isocrate, cicerone, dewey momenti e figure di educazione

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE, DEI BENI CULTURALI E DEL TURISMO
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
THEORY, TECHNOLOGY AND HISTORY OF EDUCATION
CURRICULUM THEORY OF EDUCATION
CICLO XXV
TITOLO DELLA TESI
ISOCRATE, CICERONE, DEWEY
MOMENTI E FIGURE DI EDUCAZIONE ALLA POLITICA
RELATORE
DOTTORANDO
Chiar.mo Prof. MICHELE CORSI
Dott.ssa ANTONELLA GRAVINA
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. ROBERTO SANI
ANNO 2013/2014
Indice
INTRODUZIONE……………………………………...….p. 2
CAPITOLO I
ISOCRATE
LA RETORICA PER LA POLIS
1 - Il logos e la sua dimensione comunicativa…………...….p. 11
2 - Isocrate e la sua pedagogia……………………….…..….p. 24
3 - La parola e la politica………………………………...….p. 37
CAPITOLO II
CICERONE
L’ORATORIA PER LA RES PUBLICA
1 - L’ideale di humanitas……………………………………p. 43
2 - La cultura e la politica…………………………………...p. 54
3 - Formazione e politica……………………………………p. 66
CAPITOLO III
JOHN DEWEY
L’EDUCAZIONE PER LA DEMOCRAZIA
1 - L’etica per la democrazia………………………………..p. 73
2 - Democrazia e educazione: il nodo centrale……………..p. 88
3 - Il Pubblico e i suoi problemi: educare alla Great
Community……………………………………………….p. 94
CONCLUSIONI………………………………………….. p.109
BIBLIOGRAFIA…………………………………….…….p.115
1
INTRODUZIONE
Il presente lavoro di ricerca si propone di analizzare momenti
fondamentali dell’educazione della persona umana alla politica,
all’interno dei grandi paradigmi pedagogici dell’Occidente, la
paideia, l’humanitas, la democrazia, intesi come valori da cui la
formazione dell’individuo non può prescindere anche e
soprattutto nel pensiero filosofico contemporaneo in relazione al
suo rapporto con la politica e, in particolare, con la democrazia
nel suo moderno e contemporaneo significato.
Aspetti legati sia al mondo greco che a quello romano, che per
essere compresi, analizzati e contestualizzati impongono un
accenno ad un elemento chiave della dimensione pedagogica: il
logos, ovvero la parola, il discorso.
Ruolo della ‘parola’ e processo educativo si presentano, sin dai
poemi omerici, come un connubio inscindibile. Il poeta greco,
infatti, attribuiva enorme importanza a tutte quelle discipline che
avrebbero reso un nobile e libero uomo un oratore modello,
divenuto valido politico e militare con il solo scopo di servire e
proteggere la propria polis.
Essere capaci di comunicare, di discorrere, e, dunque, persuadere
era una prerogativa essenziale per la politica democratica delle
2
poleis. Infatti, il fine della retorica è la persuasione, ossia capire
come si riesce a condurre gli altri, senza apparente costrizione, a
pensare qualcosa che prima non pensavano. La parola, la cui
funzione è quella di mettere in relazione gli individui, non può
slegarsi,
dunque,
dall’educazione;
infatti,
come
è
stato
efficacemente affermato, «La poesia omerica trasmette [...] un
modello educativo completo, destinato ad esercitare un’influenza
duratura e pervasiva»1.
Ci troviamo, così, innanzi ad una doppia dimensione, quella
educativa e quella culturale, giacché le comunità arcaiche grazie
al logos trasmettevano il proprio patrimonio culturale e valoriale.
Inoltre, sono proprio la parola, il discorso, la comunicazione
diretta a dare vita a veri e propri rapporti sociali, grazie appunto
all’interazione tra le persone e, quindi, alla relazione educativa
che è determinata non solo dal rapporto maestro-allievo, ma più
in generale dal rapporto tra i cittadini e la comunità
complessivamente intesa.
Da questi aspetti, traspare la natura ‘paideutica’ del logos, da
intendere come processo educativo che nei secoli ha vissuto in
1
L.R. Cresci, La retorica da mezzo di persuasione a promotore di memoria
culturale, in A. Campodonico e L. Mauro, a cura di, L’uomo (in)formato. Percorsi
nella paideia ieri e oggi, Franco Angeli, Milano 2011, p. 9.
3
simbiosi con altre dimensioni comunicative come, ad esempio, la
scrittura.
È Isocrate a realizzare l’incontro fra oralità e scrittura in una
nuova dimensione culturale che rende entrambi “elementi
formativi”, “elementi pedagogici”.
Per tale ragione ho ritenuto necessario delineare i princìpi
pedagogici della paideia con specifico riferimento a Isocrate, che
riedifica l’ideale di paideia come valore universale che, partendo
dal mondo greco, «[…] individua ciò che è specificamente greco
con l’universalismo umano»2, per un’edificazione spirituale della
comunità politica che ingloba e trascende al contempo le mete
morali dell’individuo, in una visione panellenica, che non è errato
definire cosmopolita.
Isocrate, in cui come per tutto il mondo culturale greco, non è
trascurabile
l’influsso
esercitato
dai
sofisti,
propugnava
l’insegnabilità della virtù, da leggere, però, in termini
utilitaristici, giacché lo scopo era far conoscere prevalentemente
quei valori maggiormente consoni e, per l’appunto, utili
all’individuo e alla vita civile. A ciò si univa anche la retorica da
intendere come metodo di comunicazione per eccellenza, in cui la
W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, trad. it. L. Emery e A. Setti,
Bompiani, Milano 2006, p. 1472.
2
4
dialettica e l’eristica costituivano i due momenti chiave. La
parola era lo strumento per elogiare chi ne fosse degno e
confinare nell’Ade chi lo meritasse.
È la parola il cuore della paideia che agli inizi, ovvero prima di
rivestire la funzione privilegiata e raffinata di elaborazione di
assunti filosofici, aveva il potere assoluto di valutare le virtù. Con
Isocrate la ‘parola’, il ‘logos’, che diviene parola scritta, discorso
scritto, ha valenza di scienza e, nel contempo, si carica di forza
politica. Logos, dunque, come strada dell’educazione e coscienza
democratizzante e, a fortiori, democratica.
Si vuole verificare quanto della retorica classica, come
“tracciato” progressivamente precettistico, culturale ed etico e
fondamento del processo formativo e modello educativo, si può
rinvenire e come potrebbe essere un utile strumento interpretativo
della società democratica attuale.
La dimensione pedagogica del logos su cui si fonda l’idea di
Isocrate di formazione della persona alla politica si può
riscontrare nel progetto formativo di Cicerone basato sull’oratoria
e, per certi aspetti, anche nella riflessione di John Dewey,
sviluppata sui processi comunicativi dei valori democratici.
5
Tenendo conto di questo presupposto verranno esaminate alcune
proposte educative, prendendo le mosse dall’analisi di alcuni
aspetti del pensiero di Isocrate, passando, poi, per il maggior
oratore e uomo politico latino, Cicerone, per approdare, in
conclusione, a colui che ha trasformato il concetto di educazione
nel Novecento, legandolo alla realizzazione della democrazia,
John Dewey.
In tale ricognizione, saranno presi in considerazione il metodo
‘paideutico’ isocrateo e il concetto di humanitas ciceroniano,
cercando di tracciare delle linee parallele tra il mondo antico, sia
esso greco che romano, e la realtà del Novecento – specialmente
per quanto concerne il nesso tra educazione e democrazia -,
tenendo ben presente che nel mondo greco la paideia indicava la
formazione dell’uomo, in cui oltre alla pratica e alla teoria, si
univa l’autoconsapevolezza e l’importanza dei valori che
servivano alla cura del sé. La paideia, dunque, aveva il compito
di sviluppare tutte le virtù, ma anche la capacità di comprendere
gli accadimenti pubblici ovvero politici. Essa trova un’originale
rielaborazione nell’humanitas latina,
nata come costola della
paideia greca, con la quale non si identifica, giacché
6
l’umanesimo greco era più cosmico che antropocentrico3. In tale
processo, fondamentale è stato il tramite della riflessione greca
dello stoicismo che, in particolare con Panezio, influì sul circolo
degli Scipioni e su Cicerone. Ed è proprio a quest’ultimo che si
attribuisce lo sviluppo del significato di humanitas come cultura
enciclopedica4 e l’avere individuato nell’humanitas la natura
umana universale.
Cicerone, partendo dal concetto di humanitas e puntando
l’attenzione sul processo di coscienza umana e di etica, nel De
Oratore, del 55 a.C., tratteggia la figura del perfetto oratore, che
non è solo colui che padroneggia la tecnica retorica, ma diventa
anche un modello di cittadino e di uomo, un esempio per l’intera
comunità. È una ripresa del tema catoniano del vir bonus dicendi
peritus, dove il vir bonus è il cittadino onesto, impegnato
politicamente, che mira al bene della patria.
Nel mondo romano Cicerone, nel De Oratore e nell’Orator (46
a.C.), nonché in altre opere, si fa deciso sostenitore dell’idea di
una formazione globale ossia sintesi di eloquentia e sapientia,
che rappresenta lo strumento necessario per concretizzare il
proprio impegno civile e politico, la possibilità per i cittadini di
3
Cfr. K. Papaioannou, Nature et histoire dans la conception grecque du cosmos, in
“Diogene”, 25, 1959, pp. 3 e ss..
4
Cfr. P. Boyancé, Etudes sur l’humanisme cicéronian, Latomus, Bruxelles 1970.
7
intervenire nella vita pubblica e nel dibattito politico,
analogamente a quanto era avvenuto in Grecia.
Gli autori presi in esame sono stati scelti perché il loro pensiero si
è sviluppato non scindendo mai i valori della paideia (Isocrate),
dell’humanitas
(Cicerone),
dell’educazione
(Dewey)
dalle
istituzioni pubbliche del tempo, intese come dimensioni in cui
l’individuo realizza se stesso in un’ottica pubblica.
Le numerose e continue discussioni sul concetto di democrazia,
anche attraverso l’utilizzazione dell’emblema della persona come
cittadino del mondo, portano a una sua visione astratta, che fa
della democrazia un valore che non viene riconosciuto nella
realtà dei fatti come tale. La democrazia, come piena
valorizzazione della persona umana nella sua integralità, da
sempre oggetto di dispute civili e militari, politiche e filosofiche,
trova ancora oggi ostacoli alla propria realizzazione.
Isocrate, Cicerone, Dewey, hanno rappresentato, in tre differenti
periodi storici, tre modelli educativi caratterizzati da una visione
etico-politica capace di fondare un’idea di comunità che si riflette
all’interno di un processo politico che trova nella retorica il
proprio fondamento. Werner Jaeger, nella sua mirabile opera sulla
formazione dell’uomo greco, affermava: «La nuova retorica
doveva trovare il modo di farsi banditrice di un ideale, di uno
8
scopo, che fosse eticamente sostenibile ma nello stesso tempo
suscettibile di pratica applicazione politica. Era, questa, una
nuova etica nazionale […]»5.
In definitiva, Isocrate, Cicerone e Dewey sono convinti fautori di
nuovi modelli culturali in grado di ripensare il legame sociale tra
l’individuo e la comunità di appartenenza, giustificare nuovi
assetti politici e nuovi scenari nella società umana del loro tempo,
in cui l’educazione diventa lo strumento fondamentale.
Ho ritenuto suddividere il presente lavoro di tesi in tre capitoli.
Essendo l’argomento legato alla retorica, al logos, alla
comunicazione, alla virtù e, in generale, ai fattori che concorrono
alla formazione della persona, tratterò, dapprima, dell’educazione
isocratea, soprattutto attraverso la riflessione sugli scritti Contro i
Sofisti e Sullo scambio, poi di quella ciceroniana, attraverso
riferimenti al De Oratore, per quanto concerne il modello
dell’oratore/politico, e ad altre opere di interesse, ed, infine,
prendendo le mosse da questi due modelli, espressioni
significative della paideia e dell’humanitas, concluderò con John
Dewey, uno dei maggiori filosofi e pedagogisti del XX secolo, in
cui appare evidente come la centralità dell’individuo nella
realizzazione delle sue potenzialità, determina la realizzazione
5
W. Jaeger, Paideia, cit., p. 1426.
9
etica dello stesso solo nella politica e nella democrazia, come in
Isocrate e in Cicerone.
10
CAPITOLO I
ISOCRATE: LA RETORICA PER LA POLIS
1. Il logos e la sua dimensione comunicativa
La scelta di partire da Isocrate è fondamentale perché per il retore
ateniese chi sa far buon uso del logos, come facoltà intellettiva e
parola, sa agire in maniera retta ed è utile alla comunità. Egli fece
delle proprie orazioni degli esercizi per tutti quei giovani che
frequentavano il cursus scolastico. Isocrate, vissuto nel IV secolo
a.C.6, si impegnò nella cura e nella formazione del cittadino di
estrazione sociale elevata, è considerato, infatti, un grande
maestro di retorica - quarto tra i dieci famosi oratori attici nel
Canone Alessandrino - intesa come disciplina madre tra le altre e
la sola in grado di portare successo, e maestro della nuova classe
dirigente che propugnava l’educazione come sostrato dell’etica
sociale. Allievo di Gorgia e contemporaneo di Platone, egli
6
Isocrate nasce ad Atene nel 436 a.C. da una famiglia benestante che gli procura
un’accurata educazione attraverso l’insegnamento di maestri sofisti Protagora e
Gorgia. Dal 402 al 392 è costretto ad esercitare l’attività di logografo, poiché il
padre cade in disgrazia durante il conflitto fra Atene e Sparta. Non partecipando
direttamente alla vita politica attraverso il prestigio ottenuto con la sua scuola
Isocrate non perde occasione di intervenire nel dibattito politico rivolgendosi ai
grandi protagonisti dell’epoca con lettere, messaggi, orazioni e consigli. Morì nel
338 all’età di novantotto anni in coincidenza della battaglia di Cheronea che segna
la dissoluzione del sogno panellenico.
11
organizzò un piano educativo basato sulla retorica criticando la
visione pedagogica dello stesso Platone7.
La tensione dell’individuo, dell’uomo, della persona, verso la
conoscenza, verso il sapere, si rivela nel momento in cui si
instaura già una prima relazione, una prima comunicazione
gestuale o verbale8. Ciò avviene sin dalla nascita, a partire dalla
quale l’uomo cerca una comunicazione con l’ambiente che lo
circonda, che lo ospita al fine di adattarsi e rispondere il più
correttamente possibile agli stimoli da esso prodotti.
Il logos, come veicolo comunicativo è lo strumento per
eccellenza a cui l’uomo fa appello sia per educare, sia per
apprendere, sia per autodifesa, sia per trasmettere i propri valori e
quelli della comunità di appartenenza, sia per rinsaldare i legami
con i propri simili. E nell’Atene antica la particolare importanza
rivestita dal logos aveva anche una natura extra-terrena: il logos
in quanto discorso non fu avvertito come un dire umano, ma
come la voce dell’essere, come espressione del ‘divino’.
Cfr. D. Pesce, Le due culture nell’antichità: Isocrate e Platone, in “Rivista di
filosofia neo-scolastica”, 76, 4, 1984, pp. 585-591; L. Spengel, Isokrates und
Platon, “Abhandl, der philos –philol. Kl d. konigl.bayer. Akad . d. Wiss.”, Munchen
1853, VII, 1. Si veda l’Antidosis di Isocrate e il Protreptico e l’Esortazione alla
filosofia di Aristotele, come risposta alle critiche isocratee.
8
Cfr. Cicerone, De Officiis (44 a.C.), in cui si trova espresso il concetto secondo
cui la tendenza alla conoscenza rientra tra gli impulsi fondamentali dell’uomo.
7
12
Il logos, ovvero discorso, ragionamento, nella terminologia
filosofica presenta varie sfumature. Ad esempio, per i presocratici
il logos è il principio supremo della realtà che la struttura in leggi
razionali; in pratica, il logos è la razionalità immanente alla realtà
e a un tempo l'espressione di questa razionalità nel discorso
umano. Si pensi ai sofisti, a un totale abbandono della portata
metafisica in favore del significato puramente discorsivo; a
Platone per il quale il logos è la ratio umana, che si esprime nella
forma più alta di conoscenza, cioè la conoscenza delle idee o
dialettica; e, ancora, ad Aristotele, per il quale il logos è il
concetto razionale ricavato dalla realtà attraverso l'astrazione.
Gorgia di Lentini, uno dei padri fondatori della retorica antica,
dedica all’analisi del logos e al suo carattere ambivalente circa un
terzo dell’intero Encomio di Elena. Il logos si manifesta non solo
nella sua funzione propriamente persuasiva, ma anche in quella
estetica e gnoseologica. In principio era il logos, una e sola
dimensione che permetteva alle comunità arcaiche di trasmettere
la propria cultura e i propri valori. La parola, il logos, è
formazione; ed è proprio la Grecia la madre del logos, della
trasmissione orale, il poeta educatore, l’aedo-rapsodo la cui
parola, suggerita per ispirazione dalla Musa, riesce a comunicare
a qualsiasi individuo il patrimonio di conoscenza. La parola era,
13
infatti, per i Greci principio di verità assoluta, ma anche funzione
sociale. Essa aveva un duplice valore: era ‘educazione’ perché
trasmetteva la memoria storica e culturale delle generazioni
passate; era ‘formazione’ quando esortava l’uomo all’agire.
La parola, facoltà tipicamente e unicamente umana, ha sempre
avuto un ruolo di rilievo nelle più svariate culture, non solo in
quanto forma di comunicazione primaria e più immediata, ma
soprattutto come κτημα εις αεί, (possesso per l’eternità),
determinante nel presente e preziosa per il futuro.
Nacque come epos, parola destinata a durare nel tempo, si
sviluppò come logos e in seguito si differenziò nei vari campi del
sapere, fondendosi con l’arte dello scrivere. La sua rilevanza è
facilmente riscontrabile nella mitologia e nelle leggende che,
tramandate oralmente per secoli, rappresentano le origini i tratti
costitutivi dei diversi popoli.
Con le orazioni di Isocrate il logos diviene anche scrittura,
assumendo una dignità scientifica, ma soprattutto politica. Il buon
uso della parola diventa il requisito indispensabile di chi vuole e
deve agire rettamente all’interno della polis. La parola scritta,
però, ha valore educativo se si unisce all’oralità che già
rappresentava uno strumento educativo ma anche il solo metodo
per conservare il patrimonio culturale per mezzo della ripetizione.
14
Infatti, i designati a tale compito erano principalmente il poeta
cantore, il rapsodo, l’aedo ispirati dalla Musa i quali abitavano in
un mondo intermedio tra quello divino e quello mortale.
Apprendere significava ascoltare e ripetere quanto udito mediante
un’operazione mnemonica relativa all’utilizzo di forme metriche
e paratassi. La retorica è la maestra del “parlare ornato” che nasce
come veicolo di persuasione opposto al parlare ordinario. Per tale
ragione essa era anche elocutio, complementare alla grammatica,
che consentiva l’elaborazione di discorsi di elegante semplicità
ma mostranti una notevole padronanza dei mezzi compositivi.
Il logos prima dell’avvento della scrittura era il solo veicolo di
divulgazione
culturale,
l’unico
mezzo
per
trasmettere
conoscenza, ma anche preservare ai posteri la cultura valoriale
della propria comunità. Nel momento in cui all’oralità si affianca
la scrittura, avviene che la conoscenza, la cultura, il patrimonio
valoriale, la paideia si posizionano sia nello spazio che nel
tempo. Infatti, i grandi retori della storia del pensiero filosofico
sono stati anche grandi teorici delle regole retoriche tecniche,
pratiche, così da mutare la comunicazione in una tecnica di
insegnamento. «La paideia o ‘istruzione scolastica’ nell’epoca
ellenistica, così come aveva preso forma e come s’era diffusa in
ogni polis dell’area mediterranea, comportava allo stadio
15
superiore, la formazione che si riceveva da un maestro di
retorica»9.
