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storia ed istituzioni dell'asia

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Corso di Laurea Magistrale in Relazioni internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
SOMMARIO MODULO 1°
Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
1.1. Profilo generale
1.2. Etnie, lingue e religioni in Asia
1.3. Popolazione e sviluppo
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
1.1. Profilo generale
Il toponimo Asia, utilizzato per la prima volta da Erodoto attorno al 440 a.C., deriva,
secondo alcuni studiosi, da una voce semitica (per esempio l'assiro Açu) e stava già a
significare "oriente". In particolare, il termine allora aveva una connotazione eurocentrica,
essendo utilizzato da Greci e Fenici per contrapporre il Paese d'Occidente, l’Europa, dal
Paese d’Oriente. (De Agostini, 2014)
Da allora, l’estensione geografica dell’Asia si è modificata gradualmente, avanzando sia
verso est che verso nord, di pari passo con le esplorazioni e quindi con le conoscenze
geografiche. Inizialmente confinata ai territori dell’Asia Minore (corrispondente alla parte
centroccidentale della Turchia), successivamente si estese fino al fiume Don, per quel che
riguarda il confine tra Europa e Asia, e fino al Nilo per quel che concerne l’Africa. Solo nel
Settecento si definirono nuovi confini, corrispondenti a quelli odierni, ovverosia a nord il
Mar Glaciale Artico, a est lo Stretto di Bering, a sud ovest il Mar Rosso e l'Istmo di Suez, a
ovest (verso l’Europa) i Monti Urali, il Mar Nero e l'Egeo.
Con una superficie di 44.600.000 km2, attualmente l’Asia rappresenta il 30% delle terre
emerse di tutto il pianeta e ospita tre quinti della popolazione mondiale. I primati dell’Asia
si estendono anche sotto altri profili fisici: nel continente non solo si trovano i sistemi
montuosi più alti al mondo - ci si riferisce alle catene del Karakoram e dell’Himalaya, come
anche al picco più alto sulla Terra l’Everest (8.846 m) - e le depressioni più profonde
(Bajkal, profondità massima 1.620 m, Caspio, 995 m); ma anche gli abissi marini più
profondi siti lungo i margini orientali (Fossa delle Marianne, 11.022 m). La vastità del
territorio, inoltre, fa sì che l’area continentale presenti un’elevata varietà morfologica: si
passa, infatti, dalle grandi regioni montuose e i vastissimi deserti dell’Asia centrale, alle
vaste pianure settentrionali (ad esempio la Siberia), e alle piattaforme dell’India e
dell’Arabia, fino alla regione degli arcipelaghi nella parte sud-orientale del continente,
comprendente Paesi quali ad esempio Filippine e Giappone.
Una delle peculiarità fisiche dell’Asia è la contiguità con gli altri sistemi continentali, in
particolar modo con l’Europa, il cui confine, che corrisponde ai monti Urali, è del tutto
convenzionale, trattandosi in realtà di un unico territorio continentale, anche detto Eurasia.
Tantomeno può definirsi naturale il confine con l’Africa delimitato dal Mar Rosso e dal
Canale di Suez, dove sono siti Paesi come Arabia e Siria che presentano caratteristiche
morfologiche e strutturali molto simili al continente africano, sebbene rientrino nel
continente asiatico. Infine, lo stretto di Bering, un piccolo braccio di mare di 92 km, separa
il continente asiatico dall’America settentrionale il quale, durante il periodo delle gelate
invernali, permette gli spostamenti umani tra i due continenti (Treccani, 2014). È proprio
attraverso lo Stretto di Bering che i primi Homo sapiens lasciarono il continente
euroasiatico alla volta delle Americhe: ai tempi (12.000 a.C., circa), infatti, il livello del
mare, essendo di decine di metri più basso a causa delle calotte glaciali formatesi durante le
glaciazioni, favoriva il passaggio lungo lo Stretto di Bering, che probabilmente era solo un
lembo di terra, permettendo così ad alcuni di essi di raggiungere i territori dell’America
settentrionale. (Diamond J., 1998)
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Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
Figura 1.1.: Diffusione del genere umano sulla Terra
Fonte: Diamond J. (1998), Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi
tredicimila anni, Einaudi
Le prime tracce della presenza umana nei territori asiatici si fanno risalire al periodo del
Paleolitico, come dimostrato da diversi reperti fossili, di cui il più famoso è il cosiddetto
“uomo di Giava” ritrovato in Indonesia e risalente a circa un milione di anni fa. Oltre a
questo importantissimo reperto fossile, vari, numerosi e non omogenei sono i ritrovamenti
scoperti nel continente, come ad esempio in India, nel Gukarat e nella regione di Madras; in
Pakistan, presso il fiume Soan; in Birmania, ad Anyath; in Manciuria; nella Cina centrale.
Trattasi di utensili tipici, come asce, punte, strumenti di lavoro utili a interpretare e fare
ipotesi sulla vita svolta allora: si viveva in piccoli gruppi di uomini, che si spostavano
lentamente, praticando la caccia, la pesca, la raccolta di molluschi e/o di vegetali selvatici.
(Corna Pellegrini G., 1982)
Date le condizioni climatiche, le caratteristiche geo-fisiche e l’evoluzione delle capacità
umane, il rapporto uomo-territorio è stato per lungo tempo sfavorevole, fino alla scoperta
dell’agricoltura, avvenuta nel periodo neolitico. Probabilmente grazie al lavoro delle donne,
che già nei periodi precedenti erano dedite alla raccolta di vegetali selvatici, la
domesticazione di piante e animali diventa produttiva in sei aree del mondo: il Vicino
Oriente – la famosa Mezzaluna Fertile –, la Cina, la valle dell’Indo, il Mesoamerica
(Messico centrale e meridionale), le Ande e gli Stati Uniti orientali (Diamond J., 1998).
Dunque proprio nella Mezzaluna Fertile, e quindi in Asia, furono creati per la prima
volta (intorno all’8.000 a.C.) sistemi di agricoltura e allevamento, grazie soprattutto
all’interazione di una serie di fattori particolarmente vantaggiosi quali: il clima
mediterraneo che favorì la crescita di piante annue a seme grosso (es. orzo); un’elevata
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biodiversità (ricchezza di specie animali e vegetali) che aumentò le probabilità di
addomesticare piante e animali; la presenza di piante “ermafrodite sufficienti” (es. orzo e
farro), ovvero in grado di riprodursi autonomamente per autoimpollinazione, oltretutto
molto ricche di proteine (in misura maggiore al mais o a riso, quest’ultimo diffusosi in
Cina); l’elevata produttività allo stato selvatico, che rese tali cereali facilmente coltivabili
anche a livello domestico (Pant D. R., Rebola L., 2004).
Figura 1.2.: La Mezzaluna Fertile
Fonte: Diamond J. (1998), Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi
tredicimila anni, Einaudi
L’adozione della produzione agricola e dell’allevamento permise non soltanto di
passare gradualmente da una popolazione di cacciatori-raccoglitori a comunità stanziali ma,
soprattutto, la maggiore disponibilità di cibo (non più dipendente dalle “sorti” della caccia),
favorì un incremento della popolazione, che si diffuse oltremodo nelle aree circostanti la
Mezzaluna Fertile. La diffusione dell’agricoltura, infatti, fu accompagnata
dall’insediamento umano specialmente in quelle regioni caratterizzate da terreni fertili e,
naturalmente o artificialmente, ricchi di risorse idriche, come ad esempio la regione
dell’Indo, le aree fluviali della penisola indocinese e le zone costiere delle isole di Giava e
Sumatra.
I grandi bacini idrografici, comprese le pianure alluvionali, diventarono, così, le aree
principali degli insediamenti di popolazioni prevalentemente agricole, che trasformarono
queste aree in territori di colture sempre più progredite, intensive e, più o meno
diversificate. Gli effetti della domesticazione di piante e animali non si limitarono però ad
una maggiore disponibilità di cibo e, quindi, ad una più alta densità di popolazione; il
surplus alimentare e l’utilizzo degli animali anche come mezzo di trasporto e di coltivazione
delle terre furono fattori che favorirono la nascita delle città al cui interno si svilupparono
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società politicamente organizzate, stratificate sotto il profilo sociale, economicamente
complesse e tecnologicamente avanzate.
L’evoluzione da una forma di vita primitiva (gruppi di cacciatori-raccoglitori) verso una
produzione più organizzata di beni agricoli (sistemi di coltura stabili o itineranti,
allevamento fisso o nomade), nonché il successivo emergere di società complesse e delle
prime realtà urbane, avvenne con modalità relativamente simili in varie aree dell’Asia, ma
in epoche storiche molto distanziate nel tempo (Corna Pellegrini G., 1982). In effetti, le
differenze geografiche costituirono un elemento determinante nella diffusione più o meno
rapida dell’agricoltura e di altre tecniche ed invenzioni; ad esempio, la loro espansione ad
est della Mezzaluna Fertile fu ostacolata dal clima di tipo monsonico presente in India, dove
le piogge estive richiedevano tecniche agricole diverse, che necessitavano di aggiustamenti
rispetto a quelle sviluppate originariamente. In Cina, invece, in virtù dell’isolamento
determinato dai deserti dell’Asia centrale, dall’Himalaya e dall’altopiano del Tibet,
l’agricoltura nacque in modo indipendente e con colture differenti rispetto a quelle della
Mezzaluna Fertile. Similmente, invenzioni come la ruota o la scrittura non furono trasmesse
con eguale velocità a causa delle distanze e delle caratteristiche fisiche, ma si diffusero tra
società agricole complesse, geograficamente contigue e che avevano già intensi scambi di
semi, animali e tecniche produttive.
Queste differenze esercitarono un imprescindibile ascendente sulle evoluzioni
economiche, sociali e culturali dei territori asiatici dando luogo ad una elevata ricchezza di
popoli, culture, lingue e religioni. Difatti, la varietà culturale, morfologica e geografica,
nonché le differenti evoluzioni storico-politiche, permette di suddividere l'Asia in diverse
regioni in base al fattore preso in esame. Ad esempio, sotto un profilo geografico è possibile
distinguere l'Asia centrale, l'Asia orientale, l'Asia meridionale e, infine, l'Asia sudoccidentale. Un’ulteriore ripartizione fondata su elementi sociologici e geografici dà invece
luogo alla distinzione tra Asia asiatica, mondo arabo-islamico, i territori russo-sovietici e
quelli anglo-australiani. Ancora, da un punto di vista esclusivamente culturale, è possibile
dividere il continente in altrettante regioni: l'Asia orientale dei popoli cinesi, l'Asia centrale
dei popoli turchi e indiani a sud ed, infine, l’Asia in cui forte è stato l'influsso dei russi
(Treccani, 2014; Corna Pellegrini G., 1982).
Le numerose declinazioni del continente asiatico sembrerebbero impedire la selezione e
lo studio dettagliato di una singola regione, considerato che i territori appaiono come
sovrapposti sotto diversi profili. In effetti, non sarebbe possibile “dividere” l’Asia in base,
ad esempio, alle lingue, perché in quel caso si tratterebbe di distinguere i popoli
“indoeuropei” (Pakistan, India del Nord, Bangladesh) da quelli “dravidici” (India del Sud).
Non sarebbe, inoltre, possibile procedere ad una distinzione in base alle tradizioni religiose:
in questo caso si dovrebbe dividere il Pakistan (dove è altamente diffuso la religione
islamica) dalla Tailandia (buddismo) e dalle Filippine (cattolicesimo). Una suddivisione è
però realizzabile in base alle evoluzioni storiche, durante le quali l’interazione di diversi
fattori (politici, sociali, religiosi, etc.) nel corso dei secoli, ha dato luogo ad una comunanza
di eventi, trasformazioni e sviluppi caratterizzanti l’odierna realtà dell’Asia Meridionale e
Orientale, che va dal Pakistan al Giappone, e che comprende il sub-continente indiano, la
penisola d’Indocina, la Cina, l’arcipelago indonesiano e le Filippine.
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1.2. Etnie, lingue e religioni in Asia
L’Asia si caratterizza per essere un territorio ove coesistono diversi gruppi etnici e
razziali, la cui convivenza, sebbene ormai consolidata, ha rappresentato e rappresenta
ancora, una delle principali motivazioni di drammatici conflitti. Pertanto, un’analisi, seppur
sommaria, della presenza e distribuzione delle varie razze, della composizione delle società
e del modo in cui la loro presenza abbia influenzato l’evoluzione delle sue istituzioni,
rappresenta un momento necessario per comprendere la stessa struttura sociale degli stati
che compongono i territori asiatici meridionali e orientali. In primo luogo, bisogna osservare
l’evidenza delle differenze razziali ed etniche del continente asiatico, sebbene talvolta
tendano ad attenuarsi successivamente a similari esperienze storiche e dall’abitudine a
convivere; mentre in altre aree risultano accentuate dai diversi culti religiosi, dalla varietà
delle lingue o dalle semplici differenze delle attività economiche. Di fatto, quasi tutti i Paesi
dell’Asia Meridionale e Orientale si distinguono per essere delle società polirazziali.
Tre sono i tipi razziali fondamentali riscontrabili nei territori in analisi, con tre
provenienze probabili: un tipo mongolide, proveniente dall’Asia centro-orientale; un tipo
europoide o caucasico, sviluppatosi nell’Asia sud-occidentale; un tipo negroide, derivante in
parte dall’Africa orientale e in parte (probabilmente) dall’Australia.
Le razze mongolidi rappresentano il gruppo asiatico maggioritario, poiché assommano
circa alla metà degli abitanti di tutto il territorio dell’Asia Meridionale e Orientale, e al suo
interno l’etnia più rappresentata è appunto quella del gruppo mongolide vero e proprio
(Mongoli, Manciù, Buriati, Jakuti, Tangusi, etc.). Man mano che si scende dalla Cina
meridionale ai Paesi sud-orientali, si riscontra un’attenuazione della razza mongolide a
favore di tratti più vicini a quella indonesiana e proto-maltese, che formano il substrato
etnico di tutto il Sud-Est asiatico.
Per quel che concerne le stirpi europoidi o caucasiche, queste popolano prevalentemente
il bacino indo-gangetico, mente altrove è possibile ritrovarle in composizione più o meno
marcata, assieme ad altre razze (es. Corea o nella Cina nord-occidentale). Un’analisi a sé
stante, seppur breve, deve essere dedicata al popolo degli Ainu giapponesi che, secondo
alcuni etnologi, discendono da una popolazione protocaucasica rimasta isolata nel
continente asiatico e su cui poi si sarebbero innestati gli elementi mongolidi; secondo altri
etnologi, invece, derivano da una etnia indifferenziata, anteriore alle genti sia di pelle bianca
che gialla.
La dominazione europea, avvenuta durante il periodo coloniale, se da un lato non ha
favorito alcuna forma di integrazione etnico-razziale, che, a causa delle rispettive differenze
nei retaggi storici e culturali li ha mantenuti distinti e spesso contrapposti; dall’altro lato ha
permesso una mescolanza razziale dando luogo a combinazioni euro-asiatiche sia per quel
che riguarda le popolazioni del gruppo caucaside, sia dei gruppi mongolidi e negroidi.
Tra le principali etnie di quest’ultimo gruppo è possibile distinguere tra coloro che
popolano le coste indiane meridionali, caratterizzati dalla pelle nera ma con lineamenti
europoidi; la popolazione dello Sri Lanka che, invece, appartiene al ceppo australoide e, da
alcuni, è ritenuta la rimanenza di una stirpe già esistente in tutta l’Asia meridionale; i
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Negritos presenti in tutta l’Asia sud-orientale, dalle Andamane alle isole giapponesi
meridionali, ma rinvenibili alla stato originario solo nelle Filippine.
La ricchezza etnica, si riflette anche nella varietà del quadro linguistico dell’Asia
Meridionale e Orientale, evidente soprattutto se si considera che la lingua parlata da un
gruppo etnico può non avere alcuna relazione con la propria origine razziale, questo in parte
a causa dei flussi migratori che hanno determinato lo spostamento delle popolazioni e
quindi dei loro idiomi. In particolare, migrando poteva accadere tanto che le comunità
diffondessero la propria lingua nei territori di accoglienza, quanto che adottassero le lingue
locali, con le eventuali influenze reciproche che si potevano produrre. Da ciò deriva,
dunque, l’elevato numero di lingue (più di un migliaio) e di relativi dialetti parlati nell’area
asiatica meridionale e orientale.
Se si volessero classificare le lingue parlate nell’Asia Meridionale e Orientale, la
suddivisione si dovrebbe basare su due criteri di selezione: quello etnico-geografico e quello
prettamente linguistico. In base a quest’ultimo, è possibile distinguere le lingue tonali e
senza sistema morfologico (cinese, tibetano, birmano) – nelle quali il significato si fonda
sulla tonalità delle parole e sul rapporto sintattico delle parole nella frase; quelle con affissi
(turco, mongolo, tunguso) – in cui si da significato alla frase aggiungendo altri elementi
neutri alla parola; quelle a flessione (lingue indo-europee) – con rapporti grammaticali
espressi, ad esempio, dalle desinenze dei nomi e dalla coniugazione dei verbi. (Corna
Pellegrini G., 1982)
Figura 1.3.: Le grandi aree linguistiche
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
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In base, invece, al criterio etnico-geografico è possibile rintracciare altri tipi di famiglie
linguistiche, di cui le principali sono quelle altaiche, il coreano e il giapponese; le lingue
sino-tibetane, la “superfamiglia” austrica, le lingue dravidiche e quelle indo-europee.
Figura 1.4.: Distribuzione delle principali lingue in base alla popolazione
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
Le lingue altaiche si possono suddividere a loro volta in tre gruppi: il turco ad ovest, il
mongolo al centro, il tunguso ad est. Secondo alcuni linguisti è possibile far rientrare in
questa categoria anche il coreano e il giapponese. Cina e Mongolia sono le aree dove vi è
una più alta concentrazione di persone che adottano la lingua altaica, pari circa 17 milioni di
persone.
Di gran lunga predominante è la famiglia delle lingue sino-tibetane, l’unica
esclusivamente asiatica, che comprende principalmente due gruppi: quello sinico (adottato
da più di un miliardo di persone) e si compone fondamentalmente di “lingue cinesi”, ossia il
mandarino e le lingue della Cina meridionale; e il gruppo tibeto-birmano (parlato da più di
60 milioni di persone), composto da circa 250 lingue, ma di cui due sole predominanti: il
birmano e il tibetano.
La “superfamiglia” austrica è particolarmente complessa in quanto comprende a sua
volta quattro grandi famiglie linguistiche: quella austro-asiatica (17 lingue parlate da 6
milioni di persone) all’interno della quale troviamo le lingue diffuse in India, il vietnamita e
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il kmer; la famiglia delle lingue thai (parlata da 90 milioni di persone) che comprende il
siamese, il lao e lo shuang; la famiglia miao-yao (10 milioni di persone circa) adottata
soprattutto nella Cina del sud; e, infine, la famiglia delle lingue austronese (300 milioni di
persone) diffuse nelle isole dell’Oceania. L’indonesiano e il malese costituiscono delle
lingue a se stanti, in quanto godono dello status di lingua nazionale rispettivamente in
Indonesia e Malesia, come accade anche per il tagalog nelle Filippine.
Le lingue dravidiche, parlate da 250 milioni di persone, sono diffuse soprattutto nel sud
dell’India. Infine, tra la cinquantina di lingue indoeuropee dell’Asia meridionale
primeggiano quelle indo-arie parlante soprattutto in India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka
e Nepal. Rientrano in questa categoria anche l’hindi e l’urdu (due varianti della medesima
lingua) che, come nel caso dell’Indonesia, ad esempio, sono riconosciute come lingue
nazionali rispettivamente in India e Pakistan. (Sellier J. 2010)
Quelle fin qui presentate rappresentano le lingue tradizionali dell’Asia Meridionale ed
Orientale, sviluppatesi e diffusesi nel corso dei secoli. È però doveroso menzionare
l’introduzione, seppur recente, delle lingue prettamente europee avvenuta a partire dal
periodo coloniale e la cui diffusione corrisponde, ovviamente, alle zone di rispettiva
influenza politica. In alcuni Paesi, soprattutto dell’area meridionale, le classi più colte
furono molte interessate all’adozione del nuovo strumento linguistico, che in alcuni casi,
come in quello inglese in India, favorì la possibilità di intrecciare legami nazionali prima
impensabili a causa dell’elevata varietà di lingue e dialetti. Viceversa, in Paesi come Cina e
Giappone la resistenza alla cultura e alla dominazione politica occidentale impedì
l’adozione, seppur parziale, delle lingue europee.
Il processo di decolonizzazione e la ritrovata indipendenza politica dei territori asiatici
non comportò, sorprendentemente, l’abbandono delle lingue europee – soprattutto per quel
concerne i rapporti amministrativi e commerciali – rappresentando un utile strumento di
comunicazione e di imparzialità tra le etnie locali. Basti pensare all’uso del francese in
Indocina o a quello dell’inglese, eletto a lingua co-ufficiale, in India. Le recenti evoluzioni
storico-economiche hanno portato ad una dominanza dell’inglese sulle restanti lingue
europee (fenomeno del resto verificatosi in altri parti del mondo), diventando di fatto la
principale lingua in tutte le relazioni internazionali, sia di carattere politico, che
commerciale o turistico. L’importanza della lingua inglese si evince anche dal semplice
fatto che è regolarmente insegnata nella maggior parte delle scuole secondarie di tutti i paesi
asiatici.
Un terzo elemento caratterizzante le società, ma anche l’assetto istituzionale dell’Asia
Meridionale e Orientale è la religione: l’Asia è facilmente definibile come la culla di tutte le
religioni del mondo e, in special modo, delle grandi religioni monoteiste. È nell’Asia
sudoccidentale che ebbero origine l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam; in Cina nacquero e
si diffusero il Confucianesimo e il Taoismo ed, infine, in India nacquero il Buddismo e
l’Induismo. (Carpanetto D., 2006)
La rilevanza che la religione riveste è riscontrabile nel fatto che la ritualità, sia intesa
come espressione di fede che come ispirazione di vita “retta”, rappresenti una parte
consistente della quotidianità delle popolazioni locali, soprattutto nelle aree non urbane:
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Islamismo, Buddismo e Induismo costituiscono la chiave interpretativa principale della vita
nelle rispettive aree di diffusione. Ad esempio, è difficile immaginare la popolazione di Bali
astenersi dal suo costante dialogo con i morti o che non effettui l’offerta cerimoniale loro
dovuta, azioni che riempiono molti momenti della vita quotidiana. Lo stesso vale per il
mondo sino-nipponico, che sarebbe totalmente differente senza le virtù confuciane
dell’ordine, dell’obbedienza, del comando inteso come servizio che si intersecano e
influenzano profondamente etica e politica dando luogo, ad esempio, ad una forte
gerarchizzazione della società (Corna Pellegrini G., 1982). Non sorprende, quindi, che tanto
nei Paesi dell’Asia Meridionale, che in quelli della parte Orientale, abbiano potuto (e tuttora
possano) manifestarsi movimenti politici autoritari; le radici di tali movimenti affondano
nella fede comune di un popolo o nella sua tradizione millenaria in cui si crede che un
popolo sia ben governato “dagli uomini della classe superiore” che gestisce il Paese per
provvedere al bene di tutti.
Figura 1.5.: Aree di diffusione dei culti religiosi
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
L’Islam è la religione maggioritaria nell’Asia sudoccidentale e centrale, in particolare in
Pakistan (dove il 98% della popolazione è musulmano), in Bangladesh (87%), in Indonesia
(87% e in Malesia (53%). Anche in Cina una piccola parte della popolazione (quella turca
dello Xinjinag e quella Hui di lingua cinese) è musulmana.
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L’Induismo che può considerarsi la più antica delle religioni asiatiche (circa 4.000 anni
fa) è, invece, particolarmente diffuso in India (dove gli adepti rappresentano l’80% della
popolazione), Sri Lanka, Malesia e in Nepal. A differenza dell’Induismo, il Buddismo,
originariamente nato in India dove è divenuto una religione minoritaria, si è diffuso
declinandosi in correnti diverse, nelle regioni interne dell’Asia e nel Sud-Est asiatico. In
particolare, nello Sri Lanka (per amor di precisione presso la popolazione cingalese) domina
il Buddismo therevada, come anche in Myanmar, in Thailandia, Cambogia e Laos; mentre il
buddismo mahayana è praticato in Giappone, Vietnam e Cina.
Infine, la grande religione minoritaria, il Cristianesimo, si diffuse nell’area grazie
soprattutto al lavoro dei missionari che convertirono intere popolazioni, come ad esempio
quelle animiste in Indonesia e nel nord est dell’India. Attualmente, questa religione registra
un elevato numero di adepti nelle Filippine (poco più del 90% della popolazione) e in Corea
(quasi 20% della popolazione), nello specifico in Corea del Sud in quanto, a causa
dell’instaurazione di un governo ateo comunista nella Corea del Nord non è riconosciuta la
libertà di culto. Sensibile diffusione del cristianesimo si registra anche in Giappone, in
Vietnam e in Cina. (Sellier J., 2010; Caracchi P., 2010)
1.3. Popolazione e sviluppo
È largamente accettato che il fulcro dell’economia mondiale si sia spostato
dall’Occidente in Asia, e più specificatamente nei territori del Meridione e dell’Estremo
Oriente, ovverosia l’Asia confuciana e l’India. Le ragioni atte a spiegare questi mutamenti
sono di varia natura e vanno dalle dinamiche economiche che questi paesi hanno
sperimentato nell’arco di pochi anni, al loro peso demografico capace di esercitare il suo
impatto sia in termini economici che ambientali, e al crescente ruolo che stanno acquistando
in un ormai già grave degrado ambientale.
La questione demografica dell’Asia orientale e meridionale riveste particolare
importanza se si considera che con i suoi quasi 4 miliardi di abitanti il territorio rappresenta
più della metà della popolazione mondiale, redendola, quindi, l’area geografica
demograficamente più importante del nostro pianeta. Ovviamente, la distribuzione
all’interno del vasto territorio è diseguale e presenta zone di concentrazione molto intensa,
vedasi alcune aree della Cina, accanto ad immensi territori quasi totalmente disabitati, come
ad esempio la Mongolia.
Sotto l’aspetto meramente quantitativo emerge, anzitutto, il ruolo dominante svolto
dalla popolazione della Cina e dell’India. Nonostante le incertezze statistiche, soprattutto
per gli anni più remoti, si stima che nel 2012 la popolazione cinese fosse pari a 1,3 miliardi
di persone, registrando negli anni altissime variazioni percentuali. In particolare, nel periodo
1961-2012 l’incremento percentuale medio è stato dell’1,4%, con picchi di crescita
soprattutto dal 1962 al 1973 circa, quando la variazione percentuale media era del 2,6%. Al
contempo, anche l’India si è distinta sia per il numero totale della popolazione, che nel 2012
si attestava intorno a 1,2 miliardi di abitanti, sia per i ritmi di crescita, significativamente più
elevati rispetto a quelli della Cina. Difatti, mentre in Cina l’adozione di politiche per il
contenimento demografico, nello specifico la politica del “figlio unico” ha prodotto gli
effetti sperati (con conseguenze di lungo periodo alquanto preoccupanti); in India ciò non è
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accaduto, eccezion fatta per alcune regioni, tant’è che nel medesimo periodo, 1961-2012 la
crescita media percentuale della popolazione è stata quasi del 2%, con un’impennata fino al
1991, ultimo anno in cui la variazione percentuale della popolazione è stata maggiore al 2%,
da lì in poi la popolazione indiana, seppur in crescita (e in misura maggiore rispetto a quella
cinese) ha fatto registrare ritmi meno incalzanti.
Tabella 1.1.: Popolazione totale nel 2012
Fonte: The World Bank (2014)
Oltre a Cina e India, altri quattro stati dell’Asia Meridionale ed Orientale contano una
popolazione maggiore ai 100 milioni di abitanti: l’Indonesia (più di 246 milioni), il Pakistan
(più di 179 milioni), il Bangladesh (più di 154 milioni) e il Giappone (più di 127 milioni).
La sola somma di questi quattro Paesi (circa 708 milioni di persone) è maggiore alla
popolazione dell’Unione Europea, che si attesta intorno ai 509 milioni, e a quella degli Stati
Uniti, pari a 313 milioni. Il confronto, diventa ancor più interessante quando il paragone è
effettuato con altri giganti quali il Brasile e la Russia la cui popolazione, nel 2012
rispettivamente pari a 198 milioni e 143 milioni di persone, è decisamente inferiore rispetto
quanto meno a tre dei quattro Paesi asiatici appena menzionati.
Al contempo, questa parte del continente asiatico si caratterizza anche per avere Stati
con popolazioni e/o densità della popolazione (quest’ultima intesa come numero di persone
che abita per un km2) tra le più basse al mondo, eccezion fatta per Macao che – sebbene
abbia una popolazione relativamente contenuta (556 mila abitanti) – presenta un’elevata
densità demografica (più di 19 mila persone per km2) trattandosi non di uno Stato, ma di
una zona amministrativa con statuto speciale della Repubblica Popolare della Cina, e quindi
con un’estensione territoriale decisamente limitata. Il Brunei è lo Stato con il minor numero
di abitanti (circa 412 mila), segue il Bhutan ( quasi 742 mila persone), Timor Est (con una
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Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
popolazione di 1,2 milioni) e la Mongolia (2,7 milioni di abitanti). Tutti e quattro i Paesi
registrano anche una bassa densità della popolazione, in particolar modo la Mongolia che,
secondo i recenti dati statistici, registra 2 abitanti per km2 (The World Bank, 2014).
Figura 1.6.: Attuale popolazione dell’Asia Meridionale e Orientale
Fonte: CIA World Factbook (2014)
L’importanza della dimensione demografica dell’Asia Meridionale e Orientale non
risiede solo sotto il profilo quantitativo, ma soprattutto sotto quello qualitativo, qui inteso
come l’insieme degli effetti che la popolazione e la sua crescita potranno produrre a livello
regionale e mondiale. Come brevemente illustrato precedentemente, i territori in analisi si
distinguono non soltanto per avere le popolazioni più numerose al mondo, ma anche per
registrare ritmi di crescita elevati, soprattutto rispetto alla media mondiale. Trattasi, inoltre,
di sistemi economici emergenti tra i più dinamici, il cui peso economico e le possibilità di
crescita rischiano di soppiantare quello di importanti giganti dell’Occidente.
Tra i principali protagonisti di questa scalata demografica ed economica figurano Cina,
India, Indonesia, Giappone, Nord Corea, Malesia e Tailandia. Nel 2010 queste sette
economie registravano una popolazione totale di circa 3,1 miliardi di persone (78% di tutta
l’Asia) e un PIL pari a 14.200 miliardi di dollari (87% dell’Asia). Recenti studi hanno
calcolato che entro il 2050 mentre la loro popolazione diminuirà, arrivando a rappresentare
il 73% della popolazione totale dell’Asia, il loro peso economico – qui inteso in termini di
PIL – costituirà il 90% dell’intera area, e sarà pari al 45% del PIL mondiale (Asian
Development Bank, 2011). Se ne deduce, quindi, un crescente ruolo economico che verrà
sempre più svolto nelle realtà urbane dei paesi dell’Asia Orientale e Meridionale a scapito di
quelle rurali.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
Difatti, uno degli effetti, diretti ed indiretti, della crescita demografica ed economica è il
fenomeno dell’urbanizzazione – ovvero la nascita di agglomerati urbani (città) e la loro
successiva espansione sia territoriale sia di funzioni, fino a dar vita ad una rete di città –
favorito dalla creazione di attività produttive, soprattutto di tipo industriale, e dalla
conseguente pressione migratoria, ad opera di individui alla ricerca di migliori e più
remunerate opportunità lavorative. Nei territori dell’Asia Orientale e Meridionale il
processo di urbanizzazione è stato supportato anche da altri fattori, in primis di carattere
politico: in molti Stati, infatti, si è avuto in passato un rafforzamento della classe dirigente
che proprio nella città ha collocato i suoi centri direzionali. In particolare, l’esercito, grande
protagonista di molta parte della vita asiatica, ha nelle città le sue basi più forti, anche
perché è dalle città che più facilmente possono nascere contestazioni al potere. A ciò si
aggiunga che in alcuni dei territori analizzati lo sviluppo economico è stato, in tutto o in
parte, trainato dal controllo e dalla programmazione pubblica che ritrovava proprio nella
città la sua centrale operativa.
L’interazione di questi fattori ha prodotto una forte crescita urbana negli ultimi decenni,
tanto che la popolazione urbana di tutta l’area è aumentata dal 33% del 1990 al 43% nel
2010. La parte orientale dell’Asia guida il processo di urbanizzazione, come dimostrano il
rapido aumento della sua popolazione che dal 32% del 1992 è passato ad un 50% nel 2010.
Di contrasto, il sud-est asiatico e i territori meridionali non sono ancora così avanzati sotto
questo punto di vista: mentre nel primo caso nello stesso periodo si registra un aumento dal
32% al 42% della popolazione urbana; nel caso dell’Asia Meridionale l’incremento è stato
dal 28% al 33% (Asian Century Institute, 2013).
Figura 1.7.: Evoluzione processo di urbanizzazione
Fonte: UN Habitat (2012), Sustainable Urbanization in Asia: A Sourcebook for Local
Governments, United Nations
A ben vedere, la maggior parte della popolazione urbana dell’Asia Meridionale e
Orientale vive in città secondarie, con una popolazione inferiore ad un milione di abitanti –
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
nel 2009 solo il 21% viveva in città con una popolazione tra 1 e 5 milioni. Quindi al
momento la situazione non risulterebbe preoccupante, se non si tenesse conto della capacità
di crescita della popolazione urbana che nei prossimi vent’anni si stima possa arrivare a
crescere più del 75% (UN Habitat, 2012).
Secondo recenti studi, infatti, entro il 2050 la popolazione urbana dell’Asia passerà da
1,6 miliardi di abitanti odierni a 3,1 miliardi. Le città saranno sempre più il centro delle
attività economiche del continente, e se oggi rappresentano più dell’80% del prodotto
economico dei Paesi asiatici, nel prossimo futuro i centri urbani saranno anche poli per
l’alta educazione, l’innovazione e lo sviluppo tecnologico – aumentando ulteriormente la
già alta competitività internazionale della regione – come del resto sta già accadendo in
grandi metropoli come Pechino e Seul.
Tabella 1.1.: Popolazione urbana 2010-2050
2010
Totale popolazione urbana (in milioni)
1.649
2050
3.247
Asia nord-orientale
805
1.284
Asia meridionale
496
1.261
Asia sud-orientale
252
520
Asia centrale
96
182
Urbanizzazione (%)
41%
64%
Asia nord-orientale
50%
74%
Asia meridionale
33%
55%
Asia sud-orientale
42%
65%
Asia centrale
52%
67%
Fonte: Asian Development Bank (2011), Asia 2050: Realizing the Asian Century, Asian
Development Bank.
Se da un lato, l’aumento demografico, la crescita economica e il processo di
urbanizzazione potranno portare ulteriore progresso ai paesi dell’Asia Meridionale e
Orientale, il rovescio della medaglia sarà un crescente consumo energetico e quindi
maggiore richiesta di risorse da un lato e un aumento di emissioni inquinanti dall’altro.
Già in questo periodo le città asiatiche soffrono di gravi problemi ambientali, basti
pensare che dal 2004 le emissioni di gas serra delle economie meridionali e orientali
rappresentavano rispettivamente il 13,1% e il 17, 3% di quelle globali. La rapida crescita di
abitazioni e infrastrutture, nonché l’aumento del numero automobili nella regione rischiano
di far aumentare il fabbisogno energetico pro-capite, provocando importanti ricadute a
livello ambientale. La regione, infatti, già soffre di un elevato numero di disastri ambientali,
come ad esempio siccità, ondate di calore, inondazioni e cicloni – fortemente legati al
processo di cambiamento climatico – e destinati ad aumentare al crescere delle emissioni e
delle peggiorate condizioni ambientali, con effetti in primo luogo sulle fasce della
popolazione più povere costrette a stanziarsi presso aree particolarmente vulnerabili agli
elevati rischi ambientali. (UN Habitat, 2012; Giordano A., Pagano A., 2013)
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 1° - Mappatura dell’Asia: un quadro d’insieme
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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05 august 2013 (http://www.asiancenturyinstitute.com/development/224-urbanizationand-slums-in-asia, consultato in data 27/01/2014)
Asian Development Bank (2011), Asia 2050: Realizing the Asian Century, Asian
Development Bank.
Caracchi P. (2010), Le grandi religioni dell'Asia: orizzonti per il dialogo, Paoline.
Carpanetto D. (2006), Le religioni nel mondo, De Agostini.
CIA World Factbook (2014) (https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/,
consultato in data 27/01/2014).
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, Volume I, UTET.
Diamond J. (1998), Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila
anni, Einaudi.
Enciclopedia
De
Agostini
(2014),
Asia,
Sapere.it
(http://www.sapere.it/enciclopedia/%C3%80sia+(geografia).html, consultato in data
22/01/2014).
Enciclopedia Treccani (2014), Asia, Treccani.it (http://www.treccani.it/enciclopedia/asia/,
consultato in data 20/01/2014).
Giordano A., Pagano A. (2013), “Bangladesh à risque entre vulnérabilité et migrations
climatiques”, in Outre-Terre – Revue Europeenne de Geopolitique, n. 35-36, pp. 99110.
Pant D. R., Rebola L. (2004), “Fondamenti di Antropologia. Sistemi economici e sociali”,
Materiali di supporto per il Corso di Antropologia Applicata, LIUC.
Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte.
The World Bank (2014) (http://data.worldbank.org/indicator/SP.POP.TOTL, consultato in
data 26/01/2014).
UN Habitat (2012), Sustainable Urbanization in Asia: A Sourcebook for Local
Governments, United Nations
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Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
SOMMARIO MODULO 2°
L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
2.1. L’Asia delle colonie e degli imperialismi
2.2. Il nazionalismo in Asia
2.3. Bandung e il non allineamento
1
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
2.1. L’Asia delle colonie e degli imperialismi
Il concetto di «colonialismo» trova i suoi fondamenti storici già in età romana, quando i
Romani creavano «colonie», ovvero nuovi insediamenti di cittadini in territori conquistati
da Roma. Pertanto, originariamente il termine «colonizzazione» indicava il processo di
nascita di nuovi nuclei di popolazione trasferiti in maniera stabile dalla madrepatria in un
altro territorio. Nel corso dei secoli, soprattutto tra fine ‘800 e inizio’900, il suo significato
si è trasformato arrivando a corrispondere al dominio esercitato da un popolo su di un altro
attraverso lo sfruttamento economico, politico e ideologico. In base all’evoluzione storica e
alle sue caratteristiche, è possibile individuare tre tipologie fondamentali di colonia:
• Colonie d’insediamento, prototipo della colonia, consistevano nella bonifica e nel
popolamento dei territori prescelti per opera di un numero crescente di persone. Spesso,
già abitati da popolazioni considerate «meno sviluppate», furono costrette ad
abbandonare le proprie terre o ridotti allo stato di servitù, come accadde negli
insediamenti britannici del Nord America e dell’Australia;
• Colonie come basi di appoggio furono create per scopi economici (es. il
commercio) e/o militari.
Le potenze marinare occidentali, come il Portogallo,
svilupparono una rete di basi di appoggio lungo le coste dell’Oceano Indiano,
abbinando agli obiettivi commerciali quelli militari;
• Domini coloniali, in cui la colonizzazione si estendeva fino al controllo dell’intero
paese, senza ripopolarlo interamente. Emblema fu la colonizzazione afro-asiatica e, più
nello specifico, il modello dell’India britannica, dove il dominio fu esercitato dalla
minoranza dei coloni inglesi sulla maggioranza di indigeni. È in questo contesto che si
evolve anche il concetto di «imperialismo» che, associandolo a quello di colonialismo,
indicava la brama espansionistica ed egemonica di una nazione. Con imperialismo si
intendeva, pertanto, l’insieme di iniziative miranti a realizzare il colonialismo.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
È possibile affermare che, in linea di principio, questa suddivisione corrisponde anche
all’evoluzione storica del processo di colonizzazione. Fin dai tempi delle grandi scoperte
geografiche i paesi europei inviarono ovunque soldati, missionari, commercianti e semplici
cittadini al fine di fondare dapprima delle basi d’appoggio e successivamente
d’insediamento. Trattasi di un processo non soltanto raramente pianificato, ma anzi perlopiù
improvvisato, se si considera che la scoperta di nuove terre sebbene progettata si raggiunse
grazie a casualità fortunate, venti e correnti favorevoli (Reinhard W., 2002).
Le prime fasi della colonizzazione in Asia Meridionale e Orientale si possono far
risalire al XV secolo, quando le necessità economiche e commerciali spinsero le flotte delle
potenze occidentali a superare i confini del Mar Caspio. In questo periodo, infatti, pepe,
cannella, noce moscata, chiodi di garofano ed altri prodotti similari erano sempre più
ricercati e divennero praticamente indispensabili nelle abitudini alimentari europee e,
pertanto, altamente rimunerativi per mercanti, intermediari e governanti. È proprio questo
commercio che, più di ogni altro fattore, stimolò l’espansionismo europeo in Asia.
Le invasioni turche del XIII e del XIV secolo avevano reso impraticabili le relazioni
dirette fra Europa e Asia, il cui commercio era di fatto monopolizzato dall’Islam e da
Venezia. Nel tentativo di infrangere il blocco mussulmano e il monopolio veneziano, i
Genovesi tentarono una rotta interamente marittima per l’Asia facendosi finanziare dalle
corti di Spagna e Portogallo, in quegli anni disposte a supportare le imprese marittime che
poi condussero alla scoperta del Nuovo Mondo, per conto del re di Spagna, e della rotta del
Capo di Buona Speranza verso l’Oceano Indiano, per conto del re di Portogallo.
Il miraggio delle spezie, le aspirazioni della nobiltà terriera verso nuove terre da
conquistare, i progressi tecnologici raggiunti in Europa nel giro di pochi decenni e, non
ultimo, il perenne spirito di crosciata contro i Mori (i Mussulmani) che animava le
popolazioni iberiche, furono i principali fattori alla base dell’energica azione del principe
Enrico il Navigatore cui si deve il lungimirante progetto che avrebbe portato la Cristianità a
superare l’ostacolo islamico e ad arrivare direttamente in Oriente.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Il monopolio dei Portoghesi in Oriente fu sancito nel 1454 da Papa Niccolò V, il
quale promulgando la prima delle tre Bolle, conferì un titolo legale, incontestabile e
assoluto alle iniziative portoghesi. L’arrivo nelle Indie avvenne pochi anni dopo, nel 1498
quando l’equipaggio comandato da Vasco de Gama sbarcò a Calicut, in quel tempo uno dei
principali porti dell’India intera e tra i centri più importanti per il commercio delle spezie.
L’area era governata dagli Zamonir, la cui politica illuminata consentì il libero formarsi di
molteplici colonie di mercanti stranieri, tra cui quella mussulmana era la più forte e
numerosa. Per più di un secolo e mezzo dallo sbarco di Vasco de Gama a Calicut il
commercio marittimo delle Indie fu concentrato nelle mani dei Portoghesi, dominatori
assoluti dell’alto mare.
Figura 2.1.: L’Asia sud-orientale e la via delle spezie in una carta del 1568
Fonte: Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, Volume I, UTET
Il regime commerciale portoghese, sebbene ostile solo ai Mussulmani, fu
incoraggiato dai sovrani indù (fatta eccezione per Calicut) in quanto la loro presenza non
alterò la tradizionale rete commerciale orientale, tanto meno comportò conseguenze
politiche nei territorio in cui operarono. Altrettanto successo non si ebbe in Cina, dove i
tentativi portoghesi di aprire basi commerciali trovarono l’ostilità degli imperatori Ming,
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
contrari a quegli stranieri che non riconoscevano le loro leggi. Ad ogni modo, nel 1557 fu
concesso il libero commercio nei porti meridionali e i Portoghesi riuscirono a ottenere l’uso
di una penisoletta deserta, l’attuale Macao, per depositarvi le loro merci. Sebbene questa
concessione non comportò alcuna conseguenza nella struttura della Cina, rappresentò
comunque un’importante novità, poiché per la prima volta dal XIII secolo furono ripresi i
rapporti diretti tra Europei e Cinesi, senza l’intermediazione araba.
Priva ancora di una borghesia commerciante e capitalistica, che nel frattempo si stava
formando in altri paesi europei, il Portogallo si avviò rapidamente verso la decadenza,
sconfitto dalla Spagna nel 1580, a sua volta vinta nel 1588 dall’Inghilterra. Nel XVI secolo
il commercio delle spezie passa nelle mani delle potenze commerciali del Nord: in questi
anni, Olanda e Inghilterra tentarono a loro volta la via dell’Oriente.
