UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE, DEI BENI CULTURALI E DEL TURISMO CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN THEORY, TECHNOLOGY AND HISTORY OF EDUCATION CURRICULUM THEORY OF EDUCATION CICLO XXV TITOLO DELLA TESI ISOCRATE, CICERONE, DEWEY MOMENTI E FIGURE DI EDUCAZIONE ALLA POLITICA RELATORE DOTTORANDO Chiar.mo Prof. MICHELE CORSI Dott.ssa ANTONELLA GRAVINA COORDINATORE Chiar.mo Prof. ROBERTO SANI ANNO 2013/2014 Indice INTRODUZIONE……………………………………...….p. 2 CAPITOLO I ISOCRATE LA RETORICA PER LA POLIS 1 - Il logos e la sua dimensione comunicativa…………...….p. 11 2 - Isocrate e la sua pedagogia……………………….…..….p. 24 3 - La parola e la politica………………………………...….p. 37 CAPITOLO II CICERONE L’ORATORIA PER LA RES PUBLICA 1 - L’ideale di humanitas……………………………………p. 43 2 - La cultura e la politica…………………………………...p. 54 3 - Formazione e politica……………………………………p. 66 CAPITOLO III JOHN DEWEY L’EDUCAZIONE PER LA DEMOCRAZIA 1 - L’etica per la democrazia………………………………..p. 73 2 - Democrazia e educazione: il nodo centrale……………..p. 88 3 - Il Pubblico e i suoi problemi: educare alla Great Community……………………………………………….p. 94 CONCLUSIONI………………………………………….. p.109 BIBLIOGRAFIA…………………………………….…….p.115 1 INTRODUZIONE Il presente lavoro di ricerca si propone di analizzare momenti fondamentali dell’educazione della persona umana alla politica, all’interno dei grandi paradigmi pedagogici dell’Occidente, la paideia, l’humanitas, la democrazia, intesi come valori da cui la formazione dell’individuo non può prescindere anche e soprattutto nel pensiero filosofico contemporaneo in relazione al suo rapporto con la politica e, in particolare, con la democrazia nel suo moderno e contemporaneo significato. Aspetti legati sia al mondo greco che a quello romano, che per essere compresi, analizzati e contestualizzati impongono un accenno ad un elemento chiave della dimensione pedagogica: il logos, ovvero la parola, il discorso. Ruolo della ‘parola’ e processo educativo si presentano, sin dai poemi omerici, come un connubio inscindibile. Il poeta greco, infatti, attribuiva enorme importanza a tutte quelle discipline che avrebbero reso un nobile e libero uomo un oratore modello, divenuto valido politico e militare con il solo scopo di servire e proteggere la propria polis. Essere capaci di comunicare, di discorrere, e, dunque, persuadere era una prerogativa essenziale per la politica democratica delle 2 poleis. Infatti, il fine della retorica è la persuasione, ossia capire come si riesce a condurre gli altri, senza apparente costrizione, a pensare qualcosa che prima non pensavano. La parola, la cui funzione è quella di mettere in relazione gli individui, non può slegarsi, dunque, dall’educazione; infatti, come è stato efficacemente affermato, «La poesia omerica trasmette [...] un modello educativo completo, destinato ad esercitare un’influenza duratura e pervasiva»1. Ci troviamo, così, innanzi ad una doppia dimensione, quella educativa e quella culturale, giacché le comunità arcaiche grazie al logos trasmettevano il proprio patrimonio culturale e valoriale. Inoltre, sono proprio la parola, il discorso, la comunicazione diretta a dare vita a veri e propri rapporti sociali, grazie appunto all’interazione tra le persone e, quindi, alla relazione educativa che è determinata non solo dal rapporto maestro-allievo, ma più in generale dal rapporto tra i cittadini e la comunità complessivamente intesa. Da questi aspetti, traspare la natura ‘paideutica’ del logos, da intendere come processo educativo che nei secoli ha vissuto in 1 L.R. Cresci, La retorica da mezzo di persuasione a promotore di memoria culturale, in A. Campodonico e L. Mauro, a cura di, L’uomo (in)formato. Percorsi nella paideia ieri e oggi, Franco Angeli, Milano 2011, p. 9. 3 simbiosi con altre dimensioni comunicative come, ad esempio, la scrittura. È Isocrate a realizzare l’incontro fra oralità e scrittura in una nuova dimensione culturale che rende entrambi “elementi formativi”, “elementi pedagogici”. Per tale ragione ho ritenuto necessario delineare i princìpi pedagogici della paideia con specifico riferimento a Isocrate, che riedifica l’ideale di paideia come valore universale che, partendo dal mondo greco, «[…] individua ciò che è specificamente greco con l’universalismo umano»2, per un’edificazione spirituale della comunità politica che ingloba e trascende al contempo le mete morali dell’individuo, in una visione panellenica, che non è errato definire cosmopolita. Isocrate, in cui come per tutto il mondo culturale greco, non è trascurabile l’influsso esercitato dai sofisti, propugnava l’insegnabilità della virtù, da leggere, però, in termini utilitaristici, giacché lo scopo era far conoscere prevalentemente quei valori maggiormente consoni e, per l’appunto, utili all’individuo e alla vita civile. A ciò si univa anche la retorica da intendere come metodo di comunicazione per eccellenza, in cui la W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, trad. it. L. Emery e A. Setti, Bompiani, Milano 2006, p. 1472. 