Ed è proprio quando l’uomo si è reso conto dello straordinario
potere di questa forma di comunicazione che nacque la τέχνη
ρητορική, l’arte del saper parlare; questa si sviluppò nell’Ellade,
ma si istituzionalizzò in tutta Europa solamente con l’avvento
dell’Impero Romano e con la contaminazione dei valori e dello
ius latino.
La retorica è il tentativo di mettere sullo stesso piano lingua
parlata e lingua scritta, di conciliare i princìpi tecnici con le
circostanze e con gli obiettivi che ci si è preposti10. La retorica
antica, seppur nella sua dubbia natura originaria, ossia se nacque
come retorica politica, volta a convincere i cittadini durante i
pubblici dibattiti, o come retorica giudiziaria, nata dai processi di
proprietà intentati all’indomani del rovesciamento dei regimi
tirannici in Sicilia nel V secolo a. C., era un’arte e come tale
doveva essere insegnata da un modello, maestro di retorica. Essa
precisa le cause del convincimento soprattutto per mezzo di forti
9
B. Standaert, La Rhétorique ancienne dans Saint Paul, in A. Vanhoye, a cura
di, L’Apôtre Paul. Personnalité, Style, et Conception du Ministère, Leuven
University Press,1986, p. 78.
10
Aristotele ci tramanda che furono i sofisti coloro che iniziarono ad utilizzare il
logos per persuadere; tuttavia, il termine τέχνη ρητορική fu usato per la prima volta
dal retore Corace intorno al 465 a.C.: i coloni, infatti, dopo la cacciata del tiranno
Trasibulo, persero le loro terre, e Corace fece un discorso per difendere i propri
concittadini.
16
argomentazioni, frutto di opinioni autorevoli, e solo in un
secondo momento mostra attenzioni ai risvolti psicologici.
Quando si parla di retorica il discorso non può che prendere le
mosse da Isocrate, principale esponente della branca epidittica
della retorica11 e allievo del sofista Gorgia di Lentini. La
peculiarità del discorso isocrateo, al di là della cura formale e del
pregio artistico, consisteva nel legare la retorica alla dimensione
morale e al contesto politico12. La cura che Isocrate diede ai
discorsi ci mostra il valore assoluto che egli attribuì al logos, un
potere in grado di restituire ad Atene la centralità del passato13.
Isocrate riteneva che il metodo educativo della retorica si basava
sulla capacità di operare secondo ragionevolezza e buon senso.
La paideia isocratea nasceva, infatti, con lo scopo preciso di
superare i frazionamenti politici interni al mondo greco delle
poleis, quasi un malessere congenito, per rigenerare uno spirito
nazionale in un’ottica panellenica, anche per far fronte alle
minacce rappresentate dai barbari e, in particolare, dall’esercito
persiano. Una paideia, dunque, che riflette un’essenza politicoAristotele, nella Retorica, unico trattato dell’antichità pervenutoci su questo
argomento, dopo avere proposto in apertura dell’opera una definizione della
retorica in quanto techne, suddivide l’oratoria in tre generi, giudiziario,
deliberativo, epidittico.
12
Cfr. L. Bellatalla, G. Genovesi, Isocrate ovvero l’educazione innanzitutto, Anicia,
Roma 2013, p. 51.
13
Isocrate, infatti, fu uno dei più convinti sostenitori e fautori dell’unità della
Grecia e di tutte le sue città intorno alla capitale ateniese contro soprattutto
l’avanzata persiana.
11
17
pedagogica, politico-filosofica, in cui al rigore dello studio si
affiancava l’importanza della relazione, della comunicazione14.
Isocrate così facendo elabora un programma educativo molto
vasto che comprendeva discipline diverse che andavano dalla
ginnastica
alla
grammatica,
dalla
disciplina
filosofica,
umanistica, e così via, programma in cui le scienze matematiche,
l’astronomia, la geometria, le scienze naturali rivestivano minore
importanza
in
quanto
contribuivano
in
minor
misura
all’acquisizione da parte del politico di strumenti di pensiero, di
comprensione e di giudizio utili alle responsabilità di governo.
Isocrate è fermamente convinto che ogni cultura che mira ad
essere più di una formazione specialistica professionale debba
essere cultura politica. Una “paidèia”, una “aretè” che
intendevano dare valore all’arte della parola, elemento efficace e
fecondo dell’apparato educativo che deve contemplare valori
morali e civili.
Isocrate, dunque, proprio per questo va considerato un maestro
della comunicazione oratoria che apre la strada a una più
compiuta metodologia della comunicazione formativa, che, per
aver attribuito grande importanza alla parola, alla cultura,
14
Cfr. Isocrate, Panegirico (380 a.C.), in cui la comunicazione oratoria diventa
compiuta metodologia della comunicazione formativa, diretta ad educare e non solo
a formare politici-oratori. Cfr, anche, L. Canfora, Storia della letteratura greca,
Laterza, Roma-Bari 2001.
18
all’interazione, alla fiducia nei valori etici, viene considerato un
importante rappresentante della filosofia retorica e dei valori
classici: «Non si può istillare con l’insegnamento la saggezza e la
giustizia nelle ‘cattive nature’: si può invece apportare un
notevole miglioramento con lo studio dell’eloquenza politica»15.
Isocrate è stato, dunque, una figura chiave per la storia della
filosofia e dell’educazione e per la comunicazione; è da lui che si
dipana quel filo che porterà al discorso esplicito sulla
“comunicazione
formativa”,
incarnando
vieppiù
esigenze
oratorio-retoriche e filosofiche, divenendo un modello importante
di paideìa classica.
Il modello educativo isocrateo prima ancora che tecnico doveva
essere “umanistico”, teso cioè a valorizzare le prerogative che
rendono l’uomo un essere superiore rispetto a tutti gli altri: il
pensiero e la vita associata. È da un umanesimo etico e politico
che trae vigore il concetto di paideia, della formazione spirituale
e culturale dell’uomo e del cittadino che, per Isocrate, si fonda,
appunto, sull’arte della parola, innato elemento civilizzatore che
distingue l’uomo dalle bestie, nonché manifestazione del
pensiero, nonché “timbro” distintivo dei Greci e loro forza
intellettiva.
15
Cfr. Ivi, p. 417.
19
Essa si configura, quindi, come un vasto e armonioso complesso
di conoscenze che assicurano all’uomo la capacità di parlare bene
e di agire bene, orientando secondo postulati morali le doti
naturali16. Per il retore greco la parola è l’elemento vantaggioso
per la salvezza dello Stato, ossia egli ritiene che la cultura,
l’educazione, la relazione comunicativa elevano l’uomo alla
saggezza e alla moralità a vantaggio dello Stato.
Educazione e cultura, retorica e politica si trovano così
accomunate in un’unità inscindibile. L’educazione intellettuale e
morale dei giovani, secondo Isocrate, non deve aspirare a una
irraggiungibile verità assoluta, come, a parere di questi,
pretendeva la filosofia, in particolare quella platonica, ma
adattarsi alle esigenze della vita pratica, formando uomini
assennati, equilibrati ed esperti, attivi tanto nella vita privata che
in quella pubblica, all’interno della irrinunciabile dimensione del
bene comune. Lo storico Henri Marrou scrive sul pensiero
educativo del retore ateniese: «È Isocrate che, generalmente, ha
prevalso ed è divenuto l’educatore della Grecia e poi di tutto il
mondo antico.[..] La retorica è rimasta lo scopo specifico
dell’alto insegnamento greco, dell’alta cultura. [...] Da Isocrate in
16
Cfr. J. Lombard, Isocrate. Rhétorique et education, Klincksieck, Parigi 1990.
L’Autore fa rilevare come più che il talento in sé è importante l’uso che si fa delle
proprie inclinazioni, valorizzando più che la dimensione casuale del talento quella
dell’esercizio, che, verosimilmente, definisce il processo educativo.
20
poi la retorica non ha mai cessato d’essere praticata come la
forma normale dell’educazione superiore. [...] Imparare a ben
parlare significava nello stesso tempo imparare a ben pensare, e
anche
a
ben
vivere.
[...]
Paideìa
[...]
designa
contemporaneamente educazione e cultura; […] la distinzione, tra
noi tanto netta, fra
“cultura” e “educazione”, tendeva
necessariamente ad annullarsi»17.
Indubbiamente Isocrate viene considerato il “fondatore della
cultura umanistica”, però - come sostiene Berti - solo di un certo
umanesimo,
quello
retorico-letterario
che
si
contrappose
all’umanesimo scientifico di Platone18.
Lo spirito e la funzione della paideia di Isocrate, in particolare
nell’orazione Sullo scambio (353 a.C. ca.)19, si rivela come una
possibile educazione anche per l’uomo del nostro tempo
proiettato verso la comunità, la cui azione trova la sua naturale
Cfr. H. I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 2008 (I
ed.1966), pp. 266-268.
18
Cfr. E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1997 (1^ ed.
1962), p. 89; M. Simoncelli, Isocrate, in J. M. Prellezo, C. Nanni, G. Malizia, a
cura di, Dizionario di Scienze dell’Educazione, LAS, Roma 1997.
19
Intorno al 356 a.C. fu intentato ad Isocrate un processo giudiziario da parte di un
suo concittadino, tale Megacleide, a cui la città di Atene aveva imposto la cd.
Trierarchia, ossi l’obbligo di finanziare l’allestimento della flotta. Era una forma di
contribuzione straordinaria (liturgie) che lo Stato imponeva ai cittadini più ricchi. Il
destinatario di tale obbligo aveva la possibilità di esimersi da esso se dimostrava
che un altro cittadino era più ricco di lui e chiedere di scambiare con questi i propri
beni. Megacleide fece ricorso, appunto, a questa procedura nei confronti di
Isocrate, che perdette la causa e fu costretto a sostenere a sue spese la liturgia. Il
discorso pronunciato in difesa del retore costituisce, a prescindere dalla cornice
giudiziaria, la fonte principale per analizzare e comprendere spirito e funzione della
paideia di Isocrate.
17
21
destinazione nella tensione al bene comune, che è valore in sé nel
quale trovano pieno soddisfacimento il singolo e tutta la
comunità degli uomini.
La concezione isocratea della cultura e dell’educazione risulta
estremamente importante in una prospettiva pedagogica ancora
da esplorare e da chiarire. Infatti, essa definisce un percorso
formativo fondato su un sapere che garantisca la facoltà razionale
di orientarsi nel presente scegliendo e facendo propri i punti di
vista più utili alla propria comunità. Come noto, la scuola di
Isocrate si propone, mediante il dominio della paideia, di incidere
sulla realtà attraverso un piano educativo fondato sulla virtù agita
nel quotidiano, di gran lunga preferibile ad ogni astruso percorso
dialettico, in implicita polemica con il pensiero platonico. Il
dominio del sapere e la connessa facoltà raziocinante si traducono
in requisiti di cittadinanza indispensabili ad un’utile collocazione
di ogni persona nella comunità organizzata di appartenenza.
In Isocrate è evidente il legame fra scuola e società. L’allievo di
Isocrate doveva appropriarsi delle “idee” - intese come forme del
discorso laddove questo è strettamente connesso al pensare, come
traduce il binomio phronein kai leghein -, che davano forma a
determinate realtà conoscitive, integrarle nel proprio modo di
pensare e di esprimersi, saperne giustificare il valore. Per paideia,
22
può intendersi, dunque, «[…] una certa idea dell’uomo, della
persona umana, della sua libertà, delle esigenze del suo sviluppo
e dell’ideale che bisogna seguire, del senso della vita […], cioè
[…] il processo di realizzazione che travalica l’età adulta e non
finisce mai, dell’ideale umano, il perseguimento di quel pieno
sviluppo dello spirito che si chiama cultura, comune a quelle
persone che fanno parte di una medesima civiltà»20.
In Isocrate, dunque, il percorso di istruzione contempera due
aspetti inscindibili e complementari: la valorizzazione della
persona umana che, pure ispirandosi a modelli di riferimento, è
capace di esplicare la sua identità in maniera unica e irripetibile;
la destinazione politica dell’insegnamento.
Questa struttura ideologica ha ispirato l’ideale educativo della
politichè philosophia prima in ambito romano per poi influenzare
lungamente la concezione educativa dell’Occidente. La valenza
pragmatica insita nell’ideale formativo di Isocrate si presta a
vincere le resistenze della cultura romana, tradizionalmente
avversa ad un pensiero filosofico e speculativo che poteva
tradursi in forme di inadempimento ai doveri civili e politici
verso la res publica.
20
J. Lombard, Isocrate, cit., p. 134.
23
2. Isocrate e la sua pedagogia
Il programma culturale di Isocrate definisce un metodo
paidèutico che contempla in sé la formazione, l’educazione,
l’istruzione da intendere come aretè (virtù), in quanto emblema di
esso è la ‘parola’ che trova la sua esplicazione finale nel
programma educativo. La ‘parola’ è, dunque, comunicazione;
l’oratoria’ è comunicazione formativa, è ‘virtù’ che non assume
come principio la ‘insegnabilità’ (didaktòn) propria del pensiero
socratico-platonico, ma mira a orientare positivamente le ‘cattive
nature’ mediante un costante studio dell’eloquenza in senso
politico21.
Isocrate, infatti, in linea con l’insegnamento gorgiano fonda un
modello educativo legato strettamente alla retorica, che si svuota
di artificiosità e acquista dignità e spessore in quanto espressione
massima dello spirito. Essa non si prefigge, dunque, il
raggiungimento di verità assolute ma più semplicemente,
lavorando nella realtà, l’operare usando la ragione, l’intelligenza,
il buon senso. E ciò può realizzarsi solo in chi possiede un’indole
preposta a fare ciò, una physis22. Alla base, infatti, del modello
21
Cfr. Isocrate, Encomio di Elena (390-380 a.C.), 21.
Cfr. Isocrate, Contro i Sofisti (390 a.C. ca.), 14-15; Id., Sullo Scambio o Antidosis
(353 a.C. ca.),189-190.
22
24
isocrateo vi è la ‘predisposizione naturale’ che si lega
all’esercizio delle facoltà intellettive che trovano la loro
valorizzazione nell’uso accurato della parola. Un esercizio che
per essere corretto e valido, fecondo e positivo, deve essere
organizzato e controllato da un ‘esempio’ da un ‘modello’,
rappresentato dal maestro, effige dell’esperienza23.
Mettendo insieme tutti questi elementi si dà vita ad un ‘modello
educativo’, in cui l’arte della parola diviene simbolo per coloro
che la vorranno esercitare in situazioni pubbliche ovvero
politiche. Un modello che Isocrate definisce “philosophia”
ovvero la costanza della parola e l’uso che se ne fa nella prassi 24.
Infatti, questi, nel disegnare il proprio progetto educativo,
sottolinea l’importanza di sapere cogliere e modificare una
eventuale realtà scomoda o qualsiasi problematica sociale e
politica. Questo aspetto va sotto il nome di ‘utilità’ (symphèron).
Per il filosofo è sterile la ricerca di verità assolute che hanno una
base di partenza scientificamente misera, povera, ma è importante
e fruttuosa la ‘ragione’ e l’uso che di essa si fa25. «Il puntiglio
nella ricerca di verità scientificamente indiscutibili viene visto
23
Cfr. Isocrate., Contro i Sofisti, 16-17.
Cfr. M. Marin, Confronto tra il progetto pedagogico d’Isocrate e il progetto
pedagogico di Platone: paideia letteraria o paideia scientifica?, in “Salesianum”,
69, 2007, pp. 421-451.
25
Cfr. Isocrate, Encomio di Elena, 5.
24
25
come indizio di una immaturità che non accetta di misurarsi nel
faticoso campo dell’empeiria, al fine di cercare una linea
d’azione tendenzialmente giusta, sulla base dell’analogia istituita
tra parlare bene e agire bene»26.
Come si è detto, Isocrate fu un autorevole pedagogo che nel 390
a.C. fondò una scuola di retorica ad Atene, frequentata da molti
giovani rampolli, provenienti dalle famiglie aristocratiche più in
vista della città di Atene, proponendo metodi didattici molto
innovativi per l’epoca. Egli, infatti, portava avanti una
formazione non tecnica ma pratica; una pratica imitativa condotta
sugli scritti del maestro, ossia quest’ultimo si proponeva come
modello attraverso la lettura delle sue orazioni, a cui seguivano
delle esercitazioni pratiche degli allievi stessi27.
Compito del docente è quello di curare la crescita nella dignità e
nel ragionamento di quegli allievi che dimostrano una naturale
inclinazione all’apprendimento, preparandoli alla partecipazione
concreta e costruttiva al mondo della cultura e della politica.
«L’allievo oltre ad avere le necessarie qualità naturali, deve
apprendere i procedimenti retorici ed esercitarsi nel loro uso; e il
maestro da parte sua deve essere capace di esporli così
26
L.R. Cresci, La retorica da mezzo di persuasione a promotore di memoria
culturale, cit. p.19.
27
Cfr. F. Ceselin, La paideia umanistica di Isocrate, in “La Pedagogia”, 1970/1971,
vol. VIII, p.49.
26
esaurientemente, da non omettere nulla di ciò che si può
insegnare, e per il resto proporre se stesso come esempio. In tal
modo i discepoli da lui modellati e capaci di imitarlo,
appariranno subito oratori più fioriti e piacevoli degli altri»28.
Un metodo educativo che, come dimostrato in alcune opere quali
Nicocle (368 a.C. ca.) ed Evagora (365 a.C. ca.)29, ma soprattutto
Contro i Sofisti (390 a.C. ca.) e Sullo scambio, era
prevalentemente
rivolto
alla
prassi.
Queste
opere
sono
l’espressione dell’identità di Isocrate come facitore di un progetto
educativo che aveva la finalità assoluta di curare, tutelare la città
di Atene, la vita degli Ateniesi e di tutto il mondo greco, con un
respiro panellenico.
La paideia isocratea assume un peso notevole nella cultura e
nella politica di quel tempo. Nonostante egli non scrisse mai un
manuale teorico di retorica, in realtà fondò uno stile all’interno
della prosa greca, che si impose per efficacia e autorevolezza
anche nei secoli successivi. Non solo il suo linguaggio calibrato e
perfetto fu ripreso da Cicerone e fu considerato il gioiello
dell’atticismo, ma la sua particolare attenzione per la paideia ha
28
Isocrate, Contro i Sofisti, 17-18.
Le due opere, Nicocle ed Evagora, insieme a A Nicocle (370 a.C. ca.)
costituiscono i cd. discorsi “ciprioti” rivolti ai sovrani di Cipro. Il primo contiene i
vantaggi del buon governo e i doveri dei sudditi, il secondo è un encomio per la
cerimonia funebre del sovrano, il terzo riguarda le istruzioni sui doveri del buon
principe.
29
27
destato l’attenzione della Roma imperiale ispirando la scuola di
retorica di Marco Fabio Quintiliano.
Isocrate è una figura chiave nella fase di transizione dalla
diffusione prevalentemente aurale delle opere di letteratura a una
pubblicazione che si avvale in misura sempre maggiore del
tramite della scrittura. Questi non si rivolge più al pubblico di una
ben determinata occasione di esecuzione, ma a tutti quelli che
saranno raggiunti dai suoi scritti. Le varie opere di Isocrate, tutte
in forma di orazione fittizia o di epistola, appartengono a una
serie di nuovi generi letterari ibridati che usano le forme della
tradizione adattandole e combinandole in vista della nuova
occasione che si viene a creare e che è, appunto, la pubblicazione
scritta. In questo senso lo sperimentalismo di Isocrate, non privo
di una sua sistematicità operativa, apre la strada alle grandi
innovazioni nella teoria e nella prassi dei generi poetici che
caratterizzeranno l’età ellenistica, alla quale si attribuiva
tradizionalmente la scoperta di una nuova concezione del fatto
letterario. Isocrate non si limita, infatti, a elaborare generi
letterari funzionali alla pubblicazione scritta, ma li inquadra in
una teoria e individua nella perfezione formale il tratto specifico
e caratterizzante della letteratura.
28
Inoltre, egli dà molta importanza alla poesia e agli autori classici,
così come alla grammatica, posti a fondamento del proprio
programma di formazione.