Fondata ad Amsterdam nel 1602, la Compagnia olandese per le Indie Orientali avviò,
senza alcuna motivazione religiosa e politica, la penetrazione commerciale in India,
cacciando gradualmente i Portoghesi. L’attività olandese fu geograficamente concentrata
nelle Indie Orientali, cioè alla fonte delle spezie, tant’è che nel giro di pochi anni
modificarono l’economia agricola dei territori locali imponendo la monocultura di spezie.
Gli Olandesi, inoltre, provarono, con scarso successo, a incrementare il commercio con la
Cina e a intraprendere relazioni anche con il Giappone, dove aprirono, seppur sotto il rigido
controllo giapponese, i primi empori olandesi.
Poco prima degli Olandesi, anche gli Inglesi fondarono nel 1600 la propria
Compagnia delle Indie Orientali i cui intenti commerciali erano: rifornimento di spezie,
pietre preziose e altri generi di lusso. A differenza della controparte olandese, gli Inglesi
stanziarono le loro attività in India, dove fu creato il primo centro commerciale a Surat nel
1612 e da cui si espansero rapidamente, d’accordo con gli imperatori Mogol e con i sovrani
locali, fino a creare sul finire del XVII secolo i tre centri di Bombay, Madras e Calcutta, dai
quali cento anni dopo la dominazione inglese penetrerà nell’India intera.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
I successi inglesi indussero altri europei a seguire il loro esempio, ma l’ostilità
inglese e quella olandese limitò queste ambizioni. Solo i francesi riuscirono a fondare una
base d’appoggio a Pondicherry nel 1670 (Corna Pellegrini G.,1982).
La rivalità tra Francia e Inghilterra si riflesse anche sulle rispettive Compagnie delle
Indie, ma alla fine i Francesi furono sconfitti e completamente estromessi dall’India in
seguito alla Guerra dei Sette anni e a quanto sancito nel Trattato di Parigi del 1763, che
rivoluzionò l’assetto delle colonie a vantaggio dell’Inghilterra. Di fatto, dopo la conquista
del Bengala del 1765, l’Inghilterra divenne l’unico arbitro europeo del subcontinente
indiano. Il predominio britannico sull’India portò allo sviluppo di una rete commerciale
destinata a rafforzarsi sempre più negli anni successivi (Reinhard W., 2002).
Figura 2.2.: La penetrazione europea sul finire del XVIII secolo
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
Il rafforzamento della penetrazione occidentale comportò profonde trasformazioni nella
colonizzazione dei territori asiatici: se fino alla metà del Settecento fu quasi esclusivamente
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
di tipo economico; in seguito, i paesi europei, e in particolar modo l’Inghilterra, presero il
controllo degli Stati asiatici dando vita ad un vero e proprio impero coloniale. Le uniche
eccezioni furono le Filippine, cadute sotto la dominazione spagnola sin dalla seconda metà
del XVI secolo, e i possedimenti olandesi di Ceylon, Sumatra, Giava e Borneo.
In questa seconda fase, la colonizzazione inglese non fu condotta direttamente dalla
corona, bensì da una compagnia privata – l’East India Company – che sui possedimenti
indiani aveva pieni poteri amministrativi e militari. La trasformazione del colonialismo
inglese ebbe pesanti ripercussioni sulla società indiana, in particolar modo sulla struttura
economica. Inizialmente, infatti, il commercio tra i due paesi era decisamente a favore
dell’India – le esportazioni inglesi erano pressoché nulle, mentre dai porti indiani partivano
navi cariche di spezie, tè, porcellane e cotonate. Successivamente, la Rivoluzione
Industriale, che rese altamente competitivi i prodotti europei, e l’adozione di tariffe
doganali, che ostacolavano l’esportazione delle cotonate indiane nel Regno Unito, resero
l’India indifesa contro la penetrazione dei prodotti inglesi. In pochi anni la produzione di
prodotti tessili fu azzerata e l’economia indiana dovette focalizzarsi sull’esportazione di
prodotti non lavorati, come tè e cotone grezzo, che sarebbero poi stati reimportati
dall’Inghilterra sotto forma di prodotto finito.
Il consolidamento della presenza inglese continuò ancora nei primi decenni
dell’Ottocento con il protettorato sul Nepal (1816), la fondazione della città portuale di
Singapore (1819) e l’annessione della bassa Birmania (1826) e del Punjab (1849). Sebbene
alcune di queste ultime acquisizioni si raggiunsero grazie a eventi casuali, approfittando
delle lotte intestine ai paesi asiatici, in generale le scelte espansionistiche britanniche furono
guidate dalla volontà di creare attorno all’India degli Stati cuscinetto e di controllare le rotte
commerciali che collegavano la madrepatria con le colonie asiatiche (Reinhard W., 2002).
Durante tutto il XIX secolo tutte le potenze coloniali, in misura diversa, si ampliarono
avendo come principale interesse l’acquisizione, anche con le armi, di nuove aree per il
mercato europeo. Il risultato di questa nuova fase, definita «imperialismo», vide la
dominazione britannica esercitare il proprio potere sull’intera India, la Birmania e i territori
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
settentrionali del Sud-est asiatico, tanto che nel 1877 la regina Vittoria fu proclamata
imperatrice delle Indie. Contemporaneamente, gli Olandesi sottomisero gradualmente il
resto dell’arcipelago del Sud-est asiatico; mentre i Francesi conquistarono la cosiddetta
Indocina francese, composta da Vietnam e Laos (escluso il Siam – Stato cuscinetto tra
Inglesi e Francesi – che rimase indipendente). A ciò si aggiunga che nel 1898 la guerra tra
USA e Spagna per la questione di Cuba (ai tempi colonia spagnola) permise gli statunitensi
di impadronirsi delle Filippine, nonostante la resistenza locale (Sellier J. ,2010).
Figura 2.3.: Mappa degli imperi coloniali all’indomani della Prima Guerra Mondiale
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
I fattori alla base di questo mutamento furono soprattutto economici e politicoideologici. In primo luogo, sotto il profilo economico, particolare rilievo svolsero l’esigenza
di ricercare nuovi sbocchi commerciali, la necessità di accaparrarsi materie prime e beni di
lusso a basso costo ed, infine, l’accumulazione di capitali finanziari disponibili per
investimenti ad alto profitto nei territori d’oltremare.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Dal punto di vista politico-ideologico, invece, le motivazioni si basarono su una
mescolanza di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. In
Inghilterra, per esempio, l’idea di appartenere a una nazione eletta, a quella che Disraeli
chiamava «una razza dominatrice, destinata dalle virtù a spargersi per il mondo», accomunò
diversi scrittori e uomini politici anche di estrazione liberale. Il desiderio imperialista dei
singoli paesi si legò, poi, all’ideologia della missione civilizzatrice della civiltà europea nel
mondo: il «fardello dell’uomo bianco» di cui parlava Kipling indicava proprio il dovere di
redimere le «popolazioni selvagge» (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
2.2. Il nazionalismo in Asia
Il XX secolo rappresenta un momento di profonde trasformazioni a livello mondiale,
iniziato con il momento di massimo espansionismo delle potenze coloniali, si caratterizzerò
per la nascita d’importanti movimenti nazionalistici che condussero alla decolonizzazione e
all’indipendenza dei territori asiatici e africani.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, gli imperi coloniali raggiunsero la loro massima
espansione e proprio nel periodo fra le due guerre che alcune colonie furono rivalutate per il
loro contributo alla guerra. Allo stesso tempo, ambedue i conflitti mondiali mostrarono ai
coloni la discordia, la vulnerabilità e le debolezze delle potenze europee, dando inizio alle
prime tensioni nei territori coloniali.
La colonizzazione indebolì fortemente i territori sotto il proprio dominio, distruggendo
le società tradizionali, modificando il sistema agricolo che da autarchico fu destinato alla
produzione di beni da esportare, favorendo un aumento demografico che non fu altresì
compensato da politiche di sviluppo economico. In soli trent’anni (dal 1940 al 1970) la
popolazione dei paesi in via di sviluppo aumentò fino a oltre un miliardo, rappresentando il
72% della popolazione mondiale (mentre inizialmente era pari al 64%).
La motivazione alla base di quest’eclatante crescita demografica è la repentina
riduzione della mortalità, dovuta alle migliorate condizioni igienico-sanitarie (ad esempio,
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
tramite l’adozione di antibiotici) verificatosi in una società in cui il tasso di natalità era
ancora elevato.
Tab. 2.1. – Crescita della popolazione mondiale (in milioni di persone)
Anno
Popolazione
Pop.
dei
Paesi Pop. Paesi in via
Mondiale
avanzati
di sviluppo
1750
791
201
590
1800
978
248
730
1850
1.262
347
915
1900
1.650
573
1.077
1950
2.506
857
1.649
1970
3.621
1.084
2.537
Fonte: Magagnoli S. (2009), Dal colonialismo al neocolonialismo, Università degli Studi di
Parma (http://economia.unipr.it/DOCENTI/MAGAGNOLI/docs/files/Dispensa.pdf,
consultato in data 31/01/2014)
Contemporaneamente, nacque nei territori coloniali una classe borghese composta in
parte da intellettuali che combinavano ideologie occidentali (come il nazionalismo e il
marxismo) ai valori tradizionali. Fu proprio questa élite, formatasi presso gli istituti e le
università delle potenze coloniali, ispirati da principi democratici europei e consapevoli
della necessità di riconquistare un’identità nazionale distrutta dal processo di
colonizzazione, che si pose al comando dei movimenti nazionalisti e di liberazione dei
propri paesi (Magagnoli S., 2009).
Già a partire dagli anni Trenta i movimenti nazionalisti erano particolarmente attivi,
proprio nel periodo in cui le colonie versavano in condizioni di difficoltà a causa del
mancato sviluppo industriale e del crollo dei prezzi delle materie prime, producendo effetti
considerevoli, considerato che il settore agricolo era quasi totalmente destinato alla
coltivazione di prodotti da esportare in Occidente e costituiva il settore principale, se non
esclusivo, delle loro economie. Questi elementi aiutano a spiegare come mai i nuovi
movimenti nazionalisti si distinguevano per la lotta contro lo sfruttamento economico.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Quest’ultimo fu rafforzato oltremodo dall’opposizione all’assoggettamento culturale
operato dalle religioni – come induismo e islamismo – che da sempre svolgono un ruolo
fondamentale nelle società locali e, proprio in questo periodo, assunsero una parte
importante nella diffusione dei movimenti di emancipazione e nel rifiuto all’unificazione
culturale occidentale. Sin dagli inizi del XX secolo la religione musulmana si espanse
rapidamente, conquistando e convertendo vaste popolazioni dell’Asia, e presentandosi come
ostile alle potenze coloniali. A questo proposito, proprio la percezione di «non colonialista»
– considerata l’assenza di possedimenti (eccezion fatta per le Filippine) – favorì la
penetrazione delle due superpotenze post-belliche, USA e URSS, in Asia.
Per quel che riguarda gli Stati Unti, la sua posizione «anti-coloniale» fu dimostrata dalla
proclamazione della Carta Atlantica nel 1941 – in cui fu sancito il diritto
all’autodeterminazione di tutti i popoli – e dal costante incoraggiamento dei movimenti
nazionalistici in Asia e Africa. Dal canto suo, l’URSS considerava quale obiettivo principale
la liberazione dei popoli oppressi e la lotta all’imperialismo, così nel dopoguerra appoggiò,
in sede ONU, le rivendicazioni delle colonie.
Il fascino «anti-coloniale» dell’URSS, supportato dall’alleanza fra USA e le nazioni
vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (corrispondenti, grosso modo, alle potenze
coloniali), facilitarono l’avvicinamento tra comunisti e nazionalisti.
In Cina dopo la rivoluzione del 1911, le rivalità fra i «signori della guerra» divisero la
Cina: i nazionalisti si insediarono a Canton (a Sud del paese) e nel 1923 si allearono con i
comunisti, successivamente, però, il capo dei nazionalisti Chiang Kai-shek riuscì a prendere
il controllo su tutta la Cina meridionale rompendo qualsiasi tipo di apporti con i comunisti
nel 1927. «La Lunga Marcia» (1934-1935) portò i comunisti ad insediarsi nella parte nordoccidentale del paese, dove approfittando della presenza sovietica nella Manciuria,
provarono gradualmente a penetrare nel resto della Cina e, nel 1947, attaccarono i
nazionalisti, costringendoli ad arretrare. Mao Zedong proclamò la Repubblica Popolare a
Pechino nell’ottobre del 1949 e pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno i
nazionalisti, guidati da Kai-sheck, ripiegarono a Taiwan.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Nel frattempo, in Indocina la Francia fu costretta a fronteggiare il movimento
indipendentista guidato da Ho Chi-minh, alleatosi con la Cina e l’URSS, che condusse alla
separazione del Vietnam in due stati separati, il Nord (comunista) e il Sud (Sellier J., 2010).
Altro movimento nazionalista nacque in Indonesia, dove le iniziative di Sukarno portarono
prima all’indipendenza dello Stato e, successivamente, ad una sempre più stretta
collaborazione con le fazioni comuniste e con la Cina. In Corea, infine, a nord del 38°
parallelo prese il comando il regime comunista di Kim Il Sung (Giardina. A, Sabbatucci G.,
Vidotto V., 2002).
In risposta al «blocco comunista» gli Stati Uniti si attivarono, all’inizio degli anni
Cinquanta, a tessere una serie di relazioni ed alleanze per contrastare l’avanzata comunista.
Così furono firmati i trattati di alleanza con Giappone, Corea del Sud, Cina nazionalista
(ovvero Taiwan), Filippine, Vietnam del Sud, Thailandia, Pakistan e Australia.
Figura 2.4.: L’Asia Meridionale e Orientale durante la Guerra Fredda
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Le potenze coloniali già dagli anni Venti videro minacciati i propri possedimenti,
acquisendo gradualmente la consapevolezza da un lato del loro difficile mantenimento dal
punto di vista militare e finanziario, dall’altro della crescente forza dei movimenti
nazionalisti e del desiderio di indipendenza delle popolazioni autoctone. Ciò nonostante, gli
Stati coloniali avevano ancora bisogno di mantenere i propri territori coloniali, soprattutto
da quando i mercati di sbocco si erano contratti a causa della semi-chiusura di URSS e Cina.
Considerati questi elementi, le potenze occidentali realizzarono che la migliore politica
da adottare per continuare a esercitare il proprio controllo sui territori coloniali consisteva
nel supportare i movimenti nazionalisti conservatori, favorendo, quindi, l’indipendenza o
comunque l’autonomia dei governi, riservandosi, allo stesso tempo, vantaggi economici
(come ad esempio privilegi fiscali o doganali, possibilità di esportare capitali e profitti, etc),
la possibilità di mantenere basi militari, missioni di consiglieri e tecnici che, praticamente,
continuarono a governare indirettamente i territori coloniali.
Tra i principali promotori di questa tipologia «non violenta» di indipendenza vi è
l’Inghilterra che adottò quasi da subito un approccio flessibile e pragmatico, sebbene in
alcune occasioni adottò misure violente di repressione. In generale, le autorità inglesi
evitarono di imbarcarsi in conflitti lunghi, dispendiosi e sanguinosi e preferirono, invece,
un’indipendenza concordata nei tempi e nei modi con Londra, al fine di conservare i legami
politici ed economici con la ex madrepatria.
Vero centro nevralgico delle terre coloniali britanniche, l’India si distinse per l’elevata
crescita demografica e per le significative risorse industriali, in particolare del settore
tessile, che favorirono la nascita di una moderna classe operaia, avente i propri sindacati, e
di un ceto impiegatizio nei principali centri urbani. In questo paese i principali movimenti
nazionalisti furono il Partito del congresso, di orientamento moderato, e quello di Jawaharlal
Nehru, movimento radicale e socialista, che oltre all’indipendenza sosteneva anche
l’emancipazione sociale delle classi inferiori.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
All’interno del quadro politico indiano la figura più importante, vera giuda del
movimento indipendentista indiamo, fu Mohandas Karamchand Gandhi, meglio conosciuto
come Mahatma (Grande anima) Ganfhi, la cui dottrina – la satyagraha (abbraccio della
verità) – si caratterizzava per il profondo tradizionalismo religioso, il rifiuto dell’uso della
violenza e la non collaborazione con le potenze coloniali. La sua politica, favorevole alla
conservazione di una società indiana tradizionale (ovvero ordinata in caste), lasciava
incompiute le profonde esigenze di rinnovamento sociale e rese Ghandi vulnerabile alle
critiche dell’opposizione del nazionalismo radicale. Inoltre, non riuscì nel suo progetto di
cooperazione interreligiosa tra la maggioranza induista e la minoranza mussulmana (guidata
dalla Lega musulmana), il cui desiderio secessionista era, invece, sostenuto dalla Gran
Bretagna che aveva come scopo ultimo la divisione del movimento nazionalista e, quindi, il
suo indebolimento.
La Lega musulmana guadagnò sempre più consensi e, nel giro di poco tempo, divenne il
movimento politico-religioso che meglio rappresentava le province orientali a prevalenza
mussulmana e radicalizzò così gradualmente le proprie posizioni autonomiste nel periodo in
cui gli scontri tra ultranazionalisti indù e musulmani si facevano sempre più violenti e
sanguinosi.
Queste tensioni politico-religiose condussero all’inevitabile divisione del paese, che
avvenne nel 1947, quando in concomitanza del riconoscimento dell’indipendenza indiana da
parte della Gran Bretagna, furono costituiti due Stati autonomi: l’India, a maggioranza
induista, e il Pakistan, prevalentemente musulmana, da cui successivamente, nel 1971 si
sarebbe staccato anche il Bangladesh.
La divisione impattò pesantemente sulle popolazioni locali, provocando l’esodo di circa
6 milioni di indù e, allo stesso tempo, in direzione Pakistan, di 8 milioni di mussulmani, che
varcarono le rispettive frontiere per evitare persecuzioni di matrice religiosa. Lo stesso
Ghandi fu assassinato per mano di un fanatico indù, sicuro che il Mahatma avesse
supportato la spartizione del paese, a cui Ghandi vi si oppose sino all’ultimo.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Negli anni successivi i due paesi si caratterizzarono per evoluzioni profondamente
diverse: l’India, grazie all’operato di Nehru, riuscì a sviluppare un sistema agricolo e
industriale moderno e diede vita a istituzioni democratiche sufficientemente solide (fatta
esclusione di qualche breve parentesi autoritaria), che permisero uno sviluppo robusto del
paese, tanto che attualmente l’India è una delle più importanti economie emergenti del
sistema economico mondiale; il Pakistan, invece, dopo la morte del leader carismatico della
Lega musulmana, Jinnah, cadde velocemente sotto il controllo di violente dittature militari.
Tutt’oggi le antiche tensioni religiose, i recenti conflitti etnici – dovuti principalmente
alla nascita di movimenti di estremisti indipendentisti, di cui i più attivi e famosi sono quelli
delle popolazioni sikh del Punjab e tamil nel Sud dell’India – continuano a minacciare la
stabilità sociale e politica dell’Asia Meridionale.
Figura 2.6.: Partizione tra India e Pakistan dopo la dichiarazione d’indipendenza
Fonte: Canali L. (2008), «La partizione», in Limes (http://temi.repubblica.it/limes/lapartizione/669, consultato in data 04/02/2014)
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
A differenza di quanto accadde nelle colonie britanniche, i Francesi mal si prestano a
concedere l’indipendenza alle proprie colonie e l’emancipazione del Vietnam fu raggiunta
solo dopo una sanguinosa guerra che impegnò (peraltro senza successo) le truppe francesi
dal 1946 al 1954. In Indocina il regime coloniale francese provò a piegare militarmente il
movimento comunista del Viet Mihn (Fronte per l’indipendenza del Vietnam) che, oltre alle
richieste di indipendenza, rivendicava diritti sociali a favore dei contadini.
Iniziata come guerra di liberazione dal dominio coloniale, dopo la vittoria comunista in
Cina (1949) lo scontro si trasformò rapidamente in un conflitto bellico in cui si
contrapposero il blocco occidentale e quello socialista. L’esercito Viet Mihn era, infatti,
sostenuto militarmente dalla Cina, attraverso l’addestramento dell’esercito e il rifornimento
di armi, mentre le truppe francesi potevano contare sull’appoggio militare degli Stati Uniti,
che sostennero in gran parte anche il finanziamento delle operazioni belliche. Solo le pesanti
sconfitte militari inflitte dall’esercito vietnamita indussero le autorità francesi a trattare la
pace.
Gli accordi di Ginevra nel 1954, sancirono l’abbandono dei francesi dell’Indocina, la
fine delle ostilità e la neutralità straniera (anche degli attori regionali) negli affari interni
dell'Indocina e la separazione del Vietnam lungo la linea provvisoria del 17° parallelo, in
attesa che le elezioni generali consentissero l’unificazione del paese. Di fatto, la divisione
divenne definitiva fino al 1976: a Nord assunse il potere il regime socialista della
Repubblica democratica del Vietnam, mentre a Sud si instaurò un regime di ispirazione
cattolica e filoamericano, dove trovarono rifugio oltre un milione di cattolici vietnamiti in
fuga dal Nord del Vietnam (Magagnoli S., 2009).
Dopo la divisione del Vietnam, si sviluppò una guerriglia sostenuta dal Nord nella parte
meridionale del paese, dove, al fine di riportare la stabilità nell’area intervennero anche gli
Stati Uniti a sostegno del Sud. La guerra del Vietnam durò fino al 1973, estendendosi anche
al Laos e alla Cambogia, nella quale i Khmer assunsero il potere nel 1975, instaurando un
regime di terrore che durò per altri quattro anni. La guerra del Vietnam terminò nel 1975 16
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
1976 quando il Vietnam del Nord procedette alla riunificazione del paese, annettendo il
Sud.
Similmente a quanto accadde nel Vietnam, anche la Corea fu teatro della
contrapposizione tra il mondo occidentale e quello socialista. Dopo la sparizione della
Corea nel 1945 lungo il 38° parallelo, si crearono due aree di influenza: i Sovietici
occuparono il Nord della Corea e gli Stati Uniti il Sud, dando così luogo a due regimi ostili.
La pace nell’area durò fino al 1950 quando la Corea del Nord attaccò il Sud costringendo
subito in campo gli Stati Uniti e il mondo socialista, questa volta capeggiato dalla Cina – in
quest’occasione, infatti, l’Unione Sovietica restò in disparte. Il conflitto durò tre anni e, una
volta che le parti riguadagnarono le posizioni iniziali, fu raggiunto un armistizio. Ancora
oggi la Corea del Nord è governata da un regime socialista, mentre nella Corea del Sud vige
una democrazia semi-presidenziale. Quest’ultimo paese si è distinto negli ultimi anni per la
forte crescita del sistema economico, tanto da farla classificare tra le principali economie
asiatiche.
Dalla seconda metà del XX secolo, seguendo l’ondata indipendentista che ha travolto il
continente asiatico, nacquero altri numerosi stati, alcuni separandosi dai neo-stati formatisi
durante il processo di decolonizzazione. Così la Malesia (peninsulare) ottenne
l’indipendenza nel 1957, dando vita nel 1963 alla «Grande Malaysia» che comprendeva
Singapore, il Sarawak e il Borneo del Nord. Tuttavia, pochi anni dopo (esattamente nel
1965) Singapore si separò e scelse la via dell’indipendenza; nello stesso anno anche le
Maldive ottennero l’indipendenza.
Altra tappa importante nel processo di stabilizzazione politica dell’area fu il 1971,
quando la ribellione della popolazione del Pakistan orientale condusse alla formazione di un
nuovo stato: il Bangladesh. Ci furono, poi, l’indipendenza del Brunei nel 1983 e nel 2001
quella di Timor est, che dopo essere stato annesso all’Indonesia (nel 1976) attraverso una
pesante guerriglia riuscì ad emanciparsi. Gli ultimi retaggi dell’epoca coloniale si
dissolvono nel momento dell’annessione di Hong Kong e Macao, rispettivamente nel 1997 e
nel 1999, da parte della Cina (Sellier J., 2010).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Figura 2.6.: Mappa della decolonizzazione in Asia Meridionale e Orientale
Fonte: Day A. (2001), Europe 66. Introduction to Modern Europe - Map, Temple
University (http://astro.temple.edu/~barbday/Europe66/resources/maps.html, consultato in
data 04/02/2014)
2.3. Bandung e il non allineamento
I paesi di nuova indipendenza si affacciarono sulla scena internazionale con la
convinzione di possedere un’eredità comune, ovvero la lotta di liberazione dalle potenze
coloniali, e di avere interessi e aspirazioni comuni, che esulano dalle differenze fra i diversi
regimi politici.
In piena Guerra Fredda, dove le relazioni internazionali si caratterizzavano sempre più
per la contrapposizione tra Est e Ovest, alcuni dei neonati stati avvertirono la necessità di
affrancarsi dalle influenze politiche delle potenze mondiali e di adottare una linea di
condotta autonoma. La parola d’ordine divenne quella del «non allineamento», ovvero di
non seguire i grandi blocchi militari e ideologici in vigore in quegli anni.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Per impulso soprattutto dell’India di Nehru e dell’Egitto di Nasser – ai quali poi si
aggiunse anche la Jugoslavia di Tito – questa parola d’ordine divenne il principio ispiratore
di una nuova categoria di Stati, che fu definito «Terzo Mondo» (creato sulla base di
un’espressione coniata dal Alfred Sauvy per definire le classi sociali durante la Rivoluzione
Francese), distinta sia dall’Occidente capitalistico che dai paesi socialisti.
La consacrazione di questa nuova linea politica si ebbe nell’aprile del 1955 con la
«Conferenza afroasiatica di Bandung» – la prima conferenza internazionale dei popoli di
colore – a cui parteciparono 29 paesi asiatici e africani, inclusa la Cina, rappresentante più
della metà della popolazione mondiale e che fino a pochi anni prima erano assoggettate allo
stato di colonie o semicolonie. La Conferenza, quindi, non solo segnò la nascita del
movimento dei «non allineati», ma anche l’avanzare del Terzo Mondo sulla scena mondiale,
ed è proprio allora che si diffuse il cosiddetto «terzomondismo», cioè la tendenza a
individuare nei paesi in via di sviluppo il principale fattore di mutamento e rinnovamento a
livello mondiale.
La Conferenza di Bandung proclamò l’eguaglianza fra tutte le nazioni, il supporto a
quei movimenti impegnati nella lotta al colonialismo, la negazione delle alleanze militare
egemonizzate dalle superpotenze e il rifiuto di ogni forma di razzismo. Tuttavia la
Conferenza non rappresentava una semplice piattaforma ideologica, originariamente doveva
servire anche per porre fine alla dipendenza economica dei paesi colonizzati tramite, ad
esempio, la cooperazione economica tra i paesi asiatici e africani, il supporto statale per la
creazione d’industrie nazionali, realizzazione di banche indigene, etc.
Sotto il profilo della politica internazionale, invece, la Conferenza proclamava il
neutralismo attivo, una politica indipendente che avrebbe eroso l’egemonia delle
superpotenze e sottratto il mondo dalla morsa della Guerra Fredda. Di fatto, le aspirazioni
neutraliste finirono con l’indebolirsi sempre più, limitandosi ad affermazioni di principio, a
volte anche in contrasto con le scelte operate dai singoli Stati per motivazioni ideologiche o
di semplice convenienza politica.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Il movimento nato dopo Bandung crebbe velocemente, tanto che nel 1973 durante la
Conferenza di Algeri comprendeva 75 Stati, divenendo molto, forse troppo, eterogeneo:
accanto a paesi di ispirazione filo-occidentale, figuravano paesi socialisti e fortemente legati
all’Unione Sovietica, come Cuba e il Vietnam del Nord. Nonostante le buone intenzioni, la
contrapposizione Est-Ovest finì con influenzare le vicende del movimento, come dimostrato
dal tentativo di alcuni Stati di spostare l’asse del non allineamento in senso filosovietico,
adottando la tesi secondo cui l’URSS rappresentava la «naturale alleata» del movimento,
considerati la sua ostilità agli Stati Uniti e l’assenza di un passato coloniale. La crescente
eterogeneità stava, quindi, comportando seri problemi di compattezza tra i suoi membri e di
coerenza con i suoi principi ispiratori. Ciò nonostante, il movimento dei «non allineati»
diede una nuova fisionomia del sistema mondiale, non più riducibile alla semplice
contrapposizione Est-Ovest.
Se originariamente il non allineamento apparve l’unico comune denominatore del Terzo
Mondo, il concetto di «sottosviluppo» rappresentò un ulteriore elemento unificatore capace
di riassumere le caratteristiche dei sistemi economici dei paesi interessati. Questo concetto,
che va ben oltre la dimensione di povertà in cui versavano molti di queste nazioni, stava ad
indicare il ritardo in termini di sviluppo economico accumulato negli anni rispetto ai paesi
industrializzati e le attese di crescita maturate dal confronto con essi (che in parte
corrispondevano agli ex dominatori coloniali).
I punti in comune riscontrabili tra quasi tutti i paesi di nuova indipendenza erano: la
carenza di strutture industriali, il ritardo nel sistema di produzione agricolo, la semiesclusione dal commercio mondiale, lo squilibrio tra le risorse disponibili e una popolazione
in costante aumento. Il quadro che emerse era di profonda e drammatica povertà, basti
pensare che intorno al 1960 il reddito pro-capite dei paesi definiti «in via di sviluppo» era
mediamente di dieci volte più basso rispetto a quello dei paesi industrializzati,
l’analfabetismo era ancora molto diffuso (in alcuni Stati si registravano addirittura punte del
90% e oltre) e le strutture igienico-sanitarie erano ancora carenti.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 2° - L’Asia tra imperialismo e post-colonizzazione
Sebbene non si trattasse di elementi nuovi, fu la percezione del fenomeno che cambiò
radicalmente: la povertà di massa, frutto anche della colonizzazione, che interessava due
terzi della popolazione mondiale non poteva più essere vista come una condizione
«ambientale», bensì come un fallimento del nuovo ordine mondiale fondato sul principio di
uguaglianza fra i popoli. La questione del sottosviluppo fu oltremodo amplificata
dall’atteggiamento «rivendicazionista» assunto dalla maggioranza dei paesi del Terzo
mondo nei confronti dei paesi industrializzati, accusati di aver realizzato la loro ricchezza
durante il colonialismo e il «neocolonialismo» (periodo in cui le ex potenze coloniali
utilizzarono strumenti economici e culturali per controllare le ex colonie) e dovevano,
dunque, dividere questo benessere con i paesi più poveri (Giardina. A, Sabbatucci G.,
Vidotto V., 2002).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Canali
L.
(2008),
«La
partizione»,
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Limes
(http://temi.repubblica.it/limes/la-
partizione/669, consultato in data 04/02/2014).
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, UTET.
Day A. (2001), Europe 66. Introduction to Modern Europe - Map, Temple University
(http://astro.temple.edu/~barbday/Europe66/resources/maps.html, consultato in data
04/02/2014).
Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza.
Magagnoli S. (2009), Dal colonialismo al neocolonialismo, Università degli Studi di Parma
(http://economia.unipr.it/DOCENTI/MAGAGNOLI/docs/files/Dispensa.pdf, consultato
in data 31/01/2014).
Reinhard W. (2002), Storia del colonialismo, Piccola Biblioteca Enaudi.
Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte.
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Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
SOMMARIO MODULO 3°
Democrazia e totalitarismi in Asia
3.1. L’assetto politico della regione
3.2. Il comunismo asiatico
3.3. Il rapporto tra «valori asiatici» e democrazia
1
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
3.1. L’assetto politico della regione
La fine del XX secolo è stata caratterizzata da importanti trasformazioni sotto il profilo
istituzionale, basti semplicemente pensare all’aumento dei sistemi democratici instauratisi in
Asia Meridionale e Orientale, mentre nel 1975 le uniche democrazie presenti erano quelle
del Giappone e dell’India, quest’ultima ritenuta oltretutto anomala e destinata
probabilmente a cadere; attualmente è possibile verificare non soltanto che l’assetto
democratico indiano si è brillantemente consolidato, ma anche che le democrazie nate nella
regione sono aumentate, ed in particolare in Corea del Sud, Taiwan, Mongolia e Indonesia
(sebbene in questo caso si tratta di una democrazia recente e non ancora consolidata)
(Somaini E., 2009).
L’instaurazione di regimi democratici rappresenta, ovviamente, solo una parte
dell’evoluzione politica dell’Asia Meridionale e Orientale che, dalla seconda metà del XX
secolo in poi, è stata scossa da eventi rilevanti a livello mondiale quali il processo di
decolonizzazione, il crollo del Muro di Berlino e la successiva caduta dell’impero sovietico
che ha condotto, poi, alla dissoluzione dell’URSS stessa e quindi alla fine della Guerra
Fredda. L’insieme e l’interazione di questi eventi storici (nazionali ed internazionali) hanno
prodotto importanti effetti sugli asseti politico-istituzionali della regione asiatica.
Figura 3.1.: Espansione dei sistemi democratici dal 1975 al 2007
1975
2007
Fonte: Somaini E. (2009), Geografia della democrazia, il Mulino
2
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Se si volesse cartografare, ovvero rappresentare su una mappa, a livello globale la
distribuzione territoriale dei regimi politici, il risultato evidenzierebbe la tendenza dei
regimi politici tra loro simili a concentrarsi in aree geografiche contigue. La contiguità è
spesso accompagnata da un’elevata densità di quegli stessi sistemi politici lungo uno stesso
territorio, considerato che spesso gli stati in oggetto presentano caratteristiche strutturali
(soprattutto economiche e sociali) comuni e/o processi e tradizioni storiche similari. Quanto
descritto è riscontrabile, ad esempio, nell’area europea dove la condivisione di eventi storici
comuni si è ripercossa anche sulla sfera politica, dando luogo ad una contiguità geografica
di regimi democratici che ha inizio nella penisola iberica e si estende fino ai confini con
Russia e Turchia.
A onor del vero, la cosiddetta «area delle democrazie» potrebbe essere prolungata,
lungo una linea ininterrotta, oltrepassando l’Atlantico, così da comprendere Stati Uniti,
Canada e proseguendo fino all’area del Pacifico per includere Giappone, Corea del Sud,
Taiwan, Australia e Nuova Zelanda. Questo percorso, che potrebbe essere anche definito
«arco delle democrazie», comprende al suo interno, il 34% dei sistemi politici presenti in
Asia.
Figura 3.2.: Distribuzione dei regimi democratici
Fonte: Somaini E. (2009), Geografia della democrazia, il Mulino
3
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Analogamente è possibile tracciare almeno due aree geografiche dove sono altamente
concentrati regimi non democratici o autoritari: la prima va dall’Afghanistan fino al
continente africano, e la seconda che si estende dalla Russia all’Asia orientale, fino alla
Cina e alla Corea del Nord, includendo anche i paesi della penisola indocinese (Vietnam,
Laos e Cambogia) dalla quale, tuttavia, si esclude la Mongolia, in cui vige ormai da circa
quindici anni un regime democratico.
Nel caso dell’area russo-asiatica uno dei principali fattori di coesione e comunione è
stato l’eredità sovietica e comunista, a cui si affiancano l’importanza che la regione riveste
(soprattutto Russia e Cina) sotto il profilo economico ed energetico e il sistema di alleanze
formatasi tra i giganti dell’area (si pensi all’adesione alla politica del «non allineamento»,
alleanza Russia-Cina, Corea del Nord-Cina, etc.) (Somaini E., 2009).
Figura 3.3.: Concentrazione territoriale di regimi autoritari
Fonte: Somaini E. (2009), Geografia della democrazia, il Mulino
I territori asiatici risultano, pertanto, interessanti non soltanto per lo straordinario
sviluppo economico che alcuni paesi dell’area fanno registrare, per la loro dimensione
strategica che gradualmente stanno acquistando o per il peso demografico, ma anche per le
4
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
trasformazioni dei regimi politici che si sono succeduti nella regione e le possibili
evoluzioni immaginabili nel breve periodo.
Nel caso, infatti, del caso dell’Asia Meridionale e Orientale è possibile riscontrare
un’elevata densità e un’estesa contiguità geografica di regimi politici similari tra loro (ad
esempio sistemi autoritari concentrati territorialmente), al quale si contrappongono sistemi
politici totalmente opposti dal punto di vista ideologico e istituzionale, ad esempio la
Repubblica semi-presidenziale della Corea del Sud confinante e opposta al sistema
monopartitico socialista della Corea del Nord, oppure la Repubblica parlamentare federale
indiana adiacente geograficamente ma contrapposta politicamente al Governo socialista
monopartitico della Cina. Le vicinanze e le interazioni hanno dato luogo a processi di
reciproca influenza che hanno condotto all’emergere, a seconda dei periodi storici, di
determinati sistemi politici (es. vedasi Corea del Nord e Cina).
Un esempio lampante di come la contiguità territoriale possa influenzare l’assetto
politico è dato dalle relazioni tra URSS e Cina. Sebbene non sia mai possibile identificare
un unico evento come l’inizio di un processo storico o di un cambiamento (essendo tutti i
fattori ed eventi storici concatenati tra loro seguendo un’unica linea temporale), si può
indicare l’incontro tra Sun e Yoffe come un evento fondamentale per l’evoluzione delle
istituzioni politiche del Sud-est asiatico. Mosso da ambizioni nazionaliste, Sun incontrò un
rappresentante sovietico con cui firmò nel 1923 il manifesto «Sun-Yoffe» in cui tra l’altro si
poteva dedurre che l’obiettivo primario per la Cina non era tanto l’instaurazione del
comunismo, bensì l’unificazione e l’indipendenza del paese. L’anno dopo, nel 1924 il primo
Congresso del Guomindang – GMD (Partito Nazionalista Cinese), riorganizzato secondo il
modello bolscevico, dichiaro le cosiddette «tre politiche», ovvero sostegno del movimento
operaio e contadino, collaborazione con l’URSS e fusione con il Partito Comunista Cinese –
PCC (Mazzei F., Volpi V., 2006)
Pertanto, l’interesse di Mosca a portare avanti il programma leninista e quello del GMD
a unificare la Cina, condussero alla fusione dei comunisti con i nazionalisti, ad una sempre
più stretta alleanza con i sovietici e all’instaurazione di una dittatura monopartitica
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
dapprima retta dai nazionalisti e successivamente dai comunisti. Da allora l’ideologia
comunista ha assunto una forma quasi religiosa riuscendosi ad affermare a macchia d’olio in
diversi paesi. Ad oggi, circa il miliardo e mezzo di persone di Cina, Corea del Nord, Laos e
Vietnam, ovvero un quinto della popolazione mondiale, vive in Stati in cui vigono governi
retti dai partiti comunisti (The World Bank, 2014).
Figura 3.4.: Sistemi di governo per Stato
Fonte: Chartsbin (2014), Systems of Government by Country
(http://chartsbin.com/view/6kx, consultato in data 17/02/2014)
Il quadro politico dell’Asia Meridionale e Orientale risulta, quindi, estremamente
variegato, passando da un paese come l’India, che da sola rappresenta poco meno della metà
di tutte le popolazioni che vivono sotto un regime democratico, alla Cina in cui coesistono
un governo monopartitico e autoritario e un sistema economico capitalistico (il cosiddetto
«socialismo con caratteristiche cinesi» in cui sono presenti aperture economiche e chiusura
politica), continuando poi per il Giappone retto da una monarchia parlamentare e per
democrazie altamente instabili come in Pakistan e Bangladesh, per poi finire a teoriche
repubbliche presidenziali che, di fatto, risultano essere delle dittature militari come in
Myanmar.
6
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
3.2. Il comunismo asiatico
La storia della Repubblica cinese può essere divisa in tre fasi nettamente distinte (per
quanto persistono forti elementi di continuità nel passaggio da un periodo all’altro):
1. trattati di pace di Versailles e avvento dei nazionalisti;
2. ascesa del comunismo di Mao Tse-Tung e consolidamento del regime;
3. il post maoismo.
Alla conferenza di pace post Seconda Guerra Mondiale, i rappresentanti cinesi (presenti
in quanto Stati vincitori) subirono l’umiliazione delle grandi potenze occidentali che
riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla sconfitta Germania nel controllo
economico della regione dello Shandong. L’affronto subìto provocò il risveglio del
movimento nazionalista che si raccolse attorno al GMD e al suo leader Sun Yat-sen.
Obiettivo comune ai rinnovati movimenti nazionalisti era la lotta all’imperialismo delle
potenze occidentali e l’avversione al governo centrale inetto. La lotta interna fu guidata da
Sun Yat-sen (che nel 1921 fondò il proprio governo a Canton), dal PCC formato sempre nel
1921 da un gruppo di intellettuali capeggiati da Mao Tse-Tung e anche dall’Unione
Sovietica che – erigendosi come modello per i paesi in lotta contro l’imperialismo
occidentale – inviò aiuti economici e militari al governo e indusse addirittura il PCC ad
aderire in blocco al GMD (mantenendo però la sua struttura organizzativa).
L’alleanza fra nazionalisti e comunisti non sopravvisse a lungo: con la morte di Sun nel
1925 e la successione di Chang Kai-shek, iniziarono a emergere i primi contrasti già nel
1926, quando Kai-shek, alla testa di un nuovo esercito, diede avvio alla campagna per la
riunificazione del paese e scacciare il governo «legale» di Pechino (ancora riconosciuto
dalle potenze occidentali). Dopo aver stroncato l’opposizione operaia e aver conquistato, nel
1928, l’allora capitale Pechino, Kai-shek tentò di riorganizzare l’assetto economico e statale
secondo modelli «occidentalisti» affiancati da una forte impronta autoritaria. La grande
estensione del paese e, al contempo, le profonde divisioni interne costituivano degli enormi
problemi: da un lato, infatti, c’erano i comunisti che cominciarono a creare delle «basi
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
rosse» nelle campagne; dall’altro sopravvivevano le velleità autonomiste dei «signori della
guerra» che avevano ancora mire espansionistiche ed erano, quindi, contrari al
consolidamento di un unico potere statale in Cina.
Da quel momento iniziò un periodo di altissima tensione interna, ai limiti della guerra
civile, che si concluse solo nel 1937, quando si giunse ad un accordo, stipulato sotto gli
auspici dell’URSS, fra comunisti e nazionalisti. La precaria alleanza entrò in crisi in poco
tempo, allo scoppio della guerra nel Pacifico, quando Chang Kai-sheck volle riconcentrarsi
sulla battaglia contro i comunisti, sebbene avesse ormai perso credito con la società cinese.
Il governo nazionalista si dimostrò, infatti, incapace di fare la guerra ai Giapponesi, aveva
raggiunto livelli incredibili di corruzione e sprecava le risorse nella repressione del dissenso
interno. Al contrario, i comunisti non solo combatterono un’efficace guerriglia contro i
Giapponesi, ma riuscirono anche a rafforzare i loro legami con le masse contadine e i ceti
medi, attuando ampie riforme agrarie nei territori sotto il loro controllo.
Lo scontro ultimo si ebbe quando Chang Kai-shek lanciò una campagna militare
utilizzando anche gli aiuti degli alleati ricevuti durante e dopo la guerra. Dopo un iniziale
vantaggio dei nazionalisti (1946-1947), i comunisti riuscirono a contrattaccare – nonostante
non fossero totalmente sostenuti dall’URSS che continuava a riconoscere il governo di Kaishek – grazie al supporto della popolazione contadina che gli consentì di usare le tecniche
della guerriglia. Mentre i nazionalisti perdevano terreno e il sostegno popolare e militare
(molti soldati iniziarono a sbandarsi o a disertare), l’esercito di Mao si rafforzava fino a che,
nel febbraio del 1949, i comunisti entrarono a Pechino. A quel punto, il governo di Chang
Kai-shek dovette ritirarsi nell’isola di Taiwan (Formosa).
Il 1 ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese,
che fu immediatamente riconosciuta da URSS e Gran Bretagna, mentre gli Stati Uniti
continuarono a considerare legittimo il governo di Taiwan.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Figura 3.5.: Evoluzione dell’avanzata comunista 1934-1950
Fonte. Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza
Inizia quindi la seconda fase dell’ascesa del comunismo di Mao Tse-Tung e del
consolidamento del regime. La nuova Repubblica retta da comunisti apportò sin da subito
importanti misure di «socializzazione». Nel corso degli anni Cinquanta la Cina comunista
aveva nazionalizzato i settori industriali e commerciali e si era dotata di una propria
industria pesante. Contemporaneamente, si preoccupò di collettivizzare il settore agricolo:
con la riforma del 1950 furono dapprima ridistribuite le terre fra i contadini – favorendo la
nascita di una miriade di piccole aziende – e successivamente incoraggiò, e poi obbligò, le
famiglie contadine a riunirsi in cooperative di fatto controllate dal governo centrale.