2 4 dialettica e l’eristica costituivano i due momenti chiave. La parola era lo strumento per elogiare chi ne fosse degno e confinare nell’Ade chi lo meritasse. È la parola il cuore della paideia che agli inizi, ovvero prima di rivestire la funzione privilegiata e raffinata di elaborazione di assunti filosofici, aveva il potere assoluto di valutare le virtù. Con Isocrate la ‘parola’, il ‘logos’, che diviene parola scritta, discorso scritto, ha valenza di scienza e, nel contempo, si carica di forza politica. Logos, dunque, come strada dell’educazione e coscienza democratizzante e, a fortiori, democratica. Si vuole verificare quanto della retorica classica, come “tracciato” progressivamente precettistico, culturale ed etico e fondamento del processo formativo e modello educativo, si può rinvenire e come potrebbe essere un utile strumento interpretativo della società democratica attuale. La dimensione pedagogica del logos su cui si fonda l’idea di Isocrate di formazione della persona alla politica si può riscontrare nel progetto formativo di Cicerone basato sull’oratoria e, per certi aspetti, anche nella riflessione di John Dewey, sviluppata sui processi comunicativi dei valori democratici. 5 Tenendo conto di questo presupposto verranno esaminate alcune proposte educative, prendendo le mosse dall’analisi di alcuni aspetti del pensiero di Isocrate, passando, poi, per il maggior oratore e uomo politico latino, Cicerone, per approdare, in conclusione, a colui che ha trasformato il concetto di educazione nel Novecento, legandolo alla realizzazione della democrazia, John Dewey. In tale ricognizione, saranno presi in considerazione il metodo ‘paideutico’ isocrateo e il concetto di humanitas ciceroniano, cercando di tracciare delle linee parallele tra il mondo antico, sia esso greco che romano, e la realtà del Novecento – specialmente per quanto concerne il nesso tra educazione e democrazia -, tenendo ben presente che nel mondo greco la paideia indicava la formazione dell’uomo, in cui oltre alla pratica e alla teoria, si univa l’autoconsapevolezza e l’importanza dei valori che servivano alla cura del sé. La paideia, dunque, aveva il compito di sviluppare tutte le virtù, ma anche la capacità di comprendere gli accadimenti pubblici ovvero politici. Essa trova un’originale rielaborazione nell’humanitas latina, nata come costola della paideia greca, con la quale non si identifica, giacché 6 l’umanesimo greco era più cosmico che antropocentrico3. In tale processo, fondamentale è stato il tramite della riflessione greca dello stoicismo che, in particolare con Panezio, influì sul circolo degli Scipioni e su Cicerone. Ed è proprio a quest’ultimo che si attribuisce lo sviluppo del significato di humanitas come cultura enciclopedica4 e l’avere individuato nell’humanitas la natura umana universale. Cicerone, partendo dal concetto di humanitas e puntando l’attenzione sul processo di coscienza umana e di etica, nel De Oratore, del 55 a.C., tratteggia la figura del perfetto oratore, che non è solo colui che padroneggia la tecnica retorica, ma diventa anche un modello di cittadino e di uomo, un esempio per l’intera comunità. È una ripresa del tema catoniano del vir bonus dicendi peritus, dove il vir bonus è il cittadino onesto, impegnato politicamente, che mira al bene della patria. Nel mondo romano Cicerone, nel De Oratore e nell’Orator (46 a.C.), nonché in altre opere, si fa deciso sostenitore dell’idea di una formazione globale ossia sintesi di eloquentia e sapientia, che rappresenta lo strumento necessario per concretizzare il proprio impegno civile e politico, la possibilità per i cittadini di 3 Cfr. K. Papaioannou, Nature et histoire dans la conception grecque du cosmos, in “Diogene”, 25, 1959, pp. 3 e ss.. 4 Cfr. P. Boyancé, Etudes sur l’humanisme cicéronian, Latomus, Bruxelles 1970. 7 intervenire nella vita pubblica e nel dibattito politico, analogamente a quanto era avvenuto in Grecia. Gli autori presi in esame sono stati scelti perché il loro pensiero si è sviluppato non scindendo mai i valori della paideia (Isocrate), dell’humanitas (Cicerone), dell’educazione (Dewey) dalle istituzioni pubbliche del tempo, intese come dimensioni in cui l’individuo realizza se stesso in un’ottica pubblica. Le numerose e continue discussioni sul concetto di democrazia, anche attraverso l’utilizzazione dell’emblema della persona come cittadino del mondo, portano a una sua visione astratta, che fa della democrazia un valore che non viene riconosciuto nella realtà dei fatti come tale. La democrazia, come piena valorizzazione della persona umana nella sua integralità, da sempre oggetto di dispute civili e militari, politiche e filosofiche, trova ancora oggi ostacoli alla propria realizzazione. Isocrate, Cicerone, Dewey, hanno rappresentato, in tre differenti periodi storici, tre modelli educativi caratterizzati da una visione etico-politica capace di fondare un’idea di comunità che si riflette all’interno di un processo politico che trova nella retorica il proprio fondamento. Werner Jaeger, nella sua mirabile opera sulla formazione dell’uomo greco, affermava: «La nuova retorica doveva trovare il modo di farsi banditrice di un ideale, di uno 8 scopo, che fosse eticamente sostenibile ma nello stesso tempo suscettibile di pratica applicazione politica. Era, questa, una nuova etica nazionale […]»5. In definitiva, Isocrate, Cicerone e Dewey sono convinti fautori di nuovi modelli culturali in grado di ripensare il legame sociale tra l’individuo e la comunità di appartenenza, giustificare nuovi assetti politici e nuovi scenari