Con l'apertura di una scuola in cui l'insegnamento dell'arte
retorica costituiva la parte fondamentale, Isocrate si oppone al
programma educativo di Platone, che riteneva essere invece la
filosofia la forma più alta di educazione. Si inaugura così in
maniera ufficiale il “conflitto tra retorica e filosofia”, contesa che
darà inizio ad un fervido dibattito all'interno del mondo antico,
sia greco che romano.
A ben vedere, in Isocrate la distinzione operata tra Retorica e
Filosofia si risolve a favore della prima. Anzi la retorica è la vera
filosofia intesa, come sottolinea Proussis, «un’educazione del
pensiero e della sua espressione razionale (logos), cioè, cultura
del discorso. […]. Il logos era il segno di una mente raziocinante,
il riflesso di un carattere, l’immagine esteriore delle doti superiori
dell’anima, la facoltà che sovrintende alla condotta degli affari
pubblici e privati»30.
Ed è esattamente nell'orazione Sullo scambio o Antidosis, che
Isocrate proclama i princìpi pedagogici della scuola da lui fondata
C.M. Proussis, L’oratore: Isocrate, in P. Nash, A.M. Kazamias, H.J. Perkinson, a
cura di, Gli ideali educativi: saggi di storia del pensiero pedagogico, trad. it. C.
Scurati, La Scuola, Brescia 1972, p. 88.
30
29
e per cui rivendica il diritto di essere reputato la guida morale
della Grecia intera: «(A proposito dei maestri che espongono ai
discepoli i procedimenti di cui si serve l'oratoria) Dopo averli resi
esperti e accuratamente istruiti nella parte teorica, li esercitano
ancora e li abituano a lavorare e li obbligano a collegare l'uno
all'altro gli elementi appresi perché li possiedano più sicuramente
e con le cognizioni astratte inquadrino meglio i casi pratici.
Infatti abbracciarli tutti con la sola teoria non è possibile, perché
in ogni campo essi sfuggono alla scienza; ma quelli che più
prestano attenzione e che sono capaci di osservare i fenomeni
generali il più delle volte sanno cogliere anche i casi
particolari»31. Oppure sottolinea: «L'elemento impareggiabile e
di gran lunga superiore a tutti per l'educazione oratoria è la
disposizione naturale di chi ha uno spirito capace di inventare, di
apprendere, di studiare e di ricordare, e una voce e una chiarezza
di dizione tali da persuadere l'uditorio non solo con le parole ma
con il loro armonico accordo e inoltre quell'ardire che non è
segno d'imprudenza, ma che, accompagnandosi alla misura,
dispone lo spirito a non aver minore fiducia nel parlare davanti a
tutti i cittadini… »32.
31
32
Isocrate, Sullo Scambio, par. 184.
Ivi, parr. 189-190.
30
La pedagogia di Isocrate ha rappresentato, come detto, la
tendenza, parallela ed opposta a quella di Platone. Nel senso che
l’azione formativa del maestro, era rivolta all’immanenza degli
eventi, poiché la sua scuola preparava futuri politici, storici,
letterati, ecc., che grazie all’apprendimento dell’arte oratoria
sapevano far uso della buona parola. Per tale ragione egli diede al
logos, nel suo doppio significato di parola e di pensiero,
un’importanza notevole, ponendolo come contrassegno della sua
paideusis, che garantisce la conquista e la sintesi di virtù etiche e
ideali politici del IV secolo a.C.. Il logos, orientando secondo
postulati etici lo spirito, realizza il valore paideutico del suo
metodo educativo.
L’emblema della teoria educativa isocratea è l’orazione Contro i
Sofisti, scritta orientativamente attorno al 390 a.C.. Infatti, è
proprio in quest’opera che Isocrate dà vita al suo progetto
educativo dettandone i criteri e le finalità. Innanzitutto, è
chiarificatrice la presa di distanza dai modelli educativi a lui
precedenti, programmando così un proprio percorso che sin da
subito intende essere una acerrima critica ai maestri di eristica,
falsi e mistificatori, che si vantavano di formare i cittadini e dar
loro la felicità vera e al modello educativo dei sofisti ovvero gli
31
insegnanti di oratoria professionisti che avevano ridotto l’arte a
tecnica.
Per Isocrate i maestri costruivano delle trappole per i propri
studenti ai quali venivano riempite le teste con vacue promesse
attraverso ricette retoriche che miravano ad insegnare le virtù
solo attraverso la teoria. Per Isocrate le virtù non si insegnano ma
si acquisiscono e non sempre con facilità, ma solo se si ha la
fortuna di avere un eccellente maestro che funga da esempio.
Il maestro è, dunque, il paradigma; i suoi insegnamenti devono
consentire all’allievo di superare i propri limiti, attraverso
un’azione di cambiamento verso se stesso e verso l’ambiente che
lo circonda. E per fare ciò, è chiaro che l’allievo non potrà
contare solo sui contenuti teorici, ma soprattutto sulla prassi che è
il motore propulsivo dell’agire umano.
Una visione ben precisa questa che annuncia una didattica ‘attiva’
che vede interagire pedagogicamente maestro e allievo.
Per Isocrate è quindi la prassi la giusta strada per acquisire la
cultura vera, cioè la “filosofia”, intesa come patrimonio
intellettuale e morale dell’uomo a servizio della comunità. Per il
retore greco insegnare la grammatica è importante ma non può
essere il solo passo. Così come è importante conoscere le regole
fisiche e geometriche, ma non sono la cultura vera. Esse sono una
32
‘ginnastica preparatoria’. La cultura vera e propria è la “filosofia”
che risiede nella capacità di “cogliere l’occasione (kairòs) sul
fondamento della giusta opinione”. L’oratoria diviene così la
metodologia più corretta e sana di espressione dell’azione. Il
metodo educativo è volto a creare la vera “filosofia”, ovvero quel
metodo che guidi alla conoscenza della vita e che aiuti
saggiamente ad adattarsi in maniera concreta, pragmatica
all’ambiente.
Una formazione culturale che ha l’obiettivo di definire la
personalità dell’allievo, cogliendo le potenzialità naturali e
usandole al fine di far sbocciare in lui idee etiche e morali che
saranno messe a beneficio della polis.
La Retorica, che per Isocrate è la vera “filosofia”, in polemica
antiplatonica, «comprende in sé una dottrina delle idee (ideai),
ove con questo termine egli allude alle forme fondamentali del
discorso, e i princìpi generali di composizione e di elocuzione, la
cui conoscenza costituisce il presupposto dell’arte, ma a cui deve
essere aggiunta l’inventività dell’oratore, capace di rendere
appropriato lo schema generale al caso particolare»33.
Così quando parla di ideai si riferisce al materiale formale di cui
sono composti i discorsi, come preciserà meglio in Sullo
33
E. Berti, La filosofia del “primo” Aristotele, cit., p. 89.
33
scambio, e fa riferimento agli entimemi, ovvero a quei concetti
che servono a conferire ritmo al periodo (antitesi, parisosi). Tali
ideai hanno una funzione persuasiva. Le ideai isocratee, invece,
mirano a educare la scelta alle forme stilistiche più idonee a
quella determinata circostanza. Così gli allievi, che si
appropriavano di queste ideai davano, innanzitutto, forma alle
realtà conoscitive, le adattavano, non modificandole, al proprio
modo di pensare. La fase successiva prevedeva un lavoro che li
valorizzasse ottenendo un risultato efficace e stabile.
Le ideai, dunque, per Isocrate sono valide quando si fa appello
alle risorse morali che non solo saranno utili a lui ma anche
all’intera comunità. E in tal modo gli allievi si troveranno a
mettere in pratica la formazione che il proprio maestro ha loro
offerto.
Un modello educativo che si contrappone anche a quello
platonico per il quale l’educazione si realizza quando all’interno
del processo dialettico si arriva all’episteme. Per Isocrate questo
tipo di conoscenza non può essere raggiunta da tutti gli uomini;
per tale ragione bisogna qualificare educativi quei discorsi che
partoriranno deliberazioni moralmente giuste per la comunità.
Tale metodologia, nel negare validità all’episteme (la conoscenza
globale del tutto), con cui Paltone fa coincidere il percorso
34
formativo, dava rilievo alla doxa (il senso comune), che consente
di inserire nei discorsi opinioni e orientamenti che si qualifichino
come migliori deliberazioni per la comunità. «Isocrate trova una
formula per esprimere la sua posizione di fronte all’ideale
platonico dell’esattezza e profondità scientifica: il più piccolo
progresso nella conoscenza di cose veramente importanti deve
avere la precedenza sulla più profonda meditazione su oggetti da
poco e senza importanza, privi di ogni utilità per la vita»34.
La scuola di Isocrate, dunque, si propone di formare il ‘migliore
cittadino’, e per tale ragione essa diviene l’istituzione simbolo e
privilegiata per coloro che sapranno intervenire sulla realtà.
In definitiva, Isocrate individua il primato spirituale della cultura
greca, come aveva fatto già Tucidide, e la retorica, come forma
stessa del pensiero e del logos, diventa per lui lo strumento di
diffusione del programma politico che su di essa si fonda; essa è
«[…] forma di vita intellettuale capace di improntarsi a fondo del
contenuto di idee etico-politiche del tempo e di farne moneta di
scambio, patrimonio comune»35. Atene cade ma non cede il suo
patrimonio spirituale.
34
35
W. Jaeger, Paideia, cit, p. 1453.
Ivi, p. 1422.
35
«La paideia isocratica fa centro sulla parola, è una paideia del
Logos come ‘parola creatrice di cultura’, che pone il soggetto in
posizione di autonomia, ma sempre come interlocutore della città,
nella quale e per la quale sviluppa una soggettività più ricca di
umanità»36, da cui promana un percorso di formazione integrale
della persona potenzialmente universale37.
Esattamente questo aspetto rende la riflessione pedagogica
isocratea un esempio importante per la cultura occidentale, un
modello riproducibile in ogni tempo38.
36
F. Cambi, Storia della pedagogia, Laterza, Roma-Bari 2003, p.40.
Cfr. L. Bellatalla, G. Genovesi, Isocrate ovvero l’educazione innanzitutto, cit, p.
182 e ss..
38
«La cultura dell’Europa moderna fino alla Rivoluzione industriale e alla
Rivoluzione francese, non sarebbe stata la stessa senza il grande diaframma
dell’Umanesimo, che fondava la formazione dell’uomo sullo studio delle humanae
litterae: ma non ci sarebbe stato l’Umanesimo senza la lezione di Cicerone, né ci
sarebbe stato Cicerone senza l’insegnamento di Isocrate» (A. Privitera, A
Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca, Vol. I, Età arcaica ed età
classica, Einaudi, Torino, 1997, p. 433). Cfr L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo
studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Rizzoli, Milano,
2004; Id., Storia della letteratura greca, cit.; N. Terzaghi, Lineamenti di storia
della letteratura greca, Paravia, Torino 1937.
37
36
3. La parola e la politica
Nell’arco della sua lunga vita Isocrate ebbe la possibilità di
assistere prima alla parabola discendente dell’imperialismo
ateniese nella guerra contro Sparta, poi a tutti i tentativi, peraltro
fallimentari, di superamento dei particolarismi delle poleis che, se
da un lato determinarono la debolezza e il limite politico della
Grecia, dall’altro aprirono inevitabilmente le porte all’egemonia
macedone.
Vive il periodo della grande crisi sociale e politica delle poleis, in
particolare di Atene, e per il superamento di essa ritenne di
individuare nella retorica “una forma di vita intellettuale” e al
contempo di “attività politica” che potesse indicare agli stati greci
una strada per superare le logoranti lotte egemoniche seguite al
periodo pericleo, cercando di porre un freno al dissolvimento
della Grecia. La sua si rivela, quindi, come una missione
culturale di carattere nazionalistico, secondo l’idea greca di
superamento delle differenze etniche in una dimensione spirituale
suscettibile di applicazione universale, in vista di un ideale sì
eticamente sostenibile, secondo la concezione platonica, ma
idoneo ad una pratica realizzazione nella realtà politica del
tempo. Pertanto, parlare di paideusis significa rimarcare
37
l’appartenenza non a una razza, vincolata dallo ius sanguinis, ma
a una coscienza spirituale superiore che travalica i confini della
stessa “grecità”39.
In un primo momento Isocrate auspicava una pacificazione
generale delle poleis per opporre una solida coalizione sotto la
guida di Atene in funzione antipersiana; in seguito, di fronte
all’ascesa di Filippo II di Macedonia, Isocrate abbandonò le
precedenti posizioni politiche, impraticabili e quanto mai
utopistiche, e optò di proporre al re macedone di diventare il
benefattore (euergetes) dei Greci, l’arbitro imparziale e la forza di
aggregazione delle poleis greche.
In politica interna Isocrate fu convinto sostenitore della
democrazia, ma non quella deludente dei suoi tempi, quella dei
demagoghi che hanno portato alla rovina del popolo. Il suo ideale
è la democrazia dei tempi di Solone, idealizzata e vagheggiata
come modello di costituzione moderata.
Strettamente connessa alla vita politica è l’arte oratoria;
un’oratoria celebrativa e solenne, stilisticamente ricca e
complessa di genere epidittico o dimostrativo (epideiktikòn);
infatti ciò che maggiormente gli sta a cuore è la formazione del
proprio ascoltatore, in virtù della quale diventa possibile, sul
39
Cfr. W. Jaeger, Paideia, cit..
38
lungo periodo, conseguire quei cambiamenti che Demostene,
invece, si prefigge di raggiungere grazie all’azione diretta.
Isocrate, infatti, ad essa attribuiva la funzione essenziale di
preparare i giovani alla vita futura come uomini e cittadini onesti
e di successo. Secondo il retore, solo chi sa correttamente parlare
ed impostare un discorso, abbellirlo e argomentarlo efficacemente
dimostra la propria eccellenza intellettuale e morale e
conseguentemente è portato ad agire nel modo più giusto per la
comunità.
Isocrate attraverso la retorica vuole anche mostrare l’importanza
di scegliere una costituzione per Atene che non sia inferiore
rispetto a quella spartana e la volontà di far ritornare la
democrazia vigente un tempo (prima del 462 a. C.) al posto di
quella radicale40.
«E nessuno immagini che io abbia inteso parlare della
costituzione che le circostanze ci costrinsero a sostituire
all’antica; parlo di quella degli antenati, che i nostri padri
lasciarono per volgersi alla costituzione oggi in vigore non
perché la disprezzassero, ma perché, se giudicavano la prima
superiore per le altre imprese, reputavano la seconda più utile per
Cfr. C. Bearzot, Isocrate e il problema della democrazia, in “Aevum”, 54 (1980),
pp. 113-131.
40
39
esercitare la supremazia marittima. Appunto adottandola e
abilmente praticandola furono in grado di difendersi dalle insidie
degli Spartani e dalle forze dei Peloponnesi»41.
Una democrazia radicale che soppianta quella ideale, vigente fino
a quel momento, nasce in virtù di un’utilità, di una necessità, più
che di un’analisi di valore. Non erano gli ideali che in quel
momento servivano ad Atene, ma la necessità era quella di non
essere schiacciata da Sparta e dai Peloponnesi. Nel Panatenaico
(339 a.C. ca.), Isocrate propone un modello costituzionale
democratico-radicale per ottenere superiorità nella politica estera
e quindi in battaglia. Parlando, infatti, di democrazia radicale e
della talassocrazia, la democrazia si identifica con la potenza
navale; e la guerra viene vista come un importante fattore di
orientamento istituzionale. È nel Panegirico (380 a.C.) che
Isocrate riconosceva alla democrazia la sua importanza: «Sotto
questo regime noi e i nostri alleati vivemmo per settant’anni di
seguito immuni da tirannidi, liberi di fronte ai barbari, non turbati
da lotte intestine, in pace col mondo intero»42.
In definitiva, l’azione educativa e formativa, sui cui si fonda il
programma politico, che può apparire velleitario ed anacronistico,
41
42
Isocrate, Panatenaico, 114.
Isocrate, Panegirico, 106.
40
ha il grande merito di proporre una ricostruzione del mondo
politico greco, indicando «[…] nuove mete, non solo alla vita
morale del singolo, ma alla nazione greca intera»43. Anche se
trova la sua culla naturale nel mondo greco, in particolare in
Atene a cui riconosce una supremazia intellettuale e spirituale
nell’Ellade, la sua paideia supera l’apparente contraddizione di
una visione localistica per assurgere a paradigma universale, a
denominatore comune dell’umanità, che si fonda sul logos e si
esprime attraverso la retorica, segno distintivo dei Greci.
In altre parole, la particolarità del pensiero isocrateo è che egli,
pur partendo da un inesauribile orgoglio nazionalistico, lo
travalica in nome di una missione culturale sovranazionale, ove il
nome di “greco” si spoglia di ogni specificità territoriale per
diventare di per sé valore depositario di una cultura che è
progetto spirituale, politico e sociale, indice di superiorità
intellettuale e morale44. È una paideia che può rappresentare il
fondamento di un nuovo legame sociale, politico e spirituale, che
faccia fronte alla crisi dissolutiva e agli atavici contrasti politici
interni del mondo greco, agli egoismi dei singoli stati,
43
W. Jaeger, Paideia, cit, p. 1455.
Isocrate, nel Panegirico, 50, scrive: «Atene ha distanziato di gran lunga il resto
del genere umano nel pensiero e nella parola, che i suoi allievi sono diventati
maestri del resto del mondo; ed essa ha ottenuto che il nome Elleni sia attribuito
piuttosto a coloro che sono partecipi della nostra cultura che a coloro che hanno in
comune con noi il sangue».
44
41
proponendo nuovi modelli formativi utili a una rinnovata
concordia, a una nuova azione comune delle poleis, in un vincolo
o, meglio, in un sentimento, che può dirsi di moderna solidarietà
eticamente orientata.
L’universalismo culturale della paideia isocratea diventa il
sostrato ideologico di un nuovo concetto di cittadinanza, non più
legato ai particolarismi delle poleis ma con una valenza
cosmopolita, che troverà, di lì a poco, la sua più immediata
realizzazione nell’universale civiltà ellenistica.
42
CAPITOLO II
CICERONE: L’ORATORIA PER LA RES PUBLICA
1. L’ideale di humanitas
La figura di Isocrate, come esempio della retorica greca, si lega
nel mondo latino a quella di Cicerone, che alcuni studiosi45
ritengono sia stato influenzato dal retore ateniese soprattutto sugli
aspetti relativi al rapporto retorica e filosofia e all’idea che un
buon oratore deve possedere “omni quidem sapientia”, una
cultura vasta, enciclopedica; il perfectus orator deve assommare
in sé capacità oratorie, cultura enciclopedica e alta formazione
etica46.
Cfr. C. Natali, L’immagine di Isocrate nelle opere di Cicerone, University of
California Press, 1985; H. M. Hubbell, The Influence of Isokrates on Cicero,
Dionysius and Aristeides, New Haven-London-Oxford, 1913; S.E. Smethurst,
Cicero und Isocrates, “T.A. Ph. A.”, 94, 1953, pp. 261-320.
46
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. La sua famiglia non era
“nobile”, ma possedeva mezzi economici e relazioni sociali che permisero a
Cicerone e ai suoi fratelli di compiere la carriera politica. Cicerone compì i propri
studi nella città di Roma dove sin da subito frequentò il Foro, entrando nelle
simpatie di illustri e autorevoli oratori del tempo, Lucio Licinio Crasso, Marco
Antonio, e Quinto Mucio Scevola l’augure. Attraverso questi, l’Arpinate conobbe
quello che sarebbe divenuto l’amico più caro Tito Pomponio Attico. Nel 75 inizia la
carriera politica, esercitando la questura in Sicilia ed entrando l’anno dopo, per la
prima volta, in senato. La fama di Cicerone toccò il punto più alto nel periodo del
Rinascimento, seppur in età romantica, soprattutto ad opera di Mommsen, vita e
opere dell’Arpinate furono sottoposte ad una severa revisione critica che ne
ridimensionò i pregi e le dimensioni. Una negativa valutazione, senza dubbio
questa di Mommsen che vide nelle opere di retorica prive di originalità e
speculative, che giocavano tra il vivere concretamente la realtà e lo sfuggire da
essa. Questo contrasto tra l’attenersi alla realtà e la volontà di astrarsi, l’autenticità
dell’oratoria perdeva di valore. Infatti, essa venne valutata come espressione di
45
43
Con Cicerone gli scritti retorici si inseriscono nel dibattito fra le
tendenze oratorie del tempo, l’atticismo e l’asianesimo 47. Egli
carattere indeciso, incapace di prevedere il futuro agire dell’uomo (al contrario di
Cesare,
per
Mommsen
‘campione
del
realismo’).
