamento psichico, l’esercizio della volontà, tutti i procedimenti coscienti sono soltanto stati preparatori della creazione inconscia, servono a suscitare questa creazione, che è sempre inconscia, perchè il mistero dell’incarnazione del personaggio appartiene alla sfera dell’oltrecoscienza («oblast’ sverchsoznanija»). Sviluppato in sé il « tvòrceskoe samocuvstvie», l’attore passa al lavoro sulla parte. Cerca, con l’ausilio del regista lo «skvoznòe dejstvie» e lo «zernò », e si immagina nelle « circostanze proposte » («pradlagaemye obstojatel’stva». L’azione scenica è un «compito volitivo » («volevàja zadàca»). Elaborare la parte significa trovarvi una serie singoli « compiti volitivi» da eseguire, perché ogni azione è il risultato di un « volere » («chotenie») soggettivo. Il sentimento («cuvstvo») non nasce da una recitazione esterna, ma appunto dall’adempimento dì compiti volitivi. Tutti i compiti tendono a un « supercompito» («sverchzadàca) che scaturisce dal «volere» fondamentale. In altre parole i compiti, in cui viene sezionata la parte, si fondono nel supercompito. Questa tendenza al supercompito è lo «skvoznòe dejstvie» (letteralmente: azione che attraversa, che passa da un lato all’altro), ossia ciò che il personaggio vuole con la sua vita, il suo temperamento, la sua sostanza, o meglio la tendenza soggettiva dell’eroe (per es., l’ambizione di Macbeth, l’amore della libertà di Karl Moor), cardine e motore del dramma. Lo «skvoznòe dejstvie» va percepito come tendenza elementare, e perciò è necessario scoprire lo «zernò », il germe del dramma come tendenza elementare, e perciò è necessario scoprire lo «zernò », il germe del dramma, in altri termini il suo contenuto poetico. Sempre l’attore deve rivivere i sentimenti della parte come nuovi, come la prima volta. In questo lo aiuta il famoso «perezivanie» ossia il rivivimento della parte, concetto che S. contrappone a «predstavlenie», rappresentazione! La parola « perezivanie» (da « perezit’» provare, soffrire, rivivere) non è troppo felice, perché contenendo l’affermazione che l’attore « rivive » in scena esattamente i sentimenti vitali, contraddice l’essenza stessa dell’arte interpretativa e allude a un che di pedissequo, gentile, di passivo, mentre la creazione presuppone una scelta attiva di colori e di immagini. Il termine, coniato nel periodo naturalistico del T. d’Arte, divenne inadeguato nei periodi seguenti, quando S. comprese l’importanza del gesto, del movimento, della plasticità esteriore ai fini de creazione attorica. D’altronde, anche nel primo periodo, fantasticherie sulla parte, il suo frazionamento in «compiti volitivi », in singoli « voglio », la ricerca di contrasti psicologici, il capriccioso disegno d’improvvisi zigzag della volontà: tutto ciò testimonia che S. concedeva già allora molto spazio all’immaginazione creativa.. Per il « sistema », la realtà non è - dunque -un ambiente sociale oggettivo o una serie di rapporti interumani, ma si identifica con la vita spirituale del singolo, con la psicologia dell’individuo. Non le azioni e il comportamento nella sfera sociale caratterizzano la persona, ma la somma dei suoi « perezivanija », i suoi stati spirituali. Va ricordato che, nella ricerca del «tvòrceskoe samocuvstvie», S. si giovò per alcuni anni (1911-14) de dottrine buddistiche, costringendo gli attori a esercizi psico-fisiologici, che traevano origine dallo Zen, e a prove di concentrazione, secondo i suggerimenti della filosofia indiana (è chiaro che tutto ciò sfociava nella contemplazione mistica anziché nell’azione scenica). Gli attori della prima leva del T. d’Arte non ebbero inizialmente troppa comprensione « sistema ». Ma S trovò un sostegno in Sulerickij, il quale tenne corsi di «sistema » in quella Scuola di Adasev, dalla quale sarebbe uscito Vachtangov, che, assieme a Michail Chekhov, fu il maggiore divulgatore e interprete del « sistema» . Più che al T. d’Arte, S. preferì sperimenta le sue dottrine negli Studi che si vennero formando intorno alla scena-madre e che furono vivai di giovani attori, più duttili e più disposti alle prove minuziose e esasperanti. Così «il sistema» divenne la base pedagogica ed etica del Primo Studio (sorto nel 1913), del Secondo Studio (sorto 1916), del Terzo Studio (incluso nell’ambito del T. d’Arte nel 1920, ma esistente sin dal 1914), del Quarto Studio (n. nel 1922), della Opernaja Studija e della Operno-dramaticeskaja Studija. Né va dimenticato che, per merito di Michail Chekhov e della tournée americana del T. d’Arte, il « sistema» si diffuse anche fra uomini di teatro degli S. U.