nella società umana del loro tempo, in cui l’educazione diventa lo strumento fondamentale. Ho ritenuto suddividere il presente lavoro di tesi in tre capitoli. Essendo l’argomento legato alla retorica, al logos, alla comunicazione, alla virtù e, in generale, ai fattori che concorrono alla formazione della persona, tratterò, dapprima, dell’educazione isocratea, soprattutto attraverso la riflessione sugli scritti Contro i Sofisti e Sullo scambio, poi di quella ciceroniana, attraverso riferimenti al De Oratore, per quanto concerne il modello dell’oratore/politico, e ad altre opere di interesse, ed, infine, prendendo le mosse da questi due modelli, espressioni significative della paideia e dell’humanitas, concluderò con John Dewey, uno dei maggiori filosofi e pedagogisti del XX secolo, in cui appare evidente come la centralità dell’individuo nella realizzazione delle sue potenzialità, determina la realizzazione 5 W. Jaeger, Paideia, cit., p. 1426. 9 etica dello stesso solo nella politica e nella democrazia, come in Isocrate e in Cicerone. 10 CAPITOLO I ISOCRATE: LA RETORICA PER LA POLIS 1. Il logos e la sua dimensione comunicativa La scelta di partire da Isocrate è fondamentale perché per il retore ateniese chi sa far buon uso del logos, come facoltà intellettiva e parola, sa agire in maniera retta ed è utile alla comunità. Egli fece delle proprie orazioni degli esercizi per tutti quei giovani che frequentavano il cursus scolastico. Isocrate, vissuto nel IV secolo a.C.6, si impegnò nella cura e nella formazione del cittadino di estrazione sociale elevata, è considerato, infatti, un grande maestro di retorica - quarto tra i dieci famosi oratori attici nel Canone Alessandrino - intesa come disciplina madre tra le altre e la sola in grado di portare successo, e maestro della nuova classe dirigente che propugnava l’educazione come sostrato dell’etica sociale. Allievo di Gorgia e contemporaneo di Platone, egli 6 Isocrate nasce ad Atene nel 436 a.C. da una famiglia benestante che gli procura un’accurata educazione attraverso l’insegnamento di maestri sofisti Protagora e Gorgia. Dal 402 al 392 è costretto ad esercitare l’attività di logografo, poiché il padre cade in disgrazia durante il conflitto fra Atene e Sparta. Non partecipando direttamente alla vita politica attraverso il prestigio ottenuto con la sua scuola Isocrate non perde occasione di intervenire nel dibattito politico rivolgendosi ai grandi protagonisti dell’epoca con lettere, messaggi, orazioni e consigli. Morì nel 338 all’età di novantotto anni in coincidenza della battaglia di Cheronea che segna la dissoluzione del sogno panellenico. 11 organizzò un piano educativo basato sulla retorica criticando la visione pedagogica dello stesso Platone7. La tensione dell’individuo, dell’uomo, della persona, verso la conoscenza, verso il sapere, si rivela nel momento in cui si instaura già una prima relazione, una prima comunicazione gestuale o verbale8. Ciò avviene sin dalla nascita, a partire dalla quale l’uomo cerca una comunicazione con l’ambiente che lo circonda, che lo ospita al fine di adattarsi e rispondere il più correttamente possibile agli stimoli da esso prodotti. Il logos, come veicolo comunicativo è lo strumento per eccellenza a cui l’uomo fa appello sia per educare, sia per apprendere, sia per autodifesa, sia per trasmettere i propri valori e quelli della comunità di appartenenza, sia per rinsaldare i legami con i propri simili. E nell’Atene antica la particolare importanza rivestita dal logos aveva anche una natura extra-terrena: il logos in quanto discorso non fu avvertito come un dire umano, ma come la voce dell’essere, come espressione del ‘divino’. Cfr. D. Pesce, Le due culture nell’antichità: Isocrate e Platone, in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, 76, 4, 1984, pp. 585-591; L. Spengel, Isokrates und Platon, “Abhandl, der philos –philol. Kl d. konigl.bayer. Akad . d. Wiss.”, Munchen 1853, VII, 1. Si veda l’Antidosis di Isocrate e il Protreptico e l’Esortazione alla filosofia di Aristotele, come risposta alle critiche isocratee. 8 Cfr. Cicerone, De Officiis (44 a.C.), in cui si trova espresso il concetto secondo cui la tendenza alla conoscenza rientra tra gli impulsi fondamentali dell’uomo. 7 12 Il logos, ovvero discorso, ragionamento, nella terminologia filosofica presenta varie sfumature. Ad esempio, per i presocratici il logos è il principio supremo della realtà che la struttura in leggi razionali; in pratica, il logos è la razionalità immanente alla realtà e a un tempo l'espressione di questa razionalità nel discorso umano. Si pensi ai sofisti, a un totale abbandono della portata metafisica in favore del significato puramente discorsivo; a Platone per il quale il logos è la ratio umana, che si esprime nella forma più alta di conoscenza, cioè la conoscenza delle idee o dialettica; e, ancora, ad Aristotele, per il quale il logos è il concetto razionale ricavato dalla realtà attraverso l'astrazione. Gorgia di Lentini, uno dei padri fondatori della retorica antica, dedica all’analisi del logos e al suo carattere ambivalente circa un terzo dell’intero Encomio di Elena. Il logos si manifesta non solo nella sua funzione propriamente persuasiva, ma anche in quella estetica e gnoseologica. In principio era il logos, una e sola dimensione