Per promuovere nel minor tempo possibile il rilancio della produzione agricola, le
autorità comuniste definirono una nuova strategia: il «Grande Balzo in Avanti», grazie alla
quale si sarebbe raggiunta una generale razionalizzazione produttiva. L’esperimento, però,
risultò essere fallimentare: la produzione agricola crollò e gli effetti prodotti furono una
spaventosa carestia e la massiccia importazione di cereali. Precipitò, inoltre, anche il
rapporto con l’URSS – già in aperta polemica relativamente alla coesistenza pacifica e ai
rapporti con i partiti comunisti – a causa delle critiche contro la strategia del «Grande Balzo
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
in Avanti», il relativo ritiro dei loro tecnici e di assistenza in campo nucleare. La tensioni
sfociarono, addirittura in sporadici scontri armati nel 1969 lungo i confini tra Siberia e
Manciuria.
Anche a livello interno il fallimento del «Grande Balzo in Avanti» comportò importanti
effetti, in primis, sotto il profilo dell’unità partitica: iniziarono a guadagnare spazio le
componenti più moderate e meno antisovietiche del gruppo dirigente comunista. Per
contrastare i dissidenti interni Mao si avvalse del sostegno dell’esercito e delle generazioni
dei più giovani, esortandoli a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la «via
capitalistica». La mobilitazione culminò nella «Rivoluzione Culturale» tra il 1966 e il 1968:
gruppi di giovani guardie rosse (in maggioranza studenti), ispiratisi all’autentico pensiero
maoista, accusarono insegnanti, dirigenti politici, intellettuali e funzionari di allontanarsi dai
principi più puri del comunismo.
La rivoluzione terminò nell’arco di un paio di anni, il tempo necessario di eliminare dai
posti di responsabilità i dirigenti contrari alla linea maoista. In questo periodo un ruolo
fondamentale fu svolto da Chou En-lai, primo ministro della Repubblica popolare dal 1949,
a cui si deve anche l’inizio, negli anni Settanta, di una normalizzazione anche in ambito
internazionale.
Distrutti ormai i rapporti con l’Unione Sovietica, la Cina grazie a Chou En-lai si aprì
sorprendentemente agli Stati Uniti. A sancire quest’apertura ci fu il viaggio del Presidente
Nixon a Pechino nel 1972 e l’entrata nell’ONU della Cina comunista (sostituendo la
Repubblica «nazionalista» di Chan Kai-shek che fino a quel momento aveva retto il seggio
al suo interno). Si chiude così definitivamente il periodo della rivoluzione culturale e inizia
una fase di transizione destinata a sfociare, dopo la morte di Mao e Chou En-lai, in un
radicale cambiamento che sarà impersonato da Deng Xiaoping (Giardina A., Sabbatucci G.,
Vidotto V., 2002).
Altro importante paese protagonista del blocco comunista è la Corea, dove si
scontrarono nella maniera più drammatica le parti coinvolte nella Guerra Fredda durante il
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
conflitto del 1950-1953. Dopo aver gravitato per secoli nell’orbita sinocentrica prima e aver
subito la dominazione giapponese poi, la Corea sperava, alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, di raggiungere l’indipendenza. Al contrario, a causa dei disaccordi fra gli alleati,
si riprodusse il dramma della Germania: 280 km di zona smilitarizzata sul 38° parallelo che
attraversava e divideva l’intera penisola. Il Nord fu sottoposto all’influenza della Russia e
della Cina, mentre il Sud sotto quella degli Stati Uniti. Sebbene questa divisione si sarebbe
dovuta mantenere solo temporaneamente, ovvero fino all’organizzazione di libere elezioni,
di fatto il confine lungo il 38° parallelo divenne permanente. Nella Corea del Sud vinse, con
le elezioni del 1948, Syngman Rhee (che per molti anni visse negli Stati Uniti) e nella Corea
del Nord ci furono delle elezioni di tipo comunista e fu nominato presidente Kim Il Sung,
leader carismatico, addestrato nell’Unione Sovietica.
Le cause scatenanti il conflitto furono una serie di incidenti di frontiera in un’area già
altamente tesa – considerato che entrambi gli Stati rivendicavano la sovranità sul restante
territorio – di fatto, però, il conflitto fu dovuto ad una serie di errori di politica americana
che, ad esempio, dotarono la Corea del Sud solo di armi leggere, onde evitare che la Corea
del Sud attaccasse il Nord e per il timore di ripercussioni sino-sovietiche di fronte a una
politica statunitense troppo attiva. Al contrario, la parte Nord guidata militarmente dai Russi
e con gli aiuti cinesi si era già pesantemente riarmata (Mazzei F., Volpi V., 2010). Lo
scontro inevitabile si ebbe nel 1950 quando le forze nordcoreane invasero il Sud,
confermando le mire espansionistiche del blocco comunista. In questo caso, risulta evidente
come la contiguità geografica influenzi gli assetti istituzionali delle nazioni limitrofe.
Gli Stati Uniti reagirono respingendo i nordcoreani e in ottobre oltrepassarono a loro
volta il 38° parallelo. A questo punto, però, fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei
comunisti, con un massiccio invio di «volontari», che in poche settimane capovolsero le
sorti della guerra penetrando nella Corea del Sud. Nell’aprile del 1951 il presidente Truman
accettò di aprire le trattative di pace con la Corea del Nord. I negoziati si trascinarono per
altri due anni, giungendo nel 1953 al ritorno della situazione precedente (quindi il confine
tra i due stati lungo il 38° parallelo) (Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
L’impatto della Guerra di Corea fu devastante non solo per le due nazioni (si calcola un
milione di morti tra la sola popolazione civile e tre milioni di rifugiati), ma anche a livello
internazionale, intensificando le tensioni della Guerra Fredda. In particolare, la Guerra di
Corea danneggiò gravemente le relazioni della Cina con gli Stati Uniti, la cui insofferenza al
comunismo, e specialmente quello asiatico, si accentuò. Le frizioni si attenuarono e le
relazioni diplomatiche si riaprirono solo agni inizi degli anni Settanta. Un’altra conseguenza
fu la riconversione geopolitica della Cina, che si chiuse al commercio internazionale, dopo
un secolo di apertura tra l’altro imposta dall’arrivo degli occidentali.
Quello che è importante sottolineare sono le conseguenze che il popolo coreano
continua ancora oggi a subire, in quanto diversamente da quanto è accaduto in Germania e
in Vietnam, la penisola è ancora divisa secondo quanto deciso durante la Guerra Fredda
(Mazzei F., Volpi V., 2006). Attualmente, solo la Cina sembra essere l’unico paese in grado
di avere un certo controllo sulla Corea del Nord e quindi su Kim Jong-un, erede del
«monarca rosso», grazie all’aiuto economico e militare che le autorità cinesi hanno garantito
per lunghi anni (Mazzei F., Volpi V., 2010).
Altro paese retto da un regime comunista è il Laos che dal 1899 entro a far parte
dell’Indocina francese. Nel 1947, ancora sotto dominazione francese, fu proclamato il
Regno del Laos adottando come sistema di governo la monarchia costituzionale. Sin da
subito il governo si trovò in serie difficoltà per l’attività di opposizione portata vanti dal
partito comunista di ispirazione vietnamita nato in quegli stessi anni, il Pathet Lao (Paese di
Lao, guidato dal principe Souphanouvong), che aveva iniziato un’azione di resistenza, in
cooperazione coi Vietminh vietnamiti.
Si giunse ad una situazione in cui il Pathet Lao controllava praticamente le due province
nord-orientali, rifiutando di riconoscere il governo regio. Pur essendo risultato vittorioso
alle elezioni del 1956 il Partito progressista, il Pathet Lao venne ammesso nel 1957 nel
governo di unione nazionale del principe Souvanna Phouma. Ai tentativi di quest’ultimo di
controllare lo Stato mediante governi moderati progressisti, tenendo separata la politica
loatiana da quella vietnamita, si alternarono colpi di Stato militari, reazioni armate del
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Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Pathet Lao ed una inevitabile commistione con le vicende belliche vietnamite: si pensi alla
«pista di Ho Chi Minh» tra i Vietnam del Nord e quello del Sud che attraversava il Laos e
veniva usato per il rifornimento di armi.
Un accordo del 1973 portò al Laos un periodo di relativa tranquillità, ma la fine della
guerra del Vietnam, nel 1975, ebbe come ripercussione una ripresa della guerra civile e, nel
novembre dello stesso anno, la caduta della monarchia e l’assunzione del potere da parte del
Pathet Lao che diede vita ad una repubblica democratica di tipo comunista. All’inizio del
1979 il Pathet Lao fu sostituito dal Fronte Nazionale per la Costruzione del Laos che tra i
suoi primi atti, conseguentemente al conflitto sino-vietnamita, decise per l’espulsione dei
tecnici cinesi coinvolti in alcuni settori dell’economia, riconoscendosi quindi nell’orbita del
Vietnam filosovietico (Corna Pellegrini G., 1982).
Il Vietnam, infine, rappresenta l’ultimo paese dell’area dell’Asia Meridionale e
Orientale in cui ancora vige un regime monopartitico comunista. Ben prima
dell’occupazione giapponese in Indocina, durante la Seconda Guerra Mondiale, si era
formato un movimento rivoluzionario clandestino Vietminh guidato da Ho Chi Minh e
sostenuto dall’URSS. Quando, infatti, si parla di comunismo vietnamita, l’immediata
associazione è con Ho Chi Minh che può essere considerato il suo fondatore e ideatore, ma
anche il più fervente sostenitore della liberazione del Vietnam dalla presenza francese,
giapponese e anche cinese. Infatti, prima che dalle potenze occidentali, il Vietnam doveva
difendersi dalle mire espansionistiche della Cina, nonostante Mao avesse sempre inviato
sostegni economici e militari: già con gli accordi di Ginevra il Vietnam accusò la Cina di
aver limitato la loro lotta di liberazione arrestandoli lungo la linea del 17° parallelo, in modo
da formare uno stato cuscinetto tra i territori meridionali della Cina e le possibili aggressioni
militari americane (Bussolino C., 2014).
Con la Conferenza di Ginevra del 1954 si decise di dividere il Vietnam in due
repubbliche: quella del Nord che sarebbe stata retta dai comunisti di Ho Chi Minh e quella
del Sud retta da un regime semidittatoriale del cattolico Ngo Dinh Diem (appoggiato dagli
americani che intendevano sostituirsi ai francesi in termini di influenza nell’area).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
All’interno del governo del Sud si creo un movimento di guerriglia – il Vietcong – guidato
dai comunisti e sostenuto dallo Stato nordvietnamita, che allarmò gli Stati Uniti al punto
tale da inviare nel Vietnam del Sud un proprio contingente di consiglieri militari per
scongiurare la formazione di un’Indocina comunista (Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto
V., 2002).
Caduto Diem, dall’autunno del 1963 si succedettero vai governi, mentre l’offensiva
premeva sempre più e così nel febbraio del 1965, senza che vi fosse stata una vera e propria
dichiarazione di guerra ebbe inizio una serie di violenti bombardamenti contro il Vietnam
del Nord. Il conflitto tra Nord e Sud prese così le proporzioni di una vera e propria guerra.
Nel 1968 una grossa offensiva nordista, detta del «Têt» (ossia de capodanno buddista),
sebbene non incisiva sul piano militare, indusse gli Americani a cercare una soluzione
negoziata coi Nordvietnamiti.
Figura 3.6.: Vietnam 1962-1975
Fonte. Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
I colloqui di Parigi, iniziati nel maggio del 1968, furono poi condotti dal nuovo
Presidente Nixon (1969) e si trasformarono in trattative ufficiali tra USA, Vietnam del Nord
e del Sud e governo rivoluzionario del Vietnam del Sud. Le trattative, però, si protrassero
per anni, mentre la guerra si estese anche alla Cambogia e Laos, parzialmente invasi dagli
Americani per tagliare ai Nordvietnamiti le vie di rifornimento provenienti dalla Cina
(Corna Pellegrini G., 1982).
Solo nel gennaio del 1973, Americani e Nordcoreani firmarono a Parigi un armistizio
che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi. Successivamente al loro ritiro il
conflitto continuò per oltre due anni: fino al 30 aprile 1975, i Vietcong e le truppe
nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, e riunirono il paese sotto il regime
della Repubblica Democratica settentrionale (Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
3.3. Il rapporto tra «valori asiatici» e democrazia
Negli ultimi cinquant’anni alcuni paesi dell’Asia Orientale hanno assunto i caratteri di
uno sviluppo economico moderno e sistemi di governo democratici.
Oltre al Giappone, è possibile inserire nel novero anche la Corea del Sud, Taiwan, Hong
Kong, in modo atipico Macao e Singapore. Trattasi di paesi che sono divenuti ormai
essenzialmente, o almeno tendenzialmente, urbani: percentuali elevatissime della loro
popolazione vivono in città. Le campagne sono state progressivamente abbandonate e hanno
subito trasformazioni produttive tendenti a liberale da quella forza lavoro molto numerosa e
tipica dei paesi del Terzo Mondo (Corna Pellegrini G., 1982).
In alcuni casi lo sviluppo economico si è accompagnato ad un progresso anche in
termini democratici: la Corea del Sud, Taiwan, e Singapore formano insieme a Hong Kong
(che non è una nazione indipendente bensì un territorio a statuto speciale della Cina), il
nucleo originario delle cosiddette «Tigri asiatiche». Tutti e tre hanno rappresentano esempi
particolarmente riusciti di come lo sviluppo economico possa essere stimolato dalle
esportazioni e dai grandi complessi industriali come nel caso del Sud Corea, oppure
dall’industria leggera o dalla finanza, come accaduto a Taiwan e a Singapore.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Fino alla fine degli anni Ottanta tutti e tre i paesi erano governati da regimi autoritari,
sebbene tra loro diversi: repressivo e con un rilevante peso militare in Sud Corea; a Taiwan
si formò una sorta di colonialismo interno da parte dei nazionalisti cinesi; più tollerante e di
tipo paternalistico quello di Singapore. In tutti e tre i casi si ebbe un sapiente dosaggio tra
repressività e libertà così da garantire l’ordine e la disciplina interna e la sicurezza esterna,
lasciando spazio all’innovazione e allo spirito imprenditoriale. Questo sistema
rappresentava la loro visione moderna di «dispotismo illuminato» (Somaini E., 2009). La
combinazione tra autoritarismo politico e libertà economica ha dato luogo al cosiddetto
«modello asiatico» fondato sulla flessibilità e sui bassi salari, sull’elevata produttività e
sulla repressione dei conflitti sociali (Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
Infatti, i fattori fondamentali allo sviluppo di questi tre paesi sono stati una forza lavoro
altamente qualificata e disciplinata, un sistema di valori (di origine buddista e confuciana)
fondamentalmente conservatore ma aperto all’innovazione, a cui è stato dato il nome di
«valori asiatici». Quest’ultimo privilegia l’impegno, la solidarietà, lo spirito di gruppo e di
risparmio, e una decisa azione di sostegno allo sviluppo da parte dei governi.
La fine Guerra Fredda ha prodotto importanti evoluzioni politiche nell’area: mentre
Cora del Sud e Taiwan hanno adottato un sistema democratico, rispettivamente nel 1988 e
nel 1996, e sono entrati a far parte al cosiddetto «arco delle democrazie», Singapore ha
mantenuto il suo originario carattere di autoritarismo paternalista.
La conservazione a Singapore di un autoritarismo illuminato ispirato dai «valori
asiatici» risiede nella convinzione dei leader politici locali che esso rappresenti un sistema
di guida politica superiore rispetto alla combinazione «occidentale» di individualismo e
democrazia. Il principale sostenitore di questa tesi è stato Lee Kwan Yew, Primo Ministro di
Singapore dall’indipendenza (avvenuta nel 1959) al 1990 e tuttora «mentore del governo»,
attualmente presieduto del figlio Lee Hsien Loong, e capo indiscusso del partito dominante
PAP.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Con il passaggio della Corea del Sud e di Taiwan alla democrazia, Singapore è l’unico
paese rimasto fedele alla sua ricetta e rappresenta ormai più un’anomalia che un modello
paradigmatico. Una forma di autoritarismo illuminato e paternalistico che è stato capace di
coniugare le esigenze di un centro finanziario internazionale, situato in un paese piccolo,
con quelle di uno Stato militarmente debole e con una popolazione locale multietnica.
Per quanto riguarda il rapporto tra «valori asiatici» e democrazia si può dire che i casi
di Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan suggeriscono la possibilità di un adattamento
reciproco tra i due, e cioè una certa «occidentalizzazione» dei primi e «asiatizzazione» della
seconda (Somaini E., 2009). La trasformazione in stato democratico del Giappone risale a
molti anni prima rispetto alle giovani democrazie della Corea del Sud e di Taiwan. Nello
specifico, il passaggio, seppur graduale, avvenne sul finire della Seconda Guerra Mondiale,
quando l’imperatore giapponese accettò la richiesta di resa e il generale MacArthur,
comandante delle forze alleate, procedette all’occupazione del paese. Quel ultimo volle,
contro il parere di Washington, la conservazione della monarchia come fattore superstite di
stabilità nel paese sconvolto dalla disfatta e agì sempre tramite il governo giapponese, così
da evitare ogni eccessiva tensione.
La nuova costituzione del 1946 stabiliva che i membri del governo non potessero essere
militari e si ispirava ai principi di una democrazia occidentale. Le persone compromesse coi
precedenti regimi militari furono allontanate da tutti i posti di responsabilità e una radicale
riforma agraria fu adottata, che distribuì terre a migliaia di coltivatori che divennero
proprietari della propria terra. L’effetto prodotto fu di rendere le campagne tranquille, anche
politicamente, avendo dato la sicurezza economica ad una classe sino ad allora poverissima
e sottomessa. Il sistema scolastico fu riformato secondo il modello americano e maggiore
autonomia fu riconosciuta alla donna.
Questi cambiamenti, se da un lato portarono ad un indebolimento di alcuni principi
gerarchici tradizionali – e quindi ad una confusione di valori – dall’altro introdusse
maggiore scioltezza nei rapporti sociali e nuova apertura mentale verso i mutamenti che la
ripresa economica avrebbe portato.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
Dal 1952 si ebbe la formidabile ripresa economica giapponese, soprattutto con uno
sviluppo industriale imprevisto e senza precedenti. Fedele al principio del premier Yoshida
di privilegiare l’economia nei confronti della politica, il Giappone da allora concentrò tutte
le sue energie nel miglioramento e nello sviluppo delle proprie tecniche di produzione e
nella conquista dei mercati esteri (Corna Pellegrini G., 1982).
Un'altra importante area dell’Asia Meridionale sotto il profilo dei regimi democratici è
sicuramente il subcontinente indiano, regione assai variegata sotto il profilo etnico, religioso
e non solo. Basti pensare che vi sono paesi come:
• l’India, di religione prevalentemente induista ma che ospita diverse minoranze, tra
cui emerge quella mussulmana (rendendolo il terzo paese mussulmano del mondo).
In questa nazione vive poco meno della popolazione mondiale retta da un regime
democratico;
• il Pakistan e il Bangladesh, il primo quasi esclusivamente mussulmano mentre il
secondo lo è per la maggior parte della sua popolazione, che hanno alternato
ripetutamente fasi di semidemocrazia e di autocrazia;
• lo Sri Lanka, prevalentemente buddhista ma con una minoranza induista, ha
mantenuto alcuni tratti democratici pur nel quadro di un conflitto che oppone il
governo centrale al movimento separatista dei Tamil.
L’India rappresenta sicuramente il paese di particolare importanza, alcuni autori parlano
addirittura di «anomalia indiana», dovuta al fatto che, pur in presenza di condizioni che
normalmente potrebbero ostacolare se non impedire il nascere di una democrazia, è uno dei
pochi paesi ad essere nato come democrazia ed essere riuscito a mantenerlo nel corso di
tutta la sua storia di nazione indipendente.
Nei sessanta anni trascorsi dalla sua nascita, la democrazia indiana ha dovuto affrontare
una serie di sfide che avrebbero minacciato anche le democrazie più solide: basso livello di
sviluppo economico, vastità del territorio, frammentazione etnica e culturale, tensioni
religiose, presenza di stratificazione sociale (le caste) rigida e potenzialmente in conflitto
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
con al democrazia, essere confinante con paesi quali Cina e Pakistan con i quali è stata
ripetutamente coinvolta in conflitti.
Uno dei fattori principali che ha permesso l’instaurazione sin da subito di un regime
democratico è stato, paradossalmente il regime coloniale britannico: al momento
dell’indipendenza l’India ereditò un sistema di governo che presentava importanti vantaggi.
Questi erano:
• un sistema amministrativo razionale e quadri burocratici qualificati ed efficienti,
capaci di assolvere alle funzioni del nuovo stato;
• un modello di democrazia parlamentare con sistema maggioritario;
• un sistema di governo federale, necessario considerate la vastità del territorio e la
varietà geografica, etnica e culturale delle regioni che formano il paese;
• una magistratura indipendente e competente;
• una pratica precedente di pluralismo politico, di elezioni competitive, soprattutto a
livello locale e nelle sfere (limitate) di autogoverno riconosciute dalla potenza
coloniale;
• un esercito rispettoso delle prerogative del potere politico.
L’eredità coloniale sarebbe, tuttavia, servita a ben poco se non ci fosse stata una
rielaborazione dell’élite indiana che da un lato era erede di una ricca e profonda tradizione
culturale e dall’altro aveva assimilato il meglio della cultura politica e ammnistrativa inglese
(Somaini E., 2009).
Il ruolo di guida politica dell’India fu assunto nel 1947 (anno dell’indipedenza) da
Jawaharlal Nehru, il quale si trovò di fronte un paese in miseria, afflitto da una crisi
strutturale che lo portarono ad adottare un modello di socialismo democratico, basato su
un’economia pianificata, al fine di combattere la povertà, l’ignoranza e la diseguaglianza
che affliggevano i suoi territori. Nel gennaio del 1950 entrò in vigore la nuova costituzione
che istituiva l’Unione Federale Indiana presieduta da Rajendra Prasad, fondata
sull’uguaglianza dei cittadini e su un sistema di governo parlamentare più o meno simile a
quello britannico (Corna Pellegrini G., 1982).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
I principi ispiratori della nuova costituzione indiana furono il frutto, oltre che della
tradizione indiana e dell’eredità britannica, anche della traumatica esperienza di separazione
dal Pakistan (staccatosi al momento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna) che provocò un
milione di morti e costrinse molti milioni di persone a trasferirsi perdendo praticamente tutti
i loro averi. Il rischio costante che si ripetessero simili avvenimenti, spense i padri fondatori
dell’India, in primis Gandhi e Nehru, a vedere nella democrazia e nella laicità l’unica
alternativa possibile alla guerra civile.
Si potrebbe affermare che l’India deve a questa intuizione la sua stessa esistenza, di cui
il Partito del Congresso ne è stato erede e incarnazione. Grazie al suo operato
quest’intuizione è divenuta patrimonio comune di tutte le maggiori forze politiche indiane,
come dimostrato dal caso del Bharatiya Janata Party (BJP) – nato inizialmente come
espressione del nazionalismo indù e autore negli anni Novanta di sanguinosi scontri con la
minoranza musulmana – che una volta salito al potere, si rimodulò rapidamente e abbracciò
la tradizione democratica e di tolleranza multiculturalista.
Ulteriore peculiarità della democrazia indiana è data dal fatto che il paese non confina
con altre democrazie, né tanto meno è coinvolta in forme di integrazione sovranazionale con
altre democrazie – per cui è da escludersi il fattore della contiguità territoriale – ciò
nonostante rientra pienamente nell’«arco delle democrazie». Sicuramente l’India deve il suo
inserimento in questa categoria per le caratteristiche che il suo sistema politico ha, frutto
appunto di eredità culturali e coloniali e di necessità di carattere etnico-politico, ma anche
per il suo forte ancoraggio con democrazie straniere. Quest’ultimo elemento è merito del
ruolo svolto da un lato dalla numerosa e influente comunità indiana all’estero (presente
soprattutto negli Stati Uniti) e dall’altro dall’emergere nel paese di élite culturali,
professionali e imprenditoriali che sono ormai cosmopolite e hanno interiorizzato i valori
della democrazia (Somaini E., 2009).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 3° - Democrazia e totalitarismi in Asia
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Somaini E. (2009), Geografia della democrazia, il Mulino.
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Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 4° - Il secolo asiatico
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
SOMMARIO MODULO 4°
Il secolo asiatico
4.1. Il miracolo asiatico
4.2. Asia tra regionalismo e globalizzazione
4.3. Nuovi rapporti internazionali
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
4.1. Il miracolo asiatico
I paesi dell’Asia Meridionale e Orientale stanno attraversando un’importante fase
storica, caratterizzata da elevati tassi di crescita tali da aver fatto uscire alcuni Stati dalla
categoria di paesi del Terzo Mondo. Il progresso economico registrato negli ultimi decenni
risulta essere ancora più notevole se si considera che nel periodo 1750-1990 i loro sistemi
economici subirono un forte indebolimento, in buona parte a causa del susseguirsi di eventi
di portata mondiale quali il colonialismo, le Guerre Mondiali e l’adozione di politiche
autarchiche, quale conseguenza dell’ondata indipendentista. Gli effetti prodotti si possono
quantificare in una drastica contrazione della porzioni del sistema economico mondiale
detenuta dai paesi dell’Asia Meridionale e Orientale, ridottasi nel periodo 1750-1990 da
circa il 60% a poco più del 20%.
La rinascita economica della regione ha avuto diverse fasi e interessato Stati differenti.
Iniziato negli anni Cinquanta solamente in Giappone, il progresso economico si è
intensificato in molti paesi della regione soprattutto negli ultimi due decenni, facendo
registrare ritmi di crescita elevati, tanto che ad oggi l’area rappresenta il 27% della
produzione mondiale. Se gli attuali tassi di crescita registrati dovessero essere mantenuti, è
molto probabile che entro il 2050 la regione rappresenterà oltre la metà del Prodotto Interno
Lordo (PIL) globale e il reddito pro-capite dei suoi abitanti potrebbe aumentare fino a sei
volte, raggiungendo la media mondiale.
Se tali previsioni dovessero effettivamente realizzarsi, l’Asia Orientale e Meridionale
potrebbe riguadagnare la posizione economica dominante che già deteneva circa 250 anni
fa, ovvero prima della Rivoluzione Industriale (Asian Development Bank, 2011).
Il crescente ruolo che i paesi della regione stanno guadagnando a livello internazionale
tenderà ad essere sempre più prevalente, tanto che il XXI secolo è stato identificato con la
locuzione, ormai diffusa a livello mondiale, di «Secolo Asiatico».
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Figura 4.1.: Evoluzione della quota di produzione mondiale dell’Asia Meridionale e
Orientale (1700-2010)
Fonte: Asian Development Bank (2011), Asia 2050: Realizing the Asian Century, Asian
Development Bank.
In base alle evoluzioni e alle performance riscontrate negli ultimi 25 anni, è possibile
suddividere i paesi dell’Asia Meridionale e Orientale in tre gruppi. Il primo gruppo,
composto da Brunei, Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Singapore e Taiwan, si è
distinto per aver avviato il processo di modernizzazione e sviluppo economico già dal 1950,
diventando economie sviluppate ad alto reddito in una sola generazione. In questo caso, è
però importante distinguere il Giappone apripista del «miracolo asiatico» e la cui evoluzione
economica si è basata fortemente sulla crescita del comparto industriale sempre più
innovativa, dal Sultanato del Brueni il cui successo è dovuto essenzialmente dalla
produzione di petrolio e di gas naturali, risorse che permettono alla popolazione dello Stato
di avere il PIL pro capite tra i più elevati del continente.
Le altre sette nazioni che formano il secondo gruppo sono i due grandi giganti dell’area,
India e Cina, a cui si aggiungono Cambogia, Indonesia, Malaysia, Thailandia e Vietnam.
Tutte hanno in comune l’inizio del processo di crescita economica, avvenuto intorno al
1990, e l’essere riuscite a diventare economie a reddito medio. Infine, vi sono i restanti
paesi dell’area che possono essere raccolte nel terzo gruppo avendo ottenuto negli ultimi
decenni un modesto livello di progresso.
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Modulo 4° - Il secolo asiatico
Figura 4.2.: Suddivisione in base a fase storica e livello di progresso
Economie ad alto
reddito (anni ’50)
• Giappone
• Brunei
• Hong Kong
• Corea del Sud
• Singapore
• Taiwan
Economie a reddito
medio (anni ’90)
Economie con basso
livello di progresso
• Restanti paesi dell'Asia
Meridionale e Orientale
• India
• Cina
• Cambogia
• Indonesia
• Malesia
• Tailandia
• Vietnam
Fonte: Asian Development Bank (2011), Asia 2050: Realizing the Asian Century, Asian
Development Bank.
Le principali teorie economiche atte a spiegare lo straordinario sviluppo economico di
questi paesi sono pressappoco due: il primo neoclassico, il secondo culturalistico. Il primo
enfatizza l’importanza del mercato, ovvero la cosiddetta «mano invisibile», capace di far
adottare agli attori economici le scelte più razionali come, ad esempio, l’apertura al
commercio estero, supporto del settore privato, non distorsione dei prezzi, etc. Il secondo,
invece, si focalizza sul ruolo dello Stato e sulle peculiarità culturali dei territori in analisi.
Nel secondo approccio, quindi, molto importanza viene riconosciuta allo Stato confuciano,
distintosi per essere altamente interventista, unico a conoscere l’interesse comune del paese
e estremamente catalizzatore.
Ispirato dall’analisi del caso giapponese, questo secondo approccio è l’espressione della
teoria dello stato sviluppista, secondo cui lo stato confuciano e il complesso di effetti
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
generati dall’interazione dei fattori culturali sul tessuto socio-economico risultano essenziali
nel processo di sviluppo e progresso di uno Stato (Mazzei F., Volpi V., 2006).
Apripista del «miracolo economico asiatico» è stato, quindi, il Giappone, che molto
deve al mondo occidentale, sia per l’iniziale sviluppo industriale registrato all’inizio del XX
secolo - influenzato dai modelli europei – sia per la seconda fase del decollo economico
avutasi nella seconda metà del XX secolo, profondamente plasmata sui modelli americani.
In entrambi i casi, il Giappone è riuscito ad equilibrare sapientemente e in maniera
equilibrata i nuovi ideali di produzione, benessere e potenza economica prettamente
occidentali con le peculiarità della cultura nipponica.
A favorire il successo dell’industrializzazione giapponese fu soprattutto l’impegno
imprenditoriale sviluppato nelle nuove attività economiche della classe dirigente agricola,
commerciale e perfino militare nel Giappone pre-industriale. Diversamente da quanto
avvenne negli altri paesi della regione, di fronte alla penetrazione economica e politica
dall’esterno le autorità giapponesi accettarono sin da subito la collaborazione tecnica degli
Occidentali – capendo in anticipo il prezioso apporto che avrebbero potuto dare al loro
decollo industriale – e in alcuni casi si spinsero persino alla copia delle loro iniziali
invenzioni. Questa cooperazione tecnica, però, fu sempre fortemente controllata e ai
collaboratori stranieri fu inizialmente riconosciuto un trattamento di rigida subordinazione
e, successivamente, furono esclusi man mano che l’assimilazione delle nuove tecniche
raggiungeva livelli più elevati e creativi, tanto da rendere la produzione Giapponese
altamente competitiva rispetto ai competitor stranieri.
L’efficienza organizzativa, l’elevata qualità delle produzioni e i costi contenuti
(soprattutto dei salari) resero il modello giapponese il protagonista indiscusso dello sviluppo
economico dell’Asia Orientale. Un’importanza che acquistò ancora più rilevanza quando si
considera che il sistema di produzione e i valori del progresso nipponico furono diffusi,
attraverso il commercio, il turismo e altre interazioni, ai territori circostanti e, in particolar
modo, a Seoul, Taipei, Hong Kong e Singapore.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
Segno indiretto della crescente presenza giapponese, soprattutto nel Sud-est asiatico, fu
lo sviluppo del turismo nipponico che oltre a far aumentare la presenza di operatori tecnici
commerciali giapponesi nelle mete turistiche, favorì anche la diffusione di un modello di
comportamento sensibilmente diverso da quello trasmessoo precedentemente da visitatori
ed operatori economici americani ed europei. Si trattava di un modello certamente moderno
ma, al tempo stesso, genuinamente «orientale» ed asiatico (Corna Pellegrini G., 1982).
Uno dei principali fattori di forza dei paesi asiatici è, infatti, la capacità di coniugare i
principi occidentali con i valori e le tradizioni asiatiche. Secondo alcuni studiosi,
economisti, politologi e orientalisti, alla base del progresso dell’Asia Orientale ci sarebbero,
appunto, i cosiddetti Asian values. Formulata inizialmente da Lee Kuan Yew, l'ex primo
ministro di Singapore, questa teoria sostiene che l'inclinazione culturale al rispetto
dell'autorità e il duro lavoro ha consentito ai paesi dell'Asia Orientale di adottare politiche
economiche liberali senza democrazia, che sul lungo periodo hanno consentito di
raggiungere un elevato progresso economico.
Singapore oltre ad essere la «patria» della teoria basata sui valori asiatici, rappresenta
anche uno dei casi emblematici dello sviluppo delle cosiddette «tigri asiatiche». Ottenuta
l’indipendenza dalla Gran Bretagna, Singapore si unisce alla Federazione della Malesia nel
1963, ma ne uscì due anni dopo, nel 1965. Nel primo anno dalla sua separazione dalla
Federazione, Singapore divenne membro sia delle Nazioni Unite che del Commonwealth, e
iniziò a stabilire relazioni diplomatiche con gli altri paesi, rafforzando così i riconoscimenti
internazionali della città-stato. Due anni dopo, nel 1967, Singapore fondò – insieme a
Indonesia, Malesia, Filippine e Tailandia – l’Association of Southeast Asian Nations
(ASEAN) e istituì il servizio militare nazionale obbligatorio. Tutti queste azioni furono
programmate probabilmente per rafforzare la legittimità di Singapore e consolidarne la
presenza internazionale attraverso il riconoscimento esterno.
A livello nazionale, invece, furono adottate riforme drastiche – come ad esempio la
regolamentazione del mercato del lavoro, il programma di pianificazione familiare e
l’obbligo di risparmio utilizzando il Fondo di Previdenza Centrale – che contribuirono,
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
insieme alla generale ripresa dell'economia mondiale degli anni Sessanta, alla crescita
economica di Singapore, che dall’anno della sua indipendenza ha fatto registrare in media
tassi di crescita pari al 9% (Elgin M., 2010).
Figura 4.3.: Crescita economica di Singapore rispetto agli altri Stati limitrofi
Fonte: Elgin M. (2010), «Asian values», in Standford Journal of East Asian Affairs, Vol 10,
Num. 2, pp. 135-145) (http://www.stanford.edu/group/sjeaa/journal102/10-2_12%20SeAElgin.pdf, consultato in data 01/03/2014).
Singapore ha, quindi, registrato tassi di crescita ben più alti rispetto, ad esempio,
all’Indonesia, Tailandia o Vietnam, i cui progressi economici hanno avuto inizio un secondo
momento. Gli altri paesi che confinano con Singapore, infatti, rientrano il quel gruppo di
Stati la cui crescita economica è iniziata intorno agli anni Novanta ed è ancora in itinere.
Ad ogni modo, se si volesse trovare un ulteriore elemento comune ai paesi dell’Asia
Meridionale e Orientale (oltre all’alta densità della popolazione, alla relativa scarsità delle
risorse e all’adozione dei cosiddetti «valori asiatici») questo è sicuramente un sistema
economico fortemente orientato alle esportazioni, decisione politica che si è poi rivelata
vincente. In effetti, un forte orientamento all’esportazioni rappresenta uno dei tratti
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Storia e Istituzioni dell’Asia
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essenziali del modello di sviluppo della regione, che poi si è estesa non soltanto all’export
di beni ma anche di servizi.
Uno dei principali paesi esportatore di servizi è sicuramente l’India, grande gigante
della regione insieme alla Cina, ed entrambi appartenenti al secondo gruppo di Stati che
hanno registrato i primi segnali di forte crescita economica negli anni Novanta. Uno degli
mutamente più interessanti da rilevare riguarda per l’appunto questi due enormi Stati,
acerrimi nemici durante l’intera durata della Guerra Fredda, oggi guidano insieme il G21, il
gruppo di 21 paesi costituito all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio
(OMC) che si contrappone alle economie avanzate (Mazzei F., Volpi V., 2006). La loro
crescita da record, rispettivamente del 9,3% e del 6,9% nel 2011 (OECD, 2013), le ha rese
non soltanto protagoniste indiscusse del sistema economico regionale e mondiale, ma ha
valso loro anche il soprannome di «nuove locomotive dell’economia mondiale» (Mazzei F.,
Volpi V., 2006).
Analogamente a quanto già sperimentato dagli altri paesi sviluppatisi durante gli anni
Cinquanta e Sessanta, anche la Cina in un secondo momento da un lato lasciò ampio spazio
all’iniziativa privata, dall’altro accentrò tutte le politiche nelle saldi mani dello Stato
centrale. Grazie a questa miscela, la Cina è riuscita a mantenere ritmi di crescita annua
elevatissimi (dapprima intorno al 10% e più di recente intorno al 9%) e a inserirsi in un
mercato internazionale da cui era rimasta isolata per decenni, grazie all’ingresso nel 1991
nell’OMC (Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V., 2002). Inoltre, dal 1978 – anno della
salita al poter di Deng Xiaoping – ad oggi la produzione industriale cinese è passata dalla
fabbricazione di prodotti a bassa tecnologia (principalmente abbigliamento) alla
realizzazione di beni ad alto contenuto tecnologico (cellulari, macchine fotografiche,
computer, etc.), destinati principalmente per l’esportazione. Tra il 1978 e il 2003 l’export
della Cina ha registrato un incremento dall’8,8 a 438 miliardi, di cui il 40% era destinato
agli Stati Uniti (Roberts J. A. G., 2013).
Mentre la Cina si è trasformata negli ultimi anni nel centro mondiale dell’industria
manifatturiera, l’India, per quanto meno specializzato, è sicuramente più orientato verso il
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settore terziario. Difatti, in soli trent’anni (dal 1951 al 1980) il settore dei servizi è cresciuto
in media del 4,5%, negli anni Ottanta si è registrata un’accelerazione pari al 6,6% annuo,
negli anni Novanta l’incremento è stato pari al 7,5%, per poi stabilizzarsi su un tasso di
crescita dell’8-9% annuo, contribuendo per oltre il 60% alla variazione del PIL indiano
(Boilot J. J., 2006).
Nonostante i successi registrati nell’area, molti paesi sono stati colpiti negli anni
Novanta da una grave crisi finanziaria, provocando crolli borsistici e pesanti svalutazioni
monetarie. Tutti i principali protagonisti del boom economico sono stati colpiti dalla crisi,
soprattutto i più vulnerabili, come Indonesia e Filippine. La crisi, originata da un eccesso di
produzione e da un’incontrollata euforia speculativa, fu risanata dall’intervento delle
autorità monetarie internazionali. Ciò nonostante, sebbene l’evento e i suoi effetti furono
localizzati geograficamente, si riflesse anche sui paesi occidentali, preoccupati per il destino
dei paesi orientali a causa dei vincoli commerciali e finanziari instaurati con alcuni di essi.
Queste preoccupazioni occidentali se da un lato danno un’idea della forte integrazione
dell’economia mondiale, dall’altro mostrano il crescente ruolo che l’Asia Meridionale e
Orientale sta esercitando sulla scena internazionale (Giardina A., Sabbatucci G., Vidotto V.,
2002).
4.2. Asia tra regionalizzazione e globalizzazione
La crescita economia dell’Asia Meridionale e Orientale negli ultimi cinquant’anni è
stata in alcuni casi così dirompete da aver fatto emergere sulla scena internazionale un
«terzo polo» in competizione con quello nordamericano e quello europeo. Nonostante
l’eterogeneità dei paesi che compongono la regione, è possibile affermare che si sia formato
una nuova triade, un triangolo economico mondiale evoluto, ai cui vertici, oltre USA ed
Europa, ritroviamo la regione dell’Asia Meridionale e Orientale.
Il principale indicatore atto a testimoniare il pur complesso e talora contraddittorio
decollo di questa parte del mondo è la crescita del PIL, che dal 1971 agli inizi degli anni
Novanta è cresciuto di ben oltre la media mondiale, pari mediamente al 7,7% annuo per le
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Quattro tigri asiatiche, i paesi fondatori dell’ASEAN e la Cina (a fronte di un tasso di
crescita medio del 2,9% per il resto del mondo) (Aa. VV., 2004).
Figura 4.4.: Tasso di crescita medio del PIL 1980-2001
Fonte: Aa. Vv., Atlante geopolitico mondiale. Regioni Società Economie Conflitti,
Touring Club Italiano
I fattori che hanno contribuito in maniera sostanziale al decollo economico asiatico sono
stati sicuramente le esportazioni e gli investimenti diretti esteri (IDE), a loro volta supportati
dalla crescente globalizzazione dei sistemi economici mondiali. L’adozione di regimi
economici fortemente orientati alle esportazioni ha accresciuto di molto il livello di apertura
dei mercati asiatici, generando crescenti volumi di scambi commerciali (Aa. VV., 2004).
Dalla metà degli anni Ottanta gli scambi commerciali transpacifici, ovvero quelli che
intercorrono tra la parte del globo asiatica e quella americana, hanno superato in termini di
volume e valore gli scambi transatlantici (ovvero il commercio che avviene attraverso
l’Oceano Atlantico) che, invece, sono stati predominanti per quattro secoli. Questo
mutamento commerciale ha, di fatto, spostato il centro di gravità economico del pianeta dal
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
«mondo antico» europeo all’«altro mondo» asiatico, specialmente grazie allo straordinario
progresso prima del Giappone e, successivamente, delle Quattro Tigri Asiatiche, Cina e
India (Mazzei F., Volpi V., 2006).
Ma la globalizzazione non ha significato solamente l’apertura verso il mercato globale,
ma anche l’assorbimento di sempre più aggiornate tecnologie dell’informazione, della
comunicazione e del trasporto che hanno favorito una crescita più rapida. L’acquisizione di
questo capitale di conoscenze ha fatto aumentare la divisione internazionale del lavoro, in
un mercato in cui competenze e conoscenze rappresentano il reale vantaggio competitivo. In
tal senso, molti dei governi asiatici hanno compiuto ingenti investimenti per aumentare il
livello di scolarizzazione della popolazione, e quindi per rendere maggiormente competitivo
il proprio capitale umano (si pensi, ad esempio, a Singapore, Taiwan, Hong Kong, Cina e
India).
La straordinaria crescita di molti paesi dell’Asia Meridionale e Orientale non ha però
interessato tutti gli Stati della regione, che, a causa di instabilità politiche e sociale e/o per la
mancanza di capitali, stentano a decollare, come nel caso del Laos o del Myanmar.
Dall’analisi della distribuzione del PIL pro-capite è possibile osservare come le differenze
in alcuni casi siano veramente sostanziali: mentre in alcuni paesi della regione la maggior
parte della popolazione è riuscita ad uscire da uno stato di indigenza, in altri Stati molte
sono ancora le persone che vivono sotto la soglia di povertà, così come quantificata dalle
Nazioni Unite (secondo cui le persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno vivono
in un’estrema condizione di povertà) (Aa. VV, 2004).
Secondo i dati della World Bank, in Bangladesh più del 40% della popolazione vive
ancora in uno stato di indigenza, in India più del 30% della popolazione vive con 1,25
dollari al giorno, in Indonesia le persone che vivono al di sotto della soglia della povertà
sono il 16% della popolazione totale(World Bank, 2014).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
Figura 4.5.: Prodotto Interno Lordo Pro Capite 2009
Fonte: Chartsbin (2014), GDP Per Capita (Current US$) in 2009
(http://chartsbin.com/view/19931, consultato in data 17/02/2014)
Le profonde trasformazioni politiche ed economiche che stavano attraversando la
regione portarono alla nascita di diverse associazioni regionale, tra cui le principali
l’ASEAN (Association of SouthEast Asian Nations), L’APEC (Asia-Pacific Economic
Cooperation) e la SAARC (South Asia Association of Regional Cooperation).