Va precisato, però, che Cicerone visse in un momento di trasformazione dello Stato
romano da repubblica in Principato. E tale momento di cambiamento innescava
nelle persone incertezze, dubbi, ma anche illusioni. Vi erano coloro che credevano
che tale mutamento fosse irreversibile e si affidavano ad esso completamente; altri,
pur dovendo guardare necessariamente al nuovo, mantenevano un legame col
passato, sperando che le fondamentali libertà repubblicane continuassero e vivere.
Ma vi erano ancora altri che si proclamavano apertamente avversi in toto a tale
cambiamento, in quanto esso veniva visto come una minaccia ai mores,
destabilizzando la Repubblica. Proprio quest’ultimi si dividevano in due gruppi:
coloro che sentivano la tradizione come patrimonio ideale di valori da salvare per la
continuità di Roma, e coloro che miravano a conservare una condizione favorevole
per il ceto al quale appartenevano e col quale identificavano lo Stato stesso.
Cicerone, nell’81 a C., sostenne la sua prima causa in favore di Roscio d’Ameria
contro un certo Crisogono, un liberto favorito dal dittatore Silla, (verso il quale non
risparmiò elogi) attirando su se stesso la curiosità della gente comune, e andando
avanti nel cursus honorum, si avvicinò sempre alla fazione degli aristocratici,
sposandone le cause e gli interessi.
Due momenti della vita ciceroniana vanno menzionati in relazione agli impegni
politici e alle relazioni umane - momenti che incisero notevolmente sulla sua
formazione intellettuale e caratteriale - il periodo successivo al consolato e il
periodo della guerra civile tra Cesare e Pompeo.
Nel 63 a.C., divenuto console, scoprì la congiura di Catilina, facendone condannare
i congiurati, i quali erano nobili, senatori, che com’è naturale non accettarono
l’affronto subito dall’Arpinate, e nel 58 a. C., il tribuno Clodio Pulcro fece
approvare una legge contro chi avesse condannato cittadini romani senza concedere
loro l’appello al popolo. Così Cicerone iniziò un periodo di dispregio e di attacchi
che si placarono solo quando nel 57 a. C. però pronunciò due orazioni di
ringraziamento al senato e al popolo.
L’altra fase importante della vita di Cicerone, è legata alle vicende della guerra
civile, durante la quale l’oratore difese Pompeo considerandolo tra i due il più
idoneo a rappresentare gli interessi dell’aristocrazia senatoria, garante della
supremazia politica della vecchia classe dirigente. Si aprì una breve parentesi di
relativa serenità per l’oratore. Breve perché fu colpito da un lutto terribile: la morte
dell’amatissima figlia Tullia. Disperazione e sconforto che si acuirono a causa della
dittatura di Cesare e che neppure dopo la morte di questi, riuscì a placare. Iniziò il
periodo dell’isolamento che lo portò a scrivere opere filosofiche, studiando con
accanimento e costanza il pensiero greco, a tal punto da essere considerato come
colui che occidentalizzò la cultura greca permettendo ad essa di sopravvivere nei
secoli che videro la frattura tra mondo occidentale e orientale. Nel 43 a. C. venne
ucciso dai sicari di Antonio.
47
Al tempo di Cicerone vi erano due tipi di eloquenza: una detta “asiana” e l’altra
detta “atticista”. L’eloquenza “asiana”, nata nel III secolo A.C. in Asia Minore, si
rifaceva ai modelli greci e mirava a sfruttare razionalmente le risorse più raffinate
dell’arte oratoria al fine di ottenere uno stile caratterizzato da un alto grado di
ornamentazione, ridondante, atto a persuadere, a carezzare l’orecchio, più che
mostrare e spiegare i fatti. Cicerone nel Brutus (par. 325), del 46 a.C., distingue
44
cercò di superare queste dicotomie di generi, di stile, ma anche di
liberare la retorica dagli schematismi a cui fino ad allora era
rimasta vincolata. Con una visione più ampia del problema egli
indica come chiave del successo di un oratore proprio la capacità
di usare diversi registri a seconda delle situazioni e delle
esigenze48.
Si porrà l’attenzione, innanzitutto, sul valore autonomo che
Cicerone riconosce alla cultura e all’eloquenza da intendere come
facoltà umana per eccellenza, l’occupazione più degna e propria
dell’humanitas. Un aspetto anche questo che per alcuni Cicerone
eredita da Isocrate. Se si prescinde dal fatto che egli accoglie
l’ideale aristotelico di mirare ad una formazione globale e non
solo retorica, come invece voleva Isocrate, è comunque evidente
che in entrambi il soggetto, partecipe di una dimensione di
coscienza culturale che è frutto dell’incivilimento, si realizza non
due tendenze asiane con caratteristiche quasi contrapposte. Indica in Ortensio
Ortalo il più illustre esponente di entrambi gli stili. L’altro tipo di eloquenza,
affermatasi a Roma nel I secolo a.C., fu detta “atticista”, e si rifaceva al modello
greco lisiano. Era uno stile retorico cronistico, più semplice perché presentava una
scrittura scarna e scevra di orpelli, in termini moderni telegrafica, in nome di una
rivendicata purezza linguistica che faceva capo ai modelli attici del V secolo a. C.,
appunto. Si parla, poi, di un terzo stile - di cui Cicerone è l’unico e massimo
esponente - definito “rodiese”, ossia della città di Rodi, dove Cicerone seguì gli
insegnamenti di Molone di Rodi. Quintiliano indicherà in questo stile una via di
mezzo tra asianesimo e atticismo, non sovrabbondante come il primo né troppo
stringato come il secondo.
48
Nell’ambito della trattazione dell’elocutio si fa riferimento alla teoria della
tripertita varietas, che consiste nel sapere usare i tre livelli stilistici (umile, medio e
sublime), in conformità con i tre scopi dell’oratore (probare, delectare, flectere),
alternandoli e subordinandoli a quanto detta il decorum (cfr. Orator).
45
solo in una sfera privata ma soprattutto nella vita pubblica e
politica, dove essere utili alla società e allo stato diventa dovere
preminente rispetto agli altri.
Non deve, altresì, passare inosservato che nell’ideale di
humanitas ciceroniana trovi spazio il concetto di ‘filantropia’,
intesa come condiscendente cordialità umana, riconducibile alla
clementia, virtù propria di chi detiene il potere, quindi
caratteristica dell’uomo romano, il cui esercizio risponde ad un
impulso non propriamente umanitario ma razionale49. Ancora una
volta il concetto di ‘filantropia’, su cui poggia questa nuova idea
di “umanità”, rimanda alla cultura attica del IV secolo, come
testimonia la presenza, in molti passi di oratori greci, di termini
quali ‘benevolenza’ (eunoia), ‘mitezza’ (praotes) e ‘compassione’
(eleos), che gravitano attorno al più vasto significato di
‘filantropia’. Se pure tali termini non hanno una valenza
propriamente giuridica, è comunque indicativo che essi figurino
nella concezione del diritto.
Resta in ogni caso difficile stabilire se la ‘filantropia’ coincida
con la parola “umanità”. Sicuramente erano avvertiti come
‘umani’ i personaggi della commedia di Menandro e, a Roma, di
49
Cfr. L.A. Seneca, De clementia (55/56 d.C.), 2, 3,1; M.T. Cicerone, De Officiis
(44 a.C.), 1, 35.
46
Terenzio50, nel cui modo di essere si scorgeva quella
consapevolezza di appartenere alla condizione umana, che
sottintendeva anche atteggiamenti di tipo solidaristico.
Nell’ideale di humanitas ciceroniana dunque è racchiusa sia
l’idea di “umano” sia di “umanistico”: la fierezza di appartenere
alla stirpe degli uomini, il ‘sentimento dell’umanità’ - in cui è
evidente l’influenza della Ciropedia di Senofonte (365-360 a.C.)
- ossia quell’atteggiamento di benevolenza, affabilità e cortesia
verso il prossimo, sostenuto da quelle facoltà di eloquenza e di
cultura che fanno dell’uomo un essere unico.
Questa comune appartenenza al genere umano orienta verso un
sentimento di fratellanza naturale, peraltro innato perché deriva
dal fatto che, come dirà Seneca, la stessa natura ci ha generato
come fratelli ovvero come membra di uno stesso corpo51;
immagine che sarà ripresa in ambito cristiano da San Paolo52.
In Seneca è riscontrabile, addirittura, una sorta di anticipazione
del concetto di caritas, ancora più straordinario perché supera i
precetti etici pagani che prevedevano solo di non arrecare danno
È nell’Heautontimorumenos di P. Terenzio Afro, rappresentata nel 163 a.C., che
troviamo formulato un primo compiuto significato del termine humanitas, inteso
come dovere e, al contempo, sentimento di condivisione, che fa sì che l’uomo non
si senta estraneo nei confronti di un altro uomo e, dunque, sia compartecipe di un
comune destino proprio in quanto uomo: homo sum: humani nihil a me alieno puto
(v.77).
51
Cfr. L.A. Seneca, Epistulae morales ad Lucilium (62-63 d.C.), 95, 51-53.
52
Cfr. Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 12,12-27.
50
47
agli altri e rivendica per gli schiavi la qualità di uomini e quindi il
diritto alla parità di trattamento. Tra l’altro questo senso di
fratellanza universale diventa presupposto del vivere sociale e
civile, in virtù del fatto, come dice Seneca, che proprio la natura
«[…] Illa aequum iustumque composuit», ha, cioè, disposto
equità e giustizia, concetti non sovrapponibili per intero perché la
prima trova una naturale collocazione nella sfera dell’humanitas,
che di per sé ha un campo di applicazione più ampio, e l’altra, si
svolge nell’ambito più ristretto della regolamentazione delle
modalità di convivenza all’interno del corpo universale
dell’umanità.
In definitiva, la ‘filantropia’, svuotandosi di quella pessimistica
rassegnazione tipica di una civiltà “disillusa”, che si dibatte tra
spinte individualistiche ed anelito cosmopolitico, propria
dell’Ellenismo, trova un nuovo e fecondo humus nell’humanitas
romana, in una visione armonica delle relazioni sociali ed umane,
rapportate a parametri di convivenza etico-politica. «La
filantropia egualitaria si traduce in un’etica dei rapporti sociali
che, recuperando e rielaborando i “valori” della tradizione
romana, indica nell’impegno morale, nella solidarietà, nella
48
giustizia i fondamenti della convivenza umana»53. Tutto ciò è
l’espressione di una felice sintesi tra mos maiorum e riflessione
greca: il primo attenua i propri tratti rigoristici, mentre, di contro,
il pensiero greco, in questo nuovo contesto, ridimensiona il suo
tradizionale carattere speculativo, divenendo concreto stimolo
culturale e politico.
Ma è con Cicerone che l’humanitas, attraverso la mediazione
della filosofia greca di Panezio54 e Polibio e superando l’astratto
G. Aricò, Le origini dell’umanesimo romano, in I. Lana e E.V. Maltese, a cura di,
Storia della civiltà greca e latina, Vol II, Dall’ellenismo all’età di Traiano, Utet,
Torino 1998, p. 368. Sul punto, cfr. D. Gagliardi, Il concetto di humanitas da
Terenzio a Cicerone, in “Le parole e le idee”, VII, 1965, pp. 187-198.
54
Variegato è il panorama della filosofia in età ellenistica. Alle scuole fiorite nel IV
secolo a. C. si affiancano, tra fine IV e inizio III secolo a. C. nuove scuole e
tendenze filosofiche: epicureismo, scetticismo e stoicismo, destinate a dominare la
scena e a improntare la cultura di tutta quest’epoca fino all’età romana. Lo
stoicismo, frutto dell’apporto di diversi pensatori, subisce significativi
modificazioni. La storiografia filosofica suddivide il movimento in tre periodi: lo
stoicismo antico (III secolo a. C.) i cui capiscuola furono in successione Zenone,
Cleante e Crisippo, che elaborarono e diedero sistemazione ai concetti
fondamentali della scuola; lo stoicismo medio, nella fase matura dell’Ellenismo (III secolo a. C.), i cui teorizzatori furono Panezio e Posidonio, che diedero nuovo
impulso alla scuola e all’insegnamento, attenuando il rigorismo originario con
infiltrazioni eclettiche; lo stoicismo nuovo, o romano, che ha come rappresentanti
in ambito greco Epitteto e Marco Aurelio, e nella cultura latina, Seneca. Lo
stoicismo godette di una grande fortuna per diversi secoli, raggiungendo un vasto
pubblico. La dottrina stoica proponeva le norme di una condotta morale, la forza
interiore per resistere alle avversità e l’ideale di cosmopolitismo. Il diverso
atteggiamento nei confronti della vita pubblica, che prescriveva al saggio di non
astenersi dalla partecipazione alla vita pubblica, dedicandosi alle cure dello Stato,
in ragione del proprio senso di giustizia e del suo amore per gli uomini, è
all’origine del successo della filosofia stoica in ambito morale, poiché consentiva di
innestare una morale pratica sulla tradizione del rispetto del mos maiorum. Panezio,
nato a Rodi intorno al 185 a. C., dopo un periodo di studi a Pergamo e ad Atene, fu
a Roma. Qui entrò in contatto, insieme a Polibio, con i personaggi più in vista della
vita politica e culturale, entrando a far parte del ‘circolo degli Scipioni’ che tanta
parte ebbe nello sviluppo dei rapporti tra cultura greca e mondo romano. Il suo
contributo consistette nell’attenuare l’intellettualismo e gli aspetti più inflessibili
della morale stoica. Egli concentrò la propria attenzione sul kathèkon, il dovere, che
acquista forza pragmatica, divenendo uno dei cardini della concezione morale del
mondo romano. Ad esso era dedicata la sua opera più importante, che ispirò il De
53
49
cosmopolitismo stoico ed ellenistico, diventa principio morale
oggettivo contrapposto all’utile personale da cui discende il
dovere (officium dirigit55), dimensione etica che rende migliore il
cittadino e che indica nell’impegno morale, nella solidarietà,
nella giustizia i princìpi fondanti della communitas umana. Non
può negarsi, comunque, che tale tensione cosmopolita non supera
i confini dell’Impero di Roma, a cui lo stoicismo forniva la base
ideologica per giustificare il carattere ecumenico e civilizzatore
della sua politica imperialistica.
Va attribuito a Cicerone il merito di avere individuato
nell’humanitas la natura umana universale, prima nella sua
dimensione etico-culturale e poi in quella più propriamente
politica, specificando che la prima dà forma e sostanza alla
seconda, corrispondendo all’ideale di formazione e di educazione
dello spirito.
Quella di Cicerone è una nuova proposta educativa per le giovani
generazioni, basata sui princìpi dell’humanitas, da cui deriva un
profilo più articolato di “uomo politico”, felice combinazione di
Officiis di Cicerone. Nella formula “vivere secondo le propensioni che ci sono date
dalla natura” è condensato il dovere morale, che consiste non nell’estirpare le
inclinazioni naturali dell’individuo, unione di ragione e istinto, al fin di raggiungere
l’apathia, ma nel moderarle orientandole secondo una norma di misura e armonia,
designata come “decoro morale” (prepon). In questa dimensione concreta rientra il
cosmopolitismo che diventa fondamento teorico della missione universale di Roma.
55
Cfr. M.T. Cicerone, De Officiis, 3, 89.
50
virtù tradizionali, come la gravitas, la severitas, la costantia,
mitigate da valori più moderni e flessibili, come la comitas
(affabilità) e l’urbanitas, ma anche la liberalitas, la clementia, la
suavitas, la levitas. Il riferimento è a un homo politus che
padroneggia la cultura intellettuale della sua epoca, è fornito
d'una nobiltà ideale, sviluppa tutte le virtualità insite nella sua
natura, realizzando un altissimo ideale umano56. Così come è
stato affermato: «Il suo (di Cicerone) progetto politico di riforma
dello stato va di pari passo con un analogo progetto di
rinnovamento etico, per l’educazione e la formazione dei cittadini
e della nuova classe dirigente; un progetto che, al rispetto dei
valori della tradizione e del mos maiorum, accompagna una
moderata apertura verso nuovi modelli di comportamento più
flessibili e duttili, adeguati alle esigenze di un mondo in
trasformazione; e che comunque ha sempre come fine ultimo la
responsabilizzazione dei cittadini di fronte ai propri doveri nei
confronti dello Stato»57.
Quindi, in Cicerone, il concetto di humanitas è composito. Esso,
partendo dal principio della comune natura umana, fondata sul
dono della ragione e della parola, da cui discende la doverosità
Cfr. M Pohlenz, L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel De Officiis di
Cicerone, trad.it. M. Bellincioni, Paideia, Brescia 2000.
57
G.B. Conte, B. Pianezzola, Corso integrato di letteratura latina 2. L’età di
Cesare, Le Monnier, Firenze 2003, pp. 74-75.
56
51
del rispetto e del servizio verso gli altri, e sulla valorizzazione
della cultura come tratto distintivo dell’uomo, fattore di crescita e
di civilizzazione umana, si definisce e si completa, infine,
attraverso l’armonia estetica, resa con il termine “decorum”, che
esprime compiutamente la coesistenza equilibrata di tutte le
facoltà dell’umana natura. In questa dimensione, culturale e civile
al contempo, trovano una piena realizzazione sia la dimensione
sociale fra uomini civili che la massima e libera valorizzazione
delle inclinazioni individuali58.
In definitiva, l’humanitas ciceroniana assomma in sé aspetti di
carattere sociale, estetico, inteso come insieme di qualità che si
riassumono nel decoro, e culturale, anzi si identifica con il
concetto stesso di cultura, che da un lato è tutela della propria
autonomia intellettuale, dall’altro coscienza di una missione
sovra-personale al servizio della collettività. Essa, nel momento
culminante della potenza di Roma, è espressione dell’ideale di
vita della società romana configurandosi, ancor prima che come
dovere verso gli altri, come dovere verso noi stessi ossia
definisce anche un’etica che, sul solco della “filosofia
58
Come nota Luciano Perelli, tuttavia, non sono estranei al concetto di humanitas
elementi di contraddittorietà. Uno fra tutti l’aristocraticità di fondo dell’ideale
implicita nella formulazione del concetto e la naturale uguaglianza fra gli uomini,
su cui si basa il principio democratico. Cfr. L. Perelli, Storia della letteratura
latina, Paravia, Torino 1969.
52
dell’attualità” di Panezio, deve conformarsi alla propria
individualità. Come ha sostenuto Richard Reitzenstein «Ogni
pagina dei suoi scritti con il suo lessico, quasi ogni scritto con il
suo contenuto testimonia che egli stesso volle essere per il suo
tempo il maestro di questa humanitas»59.
59
A. Ronconi, F. Bornmann, a cura di, Pagine critiche di letteratura latina, Le
Monnier, Firenze 1984, p.159, che riprendono lo scritto di Reitzenstein da titolo
Das Romische in Cicero und Horaz, Leipzig, Berlin 1926.
53
2. La cultura e la politica
Cicerone, come noto, parte da una concezione etica dello Stato. Il
suo è, quindi, un progetto in fieri etico e sistematico, che trova
posto in tutte le sue opere e ha come fine quello di guidare e
regolare in tutti i suoi aspetti, nessuno escluso, la condotta di una
classe dirigente moralmente legittimata, mediante la proposta di
un programma politico di formazione.