(specie fra quelli del Group Theatre). Chi voglia approfondire i lineamenti del «sistema» stanislavskiano deve studiare, oltre alle due parti (scritte in forma di diario d’uno studente) del trattato Rabota aktera nad soboj (Il lavoro dell’attore su se stesso, 1938 e 1948), anche i numerosi libri di appunti e stenogrammi delle prove, pubbl. in anni recenti dai suoi allievi (Gorcakov, Toporkov, Antarova, Kristi, Rumjancev, ecc.). 5) S. REGISTA LIRICO. — La seconda parte della vita di S. è strettamente legata al teatro d’opera. Tutte le impressioni musicali e le esperienze di cantante che egli aveva avuto nella prima giovinezza parvero in lui risvegliarsi dopo la Rivoluzione. Non va dimenticato che egli era stato eccellente interprete di operette e di vaudevilles, aveva cantato nella Castnaja opera (Opera privata) di Savva Mamontov, aveva organizzato nel 1905 una Sezione musicale dir. da I. Sac nell’ambito del T. d’Arte, aveva progettato diverse imprese mus. non realizzate (per es., la creazione, con F. Komissarevskij, d’un corso di ritmo per i cantanti, ecc.). Nel 1918 egli fondò l’Opernaja studija del Bol’soj teatr, studio che diede il primo spettacolo (l’a. I di Evgenij Onegin di Cajkovskij) il 1 dicembre 1919 e che nel 1920 si divise dal Bol’soi. Assieme alla sorella Z. SOKOLOVA e al fratello V. ALEKSEEV, al dir. d’orch. N. Golovanov e ad altri, S. si proponeva di trasferire nello Studio d’opera le esperienze del T. d’Arte, rinnovando le ormai stinte tradizioni e trovando una piena fusione della musica col canto. il ritmo, la parola. Il suo problema assillante era ora quello di far sì che la parola cantata riuscisse comprensibile. Nemico del «besslovesnoe penie» (canto asemantico), egli voleva che l’attore d’opera rendesse delle «note- mysly», cioè note piene di pensiero e si preoccupava che la logica musicale combaciasse con la logica del discorso. Tutti i procedimenti del «sistema» furono da lui applicati nel campo dell’opera, e la sua dottrina si arricchì di nuovi concetti, per es. di quelli di «tempo-ritmo», «tecnica interiore del discorso», e «azione verbale», ecc. Delle opere da lui messe in scena allo Studio ricordiamo: Werther di Massenet (2 ag. 1921), Evgenij Onegin di Cajkovskij (1 mag. 1922), Matrimonio segreto di Cimarosa (1925), Carskaja nevesta (La sposa dello zar) di Rimskij-Korsakov (28 nov. igz6). Con questo spettacolo lo Studio si trasferì dal Leont’evskij pereulok al Dimitrovskij teatr, assumendo il nome di Opernyj teatr imeni Stanislavskogo. Nel genn. 1928 S. vi mise in scena Majskaja noc’ (Notte di maggio) di Rimskij-Korsakov, ultima regia curata da lui per intero. Dall’aut. 1928 egli s’ammalò di cuore e dové limitare il proprio lavoro. Altre opere furono rappr. secondo i suoi piani registi Boris Godunov (mar. 1929), Pikovaja dama (28 febb. 1930), Il Barbiere (1933), Carmen ( 4 apr. 1935), Don Pasquale (mag. 1936) e, postuma, Rigoletto (apr. 1939). Quando non poteva recarsi nello Studio, si faceva fare un rapporto quotidiano dagli allievi ai quali chiedeva di sfilare nella sua camera da letto truccati e in costume, e, se i medici gli proibivano di ricevere estranei, parlava per ore al telefono, a volte ascoltando per telefono intere prove. Per ulteriori esperimenti sul sistema S. organizzò nel 1935 la Qpernodramaticeskaja studija, dove fra gli altri insegnò a Antonina Nezdanova. Questo nuovo Studio, che aveva compiti più elevati e più tecnici del precedente, mise in scena, in una recita privata Cio-Cio-San (Madame Butterfly) di Puccini (16 giu. 1938), ultimo spettacolo cui S. partecipasse personalmente.