L’ASEAN nacque nel 1967, quando Indonesia, Malaysia, Thailandia, Filippine e
Singapore, mosse da un desiderio di stabilizzazione regionale, fondarono l’associazione con
l’obiettivo ufficiale di mantenere la sicurezza e il sistema delle relazioni internazionali
nell’area, ma ufficiosamente lo scopo era quello di arginare l’espansione del comunismo in
Indocina. Con la fine della Guerra Fredda l’ASEAN, mantenne la propria volontà di
migliorare l’integrazione commerciale fra i paesi membri e, al contempo, mutò i propri
obiettivi (informali): limitare la dominazione (economica e culturale) delle potenze straniere
e isolare la regione dagli effetti del post-Guerra Fredda. In altre parole, dopo un’iniziale
difesa dalla minaccia comunista, l’associazione si concentrò sempre più su una reale e
indipendente crescita economica, attraverso una maggiore cooperazione economica tra i
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paesi membri, tanto da allargarsi fino ad includere Brunei, Vietnam, Myanmar, Laos e
Cambogia.
Una fase importante nell’evoluzione dell’ASEAN si ebbe con il ritiro delle forze armate
statunitensi dal Vietnam nel 1975. Successivamente a questa data, fu eliminata qualsiasi
velleità militare tra gli scopi dell’associazione, sebbene l’ASEAN tentò sempre di svolgere
un ruolo di mediatore diplomatico, soprattutto quando le parti coinvolte erano suoi stessi
Stati membri, come avvenne nel 1979 con l’invasione e occupazione vietnamita della
Cambogia. Diversamente dal processo di integrazione economica della Comunità
Economica Europea (CEE), l’ASEAN creò un nuovo tipo di regionalismo, anche conosciuto
come l’«ASEAN way», fondato sull’informalità tra le parti, l’eliminazione di tutti i
procedimenti di legalizzazione e di accentramento burocratico ritenuti eccessi e il consenso
di tutti i membri. Pertanto, consenso, volontarismo e non interferenza negli affari interni dei
paesi membri hanno rappresentato i segni distintivi dell’ASEAN.
All’interno dell’ASEAN, difatti, ogni decisione è presa all’unanimità e, coerentemente
con gli scopi dell’associazione, perdura il principio di non interferenza nella politica interna
di ciascun Stato membro (diversamente di quanto si verifica, ad esempio, nell’Unione
Europea). Queste caratteristiche hanno permesso di mantenere intatta e forte l’associazione
durante il periodo di forte crescita, ma rischia di comprometterne l’efficacia qualora dovesse
verificarsi un periodo di affanno economico.
Uno dei principali meriti dell’associazione, oltre alla migliorata integrazione
economico-commerciale tra le parti, è stata quella di aver fornito un senso di identità e uno
scopo comune agli Stati del Sud-est asiatico. Ha quindi supportato la nascita di un’identità
regionale, che si è poi diffusa nel Nord-est asiatico e più in generale nell’Asia orientale,
facendo diventare questa parte del continente asiatico un’area istituzionalizzata e facilmente
riconoscibile nel contesto regionale e internazionale (Aa. Vv., 2004).
E in tal senso si spiega anche il progetto dell’ASEAN, nel senso di una maggiore
integrazione economico-commerciale e una crescente identità regionale, che mira alla
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realizzazione di un’area di libero scambio l’AFTA (ASEAN Free Trade Area). Stabilita nel
1992, l’AFTA ha raggiunto nel 2010 l’eliminazione del 99% delle barriere doganali tra i sei
Stati fondatori (ASEAN-6), mentre l’obiettivo per il 2015 è la libera e completa circolazione
di beni tra tutti i paesi membri dell’associazione. Questa distinzione tra paesi fondatori
(ASEAN-6) e i restati membri si basa sulla necessità di tener conto di alcune profonde
differenze tra gli Stati dell’ASEAN: al suo interno, infatti, vi sono paesi tra loro molto
disomogenei in termini di dimensione, ricchezza e sviluppo dell’economia e del sistema
d’istruzione.
Altro importante forum di cooperazione, risultato dall’evoluzione e dalla forte crescita
del regionalismo nell’area, è l’ASEAN+3, nato nel 1997 e composto dai paesi dell’ASEAN,
Cina, Corea del Sud e Giappone allo scopo di rafforzare la cooperazione tra i suoi membri.
In tal senso, sono stati firmati diversi accordi (anche con l’India) tra il 2003 e il 2009, che
fissano le condizioni e la tempistica entro i quali dovrebbero costituirsi delle aree di
scambio privilegiate, in alcuni casi addirittura di libero scambio, tra l’area ASEAN e il
singolo Stato. In altre parole, trattasi di accordi per una più facile circolazione di beni,
servizi e investimenti bidirezionali tra i paesi dell’ASEAN e la Cina, il Giappone, la Corea
del Sud e l’India (ASEAN Secretariat, 2013).
Un’ulteriore organizzazione regionale rilevante sia per il ruolo svolto nell’area che per
la varietà dei suoi membri è l’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), che riunisce i
paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Nata nel 1989, sula scia degli ingenti flussi di
investimenti che legavano l’America Settentrionale all’Asia, l’APEC era inizialmente un
semplice forum di consultazione che avrebbe dovuto essere di supporto al ruolo centrale che
avrebbe svolto l’Australia. Contrariamente da quanto previsto in origine, gli Stati Uniti –
che sin da subito compresero il grande potenziale dell’organizzazione – promossero, grazie
all’allora Presidente Clinton, la rapida trasformazione dell’APEC da forum consultivo ad
associazione regionale con una struttura istituzionale. La svolta si ebbe nel 1993, quando i
capi degli Stati membri collaborarono per la conclusione delle negoziazioni dell’Uruguay
Round, il cui risultato fu l’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio
(OMC). Attualmente gli Stati membri dell’APEC sono ventuno: Australia, Brunei, Canada,
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Storia e Istituzioni dell’Asia
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Cile, Cina, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Malaysia, Messico, Nuova
Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù, Filippine, Russia, Singapore, Taiwan, Thailandia, Stati
Uniti e Vietnam.
Il principio ispiratore dell’APEC è l’open regionalism: ciò significa regionalismo
aperto, dove – diversamente da quanto accade nelle altre associazioni regionali – gli accordi
commerciali determinati dall’associazione non sono rivolti esclusivamente ai soli Stati
membri, ma possono essere applicati anche a paesi terzi.
Questa nuova forma di
associazionismo su scala regionale riflette il tentativo di coniugare l’integrazione regionale
con la globalizzazione. Tuttavia, il rigoroso rispetto del principio di non interferenza negli
affari interni degli Stati membri, ha provocato un lento sviluppo dell’APEC e
dell’integrazione economica della regione, che è ancora largamente dipendente dalle
politiche attuate da alcuni paesi come Cina, Giappone e Stati Uniti.
Rimane comunque forte il desiderio per la creazione di organizzazione regionali volte a
coordinare le politiche commerciali o, nel caso di shock esterni, per predisporre le
necessarie politiche economiche e gli aiuti essenziali.
In tal senso si inserisce anche la creazione dell’ASEM (Asia Europe Meeting), di cui
fano parte la Commissione Europea, il 28 paesi membri dell’Unione Europea e i membri
dell’ASEAN. Nato a Bangkok nel 1996, in occasione del primo vertice dei capi di Stato
degli attuali membri dell’ASEM, esso rappresenta un foro di consultazione e dialogo in
materia economica, politica e culturale. Dal momento della sua costituzione, il foro si è
riunito con cadenza biennale.
Infine, per quel che riguarda l’integrazione regionale nell’Asia Meridionale, la sua
principale associazione regionale è la SAARC (South Asia Association for Regional
Cooperation) nata nel 1985 da India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, Buthan, Nepal e
Maldive. Attualmente uno delle principali debolezze dell’organizzazione è il processo
decisionale fortemente rallentato, e in alcuni casi bloccato, dal diritto di veto riconosciuto
per ogni suo membro. Previsto originariamente per preservare il peso decisionale anche per
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i paesi meno influenti (ad esempio dal punto di vista economico e/o demografico), è
diventato poi uno strumento che limita un effettivo e veloce funzionamento
dell’organizzazione, a causa di irrisolte questioni politiche esistenti tra gli Stati membri.
Pertanto, fino a quando queste dispute non saranno risolte – si pensi all’annosa questione tra
India e Pakistan per il controllo del Kashmir - la SAARC non sarà capace di raggiungere
una maggiore integrazione tra i paesi dell’Asia Meridionale (Aa. Vv., 2004).
4.3. Nuovi rapporti internazionali
È questo il secolo asiatico? La risposta è decisamente si. Le economie emergenti del
continente asiatico hanno registrato una notevole crescita economica e, nonostante la crisi
globale, il loro progresso non è stato arrestato. In altre parole, nonostante le difficoltà
economiche si siano estese a tutte le economie dell’Asia Orientale, di recente si è assistito
ad un progressivo dislocamento del centro dell’economia mondiale dall’Atlantico al
Pacifico settentrionale (il formidabile «commonwealth elettronico e telematico» che collega
la California a Tokyo via Hong Kong-Singapore-Seul) sta determinando nuovi rapporti non
soltanto economici ma anche politici.
Negli ultimi anni, mentre ancora molti occidentali consideravano la Cina soltanto come
la patria della contraffazione, il paese è riuscito a superare Gran Bretagna, Italia e Francia
nella classifica delle nazioni più industrializzate. Contemporaneamente, ha scavalcato gli
Stati Uniti come prima esportatrice mondiale di prodotti tecnologici, dai telefonini ai
computer. Inoltre, la Cina ha un’elevata riserva valutaria tanto da farla diventare il vero
banchiere degli americani.
L’«altro» miracolo asiatico è l’India, la cui crescita è iniziata con le riforme in ambito
energetico del 1991 e da allora le dimensioni dell’economia indiana sono più che
raddoppiate. L’India, infatti, non rappresenta un temibile concorrente nel settore della
produzione manifatturiera, al contrario, il paese si distingue per un grande mercato in
espansione per tutti i servizi e i beni di consumo. Solo a titolo esemplificativo, dal 1996 il
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numero di viaggiatori sulle sue compagnie aeree si è sestuplicato, le vendite di auto sono
raddoppiate e il settore della telefonia è aumentato esponenzialmente.
Dietro i grandi giganti ci sono le altre economie emergenti asiatiche, che in passato
hanno trainato e oggi sono stimolate da queste due locomotive (Cina e India). Le nazioni più
ricche – Taiwan, Giappone, Sud Corea e Singapore – hanno appreso i sistemi di produzione
cinesi e indiani e le stanno utilizzando per rimanere competitive nel sistema economico
mondiale. Allo stesso tempo, paesi come Indonesia, Filippine e Malaysia sono importanti
interlocutori nella fornitura di energia, materie prime e manodopera. Gli ex paesi della
penisola Indocinese – Vietnam, Thailandia e Cambogia – ruotano intorno ai due colossi,
studiando e copiando i modelli di crescita economia di Pechino e New Delhi.
Uno studio della Bank of Korea prevede che fra trent’anni il 42% del PIL mondiale sarà
dell’Asia, il 23% degli Stati Uniti e il 16% dell’Europa. Lo stesso Henry Kissinger, l’ex
segretario di Stato americano, ha affermato che nel XXI secolo l’Asia sarà il centro del
mondo, mentre l’America e l’Europa saranno relegate nella periferia del sistema mondiale.
A ben pensare, ci sarà un ritorno al passato, e più precisamente al Settecento, quando
nell’area si concentrava più della metà della ricchezza mondiale (solo la Cina e India
detenevano rispettivamente il 33% e il 16%). Riemerge dopo una parentesi di decadenza, un
universo che ha un passato di 5.000 anni, composto da Stati che hanno primeggiato nella
scienza e nella tecnologia, dove sono nate grandi religioni e importanti filosofie laiche
(Rampini F., 2006).
Oggi, sebbene permangano profonde differenze tra i paesi dell’area, l’Asia Meridionale
e Orientale diventa la nuova punta nel triangolo geopolitico. Nell’ambito di questo nuovo
dispositivo si stanno sviluppando rapporti fortemente asimmetrici tra loro. Asimmetrico è il
rapporto tra Stati Uniti e Giappone, caratterizzato da forti frizioni commerciali, contrasti
politici e diversità geostrategiche. In termini più generali, le autorità statunitensi non hanno
mai visto di buon occhio che il loro principale concorrente economico diventasse anche un
antagonista politico. Così si spiega l’opposizione americana alla proposta giapponese di
17
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
creare un «Fondo Monetario Asiatico» per contrastare la crisi scoppiata nel 1997 in
Thailandia e poi estesasi a tutti i paesi dell’Estremo Oriente.
Tuttavia, con l’affermarsi della Cina sulla scena internazionale si è modificato anche il
sistema delle relazioni tra Tokyo e Washington: entrambi i governi si sono mossi
velocemente per riaffermare il «rapporto speciale» esistente tra i due paesi. Le ragioni che
hanno spinto a rinsaldare quest’alleanza sono ben chiare: il Giappone ha ancora bisogno
della presenza statunitense nella regione considerate le tensioni che ancora permangono nel
continente (basti pensare ai contenzioni territoriali nel Mar della Cina meridionale e il
problema di Taiwan) e tenuto conto che lo Stato nipponico non ha ancora sviluppato una
visione strategia regionale; dal canto suo, l’amministrazione statunitense necessita del
Giappone per mantenere forte la propria supremazia di fronte al crescente potere di alcuni
paesi dell’area, in primis Cina e India.
La Cina, infatti, sta sviluppando una «nuova centralità» nella regione, non più soltanto
economica, ma anche geopolitica, grazie ad una minore rigidità dei dogmi ideologici del
passato e adottando una nuova diplomazia, soprattutto dopo l’11 settembre – definita da
alcuni studiosi «neobismarckiana» - che mira innanzitutto a garantirsi la sicurezza e in
secondo luogo ad affermarsi come grande potenza, senza però provocare la potenza
statunitense né tanto meno allarmare i propri vicini. In questo modo, l’azione della dirigenza
cinese sta diventando più incisiva nell’arena internazionale, come riscontrabile dall’azione
che Pechino svolge a livello diplomatico in Africa e nell’America Centrale e Meridionale,
dove si mescolano interessi economici (in relazione soprattutto alle risorse energetiche) e
mire strategiche.
L’obiettivo finale della strategia di Pechino non è tanto una lotta contro l’egemonia
politica ed economica americana (come affermato dai sostenitori della teoria della
«minaccia cinese»), bensì una transizione pacifica e graduale dall’attuale unipolarismo
complesso verso una forma più equilibrata di multipolarismo, ovvero in un sistema di
equilibro dei poteri (balance of powers) dove gli Stati Uniti potrebbero svolgere il ruolo
fondamentale di «equilibratori».
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
Per quel che concerne l’India, la sua politica estera è composta da tendenze
nazionalistiche, volontà di mantenere aperti i rapporti con le diverse controparti
internazionali e dalle necessità che il sistema economico e il suo progresso presentano. In tal
senso, considerato il crescente bisogno di energia le autorità di New Delhi hanno teso a
mantenere buoni rapporti con le nazioni del Medio Oriente.
Inoltre, nell’ottica di uscire da un eccessivo isolazionismo, l’India sta virando molte
delle sue scelte politiche verso il polo confuciano. Il 1991 non rappresenta per l’India solo
l’anno della svolta liberista, ma anche l’adozione di una politica fortemente rivolta all’Asia
Orientale, che si è concretizzata con una serie di iniziative: nel 1995 vi è stato il partenariato
con l’ASEAN e l’anno successivo l’adesione al suo forum (ASEAN+3); nel 1997 ha
appoggiato forme di cooperazione transregionale come la BIMST-EC (Cooperazione
economica tra Bangladesh, India, Myanmar, Sri Lanka e Thailandia, a cui si sono poi
aggiunti Nepale e Bhutan); nel 1999 partecipò all’Iniziativa Kunming lanciata dalla
provincia cinese dello Yunnan per la creazione di sinergie economiche, che interessa il
Bangladesh, la Cina, l’India e il Myanmar.
Questa stessa nuova politica indiana ha portato anche a consolidare i rapporti economici
con il Giappone e con le «tigri asiatiche» e ad approcciare una cooperazione militare con i
paesi del Sud-est asiatico, come il Vietnam e la Thailandia, la Malaysia e l’Indonesia.
Infine, per quel che concerne i rapporti con la Cina, questi si sono distinti per una volontà da
entrambe le parti di superare in una prospettiva «politica» (nel senso di non ostilità) le
vecchie tensioni territoriali e, più in generale, adottare una politica win-win (entrambi
vincitori) attraverso la realizzazione di misure di mutua fiducia sia in campo economico che
militare.
19
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 4° - Il secolo asiatico
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20
Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
SOMMARIO MODULO 5°
L’Occidente a Oriente: il Giappone
5.1. Il particolarismo nipponico
5.2. Il Giappone tra le due Guerre Mondiali
5.3. Il Giappone contemporaneo
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
5.1. Il particolarismo nipponico
Posto all’estremità dell’Eurasia, ma separato dai territori continentali da una striscia di
mare (lo stretto di Tsushima), il Giappone si compone di quattro grandi isole Honshū,
Hokkaidō, Kyūshū e Shikoku, più una miriade di isolette minori, che insieme rappresentano
il 98% dell’arcipelago giapponese.
La sua popolazione, maggiore ai 127 milioni di abitanti nel 2012, può considerarsi
omogenea sia sotto il profilo etnico che linguistico. Gli unici gruppi etnici che si
distinguono sono gli Ainu e gli abitanti delle isole Ryukyu. I primi discendono dalla
popolazione più antica del Giappone, nello specifico dell’epoca Jamon, e nel corso dei
secoli sono stati spinti via via sull’isola di Hokkaidō, dove attualmente hanno raggiunto una
popolazione pari ad una decina di migliaia di persone. Considerati per lungo tempo come
«barbari», gli Ainu stanno attraversando un processo di assimilazione, anche perché il loro
esiguo numero non gli permette di ottenere lo status di «popolo autoctono», che alcuni
richiedono.
Gli abitanti delle isole Ryukyu rientrano fondamentalmente sotto la prefettura di
Okinawa. Inizialmente, i Ryukyu erano un regno tributario sia della Cina che del Giappone,
fino a che quest’ultimo non decise di annetterlo nel 1872. Sebbene in seguito la propria
appartenenza al Giappone non sia mai stata messa in dubbio, la popolazione dei Ryukyu
difende con particolare vigore il proprio particolarismo culturale (Sellier J., 2010).
Il particolarismo in Giappone è sempre stato molto forte, a parte alcuni brevi ma
significativi periodi in cui vi è stata una tendenza verso l’universalismo: si pensi al periodo
antico in cui vi è stato un avvicinamento all’universalismo cinese o al più recente periodo di
occidentalizzazione (caratterizzata da un’influenza europea prima e americana poi). Dalle
origini fino al VII secolo, l’arcipelago si era distinto per i forti flussi migratori e per gli
apporti culturali dei suoi vicini continentali, soprattutto della Cina, che avvenivano per lo
più tramite la penisola coreana.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
A ben vedere sin dall’antichità il Giappone ha plasmato la propria struttura
organizzativa basandosi sui modelli stranieri dominanti a seconda del periodo storico preso
in esame. Sicuramente il primo non poteva che essere quello cinese da cui il Giappone ha
importato gradualmente la scrittura, il buddhismo, il confucianesimo e le istituzioni
politiche ed agrarie.
L’influenza del modello cinese durò per lungo tempo fino al periodo premoderno (pre
Meiji), per poi passare all’adozione del sistema della Gran Bretagna imperialista (alleanza
del 1902), a quello della Germania nella fase del militarismo degli anni Trenta del XX
secolo e, infine, all’assimilazione del modello degli Stati Uniti, super potenza mondiale a
partire dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il particolarismo del Giappone sta però nella capacità di saper selezionare e adattare gli
elementi utili al proprio sistema paese per poi scartare quelli non adattabili. Così è stato nel
caso del principio del «mandato celeste» del sovrano cinese, secondo il quale il sovrano era
legittimato a governare sul popolo in base all’eticità del proprio comportamento, ma in caso
di condotta indegna questi poteva essere revocato dallo stesso popolo. Contrariamente alla
Cina, il Giappone non adottò mai interamente questo principio. Al contrario il sovrano
nipponico, il Tennō, regna ma non governa, ciò significa che il potere di governare è
delegato ad altri: ad esempio i «partiti dei popoli» nel periodo pre-bellico, l’esercito durante
gli anni Trenta o i rappresenti eletti democraticamente dal popolo.
Tuttavia, una volta che il modello è considerato non più utilizzabile o superato, questo
viene abbandonato. In effetti, dopo l’iniziale e rapida fase di sinizzazione, nel X secolo fu
ripudiato il sistema cinese e fiorì la cultura e l’epoca di Heian (794 – 1185) (Mazzei F.,
Volpi V., 2006) caratterizzata da un’estrema raffinatezza, in special modo, sotto il profilo
artistico e letterario, ma anche da una graduale perdita di potere degli imperatori.
In questo periodo, infatti, si rileva una diminuzione del potere effettivo dei sovrani
dovuta essenzialmente a due ragione: da un lato, diminuì l’influenza culturale cinese,
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
dall’altro si verificò uno scarto tra il potere nominale, detenuto dai principi a corte, e il
potere reale, esercitato da altri membri delle grandi famiglie reali o dalla nobiltà locale. I
nobili provinciali erano particolarmente potenti, possedevano, infatti, proprie milizie armate
composte da bushi («servitori») o samurai («guerrieri»), e grazie a diverse alleanze
concluse alle spalle dei sovrani divennero man mano sempre più potenti ma anche instabili.
Diversi furono i conflitti tra membri, a volte dello stesso clan, per la conquista del controllo
della corte, come avvenne tra i Taira e i Minimato, che condussero all’alternanza di diverse
famiglie al potere ed anche a diverse epoche.
In effetti, nel corso dei secoli si sono succedute diverse epoche, come ad esempio quella
Kamakura, che prende il nome dalla sede del capo dei Minimato (clan al potere al tempo),
famosa perché fece riconoscere al sovrano giapponese il titolo di shogun, che sta a
significare «grande generale che sottomette i barbari» (e indicava tradizionalmente i
generali che affrontavano gli Ainu), e per essere riusciti a salvarsi dagli attacchi mongoli,
nonostante la superiorità militare di questi ultimi, grazie a calamità naturali del tutto casuali.
Il termine kamikaze fu coniato proprio in questo periodo, perché i Giapponesi, convinti che
gli dei li abbiano voluti proteggere dall’invasione mongola, nominarono il tifone che li
salvò kamikaze, ovvero «vento divino».
Una delle epoche più importanti nella storia del Giappone è sicuramente quella di
Tokugawa, soprattutto per gli importanti cambiamenti imposti sulla società nipponica.
Durata dal 1600 al 1868, la dinastia nasce con il suo fondatore Tokugawa Ieyasu che dopo
una serie di lotte intestine tra i nobili provinciali riuscì a imporsi e a ottenere dall’imperatore
il titolo di shogun nel 1603.
Tra le profonde modifiche apportate in questo periodo vi è sicuramente la
regolamentazione della società, ottenuta attraverso l’adozione forzata di regole molto
precise concernenti anche la vita quotidiana. I componenti della dinastia Tokugawa erano
infatti convinti che l’unico modo per poter mantenere ordine e controllo sul paese fosse
l’imposizione alla società di stabilità e conformismo.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
A tal fine, la società fu divisa in quattro classi – i nobili erano al di fuori di questa
categorizzazione – composta, in ordine decrescente di status, da: samurai (guerrieri);
contadini; artigiani e commercianti. Al gradino più basso vi erano gli eta (impuri) e gli hinin
(venditori ambulanti, attori, etc.). Lo shogun, inoltre, esercitava ormai un potere quasi
assoluto – mentre l’autorità imperiale era una pura formalità – come dimostrato sia dai
possedimenti e dalle ricchezza accumulate, sia dal controllo e dall’influenza usata sui
signori (daimyo): oltre a possedere il 25% delle terre coltivate, le principali città, porti e
miniere; i restanti territori erano ripartiti tra i daimyo che però avevano l’obbligo di
amministrarli coerentemente con le direttive dello shogun. A ciò si aggiunga che i loro
spostamenti e, più in generale, quello dell’intera popolazione erano severamente controllati.
L’epoca Tokugawa si distingue quindi per il rigore e l’isolamento del Giappone non
soltanto sotto il profilo culturale ma anche economico. I commercianti europei – arrivati con
i portoghesi nel 1543 – furono cacciati dal paese, ad eccezion fatta degli Olandesi a cui fu
concesso di proseguire le attività commerciali unicamente nel porto di Nagasaki. Anche ai
Coreani e ai Cinesi fu accordato il permesso di continuare le relazioni commerciali con il
Giappone. La chiusura del paese interessò, poi, l’intera popolazione nazionale: dopo il 1630,
ai residenti fu vietato di lasciare lo Stato, mentre ai connazionali che in quel momento erano
impiegati in ambito commerciale nel Sud est asiatico fu proibito di rientrare.
L’isolamento geografico del Giappone aveva contribuito alla formazione e alla crescita
di un forte sentimento d’individualità etnica e culturale, ed un robusto sviluppo economico
favorito da un prolungato periodo di pace civile. I contadini, nonostante le carestie e le
imposte elevate, ebbero un miglioramento dei propri livelli di vita, grazie soprattutto
all’incremento dei rendimenti agricoli. L’alfabetizzazione si diffuse anche nelle società
rurali, per iniziativa dei monaci buddhisti o dei samurai. Le attività manifatturiere furono
caratterizzate da un progressivo sviluppo e la classe mercantile (disprezzata dallo
shogunato) poté arricchirsi, al punto da minacciare un’aristocrazia altamente indebitata
(Sellier J., 2010).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
L’isolamento del Giappone fu interrotto bruscamente quando nell’estate del 1853 le
navi della marina americana gettarono le ancore nella baia di Edo (Tokyo), fornendo
un’esibizione di forza navale alla quale difficilmente il Giappone avrebbe potuto opporsi.
La sottoscrizione dei primi trattati imposti dagli Stati Uniti nel 1854 aprì modeste attività
commerciali tra i due paesi, a quali seguirono analoghi trattati firmati con Inglesi, Olandesi
e Russi. I «Trattati con le cinque nazioni» (1858) furono siglati dall’autorità shogunale
nonostante il parere contrario dei daimyo e della corte.
Nei dieci anni che seguirono, in ogni classe sociale si manifestarono le più varie
reazioni, alcune delle quali condurranno a un radicale cambiamento politico, alla caduta del
governo Tokugawa e alla restaurazione imperiale. L’apertura agli Occidentali si rivelò ben
presto la causa scatenante che portò al limite le tensioni che già negli ultimi anni avevano
minato il sistema Tokugawa e indotto parte dei daimyo più irrequieti e indipendenti a
considerare apertamente l’ipotesi di un mutamento dell’ordine costituito.
L’alto livello dell’istruzione pubblica, estesa a tutte le classi sociali, la pragmatica
curiosità verso ogni settore delle scienze occidentali – così disprezzate dall’impero cinese –
gli elevati traguardi raggiunti dall’espansione economica sono alcuni degli elementi che
permisero al Giappone di comprendere il significato della sfida lanciatagli dall’Occidente.
Tutto ciò aveva, infatti, fatto affiorare da tempo stimoli critici nei confronti di una struttura
politica feudale ormai erosa e superata. Le riforme intraprese negli ultimi anni dallo shogun
si rivelarono tardive e insufficienti rispetto alle nuove esigenze statali.
Nel 1868, non senza disordini e qualche resistenza, fu proclamata la «restaurazione
imperiale», il giovane Mutsuhito, succeduto appena quattordicenne al padre, divenne
imperatore del periodo Meiji, o «Governo illuminato», come i Giapponesi chiamano il
nuovo regno.
Se la caduta del secolare regime Tokugawa avvenne in modo relativamente semplice,
non fu altrettanto facile l’avvio del nuovo governo. I capi che avevano guidato la rivolta, per
la maggior parte molto giovani e ambiziosi, non avevano nessuna esperienza governativa.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Tentativi ed errori costellarono le loro prime azioni, ma la decisione, nel settembre del
1868, di ribattezzare Edo con il nome di Tokyo, ovvero «capitale orientale», e di trasferirvi
l’imperatore rappresentò – più che un’azione simbolica – un programma di centralizzazione
del governo al potere.
Dal 1871 furono adottate importanti azioni di modernizzazione ed emancipazione civile,
come l’abolizione di molti limiti imposti alla libertà di movimento e commercio,
l’annullamento delle distinzioni di classe e la revisione dell’imposta fondiaria (Corna
Pellegrini G.,1982). Le autorità nipponiche fecero, inoltre, larghi investimenti in capitale
umano, ricorrendo a numerosi stranieri – soprattutto in ambito tecnico o per insegnare
all’università di Tokyo fondata nel 1877 – e inviando consistenti missioni di studio
all’estero.
Con un dinamismo di cui si hanno pochi altri esempi al mondo, i Giapponesi si
dotarono di un ordinamento politico stabile, crearono un moderno sistema di comunicazioni
e di trasporti, istituirono nuovi ordinamenti educativi, giuridici, bancari e fiscali. Il settore
industriale beneficiò di abbondante capitale umano qualificato e disciplinato, ma doveva
comunque fare ricorso a tecnologie importate. Gli inizi furono quindi difficili dal punto di
vista dei finanziamenti, il che spinse, attorno al 1880, il governo a vendere a imprenditori
privati molte delle sue imprese industriali. Anziché farsi concorrenza tra loro, queste
famiglie di imprenditori concentrarono le loro attività in pochi ma giganteschi aggregati
societari, dando vita ai primi zaibatsu, che dominarono l’economia giapponese
successivamente. Lo Stato continuò però a mantenere il controllo sulle attività industriali
belliche, per ovvi motivi strategici, e sui servizi pubblici fondamentali (Sellier J., 2010).
L’espansione economica giapponese avanzò fino alla vigilia della Prima Guerra
Mondiale. Le guerre stimolarono fortemente molti settori industriali, dando un’accelerata
all’economia già molto potente. La guerra del 1894-95 con la Cina per il controllo della
Corea, e quella del 1905 con la Russia per il controllo della Manciuria, terminarono con la
vittoria del Giappone, assicurandogli il riconoscimento quale grande potenza a livello
internazionale e notevoli vantaggi territoriali: Taiwan, le isole Pescadores, il Liaodong
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
compreso Port Arthur, la metà meridionale dell’isola di Sahalin, la Manciuria e la Corea,
annessa quest’ultima definitamente nel 1910.
Figura 5.1.: L’espansione giapponese 1868-1922
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
L’epoca Meiji terminò con la morte dell’imperatore Mutsuhito, succeduto dal figlio il
quale diede inizio all’epoca Taisho, «grande giustizia». Pochi anni dopo la fine del periodo
Meiji, alla fine della Prima Guerra Mondiale, a cui aveva partecipato marginalmente in
qualità di alleato dell’Inghilterra, il Giappone si ritrova a sedere alla conferenza di
Versailles alla pari delle altre potenze occidentali vincitrici (Corna Pellegrini G.,1982).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
5.2. Il Giappone tra le due Guerre Mondiali
A Guerra Mondiale già scoppiata, molte potenze minori e non ancora coinvolte,
temendo di dover subire un nuovo assetto internazionale e, in alcuni casi spinte da progetti
di espansione territoriale decisero di entrare in guerra. Il Giappone, richiamandosi al trattato
del 1902 che lo legava alla Gran Bretagna, dichiarò guerra alla Germania, così da poter
impadronirsi anche dei possedimenti tedeschi in Estremo Oriente (Giardina. A, Sabbatucci
G., Vidotto V., 2002).
Le autorità giapponesi, però, chiarirono sin da subito che il paese si sarebbe battuto
unicamente in Estremo Oriente, in altre parole che avrebbe perseguito le proprie mire
espansionistiche nella regione. In tal senso, nel 1915 inviò le cosiddette «ventuno richieste»
atte a porre sotto controllo giapponese la Cina, la quale, nel tentativo di difendere i propri
possedimenti, chiese il supporto degli Alleati, che non poterono intervenire. Pechino fu
quindi costretto ad accettare le richieste del governo giapponese, sebbene alleggerite.
L’avanzata giapponese però non terminò qui. Nel 1918, grazie alla spedizione alleata nel
nord della Manciuria e nell’est della Siberia contro le forze bolsceviche, i Giapponesi
riuscirono a stabilire la proprie influenza anche in questi territori. Il controllo della
Manciuria divenne effettivo solo nel 1932.
Uscita vincitrice dalla Prima Guerra Mondiale, il Giappone partecipò alla Conferenza di
Pace a Versailles nel 1919, dove ottenne un mandato sugli arcipelaghi del Pacifico, ma non
riuscì nel proprio intento di accaparrarsi tutti i domini tedeschi, in quanto la Cina si oppose
al controllo giapponese sugli ex possedimenti tedeschi dello Shandong. In quest’occasione
la Cina fu appoggiata dalla nuova superpotenza del momento gli Stati Uniti, che nel 19211922, su iniziativa del Presidente americano Harding, tennero a Washington una conferenza
per trattare degli armamenti navali e dell’Estremo Oriente: in questa circostanza furono gli
Stati Uniti a far pressione sul Giappone affinché rinunciasse allo Shandong e a far evacuare
i territori settentrionali della Manciuria.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale garantì, quindi, al Giappone di
rafforzare, con un costo militare relativamente esiguo, la sua posizione a livello regionale e
internazionale ed anche a fortificare il suo sistema economico, potendo accedere a nuovi
mercati non più raggiungibili dalle potenze europee impegnate nel conflitto. Il dinamismo
dell’economia – dovuto in buona parte agli zaibatsu – la forte crescita demografica (si
calcola che fra l’inizio del 1900 e il 1930 la popolazione aumentò da 44 a 65 milioni), la
struttura della classe dirigente, fondata sull’unione fra grande industrie, proprietà terriera e
alti gradi militari, spinsero il Giappone verso una politica imperialistica in un campo
d’azione che comprendeva il Pacifico e l’intera Asia Orientale.
Durante i primi dieci anni dopo la fine della Guerra, queste spinte imperialistiche si
conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale di tipo liberale, con lo sviluppo di
una vivace cultura politica, e con la crescita, sebbene contrastata, di partiti e sindacati
operai. Tuttavia, già negli anni Venti nacquero i primi movimenti autoritari di destra, in
parte ispirati al modello dei fascismi occidentali, in parte impregnati di cultura
tradizionalista, come la difesa delle antiche strutture sociali e familiari, il culto
dell’imperatore come suprema autorità politica e religiosa. Questi movimenti furono favoriti
da un lato dalle conseguenze della grande crisi, dall’altro dalle preoccupazioni nate in seno
alla classe dirigente in seguito alla crescita dei movimenti di sinistra nelle prime elezioni a
suffragio universale tenutesi nel 1928.
Ebbe inizio in Giappone un periodo di crescente autoritarismo, in concomitanza con
quanto stava già accadendo in molti Stati europei. Quest’autoritarismo non si manifestò,
almeno all’inizio, in forme esplicitamente fasciste ma comportò comunque la chiusura di
ogni margine di manovra per l’opposizione, una dura repressione antioperaia e l’esercizio
effettivo del potere da parte dei generali e degli esponenti degli zaibatsu, suffragati
dall’imperatore. Furono, infatti, queste forze a gestire la politica imperialistica giapponese
in Estremo Oriente, a premere per la guerra contro la Cina e a far assumere al Giappone una
collocazione politica molto vicina – tenuto conto delle reciproche differenze – a quella
fascista, che spinse il paese nel secondo conflitto mondiale (Giardina. A, Sabbatucci G.,
Vidotto V., 2002).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Uno dei principali obiettivi degli esponenti al potere in Giappone era l’espansionismo
territoriale, giustificato da alcuni con il bisogno di «spazio vitale» negato al popolo
giapponese dagli Occidentali. Si formò in questo modo l’imperialismo nipponico che altro
non era che una reazione agli imperialismi occidentali. Spinto da queste ragion di Stato il
Giappone nel 1937 iniziò una vera e propria guerra contro la Cina, conquistando Shanghai
e Nanchino. Inaspettatamente i Cinesi riuscirono a fare resistenza contro l’invasione,
limitando la conquista giapponese solo ad una parte del paese. Poco dopo, esattamente tra il
1938 e il 1939 violenti scontri militari opposero i Sovietici ai Giapponesi, senza che però
questi ultimi riuscissero ad avere il sopravvento.
Le necessità espansionistiche giapponesi, unite allo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale e all’inquietudine di un possibile isolamento politico spinsero il Giappone ad
allearsi con la Germania e l’Italia con la sigla del Patto tripartito del 1940. L’anno
successivo la Germania attaccò l’URSS, ponendo fine alla pressione sovietica sulla
Manciuria, atto che consentì ai Giapponesi di concentrare le loro azioni belliche nel Sud
della regione (Sellier J., 2010). Difatti nel luglio del 1941 il Giappone invase l’Indocina
francese, fatto che provocò la reazione di Gran Bretagna e Stati Uniti, i quali decretarono il
blocco delle esportazioni verso il Giappone. In quel momento le autorità nipponiche
dovettero scegliere se piegarsi alle richieste degli avversari occidentali o ampliare
ulteriormente il campo di battaglia al fine di poter conquistare nuovi territori e, quindi,
procurarsi le materie prime necessarie alla sua politica di grande potenza.
Alla fine le correnti belliciste prevalsero e nel dicembre del 1941 l’aviazione
giapponese attaccò, senza peraltro nessuna dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti
ancorata a Pearl Harbor. Nei mesi a seguire, avvantaggiandosi della superiorità navale
nell’area del Pacifico, i Giapponesi conquistarono le Filippine, la Malaysia, la Birmania
(attuale Myanmar) e l’Indonesia olandese (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Figura 5.2.: L’espansione giapponese 1931-1942
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
La prima risposta americana ci fu subito dopo e le vittorie non tardarono a venire, nel
giugno del 1942 gli Stati Uniti riportarono una prima vittoria al largo delle isole Midway
(ad Ovest di Hawaii), ma la controffensiva statunitense ebbe praticamente inizio nel 1943
con la conquista dell’isola di Guadalcanal, che segnò la fine delle azioni offensione
giapponesi e l’inizio di un tentativo di difesa di quei territori conquistati dall'avvio della
Guerra. Dopo un iniziale fervore supportato dai successi espansionistici, l’esercito e le
autorità nipponiche iniziarono a non credere più nella vittoria, ma adottarono comunque una
convinta difesa, nella speranza che gli Alleati stanchi del conflitto, proponessero un
negoziato. È questo lo spirito che portò all’ideazione degli «aerei suicidi» (kamicaze)
impiegati per la prima volta nel 1944 nelle Filippine (Sellier J.,2010).
Nel frattempo gli Stati Uniti iniziarono una lenta riconquista delle posizioni perdute nel
Pacifico, ma il punto di svolta si ebbe nel 1945 quando, ormai liberi dagli impegni bellici in
Europa, si concentrarono unicamente nel Pacifico. Il 26 luglio 1945 il Presidente americano
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Truman enuncia la dichiarazione di Postdam, in accordo con Gran Bretagna e Cina – e con
la tacita approvazione dell’URSS – che intima al Giappone la resa incondizionata, onde
evitare una distruzione immediata e totale. Ma al rifiuto del Giappone, gli Stati Uniti
decisero di impiegare contro il Giappone la nuova arma di distruzione totale: la bomba
atomica. La decisione di Truman serviva ad accorciare una guerra che altrimenti sarebbe
stata ancora più lunga e distruttiva, ma anche per dimostrare al mondo intero la potenza
militare statunitense. Il 6 agosto 1945 fu sganciata una prima bomba atomica sulla città di
Hiroshima e tre giorni dopo su Nagasaki. Le conseguenze furono enormi: 100.000 morti a
Hiroshima e 60.000 a Nagasaki, la distruzione totale delle due città e un numero elevato di
persone contaminate dalle radiazioni.
Il 15 agosto, dopo che anche l’URSS dichiarò guerra al Giappone, l’imperatore Hirohito
dichiarò la resa incondizionata. La firma dell’armistizio fu firmata il 2 settembre 1945 a
bordo della corrazzata americana Missouri (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
La resa del Giappone comportò un regime di occupazione delle truppe alleate,
soprattutto americane. Il Presidente Truman nominò, in tal senso, il generale Douglas
MacArthur a capo del Comando Supremo delle Forze Alleate (SCAP – Supreme Command
for the Allied Powers), il quale aveva anche il compito di presiedere il Consiglio Alleato per
il Giappone, di cui facevano parte anche un rappresentante Sovietico, uno Cinese e uno
Britannico. Di fatto, però, le politiche da adottare nei confronti del Giappone venivano
decise direttamente a Washington, permettendo agli Stati Uniti di amministrare il paese
senza doversi preoccupare di intromissioni esterne (Sellier J., 2010).
Nonostante l’ampia libertà di manovra, MacArthur decise sin da subito di amministrare
il paese per via indiretta, ciò significa attraverso la trasmissione di direttive al governo
giapponese, il quale aveva poi il compito della loro effettiva implementazione. Varie e
immediate furono le modifiche apportate in Giappone: abolizione di alcuni ministeri;
scioglimento della polizia segreta; richiesta di condanna dei criminali di guerra; redazione di
una nuova Costituzione; avvio di un piano di smantellamento degli zaibatsu; ampliamento
delle libertà civili e epurazione di chi aveva sostenuto l’Impero giapponese.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Gli obiettivi primari dell’occupazione americana furono la smilitarizzazione e la
democratizzazione del Giappone. Il primo compito fu raggiunto tramite lo smantellamento
della struttura militare giapponese e il rimpatrio delle truppe e dei civili ancora stanziati
all’estero, al fine di implementare quanto stabilito nella dichiarazione di Postdam – a
relativamente ai confini del territorio giapponese – secondo cui i territori nazionali del
Giappone dovevano tornare a quelli del 1868.
Per quel che concerne, invece, il processo di democratizzazione già nell’ottobre del
1945 furono introdotte le prime riforme atte a garantire la libertà di espressione, di stampa e
di assemblea, e il diritto a formare organizzazioni sindacali. Ma la svolta democratica si
ebbe con la richiesta di una nuova Costituzione, che fu redatta tra il 1945 e il 1946 e
promulgata nel novembre del 1946. La nuova Costituzione sostanzialmente garantiva, sulla
falsa riga del Bill of Rights statunitense, una serie di diritti fondamentali per i cittadini e
determinava due cambiamenti epocali nella struttura politica del paese. Il primo
cambiamento consisteva nel passaggio da una monarchia assoluta ad una costituzionale, la
seconda modifica sostanziale prevedeva l’istituzione di un sistema parlamentare di tipo
inglese. La Dieta, supremo organo di potere, diventava bicamerale: la Camera dei
Rappresentanti – dotata di supremazia – e la Camera dei Consiglieri, entrambe elettive.
Il processo di riforma coinvolse anche la sfera economica. La più significativa novità
consisteva nella soppressione degli zaibatsu, accusati dagli alleati di aver supportato il
militarismo nipponico e di essere un ostacolo alla competizione interna. Furono quindi
bloccati i beni degli zaibatsu e intaccati i loro capitali tramite l’applicazione di un’imposta
generale progressiva. Furono poi introdotte delle imposte sul reddito e sui diritti di
successione, così da impedire, o quanto meno limitare, l’accumulazione di grandi ricchezze.
Fu, infine, promulgata una legge anti-monopolio per evitare che si formassero dei cartelli e
si ripetesse, sotto forma diversa, il medesimo fenomeno dei zaibatsu.
Uno dei principali successi del processo di riforma guidata dagli Stati Uniti fu quella
agraria, che migliorò profondamente la condizione dei contadini. In precedenza, infatti, i
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
contadini dovevano pagare delle rette esorbitanti ai legittimi proprietari, ma con l’adozione
della riforma fu stabilito un limite alla superficie di terreno che un singolo poteva possedere,
mentre le eccedenze erano vendute allo Stato, il quale aveva il diritto di rivedere il terreni in
surplus ai coltivatori ex affittuari. L’elevata inflazione, che però non colpì il prezzo dei
terreni, permise agli ex affittuari di comprare una porzione di terreno a pochissimo,
riuscendo, in questo modo, a distribuire le terre arabili a chi effettivamente le avrebbe
coltivate.
L’elevata inflazione che si era abbattuta sul Giappone, mise il paese in ginocchio fino al
1950, quando con lo scoppio della Guerra di Corea il sistema produttivo nipponico subì una
forte impennata. Gli americani, infatti, sfruttarono la prossimità geografica del Giappone e i
contenuti costi di produzione per rifornirsi di beni di ogni sorta: munizioni, uniformi, mezzi,
attrezzature di comunicazione, etc. Nel periodo 1951-1953 il volume delle esportazioni dal
Giappone triplicò, i gruppi industriali iniziarono a dare i primi segnali di ripresa,
reinvestendo i profitti nella costruzione di nuovi impianti e nello sviluppo tecnologico. In
questo periodo il PIL crebbe esponenzialmente. Paradossalmente, con il tragico evento della
Guerra di Corea ebbe inizio la rinascita economia del Giappone (Fiori A., 2010).