Esso trova la sua più compiuta teorizzazione nel De Officiis,
scritto nel 44 a.C., trattato in tre libri dedicato al figlio Marco, in
cui, riprendendo i contenuti dell’opera di Panezio “Peri tou
kathekontos”, “Del conveniente”, sviluppa la riflessione sui
problemi e sulla prassi dell’etica tanto privata quanto sociale. È
un’opera che esprime più di ogni altra “la grande Etica della
latinità” - come ebbe a dire Carlo Emilio Gadda - su cui è stata
edificata l’etica occidentale, sulla base della rettitudine del
vivere, contrassegnata dal controllo di sé, dal rifiuto dell’eccesso,
dalla moderazione, dalla subordinazione degli impulsi alla
razionalità60. Cicerone elabora, così, un modello più articolato di
uomo politico portatore di un sistema di valori che contemperi
60
Cfr. C. Marchesi, La Letteratura Romana, Principato, Messina 1950; E.
Narducci, Introduzione a Cicerone, Laterza, Roma-Bari, 1992.
54
quelli della tradizione con nuove istanze morali, volto a mitigare
l’intransigenza e, soprattutto, a consentire al politico di calibrare
la propria azione in ragione delle circostanze. Tutto ciò è garanzia
e salvaguardia di uno stabile assetto della società e dello Stato.
In Cicerone, infatti, si avverte costantemente la preoccupazione
di contribuire alla vita politica dello Stato, sia in prima persona,
sia, laddove impossibilitato a farlo per le note vicende pubbliche
che lo avevano coinvolto, attraverso un progetto di formazione
dell’uomo politico, in primis, e, di conseguenza, di una nuova
classe dirigente, che è il trait d’union di tutta la sua produzione
letteraria.
Il carattere ideale ed etico del progetto ciceroniano, sia pure
declinato come sotterranea utopia, non inficia la validità del suo
messaggio,
insieme
culturale
e
politico,
che
riappare
sistematicamente nella storia come nobile ideale educativo,
dischiude un mondo infinitamente più ricco e libero di quello
contemporaneo e, sia pure in mancanza di una riproducibilità
dello Zeitegeist in cui si sono sviluppati quei valori, affranca dal
principio di autorità e rivendica quella autonomia intellettuale da
cui devono derivare atteggiamenti di superiore ed aperta
tolleranza, i soli che proiettano verso una libertà civile e politica,
capace di vivificare e rigenerare continuamente il legame sociale.
55
Egli delinea il ruolo dell’intellettuale come di colui che è facitore
e divulgatore di valori e di ideali etici e culturali, impegnato a far
prevalere la civiltà del dibattito politico in un momento di agonia
per la res publica romana. È quello di Cicerone, un progetto
culturale, che anche attraverso i suoi scritti e la sua personale
militanza civile e politica, è finalizzato a proporre linee di
indirizzo culturali ed ideali etici ai propri cittadini, chiamandoli
ad agire nell’interesse dello Stato.
In tal senso, fondante nel pensiero ciceroniano è l’indissolubile
legame fra politica e cultura che si qualifica come dovere morale
per il filosofo e che pone in essere il problema del rapporto tra il
pensiero e l’azione. Nel De Republica (54-51 a.C.) Cicerone non
esita a dare preminenza all’impegno politico in frangenti
particolari per la patria e per la società, pur auspicando,
chiaramente, il contemperamento fra politica e attività filosoficoculturale. Se da un parte «Il primato dell’attività del politico su
quella del filosofo viene affermato senza mezzi termini e con
accesa passione: molto superiore alla virtù dei filosofi è la virtù
degli uomini politici e dei legislatori, i quali hanno lottato per la
patria e hanno guidato i loro concittadini indirizzandoli alla
56
moralità con l’esempio e con le leggi»61, dall’altra la filosofia non
è concepita come isolamento egoistico, perché essa «[…] ha
valore in quanto giova alla vita, alle relazioni fra gli uomini, al
miglioramento morale e materiale della società, additando il
miglior sistema di convivenza e suggerendo i metodi più adatti
per la direzione della vita pubblica»62. Infatti, nel proemio del III
libro del De Republica, pur attribuendo alla filosofia una
funzione subordinata rispetto alla politica, si pone l’accento sul
fatto che entrambe concorrono a formare un modello insuperabile
di umanità, incarnato da Scipione e dalla cerchia dei suoi amici.
La filosofia rende perfetta la virtù dell’uomo politico. Ciò pone in
essere la possibilità di una via mediana che contemperi i due
generi di vita, quella attiva e quella dedita agli studi, tradotto
nella formula bìos synthetos. In ragione delle circostanze e
quando la scelta è obbligata, tra i due modelli di vita deve essere
privilegiato quello politicamente impegnato; altrimenti, quando la
situazione lo consente, la mediazione tra le due forme è
auspicabile per la formazione del modello perfetto di umanità. A
tal fine la cultura filosofica deve permeare l’eloquenza, darle
quella sapientia etico-politica di cui era priva e, dal canto suo,
61
L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 5.
L’Autore affronta il problema del peso dato da Cicerone nelle sue opere al rapporto
tra cultura, in particolare filosofica, e impegno pubblico.
62
Ivi, p.15.
57
ricucire quel legame reciso con la vita politica.
È la famosa formula cum dignitate otium in cui si dovrebbero
identificare, secondo Cicerone, gli uomini politici al vertice del
governo della res publica, perchè assomma in sé due generi di
vita, anche se sembra, come sostiene Perelli, che nella Pro Sestio
riveste un significato più circoscritto all’ambito politico. «Qual è
dunque lo scopo che debbono proporsi questi piloti dello stato e
dove devono dirigere la loro rotta? Quella che è la cosa più
eccellente e più desiderabile per tutti i cittadini saggi, onorati e
benestanti, la tranquillità congiunta con la dignità. [...] In questo
caso otium significa tranquillità, pace sociale; ciò che accomuna i
due significati della formula, quello politico e quello culturale, è
che otium concerne la sfera del privato, mentre dignitas indica i
doveri e i compiti della sfera pubblica, che conferiscono onore e
prestigio. In entrambi i casi l’accento viene posto sulla dignitas,
sul dovere della classe dirigente di mantenere il proprio prestigio
e il proprio impegno politico senza lasciarsi troppo trascinare
dall’amore per gli studi o per la tranquillità ad ogni costo.
Sembra dunque che l’otium sia la condizione desiderata dalla
moltitudine degli ottimati, mentre la dignitas è prerogativa dei
summi viri, dei principes optimatium, che devono spesso lottare,
sudare, sacrificarsi e affrontare pericoli per garantire l’otium
58
altrui»63.
Nell’ambito della formazione enciclopedica di cui deve essere
provvisto l’oratore, è la filosofia – come espresso nel De Oratore
– che lo educa al rispetto dei valori sui quali poggia la res publica
e lo preserva dall’essere manipolatore di coscienze, perché il suo
intento non è imporsi sull’individuo, ma orientare la comunità.
È proprio nel De Oratore che Cicerone tratteggia la figura del
perfetto oratore, forte del potere della parola e nutrito non solo di
cultura retorica ma anche filosofica e letteraria, identificato
nell’uomo politico. È un modello di uomo al servizio della
comunità e del bene comune, esemplare per dirittura morale che
gli deriva dalla formazione culturale, quello che Catone, sia pure
con una prospettiva non ampia come quella ciceroniana,
denominava vir bonus dicendi peritus.
Nel De Oratore, trattato che ha forma di dialogo letterario di
stampo platonico-aristotelico, scritto nel 55 a. C., Cicerone
ripartisce le diverse sfumature delle sue opinioni circa
l’eloquenza tra i due principali interlocutori, Antonio e Crasso, i
due oratori che dominavano la vita forense del tempo. Per il
primo all’oratore sono sufficienti le doti naturali di parola e
63
L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., p. 65. Il corsivo si riferisce alla
traduzione di un passo del par.98 della Pro Sestio di Cicerone.
59
ingegno; Crasso esprime il punto di vista ciceroniano della
necessità di un’oratoria meditata e nutrita di cultura. Ma
l’esposizione delle tesi è funzionale ad accreditare presso
l’opinione pubblica la dignità e l’irrinunciabile utilità di una
cultura vastissima che abbracci letteratura, storia, filosofia,
giurisprudenza ed elementi delle artes più disparate. È Crasso che
si fa portavoce del suo ideale di un oratore provvisto di un vasto
sapere e della rivendicazione del valore stesso della cultura, tratto
distintivo dell’uomo e dell’umanità, e del suo rapporto con
l’attività politica. L’eloquenza, mediante la parola, ha lo
straordinario compito di esporre «l’origine, l’essenza e le
modificazioni di tutte le cose, delle virtù e dei doveri, e di tutti
quei princìpi naturali che regolano i costumi, gli animi e la vita
degli uomini»64. L’oratore, dunque, che sa con concetti e parole
illustrare i vari aspetti dell’esistenza è preposto a reggere e
guidare lo stato. È per questo che un’arte così potente non può
prescindere da sapientia e rettitudine morale, valori di cui la
formazione dell’oratore non può fare a meno. Saldare
strettamente l’eloquenza alla ‘saggezza’, ascrivendola ad una
dimensione etica e politica, significa affrancarla da un basso
profilo tecnicista o da strumento moralmente “neutro” – come
64
M.T. Cicerone, De Oratore, III, 76.
60
invece ritiene Antonio -, ma, soprattutto, considerarla un fattore
di controllo delle turbolenze interne e della dissoluzione
dell’ordine sociale. Solo la vastità della formazione intellettuale
dell’oratore può consentire di tradurre le res in parole.
Viene così riproposta il modello formativo, di ascendenza greca
ed isocratea, dove pensiero, parola e azione vengono a dipendere
l’uno dall’altro e a costituire un’unità inscindibile. Il bene dicere
non è mera “arte della persuasione”, ma ha implicazioni morali:
saper infiammare gli animi o placarli dipende dalla capacità di
sapersi orientare in un universo di valori65.
È, quello delineato da Crasso per il suo oratore, un ideale di
cultura, fondato sull’articolazione di singole discipline, che porta
avanti l’idea di un recupero dell’unità della cultura, venuta meno
a causa della specializzazione dei saperi e del ristabilimento
dell’interscambio tra le diverse artes, che trovano proprio nella
retorica il punto di accordo. Anzi, Cicerone non manca di
rimarcare la parità statutaria tra eloquenza e altre artes nel
rivendicare, per bocca di Crasso, come oggetto dell’eloquenza
«tutto quanto tra gli uomini può formare materia di dibattito»66.
Cfr. E. Narducci, Cicerone e l’eloquenza romana. Retorica e progetto culturale,
Laterza, Roma-Bari 1997, con riferimento al discorso di Crasso nel De Oratore (I,
202).
66
M.T. Cicerone, De Oratore, II, 5.
65
61
È proprio la compattezza culturale e l’ampiezza di orizzonti
culturali richiesti all’oratore che concorrono al rafforzamento del
potere costituito, che per Cicerone è quello dell’aristocrazia
senatoria. Come sottolinea Narducci, «L’oratore deve essere
insieme filosofo, giurista e uomo di stato anche per custodire con
la propria auctoritas le istituzioni e le tradizioni»67. Lo stesso
Autore, ravvisa che nella rivendicazione dell’unità del sapere
«[...] l’assunto platonico della solidarietà di tutte le artes favoriva
del resto il ricupero di valori tradizionali di una saggezza
onnicomprensiva»68.
Significativa in tal senso è la denuncia di Crasso della decadenza
della classe dirigente che predilige un sapere settoriale che ne
degrada le prestazioni69 e l’avanzamento del provvedimento di
chiusura delle scuole dei rhetores Latini, che precludeva ai
giovani la possibilità di accedere ad una ampia e ricca
formazione, dunque, di educarsi ai valori fondanti della res
publica. Non è, pertanto, ammissibile per Crasso, alias Cicerone,
che coloro che si dispongono ad affrontare la vita politica
prescindano da una sapientia polivalente e onnicomprensiva.
67
E. Narducci, Introduzione a Cicerone, cit., p. 131.
E. Narducci, Cicerone e l’eloquenza romana, cit., p. 69. Cfr, anche, M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi romani, ESI, Napoli 1971, p.86.
69
«Coloro che aspirano alle magistrature e al governo dello Stato, oggi si fanno
avanti, per lo più, nudi e senza armi, privi di qualsiasi cultura e competenza» (M.T.
Cicerone, De Oratore, III, 136).
68
62
Dunque anche nel mondo romano la politichè philosophia si
profonda su un ideale educativo con valenza fortemente
pragmatica. Da qui il ruolo centrale che Cicerone assegna
all’eloquentia che, oltre ad essere “arte della parola”, è
‘strumento’ politico. L’arte retorica, cui è data particolare
rilevanza, trova la sua naturale espressione nel Senato, laddove si
confrontano due tipologie di difensori: i populares e gli
optimates. I primi difendevano gli interessi delle classi meno
agiate della società, i secondi esprimevano quelli delle classi
aristocratiche e ne peroravano la causa. Il successo dei
dibattimenti dipendeva, ovviamente, dalla grande capacità
oratoria, e chi la possedeva era in grado di influenzare gli animi,
se non addirittura condizionare le idee, le opinioni dell’uditorio.
Il mondo greco, attraverso Isocrate, aveva già riconosciuto nella
retorica la sostanza dell’impegno civile e politico del cittadino,
ascrivendo ad essa il compito proprio della filosofia, cioè la
ricerca di una verità in concreto (doxa) e non in astratto
(episteme), attraverso il tentativo di svuotare di identità
quest’ultima. Per il retore ateniese è dunque la retorica la vera
filosofia, che diventa filosofia civile esente dall’astrattismo
metafisico ma utile alla comunità, assumendo un nuovo
significato e un proprio statuto epistemologico. Nel mondo
63
romano Cicerone cerca «[…] di ricomporre l’antica unità (di
riflessione intellettuale e impegno civile, caratteristica della
tradizione greca come quella romana) elaborando un sistema
retorico in relazione alla filosofia e sottolineando che, se spetta al
filosofo indagare e analizzare la verità, è poi compito del retore
divulgarla, ma tutti e due non possono non incontrarsi in zone
determinate del sapere dove una vivisezione netta di princìpi e
un’assoluta discriminazione di competenze sono nocive e alla
retorica e alla filosofia. Le ipotesi (quaestiones finitae) che
rappresentano l’ambito particolare dell’oratoria, non possono
infatti non rimandare a tesi (quaestiones infinitae) cioè a quei
temi generali la cui indagine spetta alla filosofia: così, ad
esempio, in una causa del genus iudiciale, rientrano le tesi de
aequo et iniquo e de iusto et iniusto»70 . È nell’Orator che viene
espressa la tesi ciceroniana della complementarità dell’eloquenza
e della filosofia, definite, rispettivamente, doctrina verborum e
doctrina rerum71. Se dunque forte è l’influsso di Isocrate
nell’ascrivere un ruolo civile e politico all’eloquenza, Cicerone
supera la concezione del rapporto tra retorica e politica del retore
greco che riteneva la retorica come unica istituzione educativa di
70
N. Flocchini, Argomenti e problemi di letteratura latina, Mursia, Milano 1977, p.
83.
71
Cfr. M.T. Cicerone, Orator, par. 17.
64
tipo
etico
e
politico72,
riducendo
a
mere
esercitazioni
propedeutiche all’educazione superiore la dialettica e le discipline
matematiche.
Era quella tra retorica e filosofia una disputa che in Grecia si
trascinava dal II secolo a. C. e che, una volta che i Romani erano
diventati padroni del Mediterraneo, si riproponeva in ragione dei
nuovi interessi culturali dei vincitori, per i quali preminenti erano
i risvolti pratici dell’attività intellettuale.
I termini della questione riguardavano la rivendicazione
esclusiva, come proprio ambito di competenza, dell’educazione e
della formazione dell’uomo politico. La filosofia imputava alla
retorica un arido tecnicismo e la mancanza di adeguati orizzonti
culturali; di contro la retorica voleva sottrarre il primato alla
filosofia, perché scollata rispetto alla prassi politica, relegandola
a livello di specializzazione con il compito di affrontare solo
problematiche di ordine scientifico ed erudito.
72
A riprova delle affinità ideali e di pensiero fra Isocrate e Cicerone nonché
dell’incontestato valore e dell’importanza dell’eloquenza giova menzionare la
celebrazione della parola come forza civilizzatrice, presente rispettivamente
nell’orazione Nicocle e nel De Oratore.
65
3. Formazione e politica
Cicerone, come già detto, si fa propugnatore di un’idea di
formazione globale, sintesi di eloquentia e sapientia, in cui, cioè,
l’arte oratoria non è mera tecnica ma si fonda su una vasta cultura
e non è mai disgiunta da qualità morali di saggezza e onestà,
caratterizzando il peculiare profilo formativo di quei cittadini
chiamati a partecipare attivamente alla vita pubblica e al dibattito
politico, così come era avvenuto nel mondo greco.
È proprio la cultura il veicolo privilegiato perché i rappresentanti
dell’élite politica possano coltivare i valori dell’humanitas. Una
cultura, che è insieme formazione e trasmissione dei valori utili
alla comunità, non può che essere pensata al servizio
dell’impegno politico.
È una formazione culturale vasta e approfondita che ha lo scopo
di rendere consapevoli la nuova elitè di “uomini eccellenti” del
proprio ruolo politico che si fonda su criteri meritocratici, in
un’ottica di superamento del precedente progetto della concordia
ordinum che coinvolgeva la vecchia oligarchia e l’aristocrazia di
nascita. L’oratore si fa interprete di questo progetto politico di
promozione e di affermazione di ceti più ampi rispetto al passato,
di cui mira ad intercettare il consenso e ad avere l’approvazione
66
attraverso l’uso della parola, dell’eloquenza, dell’oratoria nutrita
di cultura, che diventa ideologicamente politica, facendo leva su
quelle che sono le tre qualità essenziali dell'oratore, docere o
probare, delectare, movere o flectere, così come illustrate nel II
libro del De Oratore73.
L’oratore è profondamente impegnato nella vita politica, è quindi
suo compito svolgere una missione per la comunità che può, tra
l’altro, illuminare il popolo, renderlo capace di avere un quadro
ben definito della situazione che sta vivendo: il suo compito è
convincere il popolo. Senza un buon fondamento culturale il
discorso di un oratore è infantile, privo di significato, degno di
essere deriso. Si nota benissimo l’opposizione di Cicerone verso
quei retori greci che affermavano che per essere buoni oratori
bastasse possedere una buona dose di tecnicismi ed esercizi.
Cicerone fa capire benissimo il perché l’oratore deve essere
enciclopedico: «Hoc tantum oneris imponam nostris praesertim
oratoribus in hoc tanta occupatione urbis ac vitae»74.
L’elaborazione di questa nuova teoria politica prefigura una base
Il primo compito dell’oratore è quello di informare sul fatto ed esporre la
propria tesi dimostrandone la validità (docere o probare); il secondo è quello di
esporre i fatti piacevolmente, con un discorso vivace, serio, faceto, ironico,
satirico, esemplificando sempre (delectare); l'ultimo infine è quello di coinvolgere
emotivamente l'ascoltatore, suscitando via via ira, entusiasmo, commozione, pietà
(movere o flectere). Commuovere gli animi degli ascoltatori è compito soprattutto
dell'arringa finale (peroratio), culmine dell'orazione.
74
M.C. Cicerone, De Oratore, par. 20, «un così grande impegno imporrò
specialmente ai nostri oratori in questa così grande attività civile e privata».
73
67
sociale non più esclusivamente romana ma allargata a vari “ordini
sociali” di tutta la penisola italica. È il consensus omnium
bonorum, cioè l’accordo di tutti i buoni cittadini abbienti75 denominata “natio optimatium”76 nella Pro Sestio, scritta nel 56
a.C, che può essere considerata un manifesto programmatico del
partito conservatore secondo la visione ciceroniana, - interessati
al bene dello Stato, un nuovo blocco sociale che, rappresentando
una prima “pubblica opinione”, chiede conto della scelte
politiche, e di essere responsabilizzata relativamente ai destini
della res publica del bene comune. «La necessità di consolidare e
orientare questo blocco sociale significava di per sé un
superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana, per
lo più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche clientelari: da
parte di Cicerone, la divulgazione frequente dei propri discorsi, e
successivamente della propria produzione filosofica, è segno di
un’attenzione per la formazione di una ‘pubblica opinione’ che
trova ben pochi paragoni in leaders precedenti o anche
contemporanei»77.