che permetteva alle comunità arcaiche di trasmettere la propria cultura e i propri valori. La parola, il logos, è formazione; ed è proprio la Grecia la madre del logos, della trasmissione orale, il poeta educatore, l’aedo-rapsodo la cui parola, suggerita per ispirazione dalla Musa, riesce a comunicare a qualsiasi individuo il patrimonio di conoscenza. La parola era, 13 infatti, per i Greci principio di verità assoluta, ma anche funzione sociale. Essa aveva un duplice valore: era ‘educazione’ perché trasmetteva la memoria storica e culturale delle generazioni passate; era ‘formazione’ quando esortava l’uomo all’agire. La parola, facoltà tipicamente e unicamente umana, ha sempre avuto un ruolo di rilievo nelle più svariate culture, non solo in quanto forma di comunicazione primaria e più immediata, ma soprattutto come κτημα εις αεί, (possesso per l’eternità), determinante nel presente e preziosa per il futuro. Nacque come epos, parola destinata a durare nel tempo, si sviluppò come logos e in seguito si differenziò nei vari campi del sapere, fondendosi con l’arte dello scrivere. La sua rilevanza è facilmente riscontrabile nella mitologia e nelle leggende che, tramandate oralmente per secoli, rappresentano le origini i tratti costitutivi dei diversi popoli. Con le orazioni di Isocrate il logos diviene anche scrittura, assumendo una dignità scientifica, ma soprattutto politica. Il buon uso della parola diventa il requisito indispensabile di chi vuole e deve agire rettamente all’interno della polis. La parola scritta, però, ha valore educativo se si unisce all’oralità che già rappresentava uno strumento educativo ma anche il solo metodo per conservare il patrimonio culturale per mezzo della ripetizione. 14 Infatti, i designati a tale compito erano principalmente il poeta cantore, il rapsodo, l’aedo ispirati dalla Musa i quali abitavano in un mondo intermedio tra quello divino e quello mortale. Apprendere significava ascoltare e ripetere quanto udito mediante un’operazione mnemonica relativa all’utilizzo di forme metriche e paratassi. La retorica è la maestra del “parlare ornato” che nasce come veicolo di persuasione opposto al parlare ordinario. Per tale ragione essa era anche elocutio, complementare alla grammatica, che consentiva l’elaborazione di discorsi di elegante semplicità ma mostranti una notevole padronanza dei mezzi compositivi. Il logos prima dell’avvento della scrittura era il solo veicolo di divulgazione culturale, l’unico mezzo per trasmettere conoscenza, ma anche preservare ai posteri la cultura valoriale della propria comunità. Nel momento in cui all’oralità si affianca la scrittura, avviene che la conoscenza, la cultura, il patrimonio valoriale, la paideia si posizionano sia nello spazio che nel tempo. Infatti, i grandi retori della storia del pensiero filosofico sono stati anche grandi teorici delle regole retoriche tecniche, pratiche, così da mutare la comunicazione in una tecnica di insegnamento. «La paideia o ‘istruzione scolastica’ nell’epoca ellenistica, così come aveva preso forma e come s’era diffusa in ogni polis dell’area mediterranea, comportava allo stadio 15 superiore, la formazione che si riceveva da un maestro di retorica»9. Ed è proprio quando l’uomo si è reso conto dello straordinario potere di questa forma di comunicazione che nacque la τέχνη ρητορική, l’arte del saper parlare; questa si sviluppò nell’Ellade, ma si istituzionalizzò in tutta Europa solamente con l’avvento dell’Impero Romano e con la contaminazione dei valori e dello ius latino. La retorica è il tentativo di mettere sullo stesso piano lingua parlata e lingua scritta, di conciliare i princìpi tecnici con le circostanze e con gli obiettivi che ci si è preposti10. La retorica antica, seppur nella sua dubbia natura originaria, ossia se nacque come retorica politica, volta a convincere i cittadini durante i pubblici dibattiti, o come retorica giudiziaria, nata dai processi di proprietà intentati all’indomani del rovesciamento dei regimi tirannici in Sicilia nel V secolo a. C., era un’arte e come tale doveva essere insegnata da un modello, maestro di retorica. Essa precisa le cause del convincimento soprattutto per mezzo di forti 9 B. Standaert, La Rhétorique ancienne dans Saint Paul, in A. Vanhoye, a cura di, L’Apôtre Paul. Personnalité, Style, et Conception du Ministère, Leuven University Press,1986, p. 78. 10 Aristotele ci tramanda che furono i sofisti coloro che iniziarono ad utilizzare il logos per persuadere; tuttavia, il termine τέχνη ρητορική fu usato per la prima volta dal retore Corace intorno al 465 a.C.: i coloni, infatti, dopo la cacciata del tiranno Trasibulo, persero le loro terre, e Corace fece un discorso per difendere i propri concittadini. 