5.3. Il Giappone contemporaneo
Lo scoppio della Guerra in Corea non rappresentò soltanto un momento di svolta
economica, ma anche un cambiamento profondo nei rapporti tra Stati Uniti e Giappone.
Diversamente da quanto programmato e compiuto all’indomani del dopoguerra, ovvero la
totale smilitarizzazione del Giappone, lo scoppio del conflitto in Corea determinò
un’inaspettata «inversione di rotta» statunitense, avendo ora bisogno di un alleato nella
regione economicamente forte e militarmente preparato, sebbene subordinato e dipendente
dagli Stati Uniti. A tal fine, gli Stati Uniti supportarono un limitato riamo del Giappone, a
partire dalla polizia nipponica che fu ricostituita con il nome di Riserva della Polizia
Nazionale nel 1950. Inizialmente composta da 75.000 uomini, la Riserva poi fu aumentata a
110.000 poliziotti, al fine di sostituire i soldati americani trasferiti in Corea.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Nonostante le pesanti controversie interne incentrate sullo scontro tra chi sosteneva
l’incostituzionalità delle forze armate nipponiche e, invece, coloro che le ritenevano
legittime poiché forze di autodifesa (tra cui il Primo Ministro Yoshida), la Riserva prese
piede e il Giappone acquistò maggiore autonomia sotto il profilo della sicurezza nazionale.
È di questi anni la decisione di porre fine all’occupazione del paese da parte americana. L’8
settembre 1951, furono firmati a San Francisco il Trattato di Pace, che poneva fine allo stato
di guerra – che esisteva ancora formalmente in Giappone – e il Trattato di Sicurezza, siglato
solo tra Giappone e Stati Uniti, volto a proteggere il primo da qualsiasi minaccia e
assicurare le pace e la sicurezza internazionale, tramite la presenza di basi e uomini militari
statunitensi sul suolo nipponico (Fiori. A., 2010).
Terminata l’occupazione americana nel 1952, si creò una relazione ancora più
privilegiata tra Giappone e USA, in quanto, sebbene il Trattato di Sicurezza prevedesse solo
lo stanziamento di basi militari sul territorio giapponese, di fatto lo Stato delegò la gestione
della sua politica estera agli Stati Uniti, in cambio Tokyo poté operare liberamente in campo
economico, dove gli USA si dimostrarono per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta
particolarmente tolleranti e generosi (in termini di protezionismo, di cambio dello yen).
La politica estera attuata dal Giappone nel dopoguerra, nota come «dottrina Yoshida» dal nome del Primo Ministro giapponese Yoshida Shigeru – consisteva essenzialmente dei
seguenti quattro principi:
• antimilitarismo, ovvero interpretazione restrittiva della clausola pacifista
dell’articolo 9 della Costituzione, in modo da non permettere l’invio all’esercito
di Forze di Auto-Difesa (FAD);
• bilateralismo, cioè preminenza della relazione speciale con Washington, quindi
posizione diplomatica e militare passiva;
• astensionismo in politica estera, che di fatto venne delegata a Washington, da cui
l’arcipelago dipendeva in materia di sicurezza come previsto dal sistema di San
Francisco con i due Trattati del 1951;
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
• economicismo, ossia enfasi posta sulla conquista di mercati e sullo sviluppo
economico, obiettivo prioritario dello «stato sviluppista» (Mazzei F., Volpi V.,
2006).
L’economicismo ebbe particolarmente successo. Nel periodo che va dagli anni
Cinquanta ai Settanta, il Giappone aumentò il PIL di oltre il 10% su base annua, facendo
conquistare al paese la terza posizione nella classifica delle economie mondiali. Altrettanti
risultati stupefacenti si registrarono sotto il profilo degli investimenti in nuove tecnologie e
impianti manifatturieri, che fecero raggiungere il paese livelli allora impensabili (Fiori A.,
2010).
Possibili motivazioni atte a spiegare l’inimmaginabile sviluppo economico sono la quasi
completa assenza di spese militari del Giappone – perchè imposta dal Trattato di pace – e
l’adozione di una politica economica tutta fondata sul contenimento dei consumi e sul
rilancio produttivo. Inoltre, bisogna riconoscere il merito della classe dirigente che decise di
puntare sin da subito sui settori in crescita e sulle tecnologie d’avanguardia, in particolar
modo nel campo della siderurgia, della cantieristica, dell’automobile, della meccanica di
precisione e soprattutto della telefonia (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
L’altissima qualità del capitale umano rappresentò un ulteriore elemento
fondamentale
nel
rilancio
dell’economia
nipponica
nell’immediato
dopoguerra.
L’innalzamento dell’età dell’istruzione obbligatoria, produsse un numero gradualmente
maggiore di persone sempre più istruite, i quali potevano avere accesso a lavori sempre più
qualificati e ben pagati. I salari più alti e la forte propensione al risparmio, permisero di
accrescere i fondi monetari utilizzati per gli investimenti industriali, dando vita ad un
circuito virtuoso che rafforzò oltremodo il sistema produttivo giapponese. Ruolo
fondamentale fu svolto dal Ministero del Commercio Internazionale e dell’Industria (MITI).
Il MITI aveva il compito di coordinare le politiche concernenti il commercio
internazionale con gli altri attori, come banche, altri ministeri e imprenditori, al fine di
rinforzare la base industriale del paese, senza mai cadere in una pianificazione centralizzata.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Difatti, il MITI forniva agli stakeholders gli strumenti adatti a capire le dinamiche del
mercato, come ad esempio le tecnologie da adottare, gli investimenti da realizzare, i
processi di modernizzazione, etc. Inoltre, furono adottate misure politiche ed espedienti per
limitare le importazioni e proteggere le imprese giapponesi dalla concorrenza straniera.
La crescita economica del Giappone conobbe le prime battute d’arresto all’inizio
degli anni Settanta, dovute principalmente ai cosiddetti Nixon shocks, che determinarono
l’inizio di importanti tensioni tra USA e Giappone, soprattutto sotto il profilo economico. Il
nuovo Presedente degli Stati Uniti Nixon annunciò, infatti, nel 1971 la riapertura delle
relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese, sancita con la visita di Nixon in
Cina. La questione irritò le autorità giapponesi che, fino a quel momento, avevano seguito
letteralmente la politica americana di isolamento e contenimento del regime comunista
cinese. Ora che gli Stati Uniti aveva virato la propria politica internazionale, era arrivato il
momento per i Giapponesi di agire di conseguenza. Così nel 1972 anche Tokyo instaurò i
primi rapporti diplomatici con i cinesi, avviando anche nuove relazioni economiche che
resero la Cina in poco tempo il principale partner commerciale giapponese. Di lì a breve,
esattamene nel 1978, fu ratificato anche il Trattato di Pace tra Giappone e Cina.
A complicare ulteriormente la situazione economica giapponese, si aggiunse, sul
finire del 1973, la prima crisi petrolifera, che provocò l’interruzione delle forniture di
petrolio da parte dei paesi produttori verso quegli Stati, tra cui anche il Giappone, che
avevano appoggiato Israele durante la Guerra del Kippur. Il Giappone dipendeva
pesantemente dalla fornitura energetica dei paesi arabi e la crisi del 1973 determinò un
aumento esponenziale nelle spese relative alle importazioni e, più in generale, un
incremento dei prezzi di tutti i beni. Pertanto, per ovviare a questo problema il Giappone si
affrettò a prendere le distanze dalla posizione statunitense di appoggio ad Israele e annunciò
l’inizio di una «nuova politica araba». Quest’ultima convinse i paesi arabi produttori di
petrolio a far ripartire la fornitura del gregge, ma gli effetti della shock petrolifero si
abbatterono sull’economia giapponese, provocando una forte recessione.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
Già nel 1975 l’economia sembrò risollevarsi, grazie ad una riduzione della spesa
pubblica e a una rigida politica monetaria, che permisero di contenere l’inflazione, mentre le
esportazioni ritornarono a crescere in compensazione degli altissimi costi delle
importazioni. Tuttavia, proprio quando si pensava che il peggio fosse passato, si verificò la
seconda crisi petrolifera tra la metà del 1979 e il 1980, durante cui il prezzo del gregge
raddoppiò. La corsa al riparo delle autorità giapponesi prevedeva diverse azioni atte a
limitare l’uso del petrolio, come il divieto di uso di automobili per andare a lavoro per i
dipendenti pubblici, la sospensione dei programmi televisivi a mezzanotte e la realizzazione
di alcune centrali nucleari, in alternativa al petrolio, che già nel 1985 producevano il 25%
dell’elettricità del Giappone.
Sotto il profilo della produzione industriale, le crisi petrolifere impattarono su quelle
imprese che utilizzavano in maniera massiccia il petrolio, come le acciaierie e i
petrolchimici. Pertanto, le autorità e gli imprenditori giapponesi si orientarono su quelle
industrie a più alto valore aggiunto e tecnologicamente avanzate, come il settore
automobilistico.
Quest’ultimo comparto produttivo ebbe una forte crescita, anche grazie allo stesso
mercato statunitense che iniziò a preferire le più economiche e affidabili automobili
giapponesi (come Nissan, Toyota e Mazda) alle compagnie americane. Le esportazioni
verso gli Sati Uniti crebbero esponenzialmente, nonostante le restrizioni alle importazione
di prodotti giapponesi. A metà anni Ottanta il Giappone era leader nel settore
automobilistico e non solo. Divenne, infatti, uno dei principali paesi nel settore
dell’elettronica di consumo (chip per computer, videoregistratori, etc.) a scapito di settori
più meramente tradizionali, come il tessile o l’acciaio.
Il Giappone era, quindi, entrato nel periodo di «crescita stabile» che sarebbe durato
fino all’inizio degli anni Novanta, periodo in cui scoppiò una crisi del mercato immobiliare
e azionario, meglio conosciuta come «economia della bolla». La bolla comportò una lunga
stagnazione economica, caratterizzata dall’abbassamento dei profitti per le imprese – le
quali ridussero gli investimenti e l’occupazione – e una riduzione dei consumi. Questa lunga
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
crisi, nota anche come «decennio perduto», produsse importanti conseguenze anche a livello
sociale: contratti di lavoro a tempo indeterminato divennero sempre più rari, anzi si dovette
lavorare per più ore a parità di salario; aumentò la disoccupazione; crebbe il tasso di suicidi,
in cui forte fu la correlazione con la perdita del posto di lavoro.
Da quel momento diversi governi di coalizione si sono succeduti al potere, aventi
tutti il difficile compito di rilanciare l’economia nazionale e migliorare gli apparati pubblici
troppo a lungo trascurati. La svolta si registra nel 2001 con la salita a potere di Junichiro
Koizumi a guida del Partito liberal democratico (Pld), che riuscì a conservare la carica di
Primo Ministro fino al 2006, cosa che lo ha reso uno dei primi ministri più longevi nella
storia politica del Giappone.
Le riforme strutturali di Koizumi permisero di rilanciare l’economia nipponica,
obiettivo raggiunto soprattutto attraverso una massiccia privatizzazione delle attività ancora
detenute dallo Stato, come ad esempio il sistema postale. In ambito internazionale, con
Koizumi fu consolidata l’alleanza diplomatica tra Giappone e Stati Uniti, il cui rapporto era
considerato prioritario, mentre si verificarono diverse tensioni con Cina e Corea del Sud a
causa di diverse visite al santuario shintoista Yasukuni di Koizumi, dove sono sepolti oltre
due milioni di soldati giapponesi morti in battaglia, tra cui alcuni criminali di guerra.
Sebbene il Primo Ministro abbia sempre affermato che si trattasse di visite private, e non
ufficiali, questi episodi provocarono lo sdegno dei due paesi (Cina e Corea del Sud) che per
un certo periodo si rifiutarono di incontrare il premier.
Nel 2006 Koizumi rassegnò le proprie dimissioni e gli succedette Shinzo Abe,
rimasto in carica per un solo anno. Dal 2007 ad oggi si sono alternati diversi primi ministri
delle due principali fazioni. Attualmente il Primo Ministro del Giappone è Shinzo Abe,
eletto nel 2012.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 5° - L’Occidente a Oriente: il Giappone
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, UTET.
Fiori A. (2010), Asia orientale. Dal 1945 ai giorni nostri, il Mulino.
Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza.
Mazzei F., Volpi V. (2010), La rivincita della mano visibile. Il modello economico asiatico
e l’Occidente, Università Bocconi Editore.
Mazzei F., Volpi V. (2006), Asia al centro, Università Bocconi Editore.
Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte.
21
Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Il gigante rosso: la Cina
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
SOMMARIO MODULO 6°
Il gigante rosso: la Cina
6.1. L’Impero di Mezzo
6.2. La Cina tra Repubblica e Rivoluzione
6.3. Da Xioaping ad oggi
1
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
6.1. L’Impero di Mezzo
La Repubblica Popolare Cinese, fatta esclusione per Taiwan, si estende per 9.560.900
km2, ovvero un’ampiezza territoriale di poco superiore agli Stati Uniti, e minore solo alla
Russia e al Canada. Questi dati sono utili a far capire come la grandezza del territorio della
Cina sia comparabile alle dimensioni di un continente, che comprende all’interno dei
confini nazionali un’estrema varietà etnica, linguistica e regionale. Tale ricchezza è stata il
frutto dell’evoluzione politica e sociale della Cina, che per svariati secoli ha visto
l’alternarsi di diverse dinastie a capo dei differenti regni che attualmente compongono lo
Stato cinese.
Questo susseguirsi di dinastie al potere ha indotto lo studio della storia cinese a
dividerla in periodi dinastici, tra cui la più antica è quasi sicuramente quella Xia iniziata,
molto probabilmente, nel 2205 a.C. e seguita dalla dinastia Shang e Zhou, che insieme
rappresentano le tre dinastie della Cina antica (Roberts J. A. G., 2011). Segue la dinastia dei
Qin, formatasi nella valle del fiume Weihe, che grazie alla guida del suo primo Imperatore,
riuscì a: espandere i territori del regno sia a Nord-Ovest che a Sud, verso l’attuale Vietnam;
riformare l’organizzazione regionale e amministrativa; dare avvio a importanti opere
pubbliche come canali per migliorare l’irrigazione delle terre del regno. La politica dei
lavori pubblici, soprattutto idraulici, divenne un compito prioritario per lo Stato che, proprio
durante questa dinastia, uscì dall’ambito regionale e assunse una dimensione nazionale che
non verrà mai meno (Corna Pellegrini G., 1982).
Nonostante l’importanza che l’epoca Qin ebbe, la maggioranza dei cinesi afferma di
discendere dagli «han», che fa appunto riferimento alla dinastia Han (durata dal 206 a.C. al
200 d.C.), tant’è che le minoranze etniche attualmente presenti in Cina rappresentano
orientativamente l’8% della popolazione (Roberts J. A. G., 2011).
La dinastia Han si divide in Han anteriori (206 a.C – 9 d.C.) e Han posteriori (23 – 220
d.C.) ed ebbe inizio con Liu Bang il quale, già re di Han, divenne Imperatore usando il
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
nome del proprio Stato come titolo della nuova dinastia e, pertanto, fu chiamato imperatore
Gaozu. Il periodo degli Han anteriori fu particolarmente florido, soprattutto all'epoca del
regno di Wudi (141 a.C. – 87 a.C.) durante cui la dinastia degli Han raggiunse il suo
apogeo. Difatti, con gli Han si ebbe uno slancio espansionistico eccezionale, sia sotto il
profilo delle conquiste territoriali, che dello sviluppo di grandi opere pubbliche, strategiche
ed economiche (Sellier J. 2010).
Durante questa dinastia, considerate anche le penetrazioni in Corea del Nord e in
Manciuria, il regno cinese raggiunse un’elevata estensione che andava dal Mar del
Giappone al bacino del Tarim, allo Yunnan al Vietnam centrale. Con queste conquiste, gli
Han acquisirono ricchezze, conoscenze e fama addirittura mondiali, raggiunta anche grazie
ad una notevole attività commerciale con l’estero, in particolar modo con l’Occidente
romano, l’India e l’Asia subtropicale.
Sempre in questo periodo l’economia agricola cinese iniziò a mostrare le sue
caratteristiche più tipiche, ovvero una coltura intensiva con avanzate tecniche di irrigazione
e di selezione dei semi; una classe contadina libera particolarmente attiva, in grado di
produrre surplus di beni primari da poter poi rivendere sul mercato; un gruppo di contadini
che integrava il proprio reddito con l’artigianato domestico; una forte vulnerabilità
ambientale, intesa in termini di esposizione a calamità naturali che impattavano
pesantemente sulla produzione agricola; un sistema latifondista sfruttatore (Roberts J. A. G.,
2011).
Il periodo degli Han anteriori gode di un notevole sviluppo economico e commerciale,
nonché urbano e culturale. In questi secoli i grandi testi antichi, e in particolar modo quelli
dell’epoca di Confucio, riacquistano valore e sono sempre più studiati. Difatti, lo studio dei
classici rappresentò la base dell’educazione di tutti gli impiegati nell’amministrazione
imperiale. Il confucianesimo divenne, perciò, l’ideologia ufficiale che forgiò la società
cinese da quel momento in poi. Trattasi di una filosofia che pone l’accento sulla pietà filiale
e sugli obblighi reciproci tra superiori e inferiori (che può essere padre/figlio,
capo/subalterno, etc.), ma anche tra amici. Il confucianesimo servì a formare sentimenti
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
tipici della società cinese quali la lealtà verso i propri capi, il rispetto dell’ordine stabilito e
una serie di obblighi morali validi sia per la popolazione sia per l’imperatore stesso, tenuto a
dare l’esempio e governare in maniera retta e nell’interesse dello Stato, pena la perdita del
«mandato celeste».
La dottrina del «mandato celeste» – derivante dalla cosmologia cinese che leggeva delle
relazioni tra fenomeni celesti, la natura e la società – ideata dagli Zhou, acquistò con gli Han
un significato confuciano: sebbene l’imperatore dovesse sempre mostrare di essere degno di
governare il paese, doveva servirsi del supporto dei consiglieri che avevano il compito di
illuminarlo. Le istituzioni definite durante i Qin prima, e nel periodo degli Han poi, sono
rimaste alla base del pensiero politico cinese fino al XIX secolo: l’imperatore era il
detentore del potere assoluto, aveva anche il monopolio dell’eventuale ricorso alla violenta,
mentre in campo civile, il suo potere era moderato dall’apparato amministrativo (Sellier J.
2010).
Il potere degli Han anteriori fu messo in crisi dalla morte di Wudi e dalle dispute per la
sua successione, che portarono a una temporanea sospensione della dinastia Han e l’inizio
del governo di Wang Mang, (9 – 23 d.C.) che nel 9 d.C. usurpò il trono e si autoproclamò
imperatore della dinastia Xin. Il suo regno non durò comunque molto, principalmente per
due motivi: a causa delle riforme radicali che avevano impattato negativamente sul popolo e
per la deviazione del fiume Giallo che provocò ingenti vite umane. Questa serie di disastri
naturali e politici furono i fattori scatenanti di una ribellione popolare il cui unico obiettivo
era la restaurazione degli Han, che si ebbe nel 25 d.C. (Roberts J. A. G., 2011).
Il regno degli Han posteriori fu, però, caratterizzato a sua volta da profonde crisi
agricole, disordini e ribellioni contro un sistema di governo ormai incapace di fronteggiare i
problemi amministrativi, demografici ed economici che un regno di tali dimensioni
comportava. Così nel 220 d.C. terminava la dinastia degli Han e con essa crolla anche
l’Impero, che fu ricostruito solo verso la fine del VI secolo dai Sui (Corna Pellegrini
G.,1982).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
Il periodo di divisione e di lotte che seguì la caduta degli Han si prolungò per poco più
di tre secoli, portando alla divisione della Cina in cinque principali unità politiche. Questa
situazione di frazionamento territoriale e rivalità politica fu risolta dalla dinastia dei Sui che,
insieme agli imperatori della dinastia Tang, riucirono a riunire la Cina e a registrare un
periodo di straordinario splendore che durò per circa tre secoli. Nel X secolo terminava
l’impero Tang e iniziava un periodo di grandi turbolenze politiche e di alternanze al potere,
interrotto soltanto dalla conquista mongola della Cina.
L’arrivo dei Mongoli aprì una nuova fase storia per la Cina e per il suo assetto
geografico: si riavviarono, infatti, gli antichi rapporti tra il mondo cinese e quello delle
steppe settentrionali, da sempre interessati alla ricchezza della Cina e alla sua superiore
organizzazione sociale. Quando i successori di Gengis Khan, fondatore della supremazia
mongola e del grande impero euroasiatico del tempo, rivolsero le loro mire sulla Cina,
questi riuscirono a portare a compimento gli obiettivi espansionistici molto più lentamente
rispetto alle altre conquiste territoriali. Iniziata nel 1206, la conquista di tutto il territorio
cinese terminerò soltanto nel 1279.
Sebbene profondamente odiati dalla maggioranza dei Cinesi, sotto la dominazione
mongola la Cina registrò una forte crescita urbana ed economica, va riconosciuto ai
Mongoli il merito di aver saputo stimolare gli scambi tra Nord e Sud della Cina, i rapporti
con l’Asia centrale e la crescita del commercio marittimo. In questi anni la Cina si aprì alle
influenze straniere, sotto il profilo religioso, culturale come anche commerciale. Mai come
in questo periodo le conquiste della più avanzata tecnologia cinese penetrarono in
Occidente, soprattutto tramite la mediazione islamica. Fu con il commercio estero che
l’Europa iniziò a conoscere la cultura e i costumi orientali, tra cui l’uso delle spezie per
scopi alimentari, dando origine delle prime imprese coloniali in questa parte del globo
(Corna Pellegrini G.,1982).
I primi contatti tra Occidente e Cina si ebbero con l’arrivo dei Portoghesi che nel 1514,
dopo aver conquistato Malacca cercarono di aprire un dialogo con le autorità imperiali
Ming, nel frattempo già avvisate dagli emissari del sultano di Malacca della pericolosità e
5
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
rapacità portoghese. Il commercio con gli Europei fu quindi vietato, ciò nonostante fu
comunque praticato clandestinamente dai Cinesi del Sud. Nel 1535 i Portoghesi si
impossessarono di Macao e vi fondano una colonia dal 1550. L’audacia portoghese fu
accompagnata da un fortuito disinteresse cinese in quell’area, a causa delle maggiori
preoccupazioni provocate dalla pirateria giapponese che minacciava il litorale dallo
Shandong al Guangdong.
A differenza dell’India che, con le sue millenarie tradizioni di commercio marittimo,
integrò perfettamente sul proprio territorio le basi commercianti straniere nel tessuto
economico locale, la Cina si oppose allo scambio di qualsiasi prodotto con gli stranieri,
considerati inutili e dannosi.
Tuttavia la Gran Bretagna, divenuta dopo le guerre
napoleoniche la massima potenza mondiale, considerava umiliante l’impossibilità di scambi
commerciali con la Cina e decise, quindi, di imporre in qualche modo la propria presenza e
lo fece tramite l’oppio.
Finalmente gli Occidentali trovarono una merce di scambio con i Cinesi: l’oppio, il cui
consumo stava incrementando sempre più tra la popolazione. Nonostante i drastici
provvedimenti che l’autorità imperiale cinese prese per troncare il traffico di questa droga,
gli Inglesi ne imposero l’importazione, scatenando da parte cinese una reazione tanto
violenta quanto inutile. La Guerra dell’oppio (1840-1842) si concluse con la totale sconfitta
della Cina che fu costretta a cedere, con il Trattato di Nanchino, una serie di autorizzazioni
commerciali in diverse città della Cina nonché il controllo su Hong Kong. Trattati simili
furono poi firmati anche con Americani e Francesi, mentre i Portoghesi ottennero
concessioni mai avute prima a Macao.
Successivamente alla Guerra dell’oppio gli interessi stranieri cominciarono ad avanzare
nell’economia e nella società cinese, utilizzando per circa un secolo la collaborazione della
classe burocratica-borghese. Intellettualmente impreparata e incapace di fronteggiare i nuovi
eventi, essa si prestò alla penetrazione economica straniera, rimanendo però essenzialmente
disinteressata alla conoscenza dell’Occidente, almeno per i primi due decenni dopo il
conflitto.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
La resistenza intellettuale e culturale dei cinesi limitò il processo di occidentalizzazione
ad un’area marginale del paese, lungo la costa marittima comprendente Hong Kong e i porti
aperti dai recenti trattati con i paesi occidentali. Nel resto dell’impero il sistema economico
era ormai stagnante, quasi fondato sull’autosufficienza, provato dall’elevata pressione
demografica. Numerose inondazioni e altrettante carestie flagellano il paese, provocando
ribellioni contadine in quasi tutte le province, ma in particolar modo nel Sud, dove più
debole era il controllo imperiale e più forte, invece, l’influenza straniera.
La grande rivolta dei Taiping, formatasi in alcune comunità agricole del Sud intorno al
1850, s’ispirava a principi nazionalistici in un certo senso egualitari e collettivistici, che
anticiparono molti dei concetti guida della Cina comunista. Il movimento dei Taiping era
contro l’ordine costituito e contro la dinastia Qing, ma essendo privo di uomini in grado di
guidare i territori sotto controllo e militarmente inferiori, fu sconfitto dalle truppe imperiali,
che nel 1864 occuparono Nanchino, capitale dei ribelli.
Altre rivolte minori e più brevi scoppiarono tra il 1850 e il 1860, dando la misura della
crescente debolezza del potere centrale e dello scontento popolare. La dinastia Qing, allora
al potere, si trovava quindi in una situazione di gravissima crisi politica e sociale: milioni di
morti causati da calamità naturali, carestie, guerre e rivolte misero in ginocchio la
popolazione. Nonostante l’elevata tensione nell’impero, il governo di Pechino riuscì a
imporre intorno agli anni Sessanta del 1800 una «restaurazione» della dinastia, attraverso
una serie di riforme agrarie, di opere pubbliche (soprattutto nel settore idrico), la
concessione di prestiti e la riduzione delle tasse.
Venne così a crearsi, per un breve periodo, un certo equilibrio tra risorse economiche e
popolazione. Una calma che durò poco, perché restava irrisolta la delicata questione dei
rapporti con gli stranieri, ulteriormente aggravata dalla recrudescenza degli imperialismi
russi, giapponesi e francesi che scatenarono conflitti in quei territori, talora dal confine
incerto, che erano da tempo legati alla Cina, come Tibet, Corea, penisola indocinese e
Taiwan (Corna Pellegrini G.,1982). La Francia ottenne il Vietnam; il Giappone riuscì ad
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
ottenere nel 1894 Taiwan, le Pescadores e il Liaodong. Gli anni che seguirono furono
segnati dal colonialismo in Cina: tutte le grandi potenze accorsero per accaparrarsi una
porzione di territorio o cessioni amministrative per imporre la propria influenza. Processo
che determinò lo smembramento del territorio cinese. La Gran Bretagna ottenne Shanghai,
Hong Kong e altri porti delle coste settentrionali e meridionali, la Germania lo Shandong; la
Francia la parte sud-ovest dei territori cinesi, il Giappone Taiwan e il Fujian, la Russia la
Manciuria (Sellier J., 2010). La guerra russo-giapponese (1905) modificò relativamente
questa diposizione d’influenza, assicurando al Giappone – nuova potenza imperialista
dell’area – il controllo anche sulla Manciuria (Corna Pellegrini G.,1982).
Alla fine degli anni Novanta del XIX secolo il malcontento raggiunse nuovamente
livelli molto elevati. I contadini individuarono la causa delle loro povertà negli stranieri e
nel cristianesimo, in quanto considerati colpevoli di voler sovvertire l’ordine stabilito. Le
prime rivolte si ebbero nello Shandong, dove la società segreta dei «pugni della giustizia e
della concordia», altresì nota come Boxer, iniziò a utilizzare metodi violenti contro stranieri,
missionari, Cinesi convertiti al cristianesimo, etc. In breve tempo i Boxer divennero una
forza importante e nella primavera del 1900 attaccarono le legazioni straniere di Pechino e
Tianjin, ma le truppe internazionali ebbero rapidamente la meglio. Nel 1901 la Cina firmò il
«protocollo dei Boxer» che sanciva la punizione dei responsabili della rivolta e il
pagamento di una pesante indennità: la Cina rinunciava ai ricavati delle dogane marittime
che da quel momento in poi sarebbero state versate a un gruppo di banche occidentali,
mentre alle autorità di Pechino spettò solo il surplus eventualmente prodotto (Sellier J.,
2010).
6.2. La Cina tra Repubblica e Rivoluzione
Dopo il 1901 il governo imperiale tentò di adottare una serie di riforme, in parte ispirate
al modello giapponese. In tal atte si procedette: alla modernizzazione del sistema scolastico
e militare; alla creazione di camere di commercio per sviluppare le attività commerciali; alla
concentrazione del potere supremo nelle mani dell’imperatore conservò, proprio come
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
accadeva in Giappone, senza però escludere una possibile evoluzione costituzionale (Sellier
J., 2010)
Ciò nonostante, le riforme non riuscirono a ridare prestigio al potere centrale, la dinastia
Manciù di dimostrò incapace di promuovere un processo di riscossa nazionale così come
verificatosi in Giappone con la «restaurazione Meiji». L’effetto prodotto fu, invece, quello
di preparare il terreno per l’avanzata di un movimento di ispirazione democratica e
occidentalizzante.
Nel 1905, un medico di Canton, Sun Yat-sen fondò un’organizzazione segreta, il
Tongmenghui («Lega di alleanza giurata») avente un programma basato essenzialmente su
tre principi:
• indipendenza nazionale;
• democrazia rappresentativa;
• benessere per tutto il popolo.
La Lega di Sun Yat-sen raccolse molti seguaci, in particolar modo tra gli intellettuali,
gli ufficiali dell’esercito e il proletariato industriale, quest’ultimo formatosi in alcuni grandi
agglomerati urbani, in primis a Shanghai. A ciò si aggiunga che il movimento conquistò
anche le simpatie di una parte dell’esigua borghesia imprenditoriale cinese, non ancora
legata agli interessi commerciali delle potenze straniere.
La corte imperiale tentò invano di posticipare, o quanto meno limitare, il processo di
modernizzazione. Nell’ottobre del 1911 il governo decise, comunque, di affidare a imprese
straniere il controllo della rete ferroviaria cinese. La decisione provocò la ribellione nelle
province centro-meridionali e l’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito. Queste
sommosse furono il frutto di diversi fattori: 1) le idee del Tongmenghui si erano diffuse,
soprattutto tra i militari; 2) le élite moderate avevano modificato il proprio sistema di lealtà,
avendo ormai realizzato l’incapacità dell’Imperatore e del suo governo nel gestire il paese;
3) la rete telegrafica (installata dagli Occidentali) favorì una più rapida trasmissione delle
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
informazioni tra le capitali provinciali. La rivoluzione del 1911 iniziò, infatti, nelle città e
non nelle campagne.
All’inizio del 1912 la rivolta prese talmente piede che la dinastia Manciù fu dichiarata
deceduta e un governo repubblicano provvisorio si formò a Nanchino, nominando Sun Yatsen Presidente della Repubblica. Nel frattempo Yuan Shikai fu inviato dalla corte imperiale,
ancora per poco al potere, a domare la rivolta, ottenendo in cambio la nomina a Primo
Ministro con pieni poteri (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
A questo punto della rivoluzione le forze riformatrici moderate, che speravano in una
stabilità politica per evitare rivolte contadine, spinsero il governo di Nanchino a
intraprendere negoziati con Yuan Shikai, il cui risultato fu la carica a Presidente della
Repubblica a favore di Yuan Shikai qualora fosse riuscito a far cadere la dinastia Manciù.
Cosa che si verificò nel 1912, anno che segnò anche il ritiro di Sun Yat-sen.
Il più antico impero del mondo crollava, mentre nella neonata Repubblica fiorivano le
libertà politiche: di stampa, di associazione, etc. il Tongmenghui divenne Guomindang
(Partito Nazionalista – GMD), fu adottata una nuova Costituzione (sulla falsa riga di quella
americana) e si svolsero normali elezioni. Tuttavia Yuan Shikai era fondamentalmente un
conservatore, cosà che impatto pesantemente sulla vita dell’appena costituita Repubblica,
poiché il fragile compromesso tra GMD e conservatori si ruppe nel giro di pochi mesi. Nel
1913 il nuovo Presidente sciolse il Parlamento appena eletto, bandì il GMD, costrinse Sun
Yat-sen all’esilio e instaurò una dittatura personale supportata dalle potenze occidentali, i
cui privilegi rimasero invariati.
Il regime di Yuan Shikai non riuscì, però, a garantire quella stabilità politica e la pace
sperata da molte parti della società cinese. Al contrario, con lo scoppio della Prima Guerra
Mondiale, la Cina fu ancora più vulnerabile, in quanto le potenze occidentali distratte dal
conflitto in territorio europeo, lasciarono ampio margine di azione al Giappone che nel 1915
inviò le cosiddette «ventuno richieste» – che prevedevano ad esempio il controllo della
Manciura del sud, dello Shandong, concessione delle reti ferroviarie, etc.
– che con
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
riluttanza furono accettate dalla Cina tramite Shikai (Sellier J., 2010). A peggiorare la
posizione fu poi la Conferenza di Versailles dove, sebbene vi partecipò in qualità di Stato
vincitore, la Cina subì una pesante umiliazione dalle grandi potenze occidentali, le quali
riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo
economico dello Shandong.
Questa ennesima umiliazione provocò la rinascita dei sentimenti nazionalisti in Cina,
che si organizzarono nuovamente attorno al GMD e a Sun Yat-sen, che nel frattempo era
tornato dall’esilio (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002). Di fatto, però, il potere
passò nelle mani dei militare che si divisero in fazioni rivali e lottarono per il controllo delle
istituzioni centrali. Alcuni dei capi militari provinciali divennero talmente potenti dal far
coniare il nome di «signori della guerra», contro i quali si scatenò in parte il movimento
rivoluzionario del 1919 (Sellier J., 2010).
Nel maggio del 1919 scoppiarono una serie di dimostrazioni di protesta iniziate nelle
università e poi propagatesi in tutte le grandi città. Alla base di questa enorme protesta vi
era la gioventù intellettuale alleatasi con la nascente borghesia industriale e commerciale,
nonché con i gruppi di operai operanti in quelle regioni del paese dove più forte fu la
penetrazione straniera. Queste fazioni avevano, quindi, in comune la lotta all’imperialismo
delle grandi potenze e l’avversione contro un governo centrale ormai incapace e il gruppo
dei «signori della guerra», entrambi espressione di un sistema politico e sociale di estrazione
terriera che dominava nelle campagne.
Il movimento concentrò i suoi sforzi contro l’amministrazione di Sun Yat-sen – che nel
1921 diede vita ad un nuovo governo a Canton – e riuscì ad avere l’appoggio del neonato
Partito comunista cinese (PCC) – anch’esso formatosi nel 1921 e di cui faceva già parte
Mao Tse-tung – che dopo l’iniziale esperienza nazionalista, furono profondamente
influenzati dall’esempio della rivoluzione russa e ne acquisirono molte delle caratteristiche
e ideologie. La stessa Unione Sovietica entrò a far parte attivamente dell’evoluzione politica
della Cina di quegli anni, appoggiando la causa di Sun Yat-sen attraverso l’invio di aiuti
economici e militari e inducendo il PCC ad aderire al blocco de GMD.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
L’alleanza tra nazionalisti e comunisti non durò a lungo, non oltre la morte di Sun Yatsen. Chang Kai-shek, succedutogli alla guida del GMD, era meno accomodante verso le
istanze di riforma sociale dei comunisti e sicuramente li trattava con molta più diffidenza
rispetto al suo predecessore. Le prime tensioni iniziarono a manifestarsi nel 1926 in
concomitanza della campagna militare di riunificazione mossa contro il governo «legale» di
Pechino (ai tempi riconosciuto come tale dalle potenze occidentali), ed esplosero
definitivamente l’anno successivo. Nel 1927 a Shanghai, centro vitale dell’industria cinese e
roccaforte dei comunisti, le milizie operaie, le quali da sole erano riuscite a liberale la città,
non avevano alcuna intenzione di deporre le armi e sottomettersi al governo di Chang Kaishek, che decise quindi di reprimere violentemente la rivolta. La medesima sorte toccò ad
un’insurrezione a Canton – anch’essa conclusasi in un bagno di sangue. Da quel momento, i
comunisti furono cacciati dal GMD, che saranno poi nominati «nazionalisti», mentre il PCC
divenne un partito fuori legge e molti suoi dirigenti furono incarcerati.
Chang Kai-shek creò un nuovo governo a Nanchino nel 1927 e un anno dopo uscì
vittorioso dalla lotta contro il governo di Pechino. A questo punto il nuovo leader dei
nazionalisti tentò di riorganizzare il paese in base a modelli occidentalisti (da cui era
profondamente attratto) caratterizzati da profonde venature di autoritarismo. I suoi obiettivi
si scontravano con la difficile gestione di uno Stato immenso e profondamente diviso: da un
lato c’erano i comunisti che, cacciati dalle città, si riorganizzarono nelle campagne dove
fondarono delle «basi rosse»; dall’altro sopravvivevano i progetti autonomisti dei «signori
della guerra», supportati dai Giapponesi che non avevano ancora rinunciato alle loro mire
espansionistiche nella regione. Nel 1931, usando come scusa un incidente di frontiera, il
Giappone invase la Manciuria e la tramutò in uno Stato-fantoccio, il Manchu-kuo, che
sarebbe servito come base per un’ulteriore espansione nipponica sul continente.
L’inerzia del governo nazionalista e lo scarso appoggio delle potenze occidentali (la
Società delle Nazioni si limitò ad una semplice condanna dell’accaduto) diedero nuova linfa
vitale all’azione comunista, che potè fare leva sulle masse contadine presentandosi come gli
unici difensori degli interessi nazionali. All’inizio degli anni Trenta i comunisti avevano già
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
numerosi seguaci nella società rurale e fondarono addirittura una «Repubblica sovietica
cinese».
Costretto a combattere su due fronti, da un lato i Giapponesi dall’altro i comunisti,
Chang Kai-shek decise di dare priorità a questi ultimi e lanciò una serie di sanguinose
campagne militari nelle zone sotto controllo comunista, i quali non aspettando tanta
violenza dovettero ripiegare su se stessi e abbandonare molte delle loro posizioni.
Nell’ottobre del 1934 circa 100.000 comunisti localizzati nel Sud del paese si trasferirono in
massa verso le regioni settentrionali dello Shanxi. Passata alla storia come la «Lunga
Marcia», la migrazione durò un anno e vide arrivare a destinazione solo 10.000 persone, fra
cui, grazie alla guida di Mao Tse-tung – diventato il leader del partito – anche il nucleo
dirigente comunista. Mao Tse-tung riuscì anche a ricostituire la sua «Repubblica sovietica»
proprio nelle zone in cui elevata era la minaccia giapponese.
Nel 1936 ci fu un nuovo attacco di Chang Kai-shek contro i comunisti, ma dovette
affrontare anche la dissidenza di parte dell’esercito, che chiedeva la fine della guerra civile e
l’unione delle forze nazionali per fronteggiare la minaccia giapponese. Fu così che fu creato
il «Fronte unito» nel 1937 grazie ad un accordo stipulato, sotto gli auspici dell’URSS, tra
nazionalisti e comunisti avente come unico nemico il Giappone. Tuttavia, quest’ultimo già
nell’estate del 1937, prima che l’accordo potesse diventare operativo, sferrò un attacco dalle
nefaste conseguenze: dopo due anni di guerra, il Giappone controllava gran parte dell’area
litoranea, tutto il Nord-est industrializzato e quasi tutte le principali città della Cina
(Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
La supremazia militare giapponese fu mantenuta fino al 1943, nonostante le varie
controffensive organizzate dal fronte cinese e, in particolar modo, dalla compagine
comunista. È proprio in questi anni che Mao adattò il marxismo-leninismo al contesto
cinese, dando vita al cosiddetto «pensiero Mao Tse-tung», o semplicemente «maoismo». La
svolta nelle sorti del conflitto cino-giapponese si ebbero con l’evoluzione della Seconda
Guerra Mondiale che condusse alla totale sconfitta del Giappone.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
Nel post Seconda Guerra Mondiale il sistema di alleanze risultò alquanto complesso: da
un lato, c’era l’URSS che aveva siglato un accordo di alleanza con i nazionalisti ma allo
stesso tempo lasciò che i comunisti penetrassero nella Manciuria; dall’altro, gli USA –
sebbene sostenessero una riconciliazione tra nazionalisti e comunisti – appoggiarono sempre
il governo di Chang Kai-shek, in quanto considerato un fattore di stabilità nell’Estremo
Oriente dopo la sconfitta giapponese. Fu così che la Cina divenne, nell’ottobre 1945,
membro fondatore dell’ONU ed ottenne un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza
(Sellier J., 2010).
All’indomani della capitolazione giapponese, la Cina versava ancora in una situazione
di guerra civile rimasta latente nonostante gli sforzi di riconciliazione degli Americani nel
1946. La guerra civile riesplose, quindi, immediatamente con i tentativi di riconquista della
Manciuria da parte dei nazionalisti. È possibile dividere per grandi linee la guerra civile in
tre fasi:
1. dal luglio 1946 a giugno 1947, durante cui vi fu una netta avanzata nazionalista che
occupò le principali città della Manciuria e ampie zone della Cina settentrionale;
2. dal giugno del 1947 fino all’autunno 1948, caratterizzata da un susseguirsi di successi e
di riconquiste territoriali da parte dell’«Armata popolare di liberazione» – nome che i
comunisti diedero alle loro truppe armate;
3. dall’autunno 1948 alla primavera del 1949, vittoria comunista e ritirata dei nazionalisti
(Roberts J. A. G., 2011).
Il 1° ottobre 1949 Mao proclamò a Pechino la Repubblica Popolare di Cina, mentre nel
dicembre Chan Khai-shek e il suo governo si rifugiavano a Taiwan. I primi interventi
adottati durante gli anni Cinquanta riguardavano la progressiva nazionalizzazione del settore
industriale-commerciale e la collettivizzazione dell’agricoltura. Già con la riforma agraria
del 1950 Mao aveva redistribuito le terre fra i contadini, formando così aziende agricole, poi
obbligate a riunirsi in cooperative di fatto controllate dallo Stato. Tuttavia il settore agricolo
stentava a decollare, a differenza del settore industriale che, invece, registrava una rapida
crescita – pari circa al 20% annuo. Pertanto, per promuovere un rilancio della produzione
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
agricola in tempi brevi, il governo Mao varò nel maggio del 1958 il programma definito del
«Grande Balzo in Avanti», che avrebbe dovuto realizzarsi grazie ad una generale
razionalizzazione economica ma, soprattutto, in virtù di un gigantesco sforzo collettivo.
Il programma obbligò le cooperative a riunirsi in agglomerati più grandi, le comuni
popolari, ciascuna delle quali doveva ottenere l’autosufficienza economica, anche attraverso
la realizzazione di tutto ciò che era necessario alla produzione. L’esperimento fu però
totalmente fallimentare, provocando pensati ripercussioni sul piano interno, poiché diede
forza alle fazioni più moderate del partito (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
Non avendo un controllo del PCC tale da permettergli di epurare le parti moderate, Mao
si avvalse dell’esercito per sconfiggere i nuovi contendenti al potere, mobilitando le
generazioni più giovani a ribellarsi contro quei dirigenti comunisti che stavano percorrendo
la «via capitalistica». La mobilitazione culminò tra il 1966 e il 1967 con la «rivoluzione
culturale» composta essenzialmente da giovani che, richiamandosi all’autentico pensiero di
Mao, combattevano ogni potere burocratico, tecnicismo e chiunque fosse sospettato di non
credere pienamente del comunismo. L’intento era di provocare un radicale mutamento nella
culturale e nella mentalità collettiva e di superare in questo modo tutti gli ostacoli che si
frapponevano alla realizzazione del comunismo.