75
Vi è da dire che Cicerone verosimilmente non si riferisse ai ceti inferiori ma solo
alle aristocrazie municipali italiche, e fra questi ai maggiori possidenti. Si veda
sull’argomento: E. Lepore, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda
repubblica, Il Mulino, Bologna 1954; E. Narducci, Cicerone. La parola e la
politica, Laterza, Bari 2009.
76
Cfr. M.T. Cicerone, Pro Sestio, par. 96.
77
E. Narducci, Introduzione a Cicerone, cit., p. 83.
68
Per Cicerone occorreva, però, garantire pur sempre un equilibrio
sociale che non poteva non passare da un rinnovamento della
classe politica dirigente e, di conseguenza, da un progetto
culturale che allargasse le basi del consenso sociale e mirasse a
diffondere il dibattito politico a più strati della società civile. Si
scorgono, verosimilmente, i presupposti dell’elaborazione di una
nuova cultura utile alla formazione fra i cittadini di guide
politiche, in grado anche di sostenere nei luoghi della politica le
élites tradizionali, attraverso quella “parola” che diventa
espressione politica, incarna la politica stessa. È uno stile di vita,
un habitus mentale, esercizio delle doti naturali come prodotto
dell’educazione e della formazione, che propugna il consensus
come cardine della ideologia politica ciceroniana che mira,
attraverso la mediazione dei conflitti politici e sociali del tempo,
alla creazione di un governo di Roma autorevole.
Se Isocrate prende come punto di riferimento la retorica per
costruire un’identità culturale, Cicerone punta sull’eloquenza per
creare una identità politica forte, capace di contrastare i pericoli
di individualismi autoritari che minavano le basi della res publica
e di mirare, secondo l’insegnamento di Platone, all’interesse
complessivo della cittadinanza e non di una determinata parte o
69
di particolari categorie78. È un richiamo al dovere dell’individuo
di impegnarsi a vantaggio della collettività in rapporto alle sue
doti naturali, nella consapevolezza che l’uomo solo in un
organismo giuridicamente organizzato trova la sua piena
realizzazione umana e sociale. Si scorge qui l’evidente influsso di
Panezio che, come detto, proponeva ai romani una vera e propria
“arte del vivere”, puntando sull’attuabilità della saggezza, sul
concetto di socialità come dote naturale dell’uomo e sulla
doverosità dell’impegno civile79.
L’urgenza di formare una nuova classe politica, dotata di una
forte coscienza critica e politica, che deriva da una solida
formazione culturale, propugnata da Cicerone, rappresentava
l’ideale più profondo e più sacro della sua vita, cioè salvare la
patria e preservare e rinsaldare le istituzioni della repubblica
senatoria, a suo avviso il “miglior governo” possibile per
assicurare il rispetto della costituzione e la pace sociale contro
possibili sovvertimenti, garantendo, così, la legalità e le libertà
personali il cui baluardo vedeva rappresentato in una classe
dirigente disinteressata, dedita al bene dello stato e costituita
dagli ordini sociali alti e medi.
78
Cfr. M.T. Cicerone, De officiis, I, par. 85.
Cfr. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, I, trad.it., La Nuova
Italia, Firenze 1967, pp. 387 e ss..
79
70
Cicerone, dunque, «[…] rimase strenuo assertore dell’antica
costituzione repubblicana, che era ormai uno strumento al
servizio di una oligarchia decaduta e corrotta. Questa limitatezza
di visione storica nulla toglie all’onestà e alla buona fede con cui
egli tenne fermo il suo ideale politico, che rimase sostanzialmente
immutato, mentre variò soltanto la valutazione delle forze e degli
uomini con cui ritenne possibile realizzare il suo programma»80.
Il mito di Cicerone, a fronte del progetto irrealizzato di una
repubblica di boni cives, persegue strenuamente un legalitarismo
istituzionale che si alimenta di una premura educativa iuxta
propria princìpia.
Fornire all’impegno politico una base di appassionata eticità
attraverso la formazione di un habitus mentale e di uno stile di
vita adeguato, coinvolgendo le componenti sociali più in vista,
sia per censo che per tradizione, alle sorti del governo, poteva
valere, soprattutto, ad arginare la crisi che inevitabilmente si
innesca quando sorgono tensioni tra ambizioni individuali e
organizzazione politica81.
80
L. Perelli, Storia della letteratura latina, cit., p.144.
Anche se a Cicerone stavano a cuore le aristocrazie municipali italiche e teneva
in debito conto la salvaguardia degli interessi dei pubblicani, in un’ottica di
equilibrio e di inalterabilità sociale, egli ritiene che preposti alle cariche dello Stato,
con compiti decisionali, debbano essere i pochi membri delle grandi famiglie
senatorie.
81
71
Se la paideia di Isocrate si può, a ragione, definire “umana” in
quanto, in un momento storico in cui si è smarrita l’identità della
polis greca e con essa del polites, recupera l’individualità del
soggetto attraverso un’educazione che esalta le doti intellettuali e
le virtù dello spirito, nell’humanitas ciceroniana, sia pure in un
diverso contesto storico ma animato dalle medesime urgenze e
istanze di rinnovamento, tali doti e virtù si saldano prospettando
una dimensione umana e politica insieme. Il sapere, attraverso
queste due figure emblematiche di intellettuali, diventa una sorta
di koinè culturale, cioè un comune codice linguistico per chi ha la
responsabilità del governo di uno stato82.
82
Cicerone, nella Pro Sestio, li definisce gubernatores.
72
CAPITOLO III
JOHN DEWEY: L’EDUCAZIONE PER LA DEMOCRAZIA
1. L’etica della democrazia
Tenendo presente due figure importanti per il mondo greco e per
il mondo romano, Isocrate e Cicerone in alcuni momenti
significativi del loro pensiero, ho ritenuto opportuno riflettere su
quanto le loro idee abbiano influenzato in qualche modo la
società contemporanea. Poiché l’argomento è vastissimo, è
opportuno circoscriverlo focalizzando un autore e di esso, in
particolare, il rapporto educazione-democrazia così come si è
sviluppato nella sua opera. Per tale ragione ho ritenuto John
Dewey, studioso contemporaneo tra i più discussi e i più attuali, il
pensatore che più contrasta e nel contempo si avvicina a Isocrate
e a Cicerone. Dal populus da intendere come societas coetus e
vinculum iuris, si passa con il filosofo americano ad una società
intesa come Great Community, in cui la democrazia diviene il
bene comune e il bene comune la democrazia.
Attraverso la figura di Dewey, ed in particolare attraverso
l’analisi del rapporto educazione-democrazia nel suo pensiero, mi
propongo, dunque, di chiarire quanto sia importante, nella società
73
contemporanea democratica, comprendere il comportamento
etico del cittadini e come questo rapporto tra etica, democrazia e
educazione abbia le sue chiare radici proprio nei concetti di
paideia e di humanitas esaminati in alcuni specifici momenti e
nelle figure significative di Isocrate e Cicerone83.
Il pensiero di John Dewey rappresenta uno dei nodi cruciali della
filosofia e della pedagogia del secolo scorso. Il filosofo,
riconosciuto come uno dei fondatori assieme a William James e a
Charles Sanders Peirce del pragmatismo classico americano, è
stato considerato, sia in Italia sia in diversi altri paesi, il filosofo
della democrazia, ma in effetti ancora non è stato studiato
complessivamente seguendo in modo cronologico lo sviluppo del
suo pensiero84.
83
Cfr. G. Spadafora, Studi deweyani, Fondazione Italiana John Dewey, Cosenza
2006, che è il punto di riferimento per la presente trattazione; G. Spadafora, a cura
di, John Dewey. Una nuova democrazia per il XXI secolo, Anicia, Roma 2003 e T.
Pezzano, Il giovane Dewey. Individuo, educazione, assoluto, Armando, Roma 2008.
84
John Dewey nasce a Burlington il 20 0ttobre del 1859 da Archibald e Lucina
Rich Dewey. La caratteristica della sua vita è quella di avere attraversato i periodi
più significativi della storia culturale e politica degli Stati Uniti dalla guerra di
secessione (a cui il padre prese parte e che avvia l’incredibile sviluppo
dell’economia americana tra Otto e Novecento), fino al 1952 (anno della sua
morte), periodo caratterizzato dalla guerra fredda e dall’affermazione dell’energia
nucleare come paradigma tecnologico e culturale che si affermerà compiutamente
proprio in quel periodo. Dopo avere conseguito la laurea a Burlington insegna
nell’High School di Oil City in Pensilvanya e, successivamente, nel 1884 consegue
il dottorato presso la Johns Hopkins University di Baltimora dove ha come maestri
Gorge Sylvester Morris, Stanley Hall e Charles Sanders Peirce. È chiamato da
Morris presso l’università del Michigan dove diventa Professor of Pilosophy. Nel
periodo universitario 1888-89 insegna un semestre all’università del Minnesota.
Durante i dieci anni di permanenza all’università del Michigan egli incontra e sposa
nel 1886 Harriet Alice Chipman da cui avrà sette figli. Nel 1894 è nominato
Professor of Philosophy e Chairman del Department of Philosophy, Psychology and
74
Inoltre, un aspetto recentemente evidenziato e che si lega
fortemente alle problematiche della società contemporanea è il
suo grande interesse per il rapporto tra la tecnologia e lo sviluppo
della democrazia nella società globale contemporanea85.
Education presso l’università di Chicago dove rimane fino al 1904 e dove tra il
1896 e il 1903 organizza la famosa scuola-laboratorio, altrimenti detta “scuola del
Dewey”. Dopo la fondamentale esperienza d’insegnamento presso l’università di
Chicago, per contrasti con il Rettore di quella università, preferisce insegnare fino
al 1929 presso la Columbia University di New York. Dagli anni ’20 in poi la sua
“travelling theory” – filosofia viaggiante – confronta il suo modello di democrazia
con la possibilità di applicarlo in numerosi paesi europei e asiatici. I suoi viaggi
fondamentali in Cina, Giappone, Russia, Europa, Turchia, Messico danno il senso
di un’intensa attività d’intellettuale globale sempre in giro per il mondo; un mondo
meno “globale” – rispetto a quello contemporaneo – per quanto concerne la
possibilità delle comunicazioni, ma reso “globale” dal desiderio di Dewey di
comprendere le possibilità di costruzione della democrazia in differenti civiltà.
Inoltre l’impegno politico, testimoniato dai suoi scritti, che teorizzano un “nuovo
individualismo” sociale, la sua costante fede in una forma di democrazia sociale
diversa dal liberismo individualistico e dal comunismo staliniano come dalle
dittature nazifasciste, il suo tentativo fallito di creare un terzo partito negli Stati
Uniti, la sua presidenza nel 1937 della Commissione d’inchiesta su Leon Trotsky, il
suo intervento nel 1940 in difesa di B. Russell, al quale era stato negato di
insegnare all’università di New York per le sue idee in materia di morale sessuale,
dimostrano la centralità morale e politica della sua figura nell’ambito della cultura
americana e internazionale del Novecento. Si spegne per polmonite il 1° Giugno
del 1952 a New York. L’interpretazione del pensiero di Dewey non può essere
limitata alle opere più note, ma va compresa anche attraverso l’analisi dei numerosi
interventi apparentemente “minori”. Si possono ricordare qui, soprattutto: The
Reflex Arc Concept in Psychology del 1896 e The Sources of a Science of
Education del 1929. E ancora, tra le opere organiche più note: Psychology del
1887; My Pedagogic Creed del 1897; The School and Society del 1899; How we
Think, del 1910; Democracy and Education, del 1916; Reconstruction in
Philosophy del 1920: Human Nature and Conduct. An Introduction to Social
Psychology, del 1922; Experience ad Nature del 1925; The Public and Its Problems
del 1927; The Quest for Certainty del 1929; Individualism Old and New, del 1930;
Ethics scritta assieme a J. Tufts, seconda edizione rivista del 1932 (la prima era del
1908); Art as Experience del 1934; A Common Faith del 1934; Liberalism and
Social Action del 1935; Logic: The Theory of Inquiry, del 1938; Experience and
Education del 1938; Freedom and Culture del 1939; Theory of Valuation del 1939;
Problems of Men, del 1946; Knowing and the Known, del 1949. (La maggior parte
delle opere menzionate è tradotta in italiano, in particolare dalla Nuova Italia di
Firenze).
85
Cfr. L. A. Hickman, John Dewey’s Pragmatic Technology, Indiana University
Press, Bloomington 1990 e Armando, Roma 2000, con una presentazione di G.
Spadafora.
75
La complessità del suo pensiero, in effetti - basti pensare che
l’edizione critica deweyana consta di ben 37 volumi più un
volume d’indici -, è da definire alla luce anche degli intensi
rapporti politici coltivati nella sua lunga vita, dei viaggi e delle
svariate iniziative culturali; tutte cose che gli hanno valso
l’appellativo di “intellettuale globale ante litteram”86.
È indubbio che alcune biografie sul filosofo, dagli anni Novanta
in poi, in particolare quella di Robert Brett Westbrook,
rappresentano un contributo rilevante, che permette di cogliere la
complessità dei legami tra il senso della sua filosofia e le
trasformazioni culturali e politiche del tempo87.
La mia analisi, proprio per tentare di legare il discorso deweyano
alle problematiche prima evidenziate in Isocrate e in Cicerone,
cercherà
di
soffermarsi
principalmente
sul
rapporto
tra
l’educazione e la democrazia nel suo pensiero, mettendo in
evidenza soprattutto tre momenti della produzione filosofica del
pensatore americano simboleggiati, in particolare, da quattro testi
fondamentali, che rappresentano in modo molto chiaro il legame
educazione-democrazia come chiave di lettura complessiva del
suo pensiero: The Ethics of Democracy del 1888, The School and
86
Cfr. J. A. Boydston, Guide to the Works of John Dewey, SIUP, Carbondale 1970.
Cfr . R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, Cornell
University Press, Ithaca, 1991, Armando, Roma 2011 (trad. it. a cura di T.
Pezzano).
87
76
Society del 1899, Democracy and Education del 1916, The Public
and Its Problems del 1927. I quattro testi, ovviamente, saranno
contestualizzati nell’ambito del lavoro filosofico deweyano e
messi in correlazione con la sua riflessione complessiva.
Focalizzando i nodi centrali dell’itinerario culturale del filosofo
americano, ho potuto constatare che il suo disegno complessivo è
stato quello di “ricostruire la filosofia” rispetto all’impostazione
idealistica e al realismo materialista e naturalista, ma, nello stesso
tempo, anche quello di “ricostruire” il sistema educativo con la
teoria dell’“educazione progressiva” e con la scuola- laboratorio
di Chicago.
L’interesse filosofico e pedagogico deweyano, dunque, ha
determinato la definizione e la progressiva teorizzazione di un
modello di democrazia forse utopistico, in antitesi ad ogni forma
di dittatura del tempo, che si è posto come un modello universale
di democrazia, un modello di “democrazia globale”.
La prima formazione del giovane Dewey rappresenta uno degli
aspetti di maggiore interesse affrontati dalla letteratura critica
deweyana per chiarire il senso del suo hegelismo giovanile o, se
si vuole, il significato del passaggio dall’“assolutismo allo
sperimentalismo”, così com’è stato definito dallo stesso filosofo
77
americano in un suo scritto autobiografico88. Dalla data del primo
scritto, The Metaphisical Assumptions of Materialism, del 1882,
fino alla sperimentazione della scuola laboratorio di Chicago,
1896-1903, ci si trova di fronte ad una trasformazione
problematica della filosofia deweyana: da una concezione
dell’assoluto, considerata di matrice hegeliana, si passa sempre
più ad una dimensione “sperimentale” del rapporto soggettooggetto.
Il giovane Dewey sviluppa, in effetti, attraverso la lettura a volte
eclettica di filosofi centrali nella cultura europea quali Spinoza,
Leibniz, Kant e lo stesso Hegel, unitamente ad una chiara
influenza
religiosa
di
matrice
protestante
pietista-
congregazionalista da parte della madre Lucina Rich, una critica
al materialismo e un’attenta riflessione nei confronti del metodo
filosofico kantiano89.
Nei primi scritti del 1882 (The Metaphysical Assumptions of
Materialism e The Panteism of Spinoza), il problema che Dewey
evidenzia è la critica della dimensione metafisica del
materialismo e dell’assolutismo panteistico di Spinoza per
mettere in evidenza come la filosofia deweyana cerca di
88
Cfr. A. Granese, Il giovane Dewey, La Nuova Italia, Firenze 1966; N. Coughlan,
Young John Dewey, University of Chicago Press, Chicago 1975.
89
Cfr. T. Pezzano, L’organismo sociale nel giovane Dewey, Periferia, Cosenza
2011.
78
focalizzare subito il tema della libertà dell’individuo rispetto
all’assoluto che può essere considerato la metafora filosofica
della collettività, del bene comune, della società, dell’istituzione
democratica.
Questo problema ha in Dewey una soluzione che si confronta con
l’attività della soggettività trascendentale. Proprio questo
approccio determina una grande interesse del filosofo americano
per i temi della psicologia che vengono analizzati nel testo
Psychology, del 1887. La “nuova psicologia”, interiorizzata e
rielaborata grazie all’influenza di Stanley Hall alla John’s
Hopkins University di Baltimora, è una concezione della
psicologia che definisce una teoria della coscienza connessa
all’evoluzione dell’ambiente di vita del soggetto e, soprattutto,
alla possibilità di trovare un punto di incontro tra la soggettività e
l’oggettività. La soggettività si tripartisce, secondo la “nuova
psicologia”, in conoscenza, sentimento e volontà, categorie
imprescindibili per la formazione del soggetto, passando da una
concezione idealistica ad una concezione funzionalista del
processo conoscitivo.
Il sé è espressione delle trasformazioni della soggettività
dell’individuo, che connette il processo conoscitivo alla “scelta
morale”; relazione che determina inevitabilmente la centralità del
79
processo educativo. La dimensione psicologica diventa il
fondamento epistemologico alla trattazione centrale del pensiero
deweyano nei confronti della democrazia.
In effetti il filosofo americano già un anno prima aveva
pubblicato nel 1886 Soul and Body, che rappresenta uno dei testi
centrali della prima formazione deweyana, in quanto analizza il
nesso mente-corpo. In questo testo egli è contro qualsiasi
dualismo mente-materia, soggetto-oggetto e considera il rapporto
mente-corpo continuo e non scisso. L’individuo è ciò che vuole
essere, anche se la sua individualità si pone all’interno di
un’esperienza problematica e questa dimensione è studiata
proprio nella complessità del rapporto tra la soggettività e
l’oggettività90.
La relazione problematica io-mondo apre Dewey al tema della
democrazia. Nel testo fondamentale della sua produzione
giovanile sulla democrazia, e cioè The Ethics of Democracy del
1888, Dewey, in effetti, giustifica la questione della democrazia
in relazione all’etica91. Il saggio nasce dalla critica che Dewey fa
al lavoro di Sir Heny Maine che nel 1886 aveva pubblicato
Popular Government, in cui si afferma che la democrazia è un
90
Cfr. J. Dewey, Soul and Body, in The Early Works, vol. 1 1882-1888, SIUP,
Carbondale 1969 pp. 93-115.
91
Cfr. J. Dewey, The Ethics of Democracy, in The Early Works, vol. 1, 1882-1888,
SIUP, Carbondale, 1969 pp. 227-249.
80
sistema politico che pone dei problemi molto specifici e che non
li risolve. La democrazia, infatti, secondo Henry Maine è il
“governo dei molti” e, quindi, è da considerare negativa, in
quanto le specifiche conseguenze della sua realizzazione sono o
l’anarchia, espressione dell’attività di ogni singolo individuo che
intende perseguire i propri specifici interessi, o è l’espressione
della impossibilità di determinare il governo dei molti e, quindi,
diventa inevitabilmente l’anticamera della tirannide, in quanto
non permette la possibilità di realizzare il governo del popolo,
anche per i limiti della rappresentanza politica, subito
individuati92.