16 argomentazioni, frutto di opinioni autorevoli, e solo in un secondo momento mostra attenzioni ai risvolti psicologici. Quando si parla di retorica il discorso non può che prendere le mosse da Isocrate, principale esponente della branca epidittica della retorica11 e allievo del sofista Gorgia di Lentini. La peculiarità del discorso isocrateo, al di là della cura formale e del pregio artistico, consisteva nel legare la retorica alla dimensione morale e al contesto politico12. La cura che Isocrate diede ai discorsi ci mostra il valore assoluto che egli attribuì al logos, un potere in grado di restituire ad Atene la centralità del passato13. Isocrate riteneva che il metodo educativo della retorica si basava sulla capacità di operare secondo ragionevolezza e buon senso. La paideia isocratea nasceva, infatti, con lo scopo preciso di superare i frazionamenti politici interni al mondo greco delle poleis, quasi un malessere congenito, per rigenerare uno spirito nazionale in un’ottica panellenica, anche per far fronte alle minacce rappresentate dai barbari e, in particolare, dall’esercito persiano. Una paideia, dunque, che riflette un’essenza politicoAristotele, nella Retorica, unico trattato dell’antichità pervenutoci su questo argomento, dopo avere proposto in apertura dell’opera una definizione della retorica in quanto techne, suddivide l’oratoria in tre generi, giudiziario, deliberativo, epidittico. 12 Cfr. L. Bellatalla, G. Genovesi, Isocrate ovvero l’educazione innanzitutto, Anicia, Roma 2013, p. 51. 13 Isocrate, infatti, fu uno dei più convinti sostenitori e fautori dell’unità della Grecia e di tutte le sue città intorno alla capitale ateniese contro soprattutto l’avanzata persiana. 11 17 pedagogica, politico-filosofica, in cui al rigore dello studio si affiancava l’importanza della relazione, della comunicazione14. Isocrate così facendo elabora un programma educativo molto vasto che comprendeva discipline diverse che andavano dalla ginnastica alla grammatica, dalla disciplina filosofica, umanistica, e così via, programma in cui le scienze matematiche, l’astronomia, la geometria, le scienze naturali rivestivano minore importanza in quanto contribuivano in minor misura all’acquisizione da parte del politico di strumenti di pensiero, di comprensione e di giudizio utili alle responsabilità di governo. Isocrate è fermamente convinto che ogni cultura che mira ad essere più di una formazione specialistica professionale debba essere cultura politica. Una “paidèia”, una “aretè” che intendevano dare valore all’arte della parola, elemento efficace e fecondo dell’apparato educativo che deve contemplare valori morali e civili. Isocrate, dunque, proprio per questo va considerato un maestro della comunicazione oratoria che apre la strada a una più compiuta metodologia della comunicazione formativa, che, per aver attribuito grande importanza alla parola, alla cultura, 14 Cfr. Isocrate, Panegirico (380 a.C.), in cui la comunicazione oratoria diventa compiuta metodologia della comunicazione formativa, diretta ad educare e non solo a formare politici-oratori. Cfr, anche, L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 2001. 18 all’interazione, alla fiducia nei valori etici, viene considerato un importante rappresentante della filosofia retorica e dei valori classici: «Non si può istillare con l’insegnamento la saggezza e la giustizia nelle ‘cattive nature’: si può invece apportare un notevole miglioramento con lo studio dell’eloquenza politica»15. Isocrate è stato, dunque, una figura chiave per la storia della filosofia e dell’educazione e per la comunicazione; è da lui che si dipana quel filo che porterà al discorso esplicito sulla “comunicazione formativa”, incarnando vieppiù esigenze oratorio-retoriche e filosofiche, divenendo un modello importante di paideìa classica. Il modello educativo isocrateo prima ancora che tecnico doveva essere “umanistico”, teso cioè a valorizzare le prerogative che rendono l’uomo un essere superiore rispetto a tutti gli altri: il pensiero e la vita associata. È da un umanesimo etico e politico che trae vigore il concetto di paideia, della formazione spirituale e culturale dell’uomo e del cittadino che, per Isocrate, si fonda, appunto, sull’arte della parola, innato elemento civilizzatore che distingue l’uomo dalle bestie, nonché manifestazione del pensiero, nonché “timbro” distintivo dei Greci e loro forza intellettiva. 15 Cfr. Ivi, p. 417. 19 Essa si configura, quindi, come un vasto e armonioso complesso di conoscenze che assicurano all’uomo la capacità di parlare bene e di agire bene, orientando secondo postulati morali le doti naturali16. Per il retore greco la parola è l’elemento vantaggioso per la salvezza dello Stato, ossia egli ritiene che la cultura, l’educazione, la relazione comunicativa elevano l’uomo alla saggezza e alla moralità a vantaggio dello Stato. Educazione e cultura, retorica e politica si trovano così accomunate in un’unità inscindibile. L’educazione intellettuale e morale dei giovani, secondo Isocrate, non deve aspirare a una irraggiungibile verità assoluta, come, a parere di questi, pretendeva la filosofia, in particolare quella platonica, ma adattarsi alle esigenze della vita pratica, formando uomini assennati, equilibrati ed esperti, attivi tanto nella vita privata che in quella pubblica, all’interno della irrinunciabile dimensione del bene comune. Lo storico Henri Marrou scrive sul pensiero educativo del retore ateniese: «È Isocrate che, generalmente, ha prevalso ed è divenuto l’educatore della Grecia e poi di tutto il mondo antico.[..] La retorica è rimasta lo scopo specifico dell’alto insegnamento greco, dell’alta cultura. [...] Da Isocrate in 16 Cfr. J. Lombard, Isocrate. Rhétorique et education, Klincksieck, Parigi 1990. L’Autore fa rilevare come più che il talento in sé è importante l’uso che si fa delle proprie inclinazioni, valorizzando più che la dimensione casuale del talento quella dell’esercizio, che, verosimilmente, definisce il processo educativo. 