La rivoluzione si esaurì, per stessa decisione di Mao, nel giro di due o tre anni, in
concomitanza anche dell’inizio della lotta intestina per la successione a Mao. Sebbene il
principale candidato sembrasse essere Lin Biao – capo dell’esercito – le intenzioni di Mao
di ridurre il peso dei militari, favorirono Zhou Enlai, che coprì il ruolo di Primo Ministro
ininterrottamente dal 1949 (Sellier J., 2010). Fu, infatti, Zhou a dare avvio negli anni
Settanta ad una politica di normalizzazione della Cina anche sotto il profilo internazionale,
resasi necessaria dopo il prolungato isolamento economico e diplomatico del paese. Furono
così instaurati i primi rapporti con gli USA, sanciti da un viaggio del Presidente Nixon a
Pechino nel 1971 e dall’ammissione all’ONU della Cina comunista – che subentrò alla Cina
nazionalista. Cominciava, così, un periodo di transizione destinata a sfociare, dopo la morte
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
di Mao e di Zhou Enlai (avvenute nel 1976), in un radicale cambiamento della Cina
(Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
6.3. Da Xioaping ad oggi
La morte di Mao, il 9 settembre 1976, sancì per la Cina la chiusura di un’epoca e
l’inizio di un processo di radicale trasformazione, che fu denominato «demaoizzazione» il
cui principale artefice fu Deng Xiaoping, anziano esponente del gruppo dirigente storico
comunista, emarginato durante la rivoluzione culturale, perché favorevole ad una linea più
moderata.
Salito al potere effettivamente nel 1978, Deng Xiaoping capovolse la linea collettivista
ed egualitaria di Mao e promosse una serie di profonde modifiche, soprattutto sotto il
profilo economico. Tra i più gravi problemi della Cina vi erano l’estrema povertà in cui
versava la maggior parte della popolazione e un sistema industriale ormai obsoleto. Fu per
contrastare questo ritardo che fu lanciato il programma delle «Quattro modernizzazioni» che
mirava a promuovere il progresso nel settore agricolo, industriale, militare, scientifico e
tecnologico.
Quando questo programma prese piede, i maggiori interventi vennero effettuati nel
primo settore, in cui fu applicato il cosiddetto sistema di responsabilità, secondo cui la
famiglia o il piccolo gruppo di famiglia deteneva la responsabilità della produttività di un
determinato appezzamento di terra concessogli dalle organizzazioni collettive proprietarie.
Dei livelli minimi di produzione venivano fissati e nel caso l’obiettivo venisse superato, la
famiglia era ricompensata degnamente, in alcuni casi concedendo addirittura la possibilità di
vendere privatamente il surplus prodotto.
Il sistema si evolse ulteriormente verso la fine degli anni Ottanta, quando il governo
decise di aumentare le possibilità per i contadini di accedere al commercio privato. Fu,
pertanto, deciso di assegnare fino al 15% del totale dei terreni disponibili a privati contadini
che avrebbero potuto utilizzare questi terreni come appezzamenti privati. In altre parole, gli
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
agricoltori non sarebbero stati responsabili nei confronti del governo dell’uso che facevano
dei terreni loro distribuiti: potevano piantarvi quello che volevano e decidere di venderne la
produzione allo Stato o a privati. Nel 1984, inoltre, il governò annunciò che quasi tutta la
terra sarebbe stata distribuita ai contadini su base temporale di quindici anni. Questo
provvedimento determinò la fine dell’agricoltura collettivizzata.
Sotto il profilo industriale, anche il settore secondario ebbe un’evoluzione quasi
capitalistica. Chi avesse intenzione di investire in Cina, aprire una nuova attività propria,
assumere lavoratori e ottenere profitto, era libero di farlo. Possibilità che fu concessa non
solo alla popolazione nazionale ma anche agli stranieri. Nel 1980 furono create quattro
«zone economiche speciali» in cui era garantito agli investitori stranieri il diritto di costruire
impianti produttivi, usando manodopera cinese, al fine di produrre bene destinati
all’esportazione. Se da un lato questa riforma mirava all’importazione di macchinari
moderni, conoscenze e competenze che avrebbero qualificato i lavoratori cinesi, dall’altro si
mirava ad aprire una possibilità verso la riunificazione con Hong Kong e Taiwan. Le «zone
economiche speciali» erano, infatti, situate lungo la costa della Cina in posizioni molto
vicine ad Hong Kong e Taiwan, appunto (Fiori A., 2010).
In generale, la popolazione cinese assistette a una veloce introduzione di elementi di
economia di mercato che, però, provocò numerose trasformazioni nella stratificazione
sociale – si crearono nuove classi privilegiate di piccoli imprenditori, tecnici e commercianti
– nella mentalità e nei costumi del popolo, soprattutto tra le generazioni più giovani dove
penetrarono rapidamente modelli di tipo consumistico. Fu proprio il contrasto tra
modernizzazione economica (per certi aspetti traumatica) e la conservazione di un potere
autoritario che provocò l’insorgere di nuovi e spontanei movimenti di protesta, soprattutto
tra gli studenti universitari che iniziarono a demandare maggiore democrazia e libertà
(Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
Tutto ebbe inizio nel dicembre 1986 quando a Hefei si formò un movimento di protesta
studentesco contro la presunta manipolazione delle elezioni per i congressi popolari, il
movimento si estese velocemente a Shanghai e Pechino e agli studenti si aggregarono altri
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
gruppi sociali che invocavano la democrazia. Questa fu la prima dimostrazione studentesca
nella storia della Repubblica Popolare non promossa o esplicitamente incoraggiata dal PCC.
Nell’aprile del 1989 moriva Hu Yaobang, che il popolo innalzò a sostenitore della
democrazia. Gli studenti dell’Università di Pechino organizzarono delle dimostrazioni per
commemorarlo e per protestare contro il governo (Roberts J. A. G., 2011) chiedendo
maggiori livelli di democrazia. Migliaia di studenti iniziarono ad ammassarsi in Piazza
Tian’anmen dal 17 aprile 1989, un’occupazione durante cui fu redatto un documento
contenente una lista di richieste (ad esempio maggiore libertà, controllo dell’inflazione, etc)
che venne categoricamente respinta dal governo. Anzi, nell’aprile il PCC produsse e divulgò
un documento in cui descriveva il movimento studentesco come una minaccia al sistema
cinese e alla crescita registrata fino ad adesso e incitava, quindi, la popolazione a supportare
il governo. Al contrario, la reazione prodotta fu un inasprimento della reazione studentesca
e la crescita del numero di persone unitasi alla protesa.
La rimostranza assunse caratteristiche e diffusione inaspettate. Gli studenti iniziarono lo
sciopero della fame e i moderni strumenti di comunicazione permisero una diffusione
capillare degli eventi di piazza Tian’anmen, che indussero altri studenti di differenti
università ad unirsi alla protesta.
Dopo un’iniziale incertezza del governo, fu deciso di porre fine a questo movimento
con l’esercito che fu inviato il 19 maggio e il 3 giugno, provocando un vero e proprio
massacro (il numero delle vittime si aggira intorno a 3.000 persone) i cui effetti si
protrassero per lungo tempo. Infatti, il progresso economico subì una prima battuta d’arresto
a causa delle critiche interne al PCC e all’indebolimento dei rapporti commerciali con
l’Occidente, rimasto sdegnato dalla violenza di quegli eventi.
Il complesso degli effetti post 1989 rischiavano di mettere a repentaglio il successo del
processo di modernizzazione avviato da Deng, minaccia che lo spinse a fare un viaggio
nella Cina Meridionale dove rilanciò la riforma economica e l’apertura attraverso le zone
economiche speciali. Consapevole degli attriti interni al PCC (che stavano tentando di
reintrodurre un governo centralizzato) Deng Xiaoping annunciò che anche la Cina avrebbe
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Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
seguito un processo riformatore definibile come «economia socialista di mercato» che stava
ad indicare la capacità del sistema economico cinese di saper mixare elementi di mercato
nell’economia pianificata. In altre parole, un rafforzamento del mercato (fine dei controllo
sui prezzi, riduzione dei lavoratori impiegati in imprese statali) a scapito dello Stato
pianificatore ( e quindi rafforzamento dell’iniziativa privata) (Fiori A., 2010).
Dopo il 1989, sebbene Deng Xiaoping continuò ad esercitare al propria autorità
suprema, Jiang Zemin divenne capo del PCC e Li Peng Primo Ministro (Sellier J., 2010).
Pertanto, alla morte di Deng – avvenuta nel febbraio del 1997 – non ci furono sanguinose
lotte per la successione, ma anzi il passaggio fu scandito da una continuità politica che si
potrebbe indicare come l’elemento caratterizzante lo sviluppo della Cina.
Dopo Deng, l’esponente di «terza generazione» Jiang Zemin salì al potere diventando
famoso per la teorizzazione delle «Tre Rappresentanze» secondo cui il partito ha sempre
rappresentato le forze produttive più avanzate, la cultura più avanzata e gli interessi
fondamentali della grande massa del popolo cinese. Questa teoria veniva elaborata proprio
in periodo in cui il PCC stava in parte perdendo credibilità agli occhi della nazione.
Pertanto, la teoria intendeva legittimare la posizione del PCC, in quanto rappresentante di
tutti gli elementi della società cinese, tra cui anche quelli più avanzati, ovvero i capitalisti
(Fiori A., 2010). Tra i suoi successi è fondamentale ricordare la riannessione di Hong Kong
nel 1997 e quella di Macao due anni dopo.
Jiang Zemin fu succeduto nel 2002 da Hu Jintao, che fu il primo Segretario Generale
del Partito Comunista Cinese ad essere eletto in via pacifica dai tempi della rivoluzione
comunista. Membro della «quarta generazione» cresciuta durante la Rivoluzione culturale,
Hu Jintato divenne Presidente della Repubblica Popolare Cinese nel 2003 e insieme al
Primo Ministro Wen Jiabao hanno portato avanti il progetto della formazione di una
«società xiaokang», ovvero in cui la popolazione è in maggioranza sufficientemente agiata.
L’obiettivo non era quindi una crescita economica spregiudicata e a tutti i costi, al contrario
il Presidente e il Premier adottarono una serie di provvedimenti atti a favorire l’uguaglianza
sociale e la salvaguardia dell’ambiente e del patrimonio naturale cinese (Sellier J., 2010).
19
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 6° - Il gigante rosso: la Cina
La presidenza di Jintao è stata interessata da parecchie tensioni, alcune ereditate dal
passato e che riguardano conteziosi territoriali, come il caso del Tibet – dove forti sono le
spinte autonomiste – e la regione dell’Urumqi – dove il programma di migrazione forzata
verso le ricche province orientali ha creato seri problemi di integrazione.
Altra importante e annosa questione è Taiwan che, nonostante i tentativi cinesi,
continua a mantenere la propria sovranità statale. Da molto tempo la Cina continentale
vorrebbe far diventare l’isola di Taiwan una regione speciale con un proprio sistema di
governo, ma per diversi anni le autorità del PCC hanno dovuto fronteggiare un governo
ostile a una simile soluzione. Dal 2008, con la vittoria del rinato Partito del Guomindang i
rapporti con la Repubblica Popolare sono migliorati. Attualmente, i viaggi e i rapporti
commerciali tra Cina e Taiwan sono diventati liberi, elemento fondamentale per la crescita
dell’economia di Taiwan, considerato che la Cina continentale rappresenta uno dei suoi più
importanti mercati di riferimento e il principale paese di destinazione dei suoi investimenti
(Fiori A., 2010).
Dal marzo 2013 il Presidente della Repubblica Popolare Cinese è Xi Jinping, mentre il
ruolo di Primo Ministro è coperto da Li Keqiang.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, UTET.
Fiori A. (2010), Asia orientale. Dal 1945 ai giorni nostri, il Mulino.
Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza.
Mazzei F., Volpi V. (2010), La rivincita della mano visibile. Il modello economico asiatico
e l’Occidente, Università Bocconi Editore.
Mazzei F., Volpi V. (2006), Asia al centro, Università Bocconi Editore.
Roberts J. A. G. (2011) Storia della Cina, il Mulino.
Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte.
20
Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
SOMMARIO MODULO 7°
L’altro gigante: l’India
7.1. L’evoluzione indiana
7.2. L’India da Gandhi alla drammatica partizione
7.3. Mutamenti del XX secolo
1
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
7.1. L’evoluzione indiana
La configurazione fisica dell’India ha di certo influito sulle vicende del popolamento
umano e sulla stessa unitarietà dei suoi caratteri, sempre tenendo conto dell’elevata varietà
etnica della regione. L’impervia barriera dell’Himalaya, seguita dal Tibet e dal deserto dei
Gobi, hanno ostacolato per molti anni i rapporti con l’Asia Nord-orientale. Questa frontiera
ha segnato il limite tra due tipi di cultura, quella nomade e quella degli agricoltori stanziali.
Prime testimonianze di queste comunità si potrebbero far risalire a circa 8.000 anni fa,
quando nella valle dell’Indo si stabilirono le prime popolazioni stanziali, dedite alla
coltivazione della terra e all’addomesticazione del bestiame. In questo vasto territorio
sorgevano numerose città in concomitanza allo sviluppo delle popolazioni locali, che
rapidamente diedero vita ad un inteso flusso commerciale. I primi popoli di cui si può
certificare la presenza è quella degli Arya, che penetrarono dal 1500 a.C. progressivamente
in tutta la parte settentrionale dell’India. Inizialmente popolo di tribù nomadi, spesso in lotta
tra loro, si trasformarono in comunità stanziali e crearono una confederazione di tribù e
regni (Sellier J., 2010).
Come per molti Stati della regione, anche nel caso dell’India si sono avuti un
susseguirsi di regni e dominazioni, più o meno incisivi, che hanno plasmato l’appartato
etnico e culturale dell’area, come ad esempio l’Impero dei Maurya, quello dei Gupta e
l’invasione degli Unni e dei Turchi.
L'incursione turca fu particolarmente violenta, se si considera che dopo le iniziali ma
numerose scorrerie, si passò a un’aggressione distruttrice e brutale che portò prima alla
conquista dell’India settentrionale e poi all’occupazione di Madura, nell’estremo Sud del
subcontinente indiano nel 1310 d.C. (Corna Pellegrini G., 1982). Diverse sono le ragioni
atte a spiegare i successi militari dei Mussulmani. In primo luogo la presenza di una
cavalleria, cosa che gli assicurò una grande mobilità, a differenza degli eserciti indiani
composti fondamentalmente da fanteria ed elefanti, quindi molto più lenti. In secondo
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
luogo, i saccheggi commessi dai Mussulmani aggravarono oltremodo lo squilibrio tra i
primi e gli Indiani, in quanto i rajah indiani continuavano a perdere le loro ricchezze nella
guerra a vantaggio dei mussulmani, che potevano, invece, contare su rinnovate risorse per
poter reclutare nuove truppe afghane e turche (Sellier J., 2010).
L’invasione turca determinò, inoltre, l’assoggettamento indiano sia sotto il profilo
militare che religioso, più specificatamente all’Islam. Particolarmente forte fu la
penetrazione negli ambienti rurali, dove la conversione alla religione dell’invasore dava la
possibilità di sottrarsi al dominio oppressivo e uscire da una situazione d’inferiorità. Così
conversioni di massa si registrarono nel Bengala, nella parte Nord-occidentale e in alcune
comunità della pianura del Gange (Corna Pellegrini G., 1982).
Questo processo di assimilazione religioso comportò catastrofiche conseguenze, in
primis la distruzione di templi indù o buddhisti, sostituiti da santuari e edifici islamici, come
le moschee a Delhi e Jaunpur, costruiti secondo uno stile che rappresentava una sintesi tra
gli elementi islamici e quelli indù.
L’impero turco, detto anche sultanato di Delhi, aveva come obiettivo finale
l’unificazione e la centralizzazione dell’India al fine di inserire la regione in un unico
sistema economico mondiale composta da Cina ed Europa occidentale, che a quei tempi
erano strettamente collegate tra loro da ingenti flussi commerciali. Nonostante le invasioni
mongole guidate da Genghis Khan nel XIII secolo e quello di Temerlano nel XIV secolo,
l’impero mussulmano riuscì a resistere, senza però ritrovare l’antico splendore.
Ormai indebolito e diviso, l’India dei Musulmani fu travolta nel 1536 dall’esercito di
Babur – presunto pronipote di Tamerlano – musulmano di rito sunnita il quale, grazie alla
superiorità militare dovuta essenzialmente alla polvere da sparo, fondò – nell’area che va
dalla valle dell’Indo alla pianura del Gange – l’Impero del Gran Moghul, che si distinse
negli anni per lo sviluppo delle arti e delle scienze, oltre che allo spirito di tolleranza che
regnò nell’impero. Il più famoso e importante imperatore fu Akbar (1555-1606) che riuscì a
estendere il dominio sulla quasi totalità dell’India settentrionale e in parte del Decan. Egli
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
tentò, peraltro, di dar vita ad un sistema amministrativo multietnico basato sulla lealtà nei
confronti del sovrano utilizzando la cultura persiana come collante ideologico. Cercò,
inoltre, senza successo, di fondere islamismo e induismo. Tuttavia, l’esperimento non
sopravvisse ad Akbar. In effetti, sebbene la presenza mussulmana si fosse consolidata
definitivamente nel subcontinente indiano, in particolar modo nella parte occidentale,
l’induismo continuò a scandire la vita dalla maggioranza della popolazione.
Gradualmente l’impero si disgregò e gli imperatori furono man mano spodestati dalla
crescente presenza occidentale, soprattutto della Gran Bretagna (Mazzei F., Volpi V., 2006).
I primi occidentali ad arrivare in India furono i Portoghesi con la fortunata spedizione di
Vasco de Gama che nel 1498, che dopo aver circumnavigato il Capo di Buona Speranza,
riuscirono a raggiungere Calicut, in India. I Portoghesi avevano intenzione di trarre enormi
profitti dal commercio delle spezie, fino a quel momento riservato esclusivamente a
Musulmani e Veneziani. È proprio in questo periodo che i rapporti con i primi, già
conflittuali, si deteriorarono ulteriormente.
I Portoghesi poterono operare indisturbati e acquisirono, di fatto, il dominio sulle rotte
commerciali nell’Asia Meridionale, riuscendo a conquistare man mano diversi importanti
porti. Tuttavia, il predominio portoghese durò fino alla fine del XVI secolo quando gli
Olandesi, approfittando del declino del commercio portoghese, li cacciarono da Malacca e
da Colombo (Sellier J., 2010). La Compagnia olandese delle Indie Orientali, fondata dopo
solo due anni quella inglese (1600) era decisamente più forte di quella britannica, ai tempi
molto piccola. Avviata per il commercio di pepe e altre spezie, successivamente la
Compagnia olandese si concentrò sul commercio di tessuti indiani che rivendevano in altre
parti dell’Asia. Anche gli Inglesi si inserirono gradualmente in questo settore commerciale,
che divenne col tempo altamente redditizio. All’inizio i mercanti inglesi si limitavano a
comprare i tessuti offerti dal mercato indiano, ma nel giro di poco tempo iniziarono ad
intervenire direttamente sul processo produttivo, insinuandosi nel territorio indiano. Ciò
permise alla popolazione inglese operante in India di acquisire un’elevata conoscenza del
paese che successivamente risultò fondamentale sotto il profilo politico e gestionale del
territorio.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
L’elevata competitività e convenienza dei prodotti indiani indebolì il mercato inglese a
tal punto che fu imposto il divieto di importare in Inghilterra tessuti a stampa, al massimo
era possibile importare materiali indiani grezzi con l’unico scopo della riesportazione –
entravano in Gran Bretagna tessuti in cotone grezzo, dove venivano ricamati per poi essere
esportati in India. In questo modo l’economia inglese ebbe modo di riprendersi – il
rinnovato slancio del settore manifatturiero fu oltremodo rafforzato dalla Rivoluzione
industriale – e in pochi anni fu la Gran Bretagna a rifornire di tessuti l’India.
Dal dominio commerciale si passò velocemente a quello amministrativo e giudiziario,
dal 1700 in poi si assistette a una rapida diffusione dell’amministrazione giudiziaria inglese,
ad esempio. Con l’affermazione del diritto anglo-indiano aumentarono gli avvocati e i
giudici indiani, dando vita a quelle classi sociali che successivamente criticarono
aspramente la sovranità della Corona inglese, utilizzando proprio i principi del diritto
inglese per mettere sotto accusa gli effetti della colonizzazione. Lo spirito missionario con
obiettivi civilizzatori presente agli inizi del XIX secolo era ancora forte e gli Inglesi non
immaginavano minimamente che i propri coloni indiani, che avevano avuto la possibilità di
godere dei benefici della loro civiltà, potessero ribellarsi contro. Cosa che invece avvenne
con la grande rivolta del 1857.
Originariamente, l’esercito era composto da Indiani – che non potevano ambire alle alte
posizioni dell’esercito – e da ufficiali inglesi che avevano una profonda conoscenza del
paese, della cultura e dei relativi problemi che i subordinati indiani potevano avere.
L’ampliamento dell’esercito a ufficiali sempre più giovani, inesperti e senza alcuna nozione
della popolazione autoctona portò ad aumentare le tensioni interne ai comparti militari, che
sfociarono in una protesta dei soldati indiani che marciarono verso Delhi e chiesero a
vecchissimo Gran Moghul di mettersi alla loro guida.
La ribellione si allargò a macchia d’olio, fino ad estendersi ai contadini e ai proprietari
terrieri dell’India settentrionale non contenti delle elevate tasse da pagare. Inizialmente gli
Inglesi fecero fatica a tenere sotto controllo la rivolta, che era scoppiata del tutto a sorpresa.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Fondamentale per la repressione della rivolta fu il sostegno dei sikh che riuscirono a
riconquistare Delhi con l’ausilio delle loro truppe irregolari. Il sostegno dei sikh è spiegabile
con l’odio provato da questa parte della popolazione verso la Bengal Army, che pochi anni
prima li aveva sottomessi. Questo supporto garantì un rapporto privilegiato con gli Inglesi,
tanto che da quell’insurrezione in poi, ai sikh fu riconosciuto un canale preferenziale per
entrare a far parte dell’esercito anglo-indiano.
La rivolta determinò anche la fine della Compagnia delle Indie Orientali, già da tempo
non operante nel settore commerciale, che con l’insurrezione raggiunse il tracollo
finanziario. Nel 1813 la Compagnia aveva perso il monopolio commerciale e nel 1833 fu
fatto divieto di praticare qualsiasi attività commerciale. Divenne, pertanto, un’agenzia
governativa che continuava a pagare agli azionisti i dividenti del profitto. Tale anomalia fu
risolta nel 1858 quando fu sciolta la Compagnia e lo Stato britanno entrò in possesso
dell’India. Non essendo più necessaria la presenza di un’organizzazione cuscinetto tra India
e Regno Unito e una volta eliminato il Gran Moghul, compromessosi con la sua
partecipazione alla rivolta del 1857, l’India entrò a far parte dei domini inglesi e la Regina
Vittoria fu nominata nel 1877 imperatrice. Dal quel momento fino al 1914 regnò la pax
britannica.
Con la proclamazione della regina Vittoria furono garantite pari opportunità agli
Indiani. Promesse che furono, però, disattese e causarono la nascita del primo movimento
nazionalista indiano – tra le cui principali lamentele c’era l’esclusione dalle più alte cariche
del servizio amministrativo anglo-indiano. I nazionalisti indiani si basavano su filosofi
come John Stuart Mill e Herbert Spencer – autori a cui il ceto istruito indiano poté accedere
grazie al sistema d’istruzione anglosassone – da cui scaturì il pensiero di esponenti come
Dadabhai Naoroji, primo critico della colonizzazione inglese, secondo cui gli Inglesi
avevano manovrato il commercio estero indiano a tal punto da averne drenato ogni sua
ricchezza (Rothermund D., 2007).
Tutte le correnti del nazionalismo indiano si riunirono nel Congresso Nazionale (AllIndia National Congress), riunitosi per la prima volta a Bombay nel 1885. Inizialmente il
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Congresso era composto da un élite per la grande maggioranza hindu, capace di parlare in
inglese e i cui obiettivi riformisti riguardavano essenzialmente l’apertura agli Indiani dei
consigli legislativi e delle alte cariche amministrative, la riduzione delle spese militari e la
diminuzione della tassa sul sale.
Fino alla Prima Guerra Mondiale la gestione inglese dell’India fu relativamente
tranquilla, eccezion fatta per i sommovimenti causati dalla divisione del Bengala. Nel 1904 i
britannici decisero di dividere la regione in Bengala orientale e Bengala occidentale, dando
vita ad una provincia a maggioranza musulmana. La decisione comportò da un lato lo
sdegno della popolazione indù, che decise di boicottare le merci inglesi e le istituzioni
scolastiche inglesi. Dall’altro lato, la fazione musulmana ne fu estremamente soddisfatta e
ne uscì rinvigorita, tanto che nacque nel 1906 la Lega musulmana, che riuscì a ottenere
dagli Inglesi un trattamento speciale sotto il profilo elettorale, contrariamento a quanto
affermava l’ideologia del Congresso.
Avendo l’obiettivo di consolidare l’equilibrio raggiunto, la dominazione britannica
decise nel 1909 di concedere ad alcuni rappresentanti indiani eletti di entrare a far parte dei
consigli legislativi centrali e provinciali, mentre i musulmani beneficiavano ancora di un
collegio elettorale diversificato. Inoltre, nel 1911 fu deciso di rivisitare la divisione del
Bengala, provvedimento che provocò lo scontento della parte musulmana, la quale poco
dopo, esattamente nel 1913, decise di adottare una nuova linea politica: quella dell’autogoverno (self-government) (Sellier J., 2010).
7.2. L’India da Gandhi alla drammatica partizione
Durante la Prima Guerra Mondiale più di un milione di Indiani supportarono la Corona
inglese negli sforzi bellici in Europa e nel Vicino Oriente, mossi dalla convinzione (o per
meglio dire speranza) che la fedeltà dimostrata sarebbe poi stata ricompensata con il
riconoscimento dell’indipendenza. Tuttavia a conflitto concluso, nonostante le richieste del
Congresso e della Lega, le aspettative furono disattese e le difficoltà economiche
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
provocarono un’ondata di malcontento, che permise l’emergere di Mohandas Gandhi
(Sellier J., 2010).
Giovane avvocato, Gandhi lavorava inizialmente in Sudafrica, dove ebbe inizio il suo
impegno per il riconoscimento dei diritti degli Indiani. Indignato dalle discriminazioni
subite, Gandhi organizzò una serie di attività di resistenza, la cui portata e successo lo
fecero diventare il leader indiscusso della minoranza indiana sudafricana. In questo periodo
Gandhi realizzò un sistema di resistenza «passiva», che in realtà si dimostrò essere
estremamente efficace, tanto da fargli valere il il nome di Satyagraha (fermezza della
verità).
Al suo ritorno in India, avvenuto nel 1915, Gandhi era già conosciuto e apprezzato dal
Congresso Nazionale, non soltanto grazie alla sua azione politica in Sudafrica, ma anche per
le posizioni prese su questioni di carattere nazionale e per il suo manifesto l’Hindi Swaraj.
In circolo già nel 1909, il manifesto, oltre a spiegare come senza il supporto indiano la
Corona inglese non avrebbe mai potuto dominare la stessa India, conteneva anche forti
critiche contro le civiltà occidentali e i primi elementi embrionali della sua futura politica
della «non cooperazione».
Poco dopo il suo rientro in India, Gandhi organizzò una prima protesta, nel 1919, contro
i Rawlatt Acts, che estendevano nel periodo post bellico le restrizioni imposte agli Indiani
durante il conflitto mondiale. Gandhi indisse allora un’hartal (sciopero generale) che
comportò la chiusura dei negozi di tutti i commercianti indiani. Sebbene si trattasse di una
vecchia forma pacifica di protesta, non si riuscì comunque a evitare che si verificassero
episodi di violenza, cosa da cui trasse lezione Gandhi, che, onde evitare atti di violenza che
avrebbero rappresentato la giusta scusante per i Britannici per reagire con durezza
(Rothermund D., 2007).
Intanto la battaglia per l’emancipazione dell’India iniziava a produrre qualche risultato,
nel 1919 con l’Indian Act fu garantito il diritto di voto a circa cinque milioni di Indiani,
sebbene i Musulmani continuassero a votare a parte. Gli Indiani ebbero così il diritto di
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
eleggere dei rappresentanti nelle due camere dell’Impero (Assemblea legislativa e Consiglio
di Stato) e nelle Assemblee provinciali.
Nel 1920 Gandhi convinse il Congresso ad aderire alla strategia della non-cooperazione,
creata da alcuni musulmani, consisteva nel boicottare le istituzioni britanniche e il
commercio dei tessuti importati: i notabili dovevano dare indietro le onorificenze ricevute
dalla Corona, gli studenti dovevano boicottare l’università, gli avvocati contestare i tribunali
e non si doveva prender parte alle elezioni previste con la nuova riforma costituzionale.
Infine, Gandhi propose di sabotare il commercio dei tessuti, ma non volendo urtare gli
interessi dei musulmani importatori dei prodotti tessili inglesi, propose di rivolgersi al
consumatore anziché al produttore. Fu così che gli attivisti indiani gettarono nel fuoco le
giacche e gli indumenti in tessuto inglese. L’obiettivo ultimo era quello del «self-rule»
(swaraj).
Nel 1922, però, a causa dell’uccisione di alcuni poliziotti da parte di rivoltosi, Gandhi
decise di annullare la campagna che stava conducendo in tutto il paese e pose fine al
movimento, decisione che provocò le critiche di molti giovani seguaci. Gandhi
probabilmente temeva che l’intero movimento potesse degenerare in forme di protesta
violenta e poiché i Britannici detenevano il monopolio dell’esercito, ogni azione violenta
sarebbe stata destinata a un utile spargimento di sangue e al fallimento (Sellier J., 2010).
Con la fine del movimento della non-cooperazione, nel 1922 il governo coloniale decise di
arrestare Gandhi che dopo soli due anni fu rilasciato per motivi di salute.
In questo stesso periodo iniziarono nuove agitazioni all’interno dei territori indiani, in
parte dovuti al riaccendersi delle tensioni tra musulmani e hindu in seguito alla soppressione
del califfato da parte di Ataturk nel 1924, in parte per la vittoria del partito laburista in Gran
Bretagna nel 1929. Questa vittoria, infatti, faceva ben sperare per il processo
d’indipendenza dell’India, considerata anche la buona predisposizione del viceré lord Irwin,
il quale addirittura propose l’indizione di una «Conferenza della Tavola Rotonda» a Londra,
composta da rappresentanti Indiani e della Corona al fine discutere di una possibile riforma
costituzionale. Tuttavia, gli entusiasmi laboristi furono contenuti da un convinto
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
imperialista in ascesa, Winston Churchill, secondo cui la massima concessione possibile era
lo status di provincial autonomy, ovvero la costituzione di governi locali indiani che
avrebbero affiancato il potere centrale della Corona.
Dall’altro canto, alcuni politici indiani erano diventati insofferenti e diedero vita ad un
nuovo partito all’interno del Congresso Nazionale, dal nome «Indian Independence League»
con a capo Jawaharlal Nehru e Subhas Chandra Bose che richiedeva la totale indipendenza
del paese. Già nel 1928 premevano affinché il Congresso adottasse una risoluzione in tal
senso, ma fu Gandhi che riuscì a mitigare gli spiriti e a concedere il rinvio di un anno, cosi
da dare il tempo necessario al viceré per poter perorare la causa indiana in seno al governo
britannico. Tuttavia di fronte al fallimento di Irwin, Gandhi dovette soccombere e fu
incaricato dallo stesso Congresso Nazionale di guidare una campagna di disobbedienza
civile.
Molto intelligentemente Gandhi redasse un programma adeguato e come prima azione
proclamò il 26 gennaio la «Festa dell’indipendenza» (che poi divenne «Festa della
Repubblica»).
Successivamente,
stilò
11
punti
che
rappresentavano
l’essenza
dell’indipendenza indiana e che, grazie alla sapiente lungimiranza di Gandhi, rappresentava
tutte le diverse componenti della popolazione indiana.
Nei punti si proponeva anche l’abolizione della tassa sul sale, che impattava
pesantemente sugli Indiani più poveri. Difatti, il governo della Corona deteneva il
monopolio sia sulla produzione che sulla commercializzazione del sale e chiunque fosse
stato scoperto a produrlo privatamente o raccoglierlo (ad esempio anche lungo le spiagge)
commetteva reato. Tuttavia, in un paese caldo come l’India, il sale rappresentava una risorsa
fondamentale per sopravvivere. Pertanto, dal punto di vista di Gandhi trattandosi di una
legge ingiusta era possibile trasgredirla e fu così che, raccolto un gruppo di fedelissimi, si
mise in marcia verso la costa, raggiunta il 6 aprile del 1930. Esattamente sulla spiaggia di
Dandi nel Gujarat, Gandhi raccolse un granello di sale e divenne perseguibile secondo le
leggi coloniali. Questa protesta, inizialmente simbolica, produsse gli effetti sperati grazie
alle ripercussioni della crisi economica che si era imbattuta a livello globale.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Difatti nel 1930 il prezzo del frumento e del riso si dimezzò, provocando un’eguale
riduzione del reddito dei contadini indiani costretti comunque a pagare le stesse tasse e i
medesimi interessi, trovandosi così in estreme condizioni di difficoltà economica.
Iniziarono, quindi, una serie di proteste contro il pagamento delle tasse e dei fitti fondiari,
sedate solo con l’organizzazione di una seconda Tavola Rotonda riguardante il processo di
emancipazione dell’India. Raggiunto nel 1931, l’accordo prevedeva la fine della campagna
di Gandhi e la sua partecipazione alla Conferenza della Tavola Rotonda, mentre la
controparte inglese non dovette promettere nulla in cambio. In realtà per Gandhi la sola
possibilità di poter partecipare e trattare alla pari con il viceré costituiva una gran vittoria.
Molte delle speranze di Gandhi erano riposte nel primo ministro MacDonald, il quale
però a causa dell’incapacità di saper fronteggiare la crisi economica risultò essere un mero
esecutore nelle mani dei conservatori. Le trattative della Tavola del 1931 furono quindi
fallimentari e motivo di frustrazione per Gandhi, il quale una volta di ritorno in patria fu
immediatamente portato in prigione (Rothermund D., 2007).
Intanto nel 1935 il nuovo Indian Act allargò i corpo elettorale e instaurò nuovi governi
provinciali in India, cosa che permise al Congresso di ottenere la maggioranza dei governi
regionali durante il rinnovamento delle Assemblee legislative del 1938. Non riuscirono però
a raggiungere un numero di seggi sufficienti al conseguimento della maggioranza anche in
Bengala e Punjab. Le vicende di queste due provincie furono causa di imprevedibili e
irrisolvibili problemi per la Corona britannica quando, successivamente alla vittoria da parte
degli Alleati della Seconda Guerra Mondiale, il gabinetto laburista si mosse velocemente
per liberare la Gran Bretagna dall’India (Ludden D., 2011)
Intanto i progetti di emancipazione indiana furono bloccati con lo scoppio della
Seconda Guerra Mondiale, ma la posizione strategica del paese e l’evoluzione del conflitto
rappresentarono in seguito importanti strumenti per poter far leva sul governo britannico.
11
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Figura 7.1.: L’impero coloniale nel 1939
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
Fino al 1941 il governo anglo-indiano si occupò principalmente di far lavorare
l’industria indiana per sopperire al fabbisogno bellico. Furono, pertanto, create quelle
istituzioni e quell’organizzazione amministrativa che in seguito fu ereditata dall’India
indipendente, senza cui il paese non sarebbe stato in grado di realizzare i progetti di
programmazione economica.
Il reale intervento dell’India – e quindi la possibilità di «ricattare» il governo britannico
– si ebbe nel 1942 quanto l’avanzata giapponese si fece sempre più pericolosa, con la
conquista della Birmania britannica e la caduta di Singapore, per cui l’India acquisì una
posizione strategicamente fondamentale. Fu allora che Roosevelt sollecitò Churchill a far si
che l’India entrasse in guerra al fianco degli Alleati ma questi, data la ben nota opposizione
del Primo Ministro inglese a cedere alle richieste indiane, si limitò ad adottare un
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
sotterfugio accettando l’offerta di Stafford Cripps, membro del Gabinetto, il quale avrebbe
dovuto mediare tra interessi indiani e britannici affinché l’India entrasse in guerra.
Il fallimento della Cripps Mission determinò una forte reazione del Congresso
Nazionale e di Gandhi, che si concretizzò con la campagna del «Quit India» che invitava gli
Inglesi a lasciare il paese considerato che non erano in grado di difendere i territori indiani
e, soprattutto, tenuto conto che gli Indiani non erano in conflitto con i Giapponesi. Il
messaggio di Gandhi fu uno «do or die» (agisci o muori) da intendere non in termini di
violenza, ma di alta determinazione e massimo impegno. La risposta del viceré Linlithgow
fu la totale repressione e imprigionamento di tutti i capi del Congresso. La reazione indiana
fu molto violenta, soprattutto da parte del movimento indipendentista indiano che, privato
della sua guida, si scaglio contro beni immobili della Corona. Questi tipi di sovversioni
rientravano perfettamente nelle capacità repressive inglesi che non impiegarono molto a
sedare la «rivoluzione». Intanto le sorti della Seconda Guerra Mondiale si ribaltarono a
favore degli Alleati, grazie alla vittoriosa battaglia nelle isole Midway. L’appoggio
dell’India non era più così essenziale.
Un momento di svolta fu la sostituzione del viceré Linlithgow – che ormai aveva
superato il limite massimo di estensione del mandato– con il generale lord Wavell, il quale
non essendo un politico di mestiere, inizialmente ebbe serie difficoltà a rapportarsi con i
politici inglesi e indiani. Wavell, però, era profondamente consapevole di cosa comportasse
la smobilitazione dell’esercito anglo-indiano, soprattutto dopo che era stata superata la
vecchia regola di non concedere il diploma di ufficiale a soldati indiani: durante il secondo
conflitto mondiale circa 8.000 Indiani divennero ufficiali. La soluzione al problema della
smobilitazione era la costituzione di un governo indiano provvisorio in grado di lavorare.
Cosi nel 1945 lord Wavell volò a Londra per ottenere l’autorizzazione in tal senso e
dopo un iniziale contrasto con Churchill, il generale ottenne il benestare a portare avanti il
suo progetto. La fortuna volle che nel 1945 in Gran Bretagna le elezioni furono vinte dal
partito laburista favorevole a risolvere la questione indiana, fu così che Wavell ebbe
l’autorizzazione a procedere con le elezioni in India in attesa di nuovi sviluppi. L’esito delle
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
elezioni fu inaspettato, ne uscì rafforzato Jinnah – leader del movimento musulmano – che
spingeva per la partizione dell’India e la creazione del Pakistan (Rothermund D., 2007).
All’inizio del 1946 fu inviato in India un gruppo di «tre saggi» che proposero la
creazione di una confederazione in due Stati, lasciando al governo centrale la gestione delle
relazioni estere e della difesa. La proposta fu accettata sia dal Congresso sia dalla Lega, ma
il progetto si arenò nella definizione di un governo interinale. Il paese quindi attraversò un
periodo di terribili scontri in cui si affrontarono musulmani e hindu (si parla di più di
100.000 morti) che costrinsero Londra a sostituire nel 1947 Wavell con lord Louis
Mountbatten (Sellier J., 2010), in quale prima di accettare impose delle condizioni molto
severe e stringenti: pieni poteri che lo posero al di sopra dello stesso Ministro per l’India e
dichiarazione della Corona in cui si concedeva ufficialmente l’indipendenza all’India.
All’arrivo di lord Mountbatten in India la partizione gli sembrò inevitabile, pertanto,
stinse rapporti sia con Nehru che con Jinnah – sebbene lo trovasse insopportabile – ma
dovette comunque fargli accettare che non poteva chiedere tutto il Bengala e il Punjab, ma
esclusivamente quei distretti delle due province a maggioranza musulmana. Molto più
difficile fu ottenere il consenso di Gandhi, il quale fino a poco prima aveva definito la
divisione una «vivisezione dell’India». Tuttavia dopo la visita del viceré, durante cui gli
mostrò come velocemente fosse riuscito a ottenere l’indipendenza del paese e raggiungere
una soluzione consensuale tra le parti politiche coinvolte, Gandhi espresse durante il raduno
per la preghiera la sua fiducia a lord Mountbatten.
Nel luglio del 1947 il Parlamento della Corona votò l’Indipendence Act e il 14 agosto
del 1947 a Karachi e il 15 agosto a Nuova Delhi il viceré proclamò l’indipendenza dei due
nuovi Stati. Nessuno, soprattutto gli Inglesi, poterono immaginare il bagno di sangue che
questa partizione avrebbe potuto causare (Rothermund D., 2007): lungo la frontiera del
Punjab, che attraversava gli insediamenti sikh, si verificarono atti di violenza inaspettati. A
partire dall’agosto del 1947 masse di hindu e sikh abbandonarono il Punjab occidentale,
altrettanti musulmani fuggirono dal Punjab orientale e le due fazioni si affrontarono in
violente rappresaglie, provocando un bagno di sangue e un vero esodo di massa.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Queste migrazioni di massa non interessarono solo il Punjab, tra il 1947 e il 1948 circa
14 milioni di persone abbandonarono le proprie case: più d un milione di hindu lasciarono il
Sind, un milione e mezzo di musulmani si spostarono dalla pianura del Gange verso
Occidente, nel Bengala, infine, ci fu la migrazione di più di tre milioni di hindu e un milione
di musulmani (Sellier J., 2010).
7.3. Mutamenti del XX secolo
All’indomani della proclamazione dei neonati Stati di India e Pakistan le autorità
centrali si trovarono a dover affrontare la questione dell’annessione degli Stati principeschi
che, in seguito alla spartizione, dovettero scegliere a quale stato annettersi. Furono oltre 550
gli Stati che nell’agosto del 1947 decisero di entrare a far parte dell’India, solo tre stati, tra
cui il Kashmir, erano riluttanti: il Kathiawar e l’Hyderabad, entrambi governati da
musulmani ma la cui popolazione era in maggioranza hindu. Il primo optò per l’annessione
al Pakistan, ma dopo poco una sommossa popolare supportata dal governo indiano, si
ottenne la sua unione all’India. L’Hyderabad, invece, cercò in tutti i modi di preservare la
propria indipendenza (sebbene fosse ormai una semplice enclave), ma gli fu comunque
concesso un anno per decidere, durante cui il governo allora regnante s’inasprì, cosa che
spinse le truppe indiane a occuparlo ed impadronirsene nel 1948 (Sellier J., 2010).
Restava solamente la questione del Kashmir che per la sua posizione geografica
(confina con India, Pakistan e Cina) aveva più margine di decisione. Territorio a
maggioranza musulmana e retto da un maharaja induista, tentennò circa l’annessione fino a
che l’esercito pakistano non lo invase, costringendolo a chiedere l’aiuto dell’India.
Quest’ultimo, su suggerimento di lord Mountbatten, decise che non poteva fornirglielo fino
a quando la questione dell’annessione non fosse risolta: fu così che il maharaja del Kashmir
si piegò e truppe indiane entrarono a sua difesa. Nel giro di poco tempo il conflitto si inasprì
e Nehru chiese la condanna delle Nazioni Unite contro il Pakistan, che non condannarono il
Pakistan come paese aggressore ma riuscirono comunque a ottenere un armistizio
sforzandosi di trovare una soluzione politica al problema (Rothermund D., 2007).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Figura 7.2.: L’India dopo l’indipendenza
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
Intanto nel resto dell’India si operava per compiere e concretizzare l’emancipazione
dell’India e renderlo uno Stato a tutti gli effetti. Gandhi fu assassinato nel 1948 per mano di
giovane fanatico nazionalista, perché a suo parere il Mahatma (Gandhi) era colpevole di alto
tradimento, essendo promotore della spartizione dell’erario tra Pakistan e India. L’evento
suscitò un vasto sentimento di unità nel paese, anche tra musulmani e hindu, rafforzando la
linea «laica» sostenuta da Nehru e dal Congresso.
Nel 1950 fu adottata la Costituzione che instaurò uno Stato laico, egualitario,
democratico, fondato sul suffragio universale e federale. Si ebbe quindi un sistema politico
parlamentare: il Primo Ministro ha il potere di governarne solo con l’appoggio di una
maggioranza alla Camera del popolo e il Presidente della Repubblica (eletto per cinque anni
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
dal Parlamento e dalle Assemblee degli Stati) ha il potere di sospendere la Costituzione (al
massimo per sei mesi) solo nel caso in cui la sicurezza dello Stato sia minacciata. La
seconda Camera è, invece, composta dal Consiglio degli Stati. Inoltre l’India è federale
perché, già dal 1950, è composta da 18 Stati di cui nove corrispondenti alle ex province
britanniche e i restanti dagli ex Stati principeschi e/o da raggruppamenti di Stati
principeschi.
Il principale protagonista della prima fase dell’India indipendente e democratica fu
sicuramente Nehru che guidò il paese fino alla sua morte avvenuta nel 1964. Il suo Partito
del Congresso risultò maggioritario nel Parlamento federale per molti anni, sebbene
esistesse un’opposizione di sinistra, socialista e comunista, ma proclamandosi egli sesso
socialista, Nehru sbaragliò la concorrenza politica per lungo tempo (Sellier J., 2010).