La risposta del filosofo americano è chiara e diventa un momento
fondamentale della sua futura ricerca. La democrazia è l’unica
organizzazione sociale, umana e politica che garantisce
all’individuo uno specifico sviluppo nell’ambito della sua attività
umana. La democrazia è tale, quindi, proprio quando garantisce
all’individuo una sua specifica possibilità di sviluppo e di
realizzazione umana e sociale. Essa rappresenta, quindi, lo
sviluppo compiuto dell’individualità.
La centralità della democrazia, in quanto espressione dello
sviluppo dell’individualità, diventa il tema strettamente legato
92
Ivi, pp. 246-249.
81
alla teoria pragmatista dell’individualità che ha nel testo del 1896
sull’arco riflesso, considerato il Manifesto del pragmatismo, un
suo sviluppo fondamentale. In questo testo, che riprende le
problematiche già affrontate nei Principles of Psychology del
1890 di William James e, in modo mediato, di Cartesio, Dewey
propone il tema della soggettività in rapporto alle coevolutive
trasformazioni dell’ambiente, tema sviluppato in tutta l’opera
successiva93.
Il rapporto soggetto-oggetto non è un arco riflesso determinato da
parti “disgiunte di un processo”, ma è una coordinazione
complessiva dell’attività umana, un “circuito”, un “circolo”
coordinato, in cui avviene uno squilibrio e un riequilibrio della
situazione in cui si compie il rapporto stimolo-risposta94.
Questo testo rappresenta un momento fondamentale della
riflessione deweyana che prelude allo sviluppo successivo del suo
pensiero. Da esso, tenuto ancora non nella dovuta considerazione
nell’ambito della riflessione critica deweyana, si possono trarre
alcune osservazioni che ci guidano nella comprensione del suo
percorso filosofico. La teoria dell’arco riflesso è fondamentale, in
quanto chiarisce la natura della filosofia deweyana che cerca di
93
Cfr. J. Dewey, The Reflex Arc Concept in Psychology, in The Early Works, vol.
5, 1895-1898, SIUP, Carbondale 1972, pp. 96-110.
94
Ivi, pp. 102-103.
82
superare il tradizionale dualismo corpo-anima, riproposto proprio
dalla separazione dello stimolo dalla risposta. Questa filosofia
intermedia, in cui la dimensione idealistico-spiritualistica non è
separata da quella materialistico-realistica, è definita in questo
scritto che rappresenta il vero punto di svolta del filosofare
deweyano. Lo stimolo e la risposta sono distinzioni teleologiche,
cioè distinzioni di funzione con riferimento al raggiungimento o
al mantenimento di un fine.
La distinzione, teleologicamente orientata, chiarisce un concetto
centrale: l’arco riflesso non è costituito da uno stimolo e da una
risposta, ma da un atto coordinato “incerto”, problematico, che
determina uno squilibrio e un riequilibrio all’interno di ogni
specifica situazione.
Il problema etico della democrazia si lega, quindi, strettamente al
tema del rapporto dell’individuo con la realtà e, di conseguenza,
con l’educazione. Il processo educativo e la democrazia
diventano proprio attraverso questi studi le categorie centrali
della riflessione deweyana.
In effetti, i vari studi deweyani sulla psicologia dello sforzo, sul
“feticcio dell’educazione primaria”, sulla pedagogia come
disciplina universitaria, sulla necessità di una scuola-laboratorio
rappresentano il tentativo di porre la questione della soggettività
83
in modo diverso rispetto alle filosofie di matrice europea. È in
particolare, nel periodo di Chicago (1894-1904), che la filosofia
deweyana giunge ad un più maturo compimento esplicitando con
chiarezza il rapporto tra la scuola, l’educazione e la democrazia.
Una filosofia, insomma, che cerca di definire una “terza via”
teoretica tra idealismo e realismo, che cerca di collegare la ricerca
filosofica
sulla
soggettività
dell’individuo,
la
teoria
dell’educazione progressiva e la riflessione sulla concezione della
democrazia95.
Uno scritto che testimonia l’intreccio tra la ricerca filosofica e
quella educativa è The School and Society
96
del 1899 in cui
l’autore in gran parte analizza le esperienze maturate nella
scuola-laboratorio di Chicago nel primo triennio 1896-1898, ma
nello stesso tempo sviluppa un punto centrale della sua ricerca e
cioè che la scuola “è il laboratorio della democrazia”, proprio
perché la scuola non è il luogo dove il bambino vive, anzi spesso
è un luogo artificiale all’interno del quale il bambino deve
crescere.
Per trasformarsi la scuola deve aprirsi alla società nei suoi valori
e nella sua organizzazione e il bambino, nella sua crescita
95
Cfr. G. Spadafora, Studi deweyani, cit., p. 23.
Cfr. J. Dewey, The School and Society, in The Middle Works, vol.1, SIUP,
Carbondale, 1976, pp. 3-109.
96
84
mentale e fisica, deve essere al centro del processo educativo,
non subendo passivamente l’insegnamento, ma facendo sì che si
determini sotto la guida dell’insegnante, in modo problematico e
progressivo, la sua esperienza, condividendola con gli altri.
Questo testo si basa su tre princìpi fondamentali, ma anche su
numerosi altri criteri di interpretazione educativa della realtà.
a) La scuola, per poter essere credibile, deve aprirsi alla società,
nel senso che deve sviluppare i contenuti del suo curriculum e le
sue metodologie e didattiche tenendo presente ciò che
contestualmente avviene nella società.
b) Il bambino è al centro del rapporto educativo, nel senso che
non deve più subire l’azione dell’insegnante, inteso come
trasmettitore di conoscenze, ma deve rendersi conto all’interno di
un ambiente di apprendimento predisposto dall’insegnante,
considerato da Dewey un giardiniere, della sua capacità
progressiva di conoscere la vita sociale proprio all’interno
dell’aula scolastica.
c) La scuola è una organizzazione, nel senso che la scuola non è il
luogo dello spontaneismo didattico dell’insegnante o dello
spontaneismo del bambino, ma è il luogo in cui il dialogo
85
costituisce l’elemento fondamentale per la progressiva crescita
civile e morale dello studente97.
Questa problematica persiste nella filosofia deweyana sino al
1903, anno di pubblicazione degli Studies in Logical Theory che
costituiscono un momento fondamentale per comprendere il
passaggio “dall’assolutismo allo sperimentalismo”, proprio
perché la logica già in questo scritto rappresenta uno “strumento”
per trasformare la realtà sociale e politica.
La riflessione sulla soggettività negli studi logici esprime la
forma di un soggetto che vive nella situazione specifica e che si
trova dinanzi ad un’esperienza problematica continuamente da
riequilibrare e da adattare all’ambiente proprio attraverso lo
strumento della logica. È proprio nel periodo tra il 1903 e il 1906,
che il filosofo sviluppa una serie d’interventi non organici ma
preparatori alle opere più mature che caratterizzano la piena
definizione della concezione pragmatista del conoscere. Si tratta
d’interventi sulla filosofia, sull’etica, sull’educazione e sulla
democrazia.
Ma il problema del rapporto educazione-democrazia è sviluppato
ulteriormente in un articolo del 1903 Democracy in Education.
97
Ivi, pp. 52-55.
86
La vita moderna significa democrazia, democrazia significa
liberare l’intelligenza per una realizzazione indipendente.
In un altro intervento del 1904, The Relation of Theory to
Practice in Education, dopo avere chiarito le differenze tra
“l’educazione diretta e indiretta” scolastica ed extrascolastica quasi a testimoniare come il vero problema della scuola consista
nell’organizzare un insegnamento-apprendimento che riproduca
le situazioni della vita individuale e sociale - il filosofo rileva il
valore dell’educazione progressiva che lega la teoria alla pratica:
il discorso centrale della sua riflessione logica e filosofica trova
nell’educazione il luogo di maggiore approfondimento.
87
2. Democrazia e educazione: il nodo centrale
Il tema della “teoria della vita morale” dell’individuo che si
sviluppa nella democrazia rappresenta uno dei momenti centrali
della riflessione deweyana. La sua teoria morale si basa sulla
“situazione morale” e, in modo più specifico, sulla centralità della
vita pratica, che mette in rapporto l’individuo e l’organizzazione
sociale, la società civile e lo stato politico.
L’etica è una condizione fondamentale per l’analisi della condotta
umana, in cui la ricerca filosofica sulla soggettività, le
problematiche dell’educativo e la ricerca della convivenza
democratica tra gli individui trovano il più ampio sviluppo.
In tale prospettiva, il valore centrale della sua teorizzazione si
lega al concetto darwiniano dell’evoluzione per un motivo
fondamentale: l’influenza di Darwin sulla filosofia dimostra che
non ci può essere nessuna possibilità per una forza casuale
intelligente a priori.98
È nel testo del 1910, How We Think, che il problema logico si
collega al ripensamento della soggettività. Il pensare è legato
all’operatività dell’indagine dal momento che ogni inferenza va
98
Cfr. J. Dewey, The Influence of Darwinism on Philosophy, in The Middle Works,
vol. 4, SIUP, Carbondale, 1977, pp. 3-30.
88
provata attraverso il metodo dell’indagine, che si caratterizza nel
favorirla e nel collegarla ai princìpi logici e psicologici
riconducibili all’induzione e alla deduzione99.
Questa problematica è connessa alla missione politica che in
quegli anni, alla vigilia dell’ingresso degli Stati Uniti nel primo
conflitto mondiale, quando Woodrow Wilson era presidente degli
Stati Uniti, il filosofo americano intende sviluppare. Nello scritto
del 1915, German Philosophy and Politics100, è chiara la missione
storica di costruire una filosofia e una politica per l’America.
Non una filosofia assoluta come quella tedesca, ma una filosofia
diversa da quella europea, proiettata verso le opportunità del
futuro e i bisogni di ogni singolo individuo.
Una filosofia della storia rivolta alla costruzione del futuro deve
basarsi su una sperimentazione intelligente come metodo
culturale. In questa prospettiva il testo, scritto insieme alla figlia
Evelyn, Schools of To-Morrow - dello stesso anno, 1915 dimostra la fede culturale nel futuro che si basa sulle scuole
ispirate, in gran parte, all’educazione progressiva elaborata sin
dai tempi di Chicago101.
99
Cfr. R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., in particolare
pp. 230-231.
100
Ivi, pp. 214-215.
101
Ivi, pp. 227-234.
89
Il testo di maggiore maturazione, dove si evince con chiarezza il
nesso centrale tra filosofia, educazione e politica, è Democracy
and Education, del 1916 che è da considerare uno dei testi più
diffusi e conosciuti del filosofo americano, ma anche uno dei
lavori centrali e più significativi della sua opera.
I primi quattro capitoli del lavoro analizzano le varie definizioni
del concetto di educazione (l’educazione come necessità della
vita, come funzione sociale, come direzione, come crescita). Dal
5° al 23° capitolo egli entra nel vivo della concezione
democratica dell’educazione nella scuola e al di fuori della
scuola.
Negli ultimi tre capitoli, dal 24° al 27°, egli tratta il tema delle
teorie della conoscenza, delle filosofie dell’educazione e morali.
Un testo, questo, che fa emergere i nodi centrali della ricerca
deweyana: la riaffermazione della “naturalità” dell’educazione, la
sua funzione necessaria nell’attività umana e interpersonale,
legata allo sviluppo progressivo dell’individuo in cui la crescita
(growth) biologica, psicologica e involontaria si unisce all’attività
intenzionale del crescere (growing).
In questo testo il filosofo americano riprende le tematiche già
sviluppate in The Ethics of Democracy e in The School and
Society.
La
democrazia,
come
way
of
life,
si
fonda
90
sull’educazione, e si presenta come l’unica possibile forma di
governo che favorisce lo sviluppo dell’individuo. Nel cap. IX del
testo, infatti, intitolato Natural Development and Social
Efficiency as Aims, egli afferma con chiarezza che la vera
efficienza sociale è lo sviluppo dell’individuo, delle sue
embedded powers, delle sue potenzialità inespresse e che
l’educazione nella scuola, ma anche fuori dalla scuola, è
fondamentale per il processo democratico.
Nelle battute finali del testo Dewey afferma che la filosofia «è
una teoria generale dell’educazione», una filosofia che non deve
essere solo astratta riflessione sull’individuo ma che, attraverso
l’educazione, dia un significato per risolvere i problemi degli
individui102.
Il testo del 1916 è quello in cui la sua filosofia è “esposta più
compiutamente”. L’educazione deve fondare la democrazia e,
proprio attraverso il metodo dell’intelligenza, deve sviluppare
quella “intelligenza creativa” che applica le potenzialità della
scienza per controllare lo sviluppo sociale e per costruire la
società. Dewey considera, dunque, la democrazia come il valore
fondamentale da perseguire e, proprio per questo, sostiene, in
102
J. Dewey, Democracy and Education, in The Middle Works, vol. 9 , SIUP,
Carbondale, 1980, p. 338.
91
polemica con il suo allievo Randolph Bourne, la necessità anche
di imporre la democrazia con la guerra e, nel caso specifico, per
giustificare l’intervento degli Stati Uniti nel primo conflitto
mondiale103.
Nel biennio 1918-1919, l’attività culturale del filosofo può essere
riassunta nell’articolo del 1919 Philosophy and Democracy, in
cui insiste sul rapporto organico tra filosofia, democrazia ed
educazione, riflettendo sul problema dell’individuo, «la cui
esistenza ha qualcosa di unico e irripetibile», che solo
nell’associazione
umana
può
comprendere
il
senso
dell’uguaglianza e della disuguaglianza.
Le vicende successive al primo conflitto mondiale, le questioni
territoriali dell’Europa e dell’integrazione multietnica degli Stati
Uniti del tempo, il problema centrale della costruzione della
democrazia di tradizione occidentale anche nel mondo orientale e
islamico (ad esempio in Giappone, in Cina e in Turchia),
costituiscono l’humus politico che fanno di Dewey l’intellettuale
che si lega meglio alla visione universalistica del presidente
Wilson104.
103
104
R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., p. 271.
Ivi, pp. 311-323.
92
La conseguenza filosofica è la comprensione dell’esperienza che
deve porsi al centro della riflessione filosofica. In questo senso
una “ricostruzione filosofica” dovrebbe, quindi, basarsi su un
nuovo concetto d’esperienza in cui i valori prefissati di verità non
esistono, ma sono messi in discussione nelle situazioni specifiche
e la dimensione estetica, la poesia, l’arte, l’immaginazione sono
fenomeni non separati dalla scienza e dalla tecnologia. Il filosofo
parla di una “ricostruzione” come espressione di una filosofia
sociale che si esprime nell’esperienza umana105.
La “ricostruzione” della filosofia che deve essere un processo
legato alle trasformazioni della scienza e della tecnologia, si
sviluppa proprio grazie al rapporto educazione-democrazia.
105
Cfr. J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, in Middle Works, vol. 12, SIUP,
Carbondale 1982, pp. 77-201.
93
3. Il Pubblico e i suoi problemi: educare alla Great
Community
Il problema dell’individuo e dell’associazione umana, però, non
può che legarsi a quello della ricerca delle possibilità di dialogo e
di associazione della vita umana, come il filosofo ci suggerisce
sia in Human Nature and Conduct del 1922, sia in Experience
and Nature del 1925.
La filosofia si può ricostruire solo mettendo in discussione la
tradizionale concezione della metafisica, secondo cui esiste
un’organicità assoluta o una soggettività trascendentale che
esprimono una valenza universale prevalente sulla particolarità
individuale. In Human Nature and Conduct del 1922 Dewey
analizza il ruolo della soggettività all’interno delle “abitudini”,
intese come “funzioni sociali” da migliorare e da trasformare
progressivamente verso il meglio106.
La comprensione del rapporto tra le abitudini e la loro
dimensione sociale è data dal senso complessivo della vita,
determinata da un “meccanismo flessibile” ma “indispensabile”
in cui è presente uno slancio che caratterizza l’esistenza umana.
106
Cfr. J. Dewey, Human Nature and Conduct, in The Middle Works, vol. 14, SIUP,
Carbondale, 1983, pp. 4-227.
94
La vita è fatta di “abitudini”. Sta all’individuo far sviluppare un
impulso specifico per andare oltre l’abitudine e superare le
situazioni cristallizzate della vita umana in altre situazioni
innovative.
Il rapporto tra l’impulso e l’abitudine fa emergere il significato
della libertà umana che deve esprimersi come la possibilità e il
desiderio per diventare decisivi nella scelta in rapporto agli
eventi. In questa prospettiva, la morale deve costituire un
fenomeno sociale, che solo il concetto di azione all’interno
dell’esperienza può chiarire.
Un’altra considerazione da proporre, avuto riguardo al testo del
1922, è che la caratteristica fondamentale del pensiero deweyano
è quella di non “rivoluzionare” il contesto sociale e politico in cui
gli eventi umani si svolgono, ma solo quello di modificare
progressivamente le “abitudini” sociali. In questo senso
l’educazione
rappresenta
un
elemento
fondamentale
per
comprendere lo sviluppo sociale umano.
In Dewey, quindi, il richiamo all’educazione, indispensabile alla
formazione politica della democrazia, è l’unico antidoto alla
distruzione dell’umanità in un tempo storico in cui le incertezze
delle democrazie occidentali preparavano alla nascita delle
95
dittature nazifasciste, e il bolscevismo post-rivoluzionario
determinava l’avvento dello stalinismo in Russia107.
Il luogo di riflessione più autentico, che porta ad un’ulteriore
elaborazione del rapporto che sussiste tra l’educazione e la
democrazia, è Experience and Nature del 1925, uno tra i testi più
noti della filosofia deweyana. Il tema centrale del libro è
rappresentato dall’esperienza che supera la tradizionale divisione
epistemologica cartesiana mente-materia, come già il testo
giovanile del 1886 Soul and Body lasciava intravedere.
Experience and Nature, anche nella riedizione del 1929, prende
le mosse dalla considerazione, contenuta nel primo capitolo, che
il metodo filosofico è qualcosa di naturale, che presenta i “tratti
generici”
del
cambiamento,
rappresentando
l’esperienza
complessiva della vita dell’organismo vivente. La vita esprime
un’attività comprensiva, in cui l’organismo e l’ambiente sono
inclusi. È indubbio, quindi, che il metodo filosofico a cui Dewey
fa riferimento è quello scientifico, basato su una continuità della
sperimentazione, ma è altrettanto vero che l’esperienza è un
fenomeno complesso e articolato in cui sono presenti sia gli
aspetti positivi che quelli negativi della vita umana.
107
Cfr. L. A. Hickman, Philsophical Tools for Technological Culture, Indiana
University Press, Bloomington and Indianapolis, 2001.
96
L’esperienza è il fondamento dell’esistenza umana che presenta
caratteri di precarietà e di stabilità. Un’esperienza come
applicazione concreta delle ipotesi della scienza “pura”, non
esiste. L’applicabilità più indicativa nell’esperienza umana è
quella che si riferisce alla comunicazione umana che, come già è
stato osservato in Democracy and Education, determina la
costruzione e la condivisione dei valori. L’esperienza è
espressione del rapporto individuo-ambiente, il living organism,
il circolo critico uomo-natura che dà significato all’esperienza
umana. Già nel secondo capitolo del testo dal titolo Existence as
Precarious and as Stable, il filosofo americano pone il problema
della complessità degli eventi naturali che caratterizzano
l’esistenza umana come stabile e precaria al tempo stesso, che si
costruisce e si evolve all’interno della situazione che educa un
uomo come una creatura che desidera, che lotta, che pensa, che
ha sentimenti108. La situazione è esperienza, in quanto espressione
di qualcosa di complesso e non statico che oltrepassa le
dimensioni della soggettività naturalisticamente intesa.