20 poi la retorica non ha mai cessato d’essere praticata come la forma normale dell’educazione superiore. [...] Imparare a ben parlare significava nello stesso tempo imparare a ben pensare, e anche a ben vivere. [...] Paideìa [...] designa contemporaneamente educazione e cultura; […] la distinzione, tra noi tanto netta, fra “cultura” e “educazione”, tendeva necessariamente ad annullarsi»17. Indubbiamente Isocrate viene considerato il “fondatore della cultura umanistica”, però - come sostiene Berti - solo di un certo umanesimo, quello retorico-letterario che si contrappose all’umanesimo scientifico di Platone18. Lo spirito e la funzione della paideia di Isocrate, in particolare nell’orazione Sullo scambio (353 a.C. ca.)19, si rivela come una possibile educazione anche per l’uomo del nostro tempo proiettato verso la comunità, la cui azione trova la sua naturale Cfr. H. I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 2008 (I ed.1966), pp. 266-268. 18 Cfr. E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1997 (1^ ed. 1962), p. 89; M. Simoncelli, Isocrate, in J. M. Prellezo, C. Nanni, G. Malizia, a cura di, Dizionario di Scienze dell’Educazione, LAS, Roma 1997. 19 Intorno al 356 a.C. fu intentato ad Isocrate un processo giudiziario da parte di un suo concittadino, tale Megacleide, a cui la città di Atene aveva imposto la cd. Trierarchia, ossi l’obbligo di finanziare l’allestimento della flotta. Era una forma di contribuzione straordinaria (liturgie) che lo Stato imponeva ai cittadini più ricchi. Il destinatario di tale obbligo aveva la possibilità di esimersi da esso se dimostrava che un altro cittadino era più ricco di lui e chiedere di scambiare con questi i propri beni. Megacleide fece ricorso, appunto, a questa procedura nei confronti di Isocrate, che perdette la causa e fu costretto a sostenere a sue spese la liturgia. Il discorso pronunciato in difesa del retore costituisce, a prescindere dalla cornice giudiziaria, la fonte principale per analizzare e comprendere spirito e funzione della paideia di Isocrate. 17 21 destinazione nella tensione al bene comune, che è valore in sé nel quale trovano pieno soddisfacimento il singolo e tutta la comunità degli uomini. La concezione isocratea della cultura e dell’educazione risulta estremamente importante in una prospettiva pedagogica ancora da esplorare e da chiarire. Infatti, essa definisce un percorso formativo fondato su un sapere che garantisca la facoltà razionale di orientarsi nel presente scegliendo e facendo propri i punti di vista più utili alla propria comunità. Come noto, la scuola di Isocrate si propone, mediante il dominio della paideia, di incidere sulla realtà attraverso un piano educativo fondato sulla virtù agita nel quotidiano, di gran lunga preferibile ad ogni astruso percorso dialettico, in implicita polemica con il pensiero platonico. Il dominio del sapere e la connessa facoltà raziocinante si traducono in requisiti di cittadinanza indispensabili ad un’utile collocazione di ogni persona nella comunità organizzata di appartenenza. In Isocrate è evidente il legame fra scuola e società. L’allievo di Isocrate doveva appropriarsi delle “idee” - intese come forme del discorso laddove questo è strettamente connesso al pensare, come traduce il binomio phronein kai leghein -, che davano forma a determinate realtà conoscitive, integrarle nel proprio modo di pensare e di esprimersi, saperne giustificare il valore. Per paideia, 22 può intendersi, dunque, «[…] una certa idea dell’uomo, della persona umana, della sua libertà, delle esigenze del suo sviluppo e dell’ideale che bisogna seguire, del senso della vita […], cioè […] il processo di realizzazione che travalica l’età adulta e non finisce mai, dell’ideale umano, il perseguimento di quel pieno sviluppo dello spirito che si chiama cultura, comune a quelle persone che fanno parte di una medesima civiltà»20. In Isocrate, dunque, il percorso di istruzione contempera due aspetti inscindibili e complementari: la valorizzazione della persona umana che, pure ispirandosi a modelli di riferimento, è capace di esplicare la sua identità in maniera unica e irripetibile; la destinazione politica dell’insegnamento. Questa struttura ideologica ha ispirato l’ideale educativo della politichè philosophia prima in ambito romano per poi influenzare lungamente la concezione educativa dell’Occidente. La valenza pragmatica insita nell’ideale formativo di Isocrate si presta a vincere le resistenze della cultura romana, tradizionalmente avversa ad un pensiero filosofico e speculativo che poteva tradursi in forme di inadempimento ai doveri civili e politici verso la res publica. 20 J. Lombard, Isocrate, cit., p. 134. 