Inoltre, il sistema maggioritario permetteva al Partito del Congresso di risultare sempre
vittorioso alle elezioni, essendo la forza politica di centro in una competizione in cui gli
antagonisti erano la destra e la sinistra. Un temibile avversario era il partito di destra del
Bharatiya Janata Party – BJP che gradualmente riuscì a salire al potere.
Il successo del BJP è ascrivibile essenzialmente a due fattori: la formazione e crescita di
un «ceto medio» e l’articolazione di interessi politici regionali. Il primo fattore fu merito di
Nehru che adottando una mirata pianificazione economica, riuscì a far diventare l’India una
potenza industriale, in cui viveva una piccola porzione di popolazione (circa il 10% della
popolazione) che beneficiò dello sviluppo di un’economia generalmente liberale
(Rothermund D., 2007).
In campo internazionale Nehru e la sua India sono passati alla storia per aver dato vita
durante la Guerra Fredda, insieme a Tito e Nasser, ad un nuovo tipo di schieramento di «non
allineamento». Fu dietro iniziativa di Nehru che fu invitato il Primo Ministro cinese Chu
En-lai a partecipare alla Conferenza di Bandung nel 1955. Secondo Nehru la Cina era una
potenza anticolonialista e non ritornò su questa sua posizione neanche quando le truppe
cinesi invasero il Tibet e nel 1954 conclusero il trattato in cui lo si riconosceva regione della
Cina. Questo trattato conteneva i cinque principi (pangha shila) della coesistenza pacifica,
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
su cui Nehru si basò, molto superficialmente, anche in seguito nel delineare la sua politica
estera.
Infatti, nel 1957 prima e nel 1959 la Cina non aveva rispettato questo principio,
provocando la fuga del Dalai Lama e di centinaia di Tibetani in India. Per porre fine al
conflitto con la Cina, nel 1962 Nehru accettò il supporto militare inglese e americano,
compromettendo così il proprio ruolo di paese guida del movimento dei «non allineati».
Morì poco dopo nel maggio del 1964 e sebbene gli sopravvisse il movimento non ci fu più
quell’euforia che lo aveva contraddistinto nei primi anni di attività.
Nehru fu succeduto da Lal Bahadur Shasri, ma in quegli stessi anni iniziò ad affacciarsi
sulla scena politica la figlia di Nehru, Indira Gandhi (che non aveva nessun legame di
parentela con Mahatma) che già nel 1967 vinse le elezioni dando così inizio all’epoca di
Indira Gandhi, che fu subito segnata dalla guerra indo-pakistana del 1971 che condusse
all’indipendenza del Bangladesh (Sellier J., 2010).
Figura 7.3.: L’Asia Meridionale oggi
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
L’adozione di una politica poco lungimirante e la perpetuazione di un atteggiamento
colonialista sul Pakistan orientale da parte del Pakistan occidentale, alimentarono la nascita
di movimenti nazionalisti linguistici bengalesi. Quando l’esercito del punjabi intervenne con
la forza nei territori orientali nel marzo del 1971, la guerra da interna si tramutò in un
conflitto per l’indipendenza che vide contrapporsi il Pakistan, alleatosi con gli Stati Uniti,
all’India, che strinse un trattato di reciproca assistenza con l’URSS e che, infine, condusse
alla proclamazione dell’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan.
La sconfitta fu ancora più schiacciante perché il nuovo Presidente del Pakistan, Zulfiqar
Ali Bhutto, per riscattare i propri prigionieri di guerra dovette garantire ad Indira Gandhi
che tutti i futuri ed eventuali conflitti tra i due Stati si sarebbero risolti solamente con
negoziati bilaterali, escludendo l’internazionalizzazione della questione del Kashmir,
politica che fino ad allora era stata perpetuata dal Pakistan.
Ancora una volta sconfitto in una guerra convenzionale, il Pakistan non si diede per
vinto e decise di riequilibrare la forza militare tra i due paesi con l’annuncio nel 1972 della
costruzione della «bomba islamica». La risposta indiana non mancò ad arrivare e già nel
1974 esplose una carica nucleare che diede il via alla corsa agli armamenti nucleari da
entrambe le parti fino a quando, nell’estate del 1998, entrambi gli Stati non eseguirono dei
test nucleari (Rothermund D., 2007).
A questo punto, raggiunta la parità militare i due paesi avrebbero dovuto stabilizzarsi,
ma al contrario l’attacco del Pakistan su territori del Kashmir utilizzando armi
convenzionali dimostrò che le tensioni nella regione non si sarebbero risolte nel breve
termine. Ad ogni modo, la trasformazione dell’India in potenza nucleare le ha fatto
guadagnare prestigio e potere sulla scena internazionale.
A livello economico l’India oggi rappresenta una delle principali economie emergenti,
sebbene il paese rappresenti una paese ancora molto povero. Il sistema economico indiano
molto deve ancora a quel sistema di razionalizzazione e modernizzazione dell’agricoltura
19
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
indetto da Indira Gandhi, che sebbene nelle intenzioni fosse lodevole, sul piano pratico
avvantaggiò la media e grande proprietà.
Importanti cambiamenti si sono avuti con il premier Narasimha Rao, grazie alle riforme
ideate da Manmohan Singh, che hanno determinato la «svolta liberista» dell’India all’inizio
degli anni Novanta, capace di dare un impulso di progresso simile al programma di apertura
e riforme ideato da Deng Xiaoping nel 1978. Sostanzialmente il sistema di riforme mirò a
ridurre il ruolo di uno Stato eccessivamente interventista attraverso: la privatizzazione e la
deregolamentazione che ridussero l’azione dello Stato e favorì l’iniziativa privata; la
contrazione delle spese pubbliche attraverso la riduzione degli aiuti e sovvenzioni e
ricostruendo le finanze pubbliche (anche grazie ad un’importante riforma fiscale);
favorendo massicci investimenti sia nazionali che esteri (Mazzei F., Volpi V., 2006).
Attualmente in paese è in forte crescita, come dimostrato dal tasso medio di crescita che
dal 2000 si è assestato intorno al 7%. Tuttavia, il progresso economico ha prodotto delle
differenze settoriali e regionali: l’agricoltura che rappresenta meno dell’1/3 del PIL impiega
circa i 2/3 della forza lavoro nazionale; l’industria che costituisce circa il 30% del PIL da
lavoro ad 1/5 della popolazione attiva; mentre il settore terziario – il più produttivo –
contribuisce per la maggior parte alla realizzazione del PIL e occupa solo l’1/6 della forza
lavoro (Rothermund D., 2007).
L’India rappresenta quindi un importante paese dell’outsourcing, ovvero del settore dei
servizi più avanzati, come call center, assistenza informatica remota, grandi studi di
consulenza fiscale e amministrativa, di analisi chimiche e biogenetiche, avendo molto
investito oltre che sui capitali anche in conoscenza e ricerca, in altre parole in capitale
umano.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, UTET.
Fiori A. (2010), Asia orientale. Dal 1945 ai giorni nostri, il Mulino.
20
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 7° - L’altro gigante: l’India
Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza.
Ludden D. (2011), Storia dell’India e dell’Asia del Sud, Piccola Biblioteca Einaudi.
Mazzei F., Volpi V. (2010), La rivincita della mano visibile. Il modello economico asiatico
e l’Occidente, Università Bocconi Editore.
Mazzei F., Volpi V. (2006), Asia al centro, Università Bocconi Editore.
Rothermund D. (2007), Storia dell’India, il Mulino.
Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte.
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Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 8° - La penisola coreana
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
SOMMARIO MODULO 8°
La penisola coreana
8.1. Il ponte tra Oriente e Occidente
8.2. La Corea del Sud
8.3. La Corea del Nord
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
8.1. Il ponte tra Oriente e Occidente
La penisola di Corea può essere paragonata ad un ponte naturale che unisce l’Asia
continentale con la parte insulare. Il suo nome deriva dalla dinastia Koryo al potere nel
XVIII secolo, quando ci furono i primi arrivi dei Portoghesi nella regione. Il territorio è
anche chiamato «Hangook», ovvero «terra di Han», dal nome della principale fiume della
Corea meridionale, che poi fu anche il nome di un’antica civiltà del paese. La peculiarità
della penisola coreana sta nell’essere stata attraversata e influenzata da popolazioni, civiltà e
idee che dalla Cina sono passate in Giappone e viceversa, la cui portata è stata tale dall’aver
profondamente influenzato la stessa Corea.
La penisola coreana deve, dunque, molto alla civiltà sviluppatasi nella pianura della
Cina settentrionale e al fatto di essere proiettata verso le isole giapponesi. Infatti, i primi
tentativi di unitarietà amministrativa si ebbero nel III secolo a.C., quando in Cina si instaurò
il primo Stato unitario e alcuni cinesi, forti delle loro esperienze di governo, posero in Corea
le basi per un nucleo politico di forte impronta sinica, a cui fu dato il nome di Choson. Nel I
secolo a.C. i territori di Choson furono inglobati dall’avanzata imperiale della dinastia
cinese Han, che divise e organizzò i territori coreani secondo il sistema in vigore in Cina in
quel tempo. La popolazione autoctona, probabilmente tenuta in condizione di
subordinazione se non peggio, riuscì comunque ad acquisire tecniche avanzate sotto il
profilo civico, scientifico e artistico, fondamentali per supportare più tardi la formazione di
unità politiche indipendenti e ben organizzate.
Il periodo dei Tre Regni, composto dai quello di Koguryo, Paekche e Silla, (57 a.C. –
668 d.C.) fu caratterizzato dall’alternanza del predominio cinese e giapponese,
perennemente in conflitto tra loro, dalla graduale penetrazione del buddhismo e da una
relativa crescita urbana, supportata principalmente da una forte produttività agricola.
L’unificazione della Corea si ebbe nel 668 d.C., quando il regno di Silla assorbì gli altri
due regni e riuscì a mantenere questa condizione di pace e stabilità per quasi tre secoli.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
Durante questo regno, si rafforzarono i legami con la Cina dei Tang, influenzando
profondamente la struttura organizzativa del paese, dando però maggior rilievo agli elementi
aristocratici che distinguevano lo Stato. In Corea, infatti, le cariche governative erano
riservate esclusivamente ai membri della famiglia regnante e della classe dei nobili, fatta
eccezione per il sistema degli esami di Stato, che avevano lo scopo di ampliare la base
sociale della classe burocratico-amministrativa.
Un periodo di decadenza precedette la fine del regno Silla, al quale subentrò una nuova
dinastia, quella di Koryo che mantenne il potere per oltre quattro secoli, dal 918 d.C. al
1392 d.C.. Uno dei primi cambiamenti apportati dai nuovi regnanti fu lo spostamento della
capitale a Songdo, che indicava non solo il disprezzo dei nuovi sovrani per le popolazioni
meridionale, ma anche la necessità di proteggersi dalle popolazioni nomadi lungo i confini
del Nord. Minaccia che si concretizzò nel XII secolo, quando diversi gruppi nomadi fecero
pressioni lungo le frontiere settentrionali, fino a che i Mongoli, più forti e organizzati,
conquistarono il Nord Corea, ponendolo in uno stato di completa subordinazione. Le
diverse spedizioni dei Mongoli, unite alle continue incursioni piratesche dei Giapponesi
stremarono economicamente e demograficamente la regione coreana, tanto che alcune aree
furono abbandonate dai suoi abitanti (Corna Pellegrini G., 1982).
I Mongoli furono sconfitti solo quando in Cina si affermò la dinastia Ming, grazie alla
quale nacque in Corea la dinastia degli Yi che regnò fino al 1910. Il passaggio di regnanti fu
abbastanza burrascoso, con la cacciata dei Mongoli la corte si divise in due, alcuni restarono
sostenitori dei Mongoli, altri sostenevano i Ming. Quando nel 1338 le truppe dei Ming si
ammassarono lungo i confini, il generale Yi Song rendendosi conto della superiorità
militare cinese, fece ritorno al palazzo e neutralizzò tutta la corte, impadronendosi nel 1392
del paese e fondando appunto la sua dinastia (Sellier J., 2010).
Fedele tributario dei Ming, la dinastia Yi realizzò profonde riforme che trasformarono la
struttura politica, economica e sociale del paese: i territori furono organizzati in base ad una
nuova divisione amministrativa; si operò per una più precisa struttura burocratica degli
organi di governo centrale e locale; un nuovo sistema degli esami di Stato fu introdotto, con
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
norme ancor più rigide di quelle cinesi, che costituirono la base dell’organizzazione statale
coreana. Questo sistema d’esami favorì fortemente la diffusione della filosofia confuciana e
lo sviluppo delle scuole. Si formò così un élite intellettuale che, dopo gli studi universitari,
era pronta ad affrontare gli esami nazionali e ad essere immessa nella burocrazia
governativa (Corna Pellegrini G., 1982).
Verso la fine del XVI secolo la Corea fu colpita dall’offensiva via mare del dittatore
giapponese Hideyoshi. Inizialmente chiese l’autorizzazione al governo coreano per poter
attraversare il paese e procedere alla conquista della Cina, ma al (giusto) rifiuto coreano, il
dittatore invase il territorio e s’impadronì di Seul. La guerra durò sei anni e, sebbene riuscì a
liberarsi dagli invasori nipponici, la Corea ne uscì distrutta, le campagne furono
saccheggiate e divennero improduttive, il potere politico discorde e indebolito. Condizione
di cui si avvantaggiò la popolazione Manciù che a partire dal 1636 provarono a attaccare il
paese ripetutamente, fino a quando l’anno successivo la Corea non fu costretta a riconoscere
la superiorità Manciù su quella Ming (Sellier J., 2010). L’ascesa dei Qing – dinastia fondata
in Cina dai Manciù – corrispose con l’isolamento della Corea che doveva riavviare un
processo di sviluppo tout court, essendo in quegli anni caratterizzato a una profonda
stagnazione economica culturale e politica. Condizione che sul lungo periodo la rese più
vulnerabile alla penetrazione giapponese e occidentale (Corna Pellegrini G., 1982).
Inizialmente ostile a qualsiasi intrusione occidentale – tanto da aprire il fuoco su
qualsiasi nave straniera in avvicinamento alle coste coreane – le idee occidentali riuscirono
comunque a diffondersi grazie soprattutto alla mediazione dei mercanti, che le
consideravano «conoscenze pratiche». Verso la fine del XIX secolo, poi, furono costretti a
soccombere definitivamente dopo che le flotte giapponesi inflissero una schiacciante
sconfitta, costringendo le autorità di Seul a firmare nel 1876 un «trattato ineguale» che
prevedeva la concessione di tre porti, ovvero l’apertura al commercio giapponese.
Da quel momento in poi la Corea fu al centro di tensioni e rivalità internazionali,
soprattutto di origine giapponese, cinese e russa, tutte miranti a conquistare le risorse dei
territori coreani e della confinante Manciuria. I momenti salienti di quest’avanzata straniera
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
furono il 1895, anno in cui nello scontro tra Cina e Giappone ebbe la meglio il secondo
Stato e il 1905, che decretò la vittoria nipponica sulla Russia, nonché la trasformazione della
Corea
in
un
proprio
protettorato.
Successivamente
i
Giapponesi
procedettero
sistematicamente a occupare militarmente i territori coreani, a scioglierne l’esercito e a
occupare tutti i posti di responsabilità, per finire decretarono l’annessione diretta della
Corea nel 1910.
Governata come una colonia con opprimente durezza, la popolazione locale fu trattata
come «razza inferiore» – vennero esclusi da qualsiasi posizione di potere – furono soppresse
tutte le libertà politiche, l’insegnamento del coreano fu trascurato a favore, invece, del
giapponese e la modernizzazione della Corea – sebbene fu dotata di buone infrastrutture e
delle prime industrie – fu programmata unicamente a soddisfare gli interessi e il progresso
giapponese (Sellier J., 2010).
In questi anni nacquero e si diffusero idee nazionaliste e diversi movimenti di protesta,
aventi tutti uno spirito sostanzialmente antigiapponese, ma articolate secondo molteplici
fazioni antagoniste tra loro. Prime manifestazioni si ebbero già intorno al 1919, ma la
repressione giapponese fu talmente efficiente e senza scrupoli dal riuscire a eliminare ogni
movimento comunista o liberale. La Corea continuò a essere sfruttata in ogni sua risorsa
umana e naturale esclusivamente in funzione dell’espansionismo dell’impero nipponico,
fino alla sua disfatta nel 1945 (Corna Pellegrini G., 1982).
Con la disfatta della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone perse tutti i suoi territori
coloniali. Pertanto, le potenze vincitrici dovevano occuparsi della liberazione e
smilitarizzazione di Stati come la Corea e portarli all’indipendenza. Già nel 1943 Chiang
Kai-shek, Roosevelt e Churchill s’incontrarono al Cairo per definire il futuro dell’Asia,
stabilendo che a tempo debito la Corea sarebbe diventata uno Stato libero e indipendente.
Quello che è importante rilevare di questa dichiarazione è la trasparenza di USA e Gran
Bretagna circa le loro intenzioni in Corea e come, sebbene quest’ultima non rappresentasse
ancora uno Stato con un’importate posizione strategica, il Presidente Roosevelt fosse
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
convinto che la migliore soluzione per il paese fosse l’imposizione di un’amministrazione
controllata.
Intuizione che si potrebbe definire lungimirante, considerato che non appena la Russia
dichiarò guerra al Giappone nell’agosto del 1945, questa si diresse alla volta della Corea,
essendo da tempo interessata al paese. Per timore che la penisola potesse entrare
interamente sotto l’influenza russa, due colonnelli americani nella notte tra il 10 e l’11
agosto esaminarono la cartina della Corea alla ricerca di una possibile divisione dello Stato
da porre sotto «amministrazione controllata» e arrivarono alla conclusione che dividendo il
paese lungo il 38° parallelo si poteva ottenere una partizione quasi perfettamente egualitaria,
riuscendo a mantenere la capitale Seul nella parte meridionale della Corea, zona che sarebbe
poi andata sotto il controllo statunitense. Il 13 agosto 1945, con sorpresa della stessa
presidenza statunitense, il governo di Mosca accettò l’offerta di divisione (Fiori A., 2010).
Nel dicembre del 1945, durante la Conferenza di Mosca, si formalizzò quindi la
divisione lungo il 38° parallelo e l’imposizione dello status di tutela congiunta da parte degli
Stati Uniti, Cina URSS e Gran Bretagna. Successivamente, una commissione sovieticoamericana prese i contatti con i gruppi democratici coreani per organizzare un governo
provvisorio, ma l’opposizione dei Coreani (derivante dall’atteggiamento del Partito
comunista) e le divergenze sulla strada da percorre condussero ad un impasse nella
commissione.
Nella parte meridionale gli Americani supportavano Syngman Rhee, dell’Associazione
nazionale per l’indipendenza coreana, mentre nella Corea settentrionale salì alla guida del
partito comunista Kim Il-sung (Sellier J., 2010).
La gravità dell’impasse fu tale che nel novembre 1947 le Nazioni Unite –
profondamente influenzate dagli Stati Uniti – fondarono la Commissione Temporanea delle
Nazioni Unite sulla Corea, con il compito di supportare le elezioni in Corea e
conseguentemente un governo indipendente. In tal senso, l’obiettivo prefissato era quello di
dotare il paese di un parlamento unico entro marzo 1947, così da trasferire il potere al nuovo
organismo politico e obbligare le forze americane e sovietiche a ritirarsi. Tuttavia, a Guerra
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
Fredda inoltrata era impensabile che una delle due potenze potesse fare delle concessioni
all’altra, tant’è che i sovietici non riconobbero mai l’autorità della Commissione Onu,
impedendo conseguentemente l’indizione dell’elezione nella parte settentrionale della
Corea. Si decise, pertanto, di procedere con le lezioni soltanto nel Sud.
Le elezioni, dalle quali uscì vincitore Syngman Rhee, si tennero il 10 maggio 1948.
Molti però le boicottarono, realizzando in anticipo che avrebbero decretato la fine di ogni
possibile ricongiunzione statale tra Nord e Sud sotto un unico governo.
All’incirca due mesi dopo le elezioni fu promulgata la Costituzione, in base alla quale
fu stabilita a quattro la durata del mandato presidenziale e conferendo notevoli poteri
esecutivi al Presidente. Il 20 luglio 1948 Syngman Rhee fu nominato Presidente e dopo
poco, esattamente il 15 agosto, fu proclamata formalmente la Repubblica di Corea. Preso
atto della validità delle elezioni, il 12 dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
dichiarò legittimo solo il governo della Corea del Sud. La contro risposta sovietica non
mancò ad arrivare: furono, pertanto, indette le elezioni anche nella parte Nord, che
sancirono il 19 settembre 1948 la nascita della Repubblica Popolare di Corea e la nomina di
Kim Il-sung Primo Ministro del neonato Stato. La separazione della Corea poteva
considerarsi compiuta definitivamente.
La partizione tra Sud e Nord non fu mai completamente tollerata dalla gran parte dei
Coreani, che anzi la consideravano una condizione temporanea destinata a terminare con la
naturale riunificazione del paese. In tal senso, frequenti furono gli episodi di tensione lungo
il confine, in certe occasioni anche di una certa entità. Questa situazione era, poi,
sicuramente esasperata dalle relazioni instauratesi tra le due superpotenze mondiali, al cui
interno era stata risucchiata anche la Corea, che rappresentò la quintessenza di tale scontro.
Difatti, sebbene l’Europa fosse il principale scenario della rivalità USA-URSS, anche l’Asia
fu teatro di queste tensioni e rappresentava una regione di crescente interesse per gli Stati
Uniti e i loro alleati, soprattutto dopo la vittoria dei comunisti di Mao, la proclamazione
della Repubblica Popolare in Cina e la firma del Trattato di Amicizia sino-sovietico del
1950.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
È facile, quindi, intuire il clima di tensione che si era venuto a formare, avendo da un
lato l’URSS che avanzava nel continente asiatico sia a livello ideologico che politico,
dall’altro gli USA che, invece, miravano a «contenere» l’avanzata sovietica. In tal senso, la
Corea agli occhi degli Americani doveva servire ad arginare la possibile diffusione del
comunismo in Giappone. Allo stesso tempo, però, non volevano investire troppe risorse
nella difesa di un territorio considerato periferico nei loro piani strategici e lasciarono,
pertanto, la tutela della Corea del Sud alle Nazioni Unite. (Fiori A., 2010).
Gli Stati Uniti peccarono, quindi, di estrema superficialità ma anche timore nella
gestione e protezione della Corea del Sud – errori che contribuirono a scatenare il conflitto
fratricida coreano. Superficialità perché, come sostenuto dallo stesso MacArthur, le
decisioni furono prese da persone che avevano poca conoscenza e comprensione del
Pacifico e della Corea. Timore perché per evitare un tentativo di riunificazione forzata del
paese da parte di Syngman Rhee e onde evitare possibili ripercussioni sino-sovietiche di
fronte a una politica troppo attiva da parte americana, la Corea del Sud fu dotata soltanto di
armi leggere, incapaci di proteggere il paese in caso di attacco. Al contrario, la Corea del
Nord – sebbene anche i Sovietici non volessero investirvi troppo e, al contempo, volevano
evitare un conflitto nell’area – supportarono, insieme alla Cina, il riarmo del paese, che alla
vigilia del conflitto possedeva un esercito di 200mila effettivi (Mazzei F., Volpi V., 2010).
Dopo aver consultato e ricevuto il supporto di Mosca e Pechino, Kim Il-sung attaccò il
Sud il 25 giugno del 1950 e dopo pochi giorni, il 28 Seul cadde sotto il controllo degli
aggressori. Tutti furono colti di sorpresa e la stessa amministrazione Truman impiegò due
giorni per reagire, ordinando al generale MacArthur di organizzare e supportare la risposta
dell’esercito sudcoreano. Contemporaneamente, si rivolsero al Consiglio di Sicurezza ONU
– dove l’URSS si rifiutava di parteciparvi in forma di protesta contro la partecipazione del
governo di Taiwan in rappresentanza della Cina – e riuscirono a far condannare
l’aggressione nordcoreana e a chiedere l’intervento dei membri dell’ONU in aiuto della
Corea del Sud. Fu, quindi, costituita nel luglio 1950 una forza unificata delle Nazioni Unite,
composta per la maggior parte da contingenti americani e guidata dal generale MacArthur.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
Figura 8.1.: La Guerra di Corea (1950-1953)
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
L’offensiva delle Nazioni Unite ebbe inizio nel settembre del 1950 con lo sbarco a
Inchon (a ovest di Seul), grazie alla quale si riuscì a far indietreggiare le milizie del Nord a
tal punto che si sollevò la questione se superare o meno la line del 38° parallelo. Syngman
Rhee era ovviamente favorevole, diversamente dagli alleati degli Stati Uniti. Alla fine il 7
ottobre il generale MacArthur ordinò di superare il confine e lanciarsi alla volta del Nord.
Fu in questa fase che intervennero truppe «volontarie» di cinesi in soccorso delle forze
nordcoreane.
La guerra procedette con avanzamenti dell’una e dell’altra parte che, quasi come in una
danza, ritornavano l’equilibrio ripetutamente all’altezza del 38° parallelo. Fu così che
l’URSS propose nel 1951 l’apertura di negoziati, che si bloccarsi su diversi punti, tra i quali
la sorte dei prigionieri (Sellier J., 2010). La situazione fu sbloccata con le lezioni di
Eisenhower alla presidenza degli Stati Uniti nel 1952, che determinò un cambio di strategia
americana, consistente in un forte incremento della pressione militare per terminare in
conflitto. La maggiore determinazione statunitense unita alla morte di Stalin, avvenuta nel
1953, resero possibile la risoluzione della questione dei prigionieri e, pertanto, la
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
conclusione del conflitto che avvenne il 27 luglio 1953 con la sigla a Panmunjeom
dell’armistizio tra rappresentanti dell’ONU, della Cina e della Corea del Nord. Il Presidente
Syngman Rhee si rifiutò di firmare. La guerra il cui scopo era la riunificazione della
penisola aveva determinato il consolidamento della sua partizione. Una divisione che
divenne non soltanto territoriale, ma anche ideologica (Fiori A., 2010).
Figura 8.2.: La penisola coreana oggi
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
Sebbene sia impossibile conoscere con esattezza il numero di vittime causato da soli tre
anni di conflitto, si stima che furono 800mila i militari (sia del Nord che del Sud) caduti,
altrettanti Cinesi e 57mila delle forze Onu. Per non parlare dei civili coinvolti, che più di
tutti subirono i costi di questa guerra. Si parla, infatti, di oltre due milioni di vittime tra i
civili e oltre tre milioni di rifugiati (Sellier J., 2010).
8.2. La Corea del Sud
Terminato il conflitto, gli Stati Uniti si prodigarono attivamente, soprattutto sotto il
profilo finanziario, a favorire la ricostruzione della Corea del Sud, fondamentale per
riavviare un sistema economico pesantemente colpito dal guerra fratricida. L’unico
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
vantaggio ricavato da quest’evento tragico fu la possibilità di legittimare il proprio regime
tramite lo spauracchio – peraltro continuamente utilizzato – del comunismo, risultato utile
non soltanto come strumento per tenere coeso il paese, ma anche per contrapporsi
ideologicamente e politicamente al versante settentrionale. In questo modo, la Corea del Sud
diveniva un avamposto della lotta al comunismo, dotato di un esercito ormai forte, ben
equipaggiato e addestrato e che poteva sempre contare sull’appoggio statunitense. La Corea
del Sud divenne, improvvisamente, uno Stato strategicamente fondamentale nelle logiche
della Guerra Fredda, pertanto, fu sempre più elevata la presenza e la vicinanza militare
americana nel paese, che poi si evolsero velocemente in una stretta alleanza anche
economica e culturale.
Per quel che attiene la sfera politica, il leader incontrastato continuava ad essere
Syngman Rhee che, purtroppo, anziché dare priorità alla ricostruzione e al progresso del
proprio paese, era maggiormente concentrato sul mantenimento della propria carica e del
proprio potere. Il regime, quindi, nel giro di poco tempo si trasformò in autoritario e
repressivo, forzò l’adozione di alcuni emendamenti costituzionali così da garantire appunto
il consolidamento formale e informale del mandato di Syngman Rhee. Il culmine della
repressione si ebbe con l’approvazione di alcune leggi il cui effetto fu il forte indebolimento
dei principi democratici del neo Stato sudcoreano, in quanto impedirono qualsiasi libertà di
critica e, in pratica, favorirono la rielezione – non propriamente legale – di Syngman Rhee
come Presidente.
Le manipolazioni elettorali scatenarono le proteste degli studenti, alle quali si aggiunse
il malcontento generale che esplose con il ritrovamento del cadavere di un ragazzo ucciso da
un lacrimogeno sparato dalla polizia. Le manifestazioni scoppiate a Masan, si spostarono a
Seoul, provocando la repressione violenta da parte della polizia: molti furono le persone
uccise e ferite in quella che venne nominata la «rivoluzione del 19 aprile». L’intensificarsi
delle protese costrinse Syngman Rhee – dietro suggerimento USA – a dimettersi e
abbandonare il paese sul finire dell’aprile 1960 (Fiori A., 2010).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
Con la fine della Prima Repubblica un governo provvisorio promulgò una seconda
Costituzione sulla cui base fu fondata la Seconda Repubblica. Tuttavia, il sistema
parlamentare non riuscì a consolidarsi e così, all’alba del 16 maggio 1961 un colpo di Stato,
con a capo il generale Park Chung-hee, prese il potere e diede avvio alla Terza Repubblica
guidata da una giunta militare (Sellier J., 2010).
La reazione dell’opinione pubblica fu sorprendentemente speranzosa, confidando che
almeno i militari riuscissero a portare il paese verso un processo di crescita e progresso. Il
nuovo governo militare, in effetti, era animato da grandi intenzioni e programmi
«sviluppisti», mirava cioè a creare uno Stato che perseguisse la crescita economica
attraverso un sistema d’incentivi e sanzioni diretto agli attori economici.
Oltre al progresso economico, i golpisti avevano la necessità di legittimare il proprio
potere, soprattutto nei confronti di coloro – in particolar modo studenti ed intellettuali – che
non gradivano un regime retto da militari. Pertanto, il generale Park il 19 maggio 1961
decise di
riorganizzare l’intera giunta militare, creò il Consiglio Supremo per la
Ricostruzione Nazionale tramite il quale esercitò il proprio potere sul paese e promulgò una
legge che gli attribuiva il controllo effettivo su tutte le attività politiche. Specularmente,
furono sciolti l’Assemblea Nazionale e tutti i governi locali, mentre la maggioranza dei
funzionari pubblici fu deposta. Grazie all’opera del Consiglio nello Stato regnarono il
rispetto della legge e l’ordine, grazie ad una serie di azioni mirate, quali: l’arresto dei
membri delle gang malavitose e di quegli uomini d’affari considerati corrotti – questi ultimi
furono pubblicamente umiliati e poterono tornare in libertà solo dopo aver corrisposto
ingenti multe; furono chiusi bar, sale da ballo e coffe shops; fu sospesa la pubblicazione di
molti giornali; chiunque fosse sospettato di essere un simpatizzante comunista veniva
immediatamente arrestato.
Durante i primi mesi dopo il colpo di stato furono raggiunti alcuni degli obiettivi sociali
ed economici prestabiliti, ma mancava ancora una reale legittimazione del nuovo regime. Fu
promulgata, nel 1962, una nuova Costituzione che, sulla base di quella redatta durante la
Prima Repubblica, ristabiliva un sistema presidenziale con un’unica camera, oltretutto
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
estremamente debole. L’anno successivo i golpisti ricoprirono le posizioni chiavi della
nuova organizzazione statale e il generale Park fu nominato prima Presidente del Partito
Democratico Repubblicano e, successivamente, con le elezioni tenutesi nello stesso anno,
Presidente della Repubblica di Corea.
Ebbe così inizio la Terza Repubblica, il cui obiettivo primario era il progresso
economico del paese. L’importanza che rivestiva quest’obiettivo aiuta a spiegare la stretta
coalizione venutasi a formare tra la nuova burocrazia – estremamente preparata in
macropianificazione dell’economia – i vasti gruppi industriali – fondamentali per la
creazione di un moderno sistema economico – e il gruppo di militari – detentori del potere
politico e sociale – avente l’unico scopo la protezione dello Stato da qualsiasi attacco o
minaccia esterna. Coerentemente con le recenti alleanze economiche, la politica economica
portata avanti dal Park incoraggiava fortemente l’imprenditoria privata. In tal senso, lo Stato
favorì con forza le esportazioni garantendo ai gruppi industriali incentivi senza eguali, come
per esempio agevolazioni per ottenere prestiti bancari con tassi vantaggiosi, benefici fiscali,
o addirittura sussidi diretti.
Più in generale, per supportare la crescita del paese Park cercò di adottare una sorta di
«diplomazia finanziaria» con altri paesi, avendo bisogno di un’elevata disponibilità di
capitali e considerato che gli aiuti da parte degli Americani si erano ormai stabilizzati. Fu
così che Park iniziò a tessere una rete di rapporti internazionali, dapprima con la Repubblica
Federale Tedesca, riuscendo a ottenere un estensione degli aiuti governativi e dei crediti
commerciali, successivamente con il Giappone, cosa che produsse notevoli benefici
economici per la Corea, anche sotto forma di compensazione per i danni sofferti durante il
periodo coloniale. È necessario evidenziare che tra le ragioni del successo della politica
economica di Park vi furono un’elevata disponibilità di forza lavoro qualificata e a basso
costo e la rinuncia, solo momentanea, degli Stati Uniti al protezionismo contro i prodotti
coreani come forma d’aiuto al paese.
Dopo il rinnovo del terzo mandato – grazie ad un emendamento costituzionale ottenuto
tramite referendum popolare nel 1967 – il regime di Pak fu nuovamente minacciato, questa
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
volta da fattori interni ed esterni, i quali minarono considerevolmente la solidità della
crescita economica sudcoreana e la stabilità politica raggiunta del paese. Questi erano: il
futuro della guerra del Vietnam, la progressiva distensione tra Stati Uniti e Cina, la Dottrina
Nixon, la riorganizzazione delle priorità americane in Asia (secondo cui, ad esempio, era
necessario raggiungere una maggiore autosufficienza nella regione, soprattutto sotto il
profilo militare) e la riduzione degli aiuti concessi dagli Stati Uniti. L’interazione di questi
fattori e il loro effetto cumulativo rischiavano di far scoppiare le pressioni sociali,
soprattutto tra operai e gruppi studenteschi, e fortificare l’opposizione politica, come
dimostrato dal notevole consenso registrato durante le elezioni presidenziali del 1971.
La reazione di Park a tale minaccia fu l’imposizione della legge marziale, la proibizione
di qualsiasi tipo di attività politica e l’attribuzione di poteri straordinari al Presidente: aveva
inizio la Quarta Repubblica, nota anche come «epoca del rinnovamento». La crescita
economica del paese – che assicurava a Park il supporto delle classi più agiate della
popolazione – andava di pari passo con la continua riduzione di democrazia nel paese, che
portò il Presidente verso la fine degli anni Settanta ad isolarsi sempre più sia a livello
nazionale che internazionale. Park morì assassinato di lì a poco, nell’ottobre 1979, per mano
del direttore dell’Agenzia Centrale di Intelligence creato dallo stesso Park durante la Quarta
Repubblica (Fiori A., 2010).
Dopo una serie di successioni di militari al potere, all’inizio degli anni Ottanta il
governo decise di adottare una politica maggiormente concentrata sullo sviluppo sostenibile
e sul sociale e, pertanto, fu ridotto il ruolo dello Stato e aumentato ulteriormente quello delle
imprese. L’obiettivo fu centrato facilmente, così nell’arco di poco tempo la Corea del Sud
rientrò nella categoria dei paesi a economia sviluppata, sebbene, il sistema economico fosse
ancora debole, considerate le minacce derivanti dalla rivalutazione del won (la moneta
nazionale) e dalla produzione low cost sostenuta da altri paesi della regione. Fu necessario,
quindi, adottare una strategia differente: concentrarsi su produzioni a maggiore valore
aggiunto; differenziare le merci e qualificare di più i prodotti finali. Altri due ulteriori fattori
contribuirono a un maggiore sviluppo della domanda interna: la nascita di una classe media
e un benessere maggiormente diffuso tra la popolazione (Mazzei F., Volpi V., 2010).
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
Inoltre, è doveroso segnalare che – sebbene non condivisibile – anche l’adozione di una
politica altamente repressiva contro rivolte e movimenti di protesta (principalmente
studentesca) supportò il rapido processo di crescita economica della Corea del Sud, tale da
farle raggiungere i livelli registrati dal Giappone e da farla diventare l’undicesima potenza
industriale del mondo. La classe media urbana occupò un posto sempre più rilevante ed è
proprio al suo interno che nacquero le versioni embrionali delle richieste di libertà e
democrazia che maturarono in seguito. Così, nel 1987 una nuova Costituzione (Sesta
Repubblica) approvò l’elezione del Presidente a suffragio universale diretto, da cui uscì
vincitore Roh Taewoo, un ex generale (Sellier J., 2010). Successivamente, le Olimpiadi di
Seoul del 1988 migliorarono notevolmente l’immagine internazionale della Corea del Sud,
che sul finire degli anni Ottanti si avvicinò a Russia e Cina, dando avvio alle prime relazioni
diplomatiche rispettivamente nel 1990 e nel 1992. Inoltre, sempre all’inizio degli anni
Novanta, con esattezza nel 1991, le due Coree furono ammesse alle Nazioni Unite e
firmarono un patto di non aggressione e di riconciliazione (Mazzei F., Volpi V., 2010).
La democrazia sudcoreana continuò il processo di consolidamento e stabilità con
l’elezione di Kim Young-sam nel 1993, il cui governo si distinse per l’adozione di un
programma di «moralizzazione» del paese e, più specificatamente, della sfera politica ed
economica, basata sulla trasparenza della gestione della cosa pubblica e portata avanti
principalmente attraverso una lotta serrata alla corruzione. Nonostante gli alti principi
ispiratori, il governo di Young-sam fu costellato da molti alti e bassi, sia a livello di
soddisfazione dell’opinione pubblica, che di successo nel raggiungimento del programma
prefissatosi. Uno dei più grandi successi del governo Young-sam fu comunque l’ingresso
della Corea del Sud nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
(OCSE) nel 1996 che segnò il passaggio definitivo da un paese in via di sviluppo ad un
economia avanzata. Purtroppo, questo passaggio avvenne forse troppo presto, poiché la crisi
finanziaria thailandese causò gravi ripercussioni anche sull’economia sudcoreana, tanto che
dovette richiedere l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale (Fiori A., 2010). In quel
momento salì al potere Kim Daejung, importante e storica figura dell’opposizione
sudcoreana degli anni Settanta, che si distinse nel tempo per la sua determinazione nel
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
cercare la riconciliazione con la Corea del Nord. Impegno che gli valse il premio Nobel per
la pace nel 2000 (Sellier J., 2010).
La crisi del 1997 mise in luce i limiti strutturali delle economie – tra cui quella della
Corea del Sud – troppo orientate sulle esportazioni e che, sebbene siano caratterizzate da
ottime capacità emulative, non hanno sufficienti capacità di ricerca e innovazione tali da
poter competere con Giappone, Stati Uniti ed Europa. Peraltro, la Corea del Sud è sempre
stata al centro di una trappola competitiva, dovendo confrontarsi da un lato con la più
elevata qualità dei prodotti giapponesi, dall’altra con i costi decisamente più contenuti dei
prodotti cinesi. Ad ogni modo, pochi sarebbero riusciti a raggiungere i traguardi ottenuti
dalla Corea del Sud nel dopoguerra, sarebbe sufficiente visitare il quartier generale della
Samsung a Seoul per rendersene conto. Pertanto, sebbene le minacce, o per meglio dire gli
ostacoli da superare sono ancora vari (come per tutti gli Stati), le caratteristiche sociali ed
economiche della Repubblica di Corea sono tali da doverla considerare uno dei più temibili
competitor sulla scena economica globale (Mazzei F., Volpi V., 2010).
8.3. La Corea del Nord
Al termine del conflitto la Corea del Nord era un paese tutto da ricostruire. Primi
tentativi verso un’efficace ricostruzione del paese furono inseriti nel piano triennale (19541956) il cui principale merito fu, solamente, quello di definire lo schema sociale che poi
caratterizzò la Corea del Nord per molti anni: l’organizzazione simile a quella militare al
fine di raggiungere gli obiettivi fissati dallo Stato, che avvenne attraverso vere e proprie
campagne di mobilitazione di massa. In questa fattispecie, l’obiettivo iniziale fu la
ricostruzione dei servizi pubblici, delle case e del sistema infrastrutturale.
In un secondo momento, con il piano quinquennale (1957-1961) il governo di
Pyongyang intendeva raggiungere anche il progresso dei comparti produttivi e, pertanto,
industria, agricoltura e infrastrutture (Fiori A., 2010). È in questi anni che la Repubblica
Democratica Popolare di Corea assunse una struttura politica e sociale di chiara ispirazione
marxista, così come indicato nelle «Tre Grandi Rivoluzioni» annunciante dal Presidente
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
Kim Il Sung, ovvero la rivoluzione ideologica, tecnica e culturale per il rinnovamento del
paese. In sostanza, il paese adottò una rigida osservanza collettivista, fermamente guidata
dal Partito Comunista coreano (Corna Pellegrini G., 1982).
Intorno alla seconda metà del 1950, Kim Il-sung iniziò a portare avanti un programma
ideologico che si concentrava sul concetto di autonomia e enfatizzava le qualità dell’identità
coreana, coniando per la prima volta il termine chuch’e (che non ha una traduzione esatta,
ma sta appunto ad indicare l’«autosufficienza») che incise profondamente sulla vita e
sull’ordinamento statale del paese. Il vocabolo, infatti, fu applicato nell’arco di poco tempo,
e senza alcuna forma di distinzione, a livello economico, politico e militare, affiancando
l’ideologia marxista-leninista, per poi scalzarla definitivamente poco dopo.
La maturazione del concetto del chuch’e continuò per tutti gli anni Settanta, e la sua
diffusione e importanza fu tale da comparire perfino nella Costituzione del 1972 come
principio guida del sistema politico del paese. Verso la fine degli anni Settanta, il chuch’e
divenne un principio universale applicabile a qualsiasi campo (anche allo sport, alle scienze,
o alla musica). In seguito l’ideologia della chuch’e si fuse inestricabilmente al culto della
figura di Kim Il-sung e della sua famiglia. Un sentimento di adorazione che finì per
impregnare ogni aspetto della società coreana, con una capacità di diffusione e di
radicamento di difficile comprensione per gli osservatori esterni.
Al principio del 1958 il controllo della sfera politica da parte del gruppo di Kim Il-sung
era
ormai
completo,
grazie
anche
all’annientamento
dell’opposizione
avvenuta
successivamente al fallimento di alcuni tentativi di rovesciare lo status quo. La crescente
enfasi sul culto della personalità di Kim Il-sung costruiva lo specchio del controllo
esercitato dal leader. Con la progressiva eliminazione delle altre fazioni, il dibattito pubblico
cessò di esistere e il partito, pertanto, si tramutò da movimento politico, in strumento
operativo per la realizzazione delle direttive di Kim. Per tutti gli anni Sessanta guidò il
paese al fine di dotarlo dell’industria pesante e di armamenti.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
In questi anni si raggiunse definitivamente il rimodellamento della società nordcoreana
coerentemente ai dettami dell’ideologia del chuch’e: il potere dello Stato-partito si
estendeva su qualsiasi aspetto e ambito della società, assumendo il controllo totale di
qualunque forma di attività politica; nel sistema economico nordcoreano mancava quasi
totalmente un’economia di consumo, cosa che comportò la pressoché totale dipendenza dei
cittadini dallo Stato; il sistema di produzione statale fu devoluto essenzialmente al comparto
militare e all’erogazione dei servizi di assistenza di base, limitando profondamente la
crescita economica del paese.
Ormai capo incontrastato Kim Il-sunn adottò una pratica ai tempi sconosciuta nei paesi
a regime comunista: iniziò a introdurre nella vita politica (ovviamente in posizione di
leadership) il primogenito Kim Jong-il, mosso dalla convinzione che solo in uno Stato
governato dal figlio e dai suoi ex commilitoni sarebbe stato possibile preservare e
tramandare i suoi insegnamenti ed la sua eredità politica. L’ascesa di Kim Jong-il fu
preceduta dalla moltiplicazione di una serie di racconti, atti a manifestare ed enfatizzare
l’assoluta eccezionalità del figlio, favorendo in questo modo lo sviluppo di un nuovo culto
della personalità. Quello nordcoreano fu l’unico sistema ereditario della leadership
sviluppatosi tra i paesi comunisti, probabilmente come conseguenza del nepotismo e
dell’assottigliamento della base del potere che stava caratterizzando la Repubblica
Democratica Popolare in quegli anni.