La natura è problematica ed è espressione di un’universalità che
non è finale, come il sistema aristotelico aveva teorizzato, ma
108
Cfr. J. Dewey, Experience and Nature, in The Later Works, vol. 1, SIUP,
Carbondale 1981, pp. 42-68.
97
“strumentale” nel senso che si “consuma” all’interno dell’attività
umana. La tradizione classica, quindi, aveva espresso una
concezione
dell’esperienza
che
poneva
il
pensiero
e
l’apprendimento come “fini in se stessi” e che si basava su un
sistema rigido che, dal punto di vista sociale, determinava la
divisione
in
classi
sociali.
L’esperienza
è
espressione
fondamentale di comunicazione e di significato che si può
definire solo grazie agli “strumenti”. Questi sono fondamentali
per costruire la realtà e per definire l’esperienza come qualcosa
che va continuamente ripensato.
La chiave per una corretta interpretazione sulla problematicità
della posizione dell’individuo nel mondo sta per Dewey
nell’azione umana, al tempo stesso naturale e sociale: oggetto tra
gli eventi naturali, “fine naturale” e soggetto che costruisce e
definisce i suoi valori comprendendo la difficoltà di definire le
operazioni mentali e culturali all’interno delle trasformazioni
della realtà. L’esperienza, in altri termini, è espressione del patire
e dell’agire, della sofferenza, della gioia, che sono entrambe
espressione della capacità di costruzione del mondo naturale,
sociale e politico.
In questo senso l’esperienza è il luogo in cui il living organism
sviluppa il “metodo dell’intelligenza”, ossia quel metodo che
98
determina la scelta dei valori in base alle trasformazioni
“transazionali” del soggetto e dell’ambiente. È proprio in questa
dimensione dell’esperienza che il filosofo americano coglie il suo
rapporto con l’arte, con la dimensione estetica. Non vi può essere
separazione tra la scienza e la costruzione estetica della vita.
Quindi, anche la politica ha bisogno della dimensione estetica e
educativa per potersi definire e realizzare.
In un articolo del 1926 Art in Education-and Education in Art è
chiarito dal punta di vista estetico l’ulteriore approfondimento
della soggettività. Il filosofo, dopo aver preso visione diretta del
ruolo che la democrazia riveste al di fuori degli Stati Uniti e dopo
personali valutazioni sui paesi visitati, quali ad esempio la Cina,
la Turchia, il Messico, nel 1927 con The Public and Its Problems,
offre una lettura illuminante sul tema della democrazia legata alla
“scoperta delle istituzioni” e, in particolare, dello Stato non solo
come l’istituzione rappresentativa degli interessi della società
civile, ma soprattutto come un’istituzione che va sperimentata e
ridefinita continuamente dall’attività politica e associativa.
Il
mondo
delle
trasformazioni
tecnologiche
e
della
comunicazione, “il nuovo mondo” (a cui profeticamente fa
riferimento il filosofo americano) deve ispirare la ricerca di una
“Great Community” che leghi la costruzione della democrazia
99
delle piccole comunità ad una democrazia planetaria, individuata
dal filosofo nel 1946 nell’Introduzione alla nuova edizione del
testo del 1927, nell’Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U).
Il concetto di Pubblico, definito in questo testo, chiarisce un
problema fondamentale: la democrazia è un ideale regolativo e
flessibile che si adatta alle varie possibilità dell’associazione
umana e che, soprattutto, deve limitare il potere delle élites
politiche. La filosofia, in questa prospettiva, non può che favorire
il processo di “civilizzazione” della storia umana proponendo la
costruzione di una nuova democrazia, grazie ad una teoria
educativa che aiuti la soggettività a scoprire gli orizzonti culturali
ed estetici dell’esistenza umana.
Il concetto di Pubblico, quindi, espressione dell’opera del 1927,
si poneva in contrasto con la visione di Walter Lippman, l’autore
che coniò successivamente il termine “guerra fredda”. Nei suoi
due testi, uno del 1922 Public Opinion e l’altro del 1925
Phantom Public, considerati oggi dei classici della sociologia
dell’opinione pubblica, l’autore metteva in evidenza la difficoltà
di poter educare una opinione pubblica consapevole. Anzi,
l’opinione pubblica era ritenuta da questo punto di vista,
100
manipolabile e, quindi, la democrazia era ritenuta altrettanto
difficile da realizzare se non come potere delle élites109.
John Dewey sostiene che il tema centrale della democrazia,
riprendendo quella che era la tesi della polemica giovanile con
Henry Maine, era da considerare la centralità dell’individuo nella
comunità e che, quindi, solo una educazione dal basso la poteva
costruire. Bisogna, quindi, partire dal basso, dalle piccole
comunità che in un certo senso possono dare la possibilità di
costruire una Great Community110.
Il riferimento di Dewey era sicuramente alla specifica situazione
storica degli Stati Uniti in grande crisi di identità democratica
prima della fatidica data del 1929, la grande crisi economica, ma
il suo messaggio, specialmente dopo i viaggi che dagli anni Venti
in poi avevano caratterizzato la sua attività di politico culturale,
di intellettuale di apparato dell’intellighenzia del tempo alla
ricerca di conferme sul valore della democrazia come modello da
diffondere nella comunità internazionale, era di carattere
universale.
Ai fini del nostro discorso complessivo sul rapporto tra
l’educazione e la democrazia, il testo The Public and Its
109
110
R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., pp. 351-389.
Ivi, pp. 399-400.
101
Problems risulta fondamentale, in quanto è espressione di un
ulteriore livello di approfondimento rispetto ai nodi concettuali
che erano emersi precedentemente sia in The Ethics of
Democracy e The School and Society, sia in Democracy and
Education.
Il concetto di Pubblico, infatti, testimonia la centralità e
l’importanza della comunità come comunità di individui che dal
basso possono determinare l’autentico cambiamento della
democrazia che in quell’epoca viveva in un momento di grave
crisi di identità, dovuta alla messa in evidenza delle grande
disuguaglianze sociali che la caratterizzavano. La crisi della
democrazia come rappresentanza politica era quindi superabile
attraverso una grande opera educativa dal basso.
Proprio per questo, ancora di più rispetto alla precedente
teorizzazione, la nuova dimensione del filosofare deve far
riferimento alla capacità della soggettività di intervenire nel
mondo
per
trasformarlo
senza
farsi
condizionare
dalla
tradizionale ricerca dell’immutabilità e della trascendenza, così
come mette in rilievo in The Quest for Certainty del 1929, ma
deve cercare il cambiamento educativo della democrazia.
Il soggetto conosce non attraverso le forme a priori della
conoscenza, ma attraverso asserzioni ipotetiche e probabili che
102
determinano una doppia caratteristica della soggettività: quella di
modificare la realtà attraverso l’uso della scienza e quella di
costruire valori per la definizione del “bene comune”.
Il rapporto tra l’educazione e la democrazia dagli anni ’30 in poi
è ancora di più lo sfondo complessivo della sua ricerca. Il
problema della filosofia e dell’educazione si lega più chiaramente
al tema della politica e della filosofia. In Individualism Old and
New, del 1930, il filosofo americano cerca di definire i concetti
d’uguaglianza e di libertà basati sulla costruzione di valori
condivisi.
Motivo questo, che giustifica la problematica di una nuova
soggettività legata alla definizione di un “nuovo individualismo”
che tiene conto della “scienza e della tecnologia” in quanto
espressione delle forze fondamentali del nostro tempo.
Nella terza parte della seconda edizione (completamente rivista)
del testo Ethics del 1932 dal titolo The World of Action, il
controllo sociale è evidenziato dall’affermazione di un’etica
pubblica che determina anche il controllo degli affari e
dell’industria. Il futuro che il filosofo americano intravede è
legato al ruolo dell’educazione in ogni espressione della società,
per migliorare l’etica della cooperazione sociale e per costruire le
possibilità di una nuova democrazia basata su una chiara
103
concezione del matrimonio e della famiglia in quanto espressioni
delle trasformazioni sociali e politiche del tempo e della libera
scelta degli individui. Il significato dell’ulteriorità del rapporto
soggetto-oggetto è il cuore di questa fase del pensiero deweyano
che trova nella dimensione estetica e in quella religiosa i suoi
punti di riferimento. La ricchezza della relazione intersoggettiva e
comunicativa tra gli individui chiarisce che il senso stesso della
comunità non può esistere senza la dimensione religiosa ed
estetica. Nei testi A Common Faith e Art as Experience, entrambi
del 1934, cerca di esplorare, sia pure attraverso prospettive
diverse, il valore della ulteriorità della soggettività.
La fede a cui Dewey fa riferimento è quella del genere umano e
per renderla esplicita e concreta il filosofo ricorre al rapporto con
l’educazione e la politica. In questo senso l’arte è la
dimostrazione dell’uso che l’individuo fa dei propri materiali,
non solo per agire sulla realtà, ma anche per rendere ulteriore il
senso della sua soggettività. Ciò significa fondamentalmente
l’accettazione
e
la
trasformazione,
al
tempo
stesso,
dell’esperienza con le sue incertezze, i suoi misteri e il suo
dubbio problematico e non metodico. Il filosofo dimostra che,
grazie all’arte, ogni azione umana può essere definita nella sua
complessità, sia dal punto di vista teorico che nelle sue
104
realizzazioni pratiche. L’arte si realizza nel mondo della
“civilizzazione”, nel mondo dell’industria e del capitalismo
avanzato perché definisce in modo chiaro la soggettività umana
nel suo processo di comunicazione sociale.
Solo un “umanesimo religioso”111 può tentare di rifondare il
significato della metafisica nella realtà e soprattutto il senso del
liberalismo sociale, com’è chiarito nel testo del 1935, Liberalism
and Social Action. Il liberalismo deve rinascere nella dimensione
sociale, in quanto ha bisogno di una programmazione sociale112.
Quello che traspare dagli scritti deweyani, fino alla Logic del
1938, è l’approfondimento del rapporto tra la democrazia e
l’educazione, con particolare riferimento a Horace Mann e alla
sua battaglia per una scuola pubblica e aperta a tutti. Nel 1936 nel
testo The Challenge of Democracy to Education, il filosofo
riferendosi alla nota frase di Horace Mann: «Education is our
political safety; outside of this ark is the deluge», pone il
problema centrale dell’educazione come salvezza del genere
umano113.
Il problema della soggettività è ripreso nello scritto The Logic:
The Theory of Inquiry, del 1938. Il modello dell’indagine, il
111
Cfr. Th. C. Dalton, Becoming John Dewey. Dilemmas of a Philosopher and
Naturalist, Indiana University Press, Bloomington 2002.
112
Cfr. R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., pp. 518-525.
113
Ivi, pp. 548-553.
105
“cuore” del problema della logica deweyana, esprime la necessità
di costruire una nuova logica sperimentale che non solo rifletta
sulle modalità di azione del soggetto sulla realtà, ma che metta
anche in discussione l’intera questione della filosofia e della
logica del pensiero occidentale. La logica deweyana va letta
anche come l’opera centrale del filosofo che vuole conferire un
significato nuovo alla ricerca logica, ma anche intende ripensare
radicalmente il problema del soggetto nella situazione specifica
dell’esperienza. La logica deweyana si propone, quindi, di
mostrare come il soggetto si caratterizza nella sua unicità e
irripetibilità all’interno della situazione specifica in cui opera e si
sviluppa. L’indagine è un modello continuista, secondo cui la
soggettività riequilibra progressivamente e linearmente la
situazione e in cui non emerge con chiarezza la dimensione
“transazionale” della soggettività e dell’oggettività.114 La
trasformazione delle situazioni problematiche nell’ambito sociale
è considerata, a tutti gli effetti, espressione di una gestione dei
conflitti, in quanto i fatti, che costituiscono la matrice esistenziale
della
situazione
problematica,
devono
essere
considerati
“ostacoli” o “risorse” per migliorare le situazioni.
114
Cfr. R. Calcaterra, Idee concrete. Percorsi nella filosofia di John Dewey,
Marietti, Milano 2011.
106
È sulla base della riflessione sulla soggettività nella Logic del
1938, che alcuni scritti successivi (Experience and Education e
Freedom and Culture entrambi del 1938 e Theory of Evaluation
del 1939) pongono in evidenza il rapporto educazione-politica.
Il progetto del filosofo è quello di costruire una democrazia
creativa che si ponga come un modo di vivere controllato da una
fede che lavora nelle possibilità della natura umana.
Questi aspetti trovano una sintesi finale sia in Problems of Men
del 1946 che in Knowing and the Known del 1949, scritto insieme
ad Arthur Bentley che, unitamente ad una notevole serie di saggi,
sia pure episodici e occasionali anche postumi, rappresentano
l’ultimo sforzo per chiarire il senso della sua riflessione sulla
soggettività.
Nel testo politico del 1946 è fondamentale la fede democratica
nell’educazione, in quanto espressione di un uso intelligente della
scienza e della tecnologia in un mondo uscito dalla catastrofe
della seconda guerra mondiale che si deve confrontare con la
tecnologia nucleare e con il mondo della contrapposizione
ideologica capitalismo-comunismo.
In altri termini, il nesso educazione-democrazia, messo in
evidenza in alcuni testi fondamentali del filosofo, costituisce il
filo conduttore complessivo della sua ricerca. La democrazia è
107
per il filosofo americano la democrazia dell’individuo, di un
individuo unico e irripetibile all’interno della situazione specifica
e problematica della vita e della storia. Ma senza l’educazione
nella scuola, ma soprattutto nell’azione culturale e politica la
democrazia, che esprime elementi di paideia e di humanitas
anche nel pensiero deweyano, non può realizzarsi. L’educazione è
un elemento naturale che si consustanzia con la democrazia in
modo totale con il pensiero deweyano.
108
CONCLUSIONI
L’assetto ideologico isocrateo e ciceroniano si configura come un
vasto e armonioso complesso di conoscenze che assicurano alla
persona umana la capacità di agire bene, orientandone le doti
naturali secondo postulati morali e politici, che realizzano
pienamente la formazione di una persona “attiva”, cioè
potenzialmente in grado di esercitare la propria umanità
all’interno delle istituzioni del tempo. È un nuovo umanesimo,
caratterizzato da una piena consapevolezza dei grandi problemi
dell’attuale condizione umana, del rapporto della persona con il
mondo.
Solo in questa dimensione culturale la persona umana può
emanciparsi dalla “perdita” della tranquilla idea di appartenenza
alla comunità legata alla tradizione, passiva e omologante,
acquistando quella sensibilità che consente di esprimere il senso
di identità culturale e civile nei confronti della collettività di
riferimento, diventando costruttore di civiltà nel proprio tempo e
per il proprio tempo, in una visione etica della convivenza
finalizzata al perseguimento del bene comune.
Infatti, la visione isocratea e, in particolare, quella ciceroniana,
dello stato era etica; e per tale ragione il governo doveva essere
109
retto da uomini politici che incarnassero delle precise
caratteristiche, qualità, virtù, come l’onestà, l’intuito politico, la
saggezza e l’intelletto, preoccupandosi soprattutto delle necessità
della comunità e risultando essere, così, i soli punti di riferimento
dei concittadini. Un uomo con tali caratteristiche viene definito
da Cicerone vir bonus dicendi peritus, e l’oratore isocrateo viene
accomunato proprio a questa tipologia di uomo, in quanto per
poter raggiungere i propri obiettivi senza usare la forza egli usa la
parola, l’arte del persuadere per garantire stabilità sociale. È la
definizione di una libera espressione dell’individuo che si
realizza nella valorizzazione delle potenzialità della persona
umana, che trova nella cultura la possibilità di esprimerle,
attraverso l’affermazione di un proprio stile di vita, che oggi si
chiama pluralismo, in cui convergono, armonizzandosi, profili
identitari tanto privati che pubblici.
Isocrate, Cicerone e Dewey vissero la concretezza della loro
epoca. Il primo arrivando, come abbiamo visto sopra, a dare vita
a quella che viene denominata partecipazione diretta dei discepoli
nella scuola, un metodo didattico da lui inaugurato che aveva
come finalità la preparazione dei giovani alla vita concreta e si
fondava sull’importanza della parola e della capacità di
espressione. Infatti, è ben noto che per Isocrate chi era capace di
110
possedere il logos e di farne l’uso corretto era in grado di agire
rettamente. E ciò poteva essere lo strumento per risollevare la
società greca di quel periodo dalla profonda crisi etico-politica in
cui versava.
Il secondo, Cicerone, considerava l’impegno politico una virtù
umana; una concezione che l’oratore latino ereditò dalla
tradizione greca, per l’appunto, come si evince dal De Republica
che scrisse organizzando le proprie idee su quelle platonicoaristoteliche, e in cui contestò apertamente le teorie epicuree e
stoiche. Si parla, infatti, di bìos synthetos, ovvero quella capacità
di unire la vita ‘attiva’ a quella ‘contemplativa’. Seguendo,
dunque, l’esempio della cultura greca, Cicerone ritiene che
l’uomo è in grado di usare la parola, di comunicare e dunque di
dare concretezza al proprio pensiero e per tale ragione dominare
gli altri suoi simili. All’elemento naturale si lega la realizzazione.
Ed è questo aspetto che garantisce, per Cicerone, il progresso, lo
sviluppo della comunità, e, dunque, dell’umanità. «Quando uno
Stato va incontro alla crisi [...], è un po’ come se tutto questo
intero mondo sprofondasse nella rovina e nella morte»115.
Infine, anche per Dewey, è la società che, tramite l’educazione,
deve fornire all’individuo strumenti precisi che gli consentano
115
M.T. Cicerone, De Republica, 3, 34.
111
una partecipazione attiva. È chiaro che l’esperienza di Dewey ha
come fondamento la profonda radice nei modelli di paideia e di
humanitas. La paideia, secondo il modello isocrateo, esprime le
caratteristiche della “potenzialità formativa” dell’individuo, i
cosiddetti “embedded powers” che costituiscono le possibilità che
l’individuo può realizzare soprattutto in politica.
Per quanto concerne il modello ciceroniano, vi è da dire che è
fondamentale come radice del pensiero deweyano, in quanto il
filosofo americano esprime una dimensione etica che deriva
proprio dalla centralità di un modello di soggettività, così come
delineato nel De Oratore di Cicerone, che, dopo aver fatto
rilevare le sue competenze, si realizza nella dimensione della
eticità.
I momenti culturali che sono stati esaminati all’interno del
pensiero di Isocrate, Cicerone e Dewey dimostrano come i
paradigmi educativi del tempo che ha espresso concezioni del
mondo così distanti, la paideia, l’humanitas, la democrazia, pur
con la prudenza interpretativa necessaria dovuta al fatto che nel
corso del lavoro ho approfondito solo alcuni momenti
significativi nella vastissima produzione di questi autori, rivelano
un tratto comune e cioè la centralità del rapporto tra l’educazione
e la politica.
112
La retorica per la polis, l’oratoria per la res publica, l’educazione
per la democrazia dimostrano inequivocabilmente come la
paideia, l’humanitas e la democrazia siano costantemente
espressione del rapporto educazione- politica e come, pur nella
improponibilità di una comparazione storica del pensiero degli
autori presi in considerazione, in essi si esprime una costante
sincronica e immutabile: quella dell’educazione finalizzata allo
sviluppo della persona e alla sua realizzazione politica, per
consentire all’individuo di partecipare in vario modo attivamente
alla costruzione del bene comune.
È probabile che la “naturalità” del problema educativo, intravista
ma non sviluppata completamente nel pensiero deweyano, si
leghi molto bene alla interpretazione dei tre autori e dei tre
paradigmi educativi presi in considerazione e diventi un
patrimonio culturale per reinterpretare le tematiche educative
della contemporaneità.
In definitiva, Isocrate, Cicerone e Dewey, attraverso i paradigmi
della paideia, dell’humanitas e della democrazia individuano la
ragione essenziale della loro opera di educatori nell’etica politica
che deve fondare qualunque comunità organizzata in Stato; e
laddove non esista un governo in grado di creare una coscienza
113
‘pubblica’ e ‘attiva’, solo l’educazione e la cultura diventano
fondamentali per lo sviluppo della civiltà umana.
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