23 2. Isocrate e la sua pedagogia Il programma culturale di Isocrate definisce un metodo paidèutico che contempla in sé la formazione, l’educazione, l’istruzione da intendere come aretè (virtù), in quanto emblema di esso è la ‘parola’ che trova la sua esplicazione finale nel programma educativo. La ‘parola’ è, dunque, comunicazione; l’oratoria’ è comunicazione formativa, è ‘virtù’ che non assume come principio la ‘insegnabilità’ (didaktòn) propria del pensiero socratico-platonico, ma mira a orientare positivamente le ‘cattive nature’ mediante un costante studio dell’eloquenza in senso politico21. Isocrate, infatti, in linea con l’insegnamento gorgiano fonda un modello educativo legato strettamente alla retorica, che si svuota di artificiosità e acquista dignità e spessore in quanto espressione massima dello spirito. Essa non si prefigge, dunque, il raggiungimento di verità assolute ma più semplicemente, lavorando nella realtà, l’operare usando la ragione, l’intelligenza, il buon senso. E ciò può realizzarsi solo in chi possiede un’indole preposta a fare ciò, una physis22. Alla base, infatti, del modello 21 Cfr. Isocrate, Encomio di Elena (390-380 a.C.), 21. Cfr. Isocrate, Contro i Sofisti (390 a.C. ca.), 14-15; Id., Sullo Scambio o Antidosis (353 a.C. ca.),189-190. 22 24 isocrateo vi è la ‘predisposizione naturale’ che si lega all’esercizio delle facoltà intellettive che trovano la loro valorizzazione nell’uso accurato della parola. Un esercizio che per essere corretto e valido, fecondo e positivo, deve essere organizzato e controllato da un ‘esempio’ da un ‘modello’, rappresentato dal maestro, effige dell’esperienza23. Mettendo insieme tutti questi elementi si dà vita ad un ‘modello educativo’, in cui l’arte della parola diviene simbolo per coloro che la vorranno esercitare in situazioni pubbliche ovvero politiche. Un modello che Isocrate definisce “philosophia” ovvero la costanza della parola e l’uso che se ne fa nella prassi 24. Infatti, questi, nel disegnare il proprio progetto educativo, sottolinea l’importanza di sapere cogliere e modificare una eventuale realtà scomoda o qualsiasi problematica sociale e politica. Questo aspetto va sotto il nome di ‘utilità’ (symphèron). Per il filosofo è sterile la ricerca di verità assolute che hanno una base di partenza scientificamente misera, povera, ma è importante e fruttuosa la ‘ragione’ e l’uso che di essa si fa25. «Il puntiglio nella ricerca di verità scientificamente indiscutibili viene visto 23 Cfr. Isocrate., Contro i Sofisti, 16-17. Cfr. M. Marin, Confronto tra il progetto pedagogico d’Isocrate e il progetto pedagogico di Platone: paideia letteraria o paideia scientifica?, in “Salesianum”, 69, 2007, pp. 421-451. 25 Cfr. Isocrate, Encomio di Elena, 5. 24 25 come indizio di una immaturità che non accetta di misurarsi nel faticoso campo dell’empeiria, al fine di cercare una linea d’azione tendenzialmente giusta, sulla base dell’analogia istituita tra parlare bene e agire bene»26. Come si è detto, Isocrate fu un autorevole pedagogo che nel 390 a.C. fondò una scuola di retorica ad Atene, frequentata da molti giovani rampolli, provenienti dalle famiglie aristocratiche più in vista della città di Atene, proponendo metodi didattici molto innovativi per l’epoca. Egli, infatti, portava avanti una formazione non tecnica ma pratica; una pratica imitativa condotta sugli scritti del maestro, ossia quest’ultimo si proponeva come modello attraverso la lettura delle sue orazioni, a cui seguivano delle esercitazioni pratiche degli allievi stessi27. Compito del docente è quello di curare la crescita nella dignità e nel ragionamento di quegli allievi che dimostrano una naturale inclinazione all’apprendimento, preparandoli alla partecipazione concreta e costruttiva al mondo della cultura e della politica. «L’allievo oltre ad avere le necessarie qualità naturali, deve apprendere i procedimenti retorici ed esercitarsi nel loro uso; e il maestro da parte sua deve essere capace di esporli così 26 L.R. Cresci, La retorica da mezzo di persuasione a promotore di memoria culturale, cit. p.19. 27 Cfr. F. Ceselin, La paideia umanistica di Isocrate, in “La Pedagogia”, 1970/1971, vol. VIII, p.49. 26 esaurientemente, da non omettere nulla di ciò che si può insegnare, e per il resto proporre se stesso come esempio. In tal modo i discepoli da lui modellati e capaci di imitarlo, appariranno subito oratori più fioriti e piacevoli degli altri»28. Un metodo educativo che, come dimostrato in alcune opere quali Nicocle (368 a.C. ca.) ed Evagora (365 a.C. ca.)29, ma soprattutto Contro i Sofisti (390 a.C. ca.) e Sullo scambio, era prevalentemente rivolto alla prassi. Queste opere sono l’espressione dell’identità di Isocrate come facitore di un progetto educativo che aveva la finalità assoluta di curare, tutelare la città di Atene, la vita degli Ateniesi e di tutto il mondo greco, con un respiro panellenico. La paideia isocratea assume un peso notevole nella cultura e nella politica di quel tempo. Nonostante egli non scrisse mai un manuale teorico di retorica, in realtà fondò uno stile all’interno della prosa greca, che si impose per efficacia e autorevolezza anche nei secoli successivi. Non solo il suo linguaggio calibrato e perfetto fu ripreso da Cicerone e fu considerato il gioiello dell’atticismo, ma la sua particolare attenzione per la paideia ha 28 Isocrate, Contro i Sofisti, 17-18. Le due opere, Nicocle ed Evagora, insieme a A Nicocle (370 a.C. ca.) costituiscono i cd. discorsi “ciprioti” rivolti ai sovrani di Cipro. Il primo contiene i vantaggi del buon governo e i doveri dei sudditi, il secondo è un encomio per la cerimonia funebre del sovrano, il terzo riguarda le istruzioni sui doveri del buon principe. 