Gli Settanta furono anche gli anni dei primi sentori delle inefficienze economiche dei
piani collettivi, causate sicuramente da diversi fattori, come l’isolamento internazionale e la
centralizzazione amministrativa che frenarono la spinta produttiva della Corea del Nord. Per
ovviare a questa difficoltà furono acquistati macchinari occidentali, che sarebbero stati
ripagati con i profitti generati dalle nuove attività industriali. Tuttavia, il piano iniziale
risultò fallimentare, colpa anche della cattiva congiuntura economica (shock petroliferi e
recessione globale), ma soprattutto delle scarse capacità di pianificazione, dell’inadeguato
sistema infrastrutturale e delle carenti abilità imprenditoriali necessarie per sapere sfruttare
macchinari così sofisticati. Conseguentemente, nel 1974 la Corea del Nord smise di
acquistare questi macchinari, senza peraltro riuscire a sdebitarsi con i fornitori. Si creò,
18
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
quindi, un circolo vizioso in cui l’obsolescenza tecnologica peggiorava sempre più e i
materiali grezzi e semilavorati costituivano la quota maggiore dell’economia nordcoreana
(circa l’80%), intrappolando la Repubblica Popolare Democratica in una condizione di Stato
semindustrializzato.
Nonostante il ritardo economico e tecnologico, Kim Il-sung continuò a concentrarsi sul
comparto militare che aveva ormai surclassato qualsiasi altro settore produttivo, privando di
qualsiasi capacità produttiva l’economia civile. L’intero sistema economico, inoltre, si
trovava sotto un rigido controllo dello Stato che continuava a essere gestito con metodi
altamente antiquati, considerato che ancora privilegiavano i sistemi produttivi con alti
rendimenti quantitativi a sistemi basati sull’innovazione tecnologica. L’autarchia e
l’autosufficienza che inizialmente rappresentavano una scelta politica, divennero nel tempo
una necessità per la sopravvivenza.
Questa stagnazione economica non si modificò neanche con la salita al potere di Kim
Jong-il, sebbene la maggioranza della popolazione sperasse nell’avvio di un processo di
riforma come quelle verificatosi in Cina e Vietnam. Al contrario, l’ascesa di Kim Jong-il
negli anni Novanta consolidò i vecchi principi di governo del padre e coincise con
l'intensificazione della crisi economica del paese, il cui effetto più drammatico fu la
rivelazione dell’inconsistenza dell’ideologia chuch’e, considerato che la Corea del Nord non
riuscì mai a raggiungere l’autosufficienza così a lungo promessa.
Anche a livello internazionale la sicurezza della Repubblica Popolare Democratica
iniziò a scricchiolare. Con la caduta dell’URSS, avvenuta nel 1991, la Corea del Nord fu
privata del suo sostegno, contemporaneamente, il paese si ritrovò schiacciato tra il forte
progresso economico della Corea del Sud da un lato, e il crescente ruolo sulla scena
internazionale della Cina, con la quale si deteriorarono i rapporti dopo che riconobbe la
Corea del Sud nel 1992. L’amministrazione di Pyongyang tentò di uscire da questa
condizione d’inferiorità, dapprima con la forza – attentando alla vita del Presidente
sudcoreano – e successivamente proponendo l’apertura di trattative per la distensione dei
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 8° - La penisola coreana
rapporti con Seoul, che fu però rigettata dagli statunitensi per l’inaccettabilità delle richieste
fatte.
Gli anni a seguire furono segnati da numerose calamità naturali nel 1995 e nel 1996,
inondazioni seguite da siccità, che provocarono una carestia che pare abbia causato circa
due milioni di vittime. Il regime, ciononostante, intensificò il suo programma militare che
portò, nel 2006, al suo primo test nucleare. Dal 2007, però, la Corea del Nord ha accettato di
limitare questo programma in cambio di concessioni di petrolio e altre forme di aiuto
economico (Sellier J., 2010).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, UTET.
Fiori A. (2010), L’Asia orientale. Dal 1945 ai giorni nostri, Il Mulino.
Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza.
Mazzei F., Volpi V. (2010), La rivincita della mano visibile. Il modello economico asiatico
e l’Occidente, Università Bocconi Editore.
Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte.
20
Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
INSEGNAMENTO DI
STORIA E ISTITUZIONI DELL’ASIA
Modulo 9° - In Indocina
A cura di
Antonietta Pagano
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
SOMMARIO MODULO 9°
In Indocina
9.1. La penisola indocinese
9.2. Il travagliato cammino verso i due Vietnam
9.3. Dalla Guerra del Vietnam ad oggi
1
Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
9.1. La penisola indocinese
Vasta penisola del Sud-Est asiatico, l’Indocina (sebbene sia ormai anacronistico) venne
così chiamata in base alla sua posizione geografica, essendo collocata a Est del subcontinente indiano – da cui deriva anche il nome di «India Posteriore» – e a Sud della Cina.
Gli Stati che attualmente la compongono, ovvero Cambogia, Laos, Malaysia, Myanmar,
Singapore, Thailandia e Vietnam, non presentano alcuna unitarietà o conformità antropica.
È, infatti, difficile definire gruppo o sottogruppi etnico-linguistici. Oltretutto, la diffusione
delle grandi religioni indù e buddhista prima, islamica e cristiana poi, ha prodotto una
grande varietà di credenze e riti, che hanno dato vita a loro volta a nuove strutture sociali
complesse.
Anche sotto il profilo demografico, economico e culturale, la regione si caratterizza per
una profonda disomogeneità tra le aree, dovuta non tanto al determinismo geografico,
piuttosto alle influenze reciproche esercitate tra uomo e territorio nel corso dei secoli. Nei
territori continentali del Sud-est asiatico, il sistema oro-idrografico ha consentito sin dalla
preistoria lenti spostamenti delle popolazione da Nord verso Sud, favorendo soprattutto gli
insediamenti dapprima nelle vallate e successivamente anche nei delta dei grandi fiumi di
cui la zona è ricca (Corna Pellegrini G., 1982).
Così attraverso questi fenomeni migratori ci fu la colonizzazione del popolo dei
Birmani nella pianura dell’Irrawaddy a partire dalla metà del primo millennio, epoca in cui
ci fu anche la migrazione dei Thai dallo Yunnan verso Sud. Queste popolazioni furono
profondamente influenzate dalla civiltà indiana, soprattutto tramite le relazioni commerciali,
mediante cui furono introdotti nella regione l’induismo, il sanscrito e il buddhismo –
quest’ultimo si diffuse molto più lentamente, divenendo però la religione della quasi totalità
della popolazione in Birmania, Siam, Cambogia e Laos (Sellier J., 2010)
Il popolo vietnamita, invece, subì una forte influenza cinese che privilegiava
l’occupazione militare e l’imposizione del proprio sistema amministrativo alle relazioni
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
commerciali. A differenza dei rapporti tra India e Stati induizzati che restavano solitamente
pacifici – appunto perché fondati su una penetrazione commerciale e culturale che
permetteva lo sviluppo di elementi e caratteristiche indigene – in quelli tra Cina e paesi
«satellite», invece, fu molto forte la presenza cinese, al punto da trasformarsi in alcuni casi
in oppressiva e colonizzatrice.
Il regno del Nam-Viet entrò nell’orbita cinese nel III secolo a.C. e nel I secolo d.C.
divenne una vera e propria provincia dell’impero. La sua capitale Hanoi, allora sita più
vicino alla costa, divenne un centro amministrativo, così come altre città minori della
regione. L’assimilazione delle più progredite tecniche agricole cinesi e l’organizzazione
centralizzata dello Stato favorirono fortemente il progresso nella regione, da cui risultò una
consistente crescita che stimolò la popolazione vietnamita a lottare per indipendenza nel X
secolo d.C. Non potendo espandersi a Nord a causa della presenza cinese, decisero di
procedere alla conquista della parte meridionale della regione. Dopo una quasi millenaria
occupazione cinese che agì in profondità sulla struttura amministrativa del paese, il regno
del Nam-Viet fu diviso nell’XI secolo in ventiquattro province, ciascuna presieduta da un
capoluogo collegato alla capitale Hanoi da un ben sviluppato sistema stradale. Hanoi riuscì
a mantenere lo status di capitale per ben otto secoli, nonostante le rivolte interne e le guerre
contro i Mongoli e il regno di Cham.
Più a Sud della stessa penisola, l’influenza cinese fu, invece, meno importante di quella
che l’India esercitava nei regni siti in punti chiave della regione, ovverosia lungo le vie di
comunicazione tra India e Cina: il regno di Linyi (o più tardi Champa) posizionato nella
regione di Hué, il regno di Funa situato lungo il corso inferiore e il delta del Mekong e il
regno di Langkasuka nella penisola di Malacca (Corna Pellegrini G., 1982).
Il regno di Linyi, che solo successivamente assunse il nome sanscrito di «Champa»
(letteralmente significa paese dei Cham), divenne uno Stato indipendente solo nel 192 d.C.,
dopo essersi liberata dello status di sottoprefettura cinese, riuscendo a occupare una serie di
piccole ma fertili pianure della regione. Nonostante l’origine, il regno di Champa subì
profondamente l’influenza indiana a seguito dell’espansione territoriale verso Sud del IV
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
secolo, in cui entro in contatto con la cultura indiana. Con un’organizzazione statale e
commerciale molto avanzata, il regno superò di molto la vita del regno di Funan, nonostante
i conflitti con la Cina e con i Vietnamiti, i quali però nel XV secolo riuscirono a soggiogare.
Il regno di Champa fu, quindi, ridotto inizialmente ad un piccolo territorio all’interno del
Vietnam, per poi essere definitivamente assorbito nel XVIII secolo.
Il regno di Funan, famoso soprattutto per la sua importanza commerciale e marittima,
raggiunse l’apice della sua potenza nel V secolo, da cui iniziò l’inesorabile declino che
portò alla conquista, da parte dei Khmer del Chen-la, suo regno vassallo, nel VI secolo
(Sellier J., 2010).
Il regno dei Khmer fu fondato nel I secolo d.C. e grazie all’avanzata territoriale portata
avanti dai suoi sovrani. I Khmer raggiunsero il vertice intorno all’XI-XII secolo, grazie sia a
guerre fortunate, sia a un sistema economico forte e florido. Il progresso economico fu
dovuto alla sapiente applicazione dell’idraulica all’agricoltura che diede vita ad una civiltà
molto ricca sotto il profilo amministrativo, religioso e commerciale. Tramite ingegnosi
congegni che regolavano il deflusso attraverso canali di dimensioni diverse, le acque erano
distribuite nei territori nelle stagioni più asciutte. Le risaie così erano permanentemente
inondate, riuscendo a fornire anche tre o quattro raccolti l’anno, i canali e perfino i fossati
che circondavano i templi rappresentavano inoltre un’eccellente rete di comunicazione.
Un sistema così complesso richiedeva un’elevata unitarietà e sincronia nella gestione
dei flussi d’acqua. Sarebbe, pertanto, bastato un qualsiasi intralcio a far bloccare l’intero
sistema. Cosa che si verificò con molta probabilità nel XV secolo, anche a causa delle
continue incursioni dei Siamesi, che riuscirono a conquistare la città di Angkor
distruggendo i bacini e le altre opere idrauliche e rendendo conseguentemente inabitabile la
zona cuore dell’impero Khmer. La caduta di Angkor decretò la fine del regno che divenne
uno stato vassallo e conteso dai Vietnamiti e dai Siamesi.
Il declino del regno Khmer corrispose con l’ascesa del dominio del popolo Thai, non
solo nella regione centrale della penisola indocinese, ma anche in parte dell’alto Mekong. Il
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
regno di Sukhothai, fondato nel 1238, riuscì ad elevarsi sugli altri grazie alla vivacità del
suo popolo e alla sagacia dei suoi re, riuscendo ad annettere parte della penisola malese, del
Laos e della Cambogia. Chiamato Sien dai Cinesi e Siam dai Cambogiani, il regno fu
considerato la «culla della civiltà siamese». La sua capitale, Sukhothai, godeva di una
straordinaria posizione geografica, trovandosi al centro di molte vie di comunicazione e,
pertanto, di traffici commerciali e di influenze culturali, religiose, politiche e artistiche di
ogni genere che i Siamesi riuscirono a rielaborare con spirito originale.
Così come rapida fu l’ascesa, altrettanto veloce fu il declino del regno di Sukhothai, che
fu prontamente rimpiazzato dal regno meridionale di Ayuthai (Corna Pellegrini G., 1982).
Fondata nel 1350, il regno di Ayuthai (nome anche della capitale) o anche del Siam, fu
soggetto a diversi conflitti con i vicini regni dei Khmer, di Malacca e di Birmania. Una
stabilità nella regione e per il regno del Siam si raggiunse solo nel 1594, periodo che durò
fino alla metà del XVIII secolo.
Intorno al XVII secolo, in un raro intervallo di pace, il Siam si aprì al commercio con
l’estero, in particolare con Giapponesi, Olandesi, Inglesi e, solo più tardi, Francesi. Questi
ultimi furono accolti favorevolmente dal re del Siam – allarmato dalla preoccupante
avanzata commerciale Olandese – tramite l’iniziale intermediazione del missionario
francese Pierre Lambert de Lamothe nel 1662. Originariamente i Francesi speravano di
riuscire a raggiungere la conversione dei Siamesi, ma le richieste troppo esigenti
scatenarono una rivolta di palazzo nel 1688, costringendoli a lasciare il paese. Da allora le
autorità siamesi si dimostrarono estremamente diffidenti nei confronti degli stranieri (Sellier
J., 2010).
Simile fu la sorte francese in Vietnam, dove, dopo un iniziale accreditamento presso le
popolazioni vietnamite, i Francesi furono rapidamente scacciati dal paese. La Francia
supportò Nguyen Anh nella sua salita al potere del 1802, sancita con la proclamazione a
imperatore del Vietnam, unificato sotto il nome di Gia Long. Se in un primo tempo il nuovo
imperatore sembrava mostrare un certo interesse per l’Occidente, successivamente la sua
politica fu di assoluto isolamento e xenofobia. Il modello cinese dei Qing fu di nuovo
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
ispiratore del governo e delle nuove istituzioni amministrative. Il conservatorismo immobile
del governo, praticato in forma ancor più completa dai successori di Gia Long, produsse un
grave deterioramento del sistema economico, una crescita della popolazione molto più
veloce rispetto alla capacità produttiva del paese e un incremento della richiesta di beni di
consumo. In questa situazione di stagnazione economica, l’unico settore a prosperare fu
quello degli studi confuciani, dovuto in buona parte all’attività dei missionari cristiani, che
da molto tempo operavano nel paese e, più in generale, in tutti gli Stati dell’Asia. La
potenza disgregatrice del nuovo credo religioso fu percepita sin da subito come pericolosa
(ancor più dei tentativi di espansionismo commerciale occidentale), inducendo le autorità
vietnamite a reagire energicamente, sia cercando di rinsaldare in ogni modo la fede e la
cultura tradizionali, sia perseguitando sistematicamente i missionari cattolici.
Alcuni gravi episodi d’intolleranza religiosa offrirono alla Francia il ricercato pretesto
per giustificare un intervento in Estremo Oriente, dove la sua presenza era divenuta
trascurabile, soprattutto se paragonata alla crescente presenza inglese. L’uccisione del
vescovo del Tonchino, di alcuni missionari e di migliaia di Vietnamiti convertiti al
Cristianesimo rappresentarono il casus belli per attaccare via mare il Vietnam, dando inizio
ad un’espansione che si distinse per la rapidità e l’elevata aggressività (Corna Pellegrini G.,
1982). Dal 1840 al 1867 la Francia formò un’unica colonia impossessandosi della Cocincina
orientale e occidentale e posero poi sotto protettorato la Cambogia. Provarono, inoltre, a
esplorare il corso del Mekong, nella speranza di accedere al mercato cinese, ma rivelandosi
non navigabile i Francesi si concentrarono nuovamente sul Fiume Rosso (Sellier J., 2010).
Gli interessi della Francia si focalizzarono quindi sulle regioni più settentrionali del
Vietnam. Nel 1874 furono firmati i primi accordi tra l’imperatore vietnamita e i
rappresentanti francesi, la cui ambiguità condusse ad una guerra tra Cina e Francia,
ritrovatasi coinvolta in una guerriglia logorante che si concluse con la vittoria francese e la
firma di due trattati, nel 1883 e nel 1884, i quali instauravano un protettorato sul Vietnam e
la fine della sovranità cinese su quei territori.
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
Il compimento dell’avanzata territoriale francese in Indocina si raggiunge pochi anni
dopo, esattamente nel 1887, con l’unificazione amministrativa di tutti i territori sottoposti al
controllo dell’autorità francese, che prese il nome di Unione Indocinese, comprendente la
Cocincina, Tonchino, Annam, Laos e Cambogia. La prima regione era amministrata
direttamente come vera e propria colonia, le restanti furono soggette ad un protettorato in
cui il «résident supérieur» era dotato di un potere limitato a causa dalla persistenza di un
apparato amministrativo-burocratico mantenuto dai mandarini locali, ancora impiegati nei
loro uffici.
Figura 9.1.: L’Indocina francese
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
Durante la colonizzazione francese, in particolare nel periodo che va dal 1880 al 1940, i
paesi dell’Unione Indocinese furono interessati da un sorprendente progresso economico: si
procedette allo sfruttamento intensivo delle miniere di carbone, stagno, zinco e delle risorse
forestali, furono aumentate le piantagioni di caucciù e si crearono le prime industrie tessili e
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
metallurgiche. Tuttavia, lo sviluppo economico indocinese dipendeva unicamente dagli
investimenti, dalle importazioni ed esportazioni francesi, con una totale esclusione della
concorrenza locale o di altre potenze, solo una minima parte degli interessi era in mano
cinese. Ciò pose dei limiti al progresso economico della regione, che sebbene registrò
un’interessante crescita nella produzione, non riuscì mai a far aumentare o migliorare il
livello di vita della sua popolazione, che era aumentata da 7 a 27 milioni nell’arco di soli
quarant’anni.
La crescente pressione demografica e sociale divenne, pertanto, un fattore di forte
tensione all’interno dell’Unione Indocinese e una delle cause che favorì la nascita dei primi
movimenti nazionalisti all’inizio del XX secolo, spinti fondamentalmente da un desiderio di
emancipazione dai soprusi e dallo sfruttamento occidentali da un lato e dalla volontà di
migliorare le proprie condizioni di vita dall’altro (Corna Pellegrini G., 1982).
9.2. Il travagliato cammino verso i due Vietnam
I primi movimenti indipendentisti si manifestarono in Vietnam, proprio dove le lotte
contro la Cina si erano caratterizzate per una forte tradizione di nazionalismo. Nel paese,
infatti, i movimenti nazionalisti erano animati non soltanto dalla volontà di combattere lo
sfruttamento economico occidentale, ma anche l’immobilismo culturale che lo stava
interessando.
Un immobilismo che fu determinato da una civilizzazione a 360° operata dai Francesi
nel corso della colonizzazione. In ogni territorio conquistato dall’autorità francese era stata
promossa una sistematica assimilazione culturale e politica, processo che interessò quindi
anche la lingua, la religione, la letteratura, le leggi, il sistema di governo e quello educativo
Ciò valse anche per i Vietnamiti, ai quali fu insegnato il francese, molti furono convertiti al
cattolicesimo, agli studenti fu insegnata la storia, la letteratura e la legge francese. Inoltre, in
apposite scuole private frequentate dal 20% dei ragazzi vietnamiti fu anche insegnata
matematica, scienze e ingegneria, così da poter fornire ai quei giovani più brillanti, qualora
la famiglia potesse permetterselo, la preparazione necessaria per frequentare le scuole
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
francesi in Indocina o l’università in Francia, dove era possibile seguire gli stessi corsi dei
Francesi e ottenere il medesimo livello di istruzione.
La stessa lingua fu cambiata, sostituendo il difficile cinese con l’alfabeto romano
utilizzato in Europa occidentale. Obiettivo ultimo delle autorità coloniali era quello di
instillare nelle menti più brillanti vietnamite il sistema culturale francese, così da creare una
classe – un élite sociale – pronta a supportare la dominazione del loro paese.
Le profonde trasformazioni apportate dalle autorità francesi oltre all’assimilazione
culturale miravano anche a modernizzare il sistema economico e infrastrutturale del paese.
In effetti, nel corso della dominazione francese furono costruite numerose ferrovie che
collegavano le principali città del Vietnam, tra queste la più importante – che rappresentò
anche motivo di orgoglio per entrambi, Francesi e Vietnamiti – fu la realizzazione di un
sistema ferroviario che collegava la capitale settentrionale di Hanoi a Saigon, la più grande
città nel Sud del Vietnam. In aggiunta al sistema ferroviario, camion e automobili furono
importati dalla Francia, molte strade furono asfaltate e si procedette alla costruzione di
numerosi ponti.
Sotto il profilo giuridico, i Francesi imposero il loro sistema giuridico,
fondamentalmente basato sui codici napoleonici, sostituendo quello vietnamita usato ormai
da secoli, perché convinti che quello francese fosse più «umano». In realtà, sebbene non
supportato da mere motivazioni filantropiche, l’adozione dei codici francesi apportò dei
miglioramenti nel trattamento dei colpevoli e nelle imposizioni delle pene, basti pensare che
fino a poco prima le donne accusate di adulterio erano calpestate da elefanti, mentre i ladri
venivano decapitati. Con l’adozione delle leggi e del sistema giudiziario francese le pene
furono decisamente ridotte e rese più tollerabili.
Infine, sotto il profilo economico si deve alla Francia la commercializzazione dell’oppio
nel paese e l’esportazione del riso, fino a quel momento vietata dall’imperatore vietnamita.
Il paese, inoltre, si concentrò sulla produzione di caucciù. La famosa azienda di pneumatici
Michelin, per esempio, in quel periodo comprò migliaia di ettari di terra dove fu impiegata
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
parte della popolazione locale costretta a lavorare in condizioni disumane, affetti da malaria,
dissenteria e malnutrizione (Ladenburg T., 2007).
Questa condizione di assoggettamento economico e culturale continuò senza alcuna
forte reazione da parte della popolazione vietnamita fino alla Prima Guerra Mondiale,
quando intellettuali e attivisti politici, stanchi dell’immobilismo in cui erano costretti,
iniziarono ad avanzare richieste di emancipazione all’autorità coloniale. Sotto il profilo
culturale, i vietnamiti erano sistematicamente esclusi da qualsiasi ricerca di carattere
scientifico, artistico, storico e letterario, che era, invece, di esclusivo appannaggio di un
gruppo di studiosi francesi appartenenti all’École Française d’Extrême-Orient di Hanoi.
Anche dal punto di vista politico ai vietnamiti non erano concesse ampie libertà, al
contrario, ogni attività politica era severamente controllata. Ciò non impedì agli intellettuali
vietnamiti, curiosamente nutriti da idee illuministiche, di avvicinarsi ai movimenti
nazionalistici e rivoluzionari fioriti in Cina all’inizio degli anni Venti.
In generale, le autorità francesi operarono nella regione una costante e serrata
repressione contro qualsiasi forma di movimento di emancipazione o di richiesta perorata
dalle comunità locali (Corna Pellegrini G., 1982). Neanche la nascita, dopo la Grande
Guerra, di una borghesia vietnamita educata all’occidentale riuscì a ottenere una qualsiasi
concessione, anzi, l’amministrazione coloniale preoccupata dalle continue istanze rifiutò
con durezza qualsiasi apertura e tentò di conservare ancor più gelosamente il monopolio del
potere. La cattiva gestione francese fu una delle principali cause scatenanti la nascita di
movimenti rivoluzionari, come il Partito nazionale vietnamita, fondato nel 1927 sul modello
del Guomindang cinese, e del Partito comunista indocinese guidato da Ho Chi Minh (Sellier
J., 2010).
La repressione francese prima e gli esiti della Seconda Guerra Mondiale poi, durante cui
si arrivò all’occupazione giapponese in parte dell’Indocina, costrinsero il movimento di Ho
Chi Minh alla clandestinità e all’esilio (Corna Pellegrini G., 1982). Fu così che stabilitosi
nei territori appena fuori la parte occupata dal Giappone che Ho Chi Minh preparò il suo
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Modulo 9° - In Indocina
piano per il recupero della sovranità nazionale vietnamita, da realizzarsi una volta che gli
Alleati avessero sconfitto e scacciato i Giapponesi.
Nel 1941, a Pac Bo – un insieme di grotte situate lungo il confine sino-vietnamita – Ho
Chi Minh fondò il Viet Minh Doc Lap Dong Minh, ossia Lega per l'Indipendenza del
Vietnam (in breve, Viet Minh) con a capo il Partito Comunista Indocinese, avente lo scopo
di conquistare il sostegno di tutti i segmenti della società vietnamita e favorire
l'indipendenza nazionale.
Il 19 agosto 1945, pochi giorni dopo la capitolazione giapponese per opera degli Alleati,
ma prima che le truppe di de Gaulle potessero sbarcare nei territori vietnamiti, il Viet Minh,
approfittando di un’ondata di malcontento popolare a causa della prolungata carestia per
impadronirsi del potere ad Hanoi. Nel giro di pochi giorni, esattamente il 2 settembre del
1945, di fronte ad una platea ipnotizzata, Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza della
Repubblica Democratica del Vietnam (RDV). Da quel momento in poi, Ho Chi Minh fu
considerato il padre della neonata nazione (Goscha C. E., 2010).
A pochi giorni dalla nascita della Repubblica, il Vietnam si trovava contesa da più parti
(cinesi, francesi e nazionalisti). Pertanto, durante la Conferenza di Postdam si decise che si
sarebbe proceduto al disarmo delle truppe giapponesi facendo occupare ai Cinesi la parte
dell’Indocina a Nord del 16° parallelo e ai Britannici la restante area a Sud, i quali a loro
volta facilitarono il rientro delle forze francesi che, alla fine del 1945, riuscirono a
controllare nuovamente la Cocincina e il Sud dell’Annam. Con la fine della Seconda Guerra
Mondiale, si raggiunse la liberazione per la Francia, ma apparentemente non per le sue
colonie.
Estenuato dalla pressione cinese, Ho Chi Minh – le cui azioni furono sempre tese
all’indipendenza e riunificazione del paese – decise di entrare in contatto con le autorità
francesi (Sellier J., 2010), riuscendo così a risolvere inaspettatamente il problema
dell’occupazione cinese del Nord del Vietnam quando i Francesi proposero uno scambio a
Chiang Kai-shek: le forze cinesi sarebbero state sostituite da quelle francesi a Nord del 16°
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Modulo 9° - In Indocina
parallelo in cambio sarebbero cessata ogni pretesa sulle vecchie concessioni francesi a
Shanghai e in altri porti cinesi. Dopo che Chiang Kai-shek accettò l'offerta, l'esercito di
Luhan iniziò a lasciare i territori settentrionali all'inizio del 1946.
A questo punto Ho Chi Minh si trovò di fronte alla prospettiva di un ritorno francese nel
Vietnam del Nord e, diversamente da quanto suggeritogli dai suoi collaboratori che
proponevano il ricorso alla forza tramite il Vietnminh, decise di seguire in prima battuta la
via dei negoziati, per poi ricorre al conflitto armato in caso di insuccesso.
L’offerta di Ho Chi Minh consisteva nell’accettare il ritorno temporaneo dei Francesi
nella parte settentrionale del paese, a condizione che fosse riconosciuta la legittimità della
Repubblica vietnamita e fosse definito un limite di tempo per la presenza delle truppe
francesi in Vietnam. Dopo lunghe trattative, il principale punto critico si rivelò essere il
futuro della Cocincina, che a differenza dei protettorati francesi di Tonchino e Annam, era
tecnicamente sempre stata una colonia francese. Pertanto, in base alla controproposta
francese sarebbe stato concesso il riconoscimento diplomatico della Repubblica di Ho Chi
Minh soltanto nel caso in cui la Cocincina fosse rimasta sotto il controllo francese. Il rifiuto
di Ho Chi Minh fu più che prevedibile considerata la sua opposizione ad una partizione del
Vietnam.
Proprio quando le trattative sembrano bloccate, le parti raggiunsero un accordo di
compromesso il 6 marzo 1946: la Francia avrebbe riconosciuto la Repubblica Democratica
del Vietnam come uno Stato indipendente all'interno dell'Unione Indocinese, le truppe
dell'Unione francese sarebbero rimaste di stanza nella Repubblica per non più di cinque anni
e per la Cocincina si sarebbe proceduto con trattative a Parigi tra i rappresentanti della
Repubblica Democratica del Vietnam e della Francia (Addington L. H., 2000).
Si ottenne così l’abbandono dei Cinesi dalla parte settentrionale del Vietnam e il
graduale ingresso delle truppe francesi. Nel frattempo ripresero i negoziati, ma entrambe le
parti erano più interessate a portare avanti i propri interessi nazionali piuttosto che cedere a
compromessi per il bene e la pace comune. Infatti, mentre, la RDV mirava all’unità e
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
all’indipendenza del Vietnam, le autorità francesi intendevano conservare la Cocincina e
mantenere il controllo sull’Indocina federale. La tensione era quindi alta e al verificarsi
degli incidenti ad Haiphong, le forze francesi ne bombardarono il porto provocando la
reazione dei Viet Minh: ebbe così inizio nel dicembre 1946 la guerra.
L’avanzata francese fu inarrestabile, occuparono Tonchino e Hanoi, proseguendo lungo
la frontiera cinese e, tra il 1947 e il 1950, riuscì a controllare il delta del Fiume Rosso,
battendosi contro la tenace resistenza del Viet Minh. Nel resto del paese, invece, l’esercito
francese dovette affrontare solo focolai di guerriglia sparsi. Allo stesso tempo la Francia
tentava di trovare un modo per salvaguardare i suoi interessi, dando comunque il proprio
consenso al nazionalismo vietnamita e fu così che si rivolse a Bao Dai – il precedente
imperatore vietnamita – rifugiatosi ad Hong Kong dopo la proclamazione di indipendenza
del 1945. Nel 1949, dopo lunghissimi negoziati e soprattutto grazie alla forte pressione
statunitense, la Francia si arrese alle richieste vietnamite e accordò l’indipendenza allo Stato
del Vietnam, comprendente la Cocincina, con Bao Dai capo di Stato.
Nel corso dello stesso anno, tuttavia, la vittoria dei comunisti in Cina sconvolse
profondamente la situazione, sia sotto il profilo politico che militare: nel 1950,
immediatamente dopo la rinuncia della sovranità sul Vietnam da parte della Francia, la
Repubblica Democratica del Vietnam si proclamò l’unica autorità legittima del paese.
Subito arrivò anche il riconoscimento da parte della Cina e dell’URSS, mentre dopo solo un
mese gli Stati Uniti riconobbero lo Stato del Vietnam. Come in Corea anche i territori del
Vietnam furono inglobati nei giochi di potere della Guerra Fredda. Intanto la guerra nel
Vietnam continuò per altre quattro anni, fino a che le parti coinvolte non furono riunite nella
Conferenza di pace di Ginevra nel 1954, dove vi parteciparono Francia, Gran Bretagna,
Cina, Stati Uniti, Unione Sovietica, il Laos, la Cambogia, e i rappresentanti del Viet Minh e
del regime di Bao Dai.
Gli accordi di Ginevra stabilirono una linea d’armistizio lungo il 17° parallelo, che
separava il Vietnam del Nord – con capitale ad Hanoi – dal Vietnam del Sud – con capitale
a Saigon – i domini coloniali francesi terminavano di esistere e fu stabilita l’indizione di
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Modulo 9° - In Indocina
elezioni libere per la riunificazione del paese. Gli accordi furono firmati da Francia, Cina e
URSS, ma non dagli Stati Uniti.
Il risultato della Conferenza di Ginevra furono devastanti, in pratica si vennero a creare
due Stati contrapposti: a Nord un regime comunista, sostenuto da Cina e URSS, a Sud,
invece, uno Stato guidato da Ngo Dinh Diem, divenuto Primo Ministro nel 1954 e sostenuto
dagli Stati Uniti.
Figura 9.2.: Vietnam dopo il 1954
Fonte: The Encyclopedia of New Zealand (http://www.teara.govt.nz/)
Il regime comunista a Nord divenne sempre più rigido, costringendo migliaia di
Vietnamiti cattolici a migrare verso Sud. Nel frattempo Diem, una volta restaurato l’ordine
pubblico, dovette organizzare l’accoglienza dei rifugiati dal Nord. Di lì a poco, nel 1955,
dopo la destituzione di Bao Dai, Diem divenne Presidente della Repubblica del Vietnam,
nomina che coincise con la trasformazione della Repubblica in un regime sempre più
autoritario e poliziesco nella lotta contro i comunisti, che Diem definiva «Vietcong», ossia
«Vietnam rosso», i quali per nulla indeboliti dalla caccia repubblicana, diedero vita nel 1960
al Fronte Nazionale di Liberazione (FNL). Nel 1963 gli Stati Uniti ritirarono il loro
sostegno a Diem, che tramite un golpe militare fu destituito e assassinato. Si susseguirono
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Storia e Istituzioni dell’Asia
Modulo 9° - In Indocina
diversi colpi di Stato, dai quali uscì vincitore il generale Nguyen Van Thieu che riuscì a
ottenere il potere e porsi alla guida del Vietnam del Sud a partire dal 1965 (Sellier J., 2010).
9.3. Dalla Guerra del Vietnam ad oggi
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il Vietnam fu dilaniato dall’imposizione
di una divisione territoriale che, anziché perseguire gli interessi culturali e di stabilità
politica della regione, rappresentava efficacemente i rapporti e le tensioni scaturite durante
la Guerra Fredda. Con la fine della presidenza Truman e la morte di Stalin, tuttavia,
mutarono i rapporti tra le due superpotenze, che dal combattersi apertamente passarono ad
una politica di accettazione reciproca, basata sulla coesistenza pacifica tra i due blocchi.
Pertanto, come gli Stati Uniti dovevano accettare il consolidamento dell’impero territoriale
e ideologico dell’URSS, così i sovietici non s’intromisero nelle questioni del blocco
occidentale e dei paesi sotto la loro influenza. In Asia Meridionale e Orientale questo
bilanciamento dei poteri si tradusse nella non interferenza per quei paesi dichiaratamente
schierati sotto il profilo ideologico (vedasi la Cina, il Pakistan e il Giappone) e la divisione
in aree d’influenza per quei paesi d’importante valenza strategica (come ad esempio la
penisola coreana e vietnamita).
Ma a differenza del caso coreano, dove la divisione in due nazioni distinte si consolidò
nel tempo – contrariamente ai desideri della stessa popolazione coreana – il Vietnam riuscì a
unirsi sotto un’unica entità statale dopo lunghe e logoranti guerra. A onor del vero, il
conflitto vietnamita ebbe già inizio dalla metà degli anni Cinquanta, ma esplose
definitivamente negli anni Sessanta, anche a causa del massiccio coinvolgimento
statunitense che incrementò progressivamente il contingente militare a supporto del
Vietnam del Sud, dovuto al cambiamento di politica e, quindi, dello status quo nell’area.
Infatti, se fino a quel momento vi era stata una politica di mutuo rispetto, con la presidenza
Kennedy prima – durante il cui operato il supporto militare arrivò a raggiungere 30.000
uomini – e Johnson poi, la presenza degli Stati Uniti fu sempre più evidente.
Contemporaneamente, la nascita del Fronte Nazionale di Liberazione (FNL o Vietcong),
che godeva del sostegno militare da parte del Vietnam del Nord, creò un clima di estrema
tensione pronta ad esplodere, come poi avvenne a partire dal 1964 quando gli Americani
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Modulo 9° - In Indocina
bombardarono la pista «Ho Chi Minh» attraverso cui il Nord sostentava i Vietcong
(Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
L’anno seguente, senza che ci fosse stata una dichiarazione di guerra, gli Americani
iniziarono a bombardare violentemente tutto il Vietnam del Nord e la parte orientale del
Laos, impiegando nel conflitto forze armate in quantità sempre maggiore (Sellier J., 2010).
Tuttavia, quest’escalation di contingenti e di violenza non fu sufficiente a contrastare la
lotta dei Vietcong – che potevano contare sul vasto supporto fra le masse contadine – né
tanto meno a piegare la resistenza del Vietnam del Nord, il quale grazie alla collaborazione
di Cina e Russia, riuscì a rifornire di armi e uomini il proprio esercito.
La guerra continuò ancora per diverso tempo, diversamente da quanto pronosticato dalle
autorità statunitensi, il cui esercito – addestrato alla guerra meccanizzata – si ritrovò
completamente impreparato a gestire una guerriglia partigiana, provocando un crescente
disagio. Uno scontento diffuso non soltanto all’interno delle forze armate coinvolte ma
anche nella popolazione statunitense che percepiva il conflitto vietnamita contrario alle
tradizioni e ai principi democratici americani e, pertanto, ingiusto («una sporca guerra»).
L’incoerenza ideologica e gli elevati costi economici e umani sfociarono in imponenti
manifestazioni di protesta, che indebolirono pesantemente la posizione assunta delle autorità
americane in Vietnam. Contemporaneamente, anche nel resto dell’Occidente il conflitto
vietnamita scosse l’opinione pubblica, in particolar modo la componente di sinistra che si
mobilitò a favore del popolo vietnamita. Questa presa di posizione contribuì ad isolare
ulteriormente la presidenza americana (Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V., 2002).
La chiave di volta si ebbe nel gennaio del 1968, in prossimità delle celebrazioni del Têt,
con l’offensiva lanciata dal Fronte Nazionale di Liberazione, che colpì la maggioranza delle
aree più popolate del Vietnam del Sud, riuscendo così a cogliere alla sprovvista gli
avversari. L’offensiva del Têt, che prese appunto il nome del Capodanno buddhista, sebbene
risultò in un insuccesso militare per le forze dei Vietcong e del Vietnam del Nord, spinse le
autorità statunitensi a sospendere i bombardamenti e a progettare il disimpegno militare
americano in Vietnam. Da quel momento in avanti, gli Stati Uniti decisero di
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Modulo 9° - In Indocina
«vietnamizzare» il conflitto e, allo stesso tempo, diedero inizio ai negoziati ufficiali, i
colloqui di Parigi, che iniziati nel maggio del 1968 coinvolsero Stati Uniti, Vietnam del
Nord e del Sud e il governo rivoluzionario provvisorio, espressione politica del Vietcong.
Infine, furono riaperti i primi rapporti diplomatici con la Cina, come sancito dalla visita di
Nixon a Pechino nel 1971 (Sellier J., 2010).
Le trattative si protrassero per anni, mentre la guerra dilagò anche negli altri Stati
confinanti, ovvero in Cambogia e Laos – dove erano attivi movimenti di guerriglia
comunisti – che a loro volta furono in parte occupati dagli Stati Uniti per tagliare ai
Nordvietnamiti le vie di rifornimento provenienti dalla Cina. Nel 1972, nonostante la
riduzione delle forze americane a meno di 100 mila uomini, la guerra divampava più che
mai con l’offensiva nordista primaverile intorno a Quang Tri, più volte presa e ripresa da
ambo le parti e i fortissimi bombardamenti americani di ritorsione.
Figura 9.3.: Il Vietnam durante la guerra
Fonte: Sellier J. (2010), Atlante dei popoli d’Asia Meridionale e Orientale, il Ponte
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Nel gennaio del 1973 fu finalmente firmato l’accordo di Parigi che prevedeva:
• il completo ritiro americano;
• la restituzione dei prigionieri statunitensi;
• la cessazione del fuoco;
• la pacificazione del paese in regime di democrazia.
Se i primi due punti trovarono immediata attuazione, il terzo non venne mai osservato
dai Nordvietnamiti e la guerra tra i due Vietnam continuò, con esito indubbio, data ormai la
sproporzione delle forze in campo (Corna Pellegrini G., 1982). Mentre il Vietnam del Nord
uscì vittorioso dal conflitto contro gli Stati Uniti, quello del Sud stava attraversando una
profonda crisi, le campagne erano state devastate dalla guerra e, contemporaneamente, si
registrò un’elevata pressione demografica, soprattutto dovuta al forte flusso di rifugiati che
rappresentavano più della metà della popolazione. Inoltre, il Vietnam del Sud era
politicamente frammentato tra le aree sotto il controllo del generale Thieu, che si vide
ridurre il supporto degli Americani, e quelle occupate dal Governo rivoluzionario
provvisorio (GRP). Le divisioni furono definitivamente superate il 30 aprile del 1975,
quando le forze nordvietnamite occuparono Saigon con l’appoggio del GRP, ponendo fine
al conflitto e riunendo le due parti del paese sotto il regime della Repubblica Socialista del
Vietnam (Sellier J., 2010).
Una serie di misure politiche ed economiche furono subito prese per avviare con la
riunificazione anche la ricostruzione del paese disastrato dalla guerra. Per il Sud ciò
comportò anzitutto un rapido adeguamento al sistema socialista vigente al Nord, che
avvenne con: la confisca e ridistribuzione dei terreni, l’abolizione delle imprese private e la
graduale migrazione di molti abitanti dalle città sovrappopolate alle campagne. Nel giugno
del 1976 si scelse per lo Stato riunificato il nome di «Repubblica Socialista del Vietnam»,
fu adottata la bandiera del Nord e come capitale fu scelta Hanoi. L’antica capitale del Sud,
Saigon, fu ribattezzata Ho Chi Minh (Corna Pellegrini G., 1982).
La riunificazione e l’adozione forzata di un regime comunista nel Sud non avvenne
pacificamente, al contrario questa imposizione provocò un forte malcontento tra la
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popolazione, che tra il 1975 e il 1989 tentò di migrare in massa. Circa 1,3 milioni di
vietnamiti fuggirono dal paese, di questi più di 700 mila in condizioni assolutamente
drammatiche.
Frattanto, la regione indocinese non riuscì a trovare un equilibrio pacifico, in parte a
causa delle manovre vietnamite nell’area per proteggersi sul fronte occidentale, in parte per
riorganizzare l’ex Indocina francese sotto la sua egemonia. Già nel Laos era vigente dal
1975 un regime comunista alleato, il Pathet Lao, restava fuori solo la Cambogia –
precedentemente occupata dai guerriglieri comunisti (Khmer rossi) con cui non si
instaurarono mai buoni rapporti. Fu così che nel 1978 il Vietnam, con il supporto
dell’URSS, invase la Cambogia, depose il dittatore Pol Pot e instaurò un regime amico
(Sellier J., 2010).
L’azione provocò la risposta della Cina, che il 17 febbraio 1979 superò il confine
vietnamita dirigendosi verso Hanoi. Il conflitto tra Vietnam e Cina terminò nell’arco di
diciassette giorni con il rientro dell’esercito cinese nei propri confini. Scoppiata per la
questione cambogiana, il conflitto sino-vietnamita fu fondamentalmente dovuto alla più
grave frattura tra i paesi di osservanza sovietica (tra cui il Vietnam) e quelli gravitanti
nell’orbita cinese. Pertanto, l’occupazione della Cambogia da parte di truppe vietnamite va
ascritta proprio a questa contrapposizione di fronti, che rimise in discussione l’intero assetto
politico-territoriale del Sud-Est asiatico (Corna Pellegrini G., 1982).
Il Vietnam riuscì a rimanere presente ed esercitare la propria influenza in Laos e
Cambogia fino alla fine degli anni Ottanta, ovvero sino a che l’URSS non smise si fornire
loro aiuti. Con il crollo dell’URSS, la Repubblica Socialista del Vietnam virò rapidamente
la propria politica economica, accelerando quel processo di liberalizzazione già intrapreso
nel 1986. Entrò a far parte dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) nel 1995,
anno in cui ristabilì anche le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Infine, nel 2006
divenne membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
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Sotto il profilo politico, il Partito comunista ha continuato a mantenere il potere del
paese – ancora oggi possono concorrere alle elezioni solo quelle organizzazioni affiliate al
partito – nonostante il rinnovamento del suo gruppo dirigente, sancito nel 2006 con la
nomina a Primo Ministro di Nguyen Tan Dung e di Nguyễn Xuân Phúc nel 2016 (Sellier J.,
2010).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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University Press.
Corna Pellegrini G. (1982), L’Asia Meridionale e Orientale, UTET.
Giardina. A, Sabbatucci G., Vidotto V. (2002), L’età contemporanea, Laterza.
Goscha C. E. (2010), The Indochina War: A Connected History, University of Hawa’ii
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(http://www.er.uqam.ca/nobel/r26645/documents/HIS548X/Goscha_The_Indochina_W
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Ladenburg
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History
(http://www.digitalhistory.uh.edu/teachers/lesson_plans/pdfs/unit12_1.pdf, consultato il
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