29 27 destato l’attenzione della Roma imperiale ispirando la scuola di retorica di Marco Fabio Quintiliano. Isocrate è una figura chiave nella fase di transizione dalla diffusione prevalentemente aurale delle opere di letteratura a una pubblicazione che si avvale in misura sempre maggiore del tramite della scrittura. Questi non si rivolge più al pubblico di una ben determinata occasione di esecuzione, ma a tutti quelli che saranno raggiunti dai suoi scritti. Le varie opere di Isocrate, tutte in forma di orazione fittizia o di epistola, appartengono a una serie di nuovi generi letterari ibridati che usano le forme della tradizione adattandole e combinandole in vista della nuova occasione che si viene a creare e che è, appunto, la pubblicazione scritta. In questo senso lo sperimentalismo di Isocrate, non privo di una sua sistematicità operativa, apre la strada alle grandi innovazioni nella teoria e nella prassi dei generi poetici che caratterizzeranno l’età ellenistica, alla quale si attribuiva tradizionalmente la scoperta di una nuova concezione del fatto letterario. Isocrate non si limita, infatti, a elaborare generi letterari funzionali alla pubblicazione scritta, ma li inquadra in una teoria e individua nella perfezione formale il tratto specifico e caratterizzante della letteratura. 28 Inoltre, egli dà molta importanza alla poesia e agli autori classici, così come alla grammatica, posti a fondamento del proprio programma di formazione. Con l'apertura di una scuola in cui l'insegnamento dell'arte retorica costituiva la parte fondamentale, Isocrate si oppone al programma educativo di Platone, che riteneva essere invece la filosofia la forma più alta di educazione. Si inaugura così in maniera ufficiale il “conflitto tra retorica e filosofia”, contesa che darà inizio ad un fervido dibattito all'interno del mondo antico, sia greco che romano. A ben vedere, in Isocrate la distinzione operata tra Retorica e Filosofia si risolve a favore della prima. Anzi la retorica è la vera filosofia intesa, come sottolinea Proussis, «un’educazione del pensiero e della sua espressione razionale (logos), cioè, cultura del discorso. […]. Il logos era il segno di una mente raziocinante, il riflesso di un carattere, l’immagine esteriore delle doti superiori dell’anima, la facoltà che sovrintende alla condotta degli affari pubblici e privati»30. Ed è esattamente nell'orazione Sullo scambio o Antidosis, che Isocrate proclama i princìpi pedagogici della scuola da lui fondata C.M. Proussis, L’oratore: Isocrate, in P. Nash, A.M. Kazamias, H.J. Perkinson, a cura di, Gli ideali educativi: saggi di storia del pensiero pedagogico, trad. it. C. Scurati, La Scuola, Brescia 1972, p. 88. 30 29 e per cui rivendica il diritto di essere reputato la guida morale della Grecia intera: «(A proposito dei maestri che espongono ai discepoli i procedimenti di cui si serve l'oratoria) Dopo averli resi esperti e accuratamente istruiti nella parte teorica, li esercitano ancora e li abituano a lavorare e li obbligano a collegare l'uno all'altro gli elementi appresi perché li possiedano più sicuramente e con le cognizioni astratte inquadrino meglio i casi pratici. Infatti abbracciarli tutti con la sola teoria non è possibile, perché in ogni campo essi sfuggono alla scienza; ma quelli che più prestano attenzione e che sono capaci di osservare i fenomeni generali il più delle volte sanno cogliere anche i casi particolari»31. Oppure sottolinea: «L'elemento impareggiabile e di gran lunga superiore a tutti per l'educazione oratoria è la disposizione naturale di chi ha uno spirito capace di inventare, di apprendere, di studiare e di ricordare, e una voce e una chiarezza di dizione tali da persuadere l'uditorio non solo con le parole ma con il loro armonico accordo e inoltre quell'ardire che non è segno d'imprudenza, ma che, accompagnandosi alla misura, dispone lo spirito a non aver minore fiducia nel parlare davanti a tutti i cittadini… »32. 31 32 Isocrate, Sullo Scambio, par. 184. Ivi, parr. 189-190. 30 La pedagogia di Isocrate ha rappresentato, come detto, la tendenza, parallela ed opposta a quella di Platone. Nel senso che l’azione formativa del maestro, era rivolta all’immanenza degli eventi, poiché la sua scuola preparava futuri politici, storici, letterati, ecc., che grazie all’apprendimento dell’arte oratoria sapevano far uso della buona parola. Per tale ragione egli diede al logos, nel suo doppio significato di parola e di pensiero, un’importanza notevole, ponendolo come contrassegno della sua paideusis, che garantisce la conquista e la sintesi di virtù etiche e ideali politici del IV secolo a.C.. Il logos, orientando secondo postulati etici lo spirito, realizza il valore paideutico del suo metodo educativo. L’emblema della teoria educativa isocratea è l’orazione Contro i Sofisti, scritta orientativamente attorno al 390 a.C.. Infatti, è proprio in quest’opera che Isocrate dà vita al suo progetto educativo dettandone i criteri e le finalità. Innanzitutto, è chiarificatrice la presa di distanza dai modelli educativi a lui precedenti, programmando così un proprio percorso che sin da subito intende essere una acerrima critica ai maestri di eristica, falsi e mistificatori, che si vantavano di formare i cittadini e dar loro la felicità vera e al modello educativo dei sofisti ovvero gli 31 insegnanti di oratoria professionisti che avevano ridotto l’arte a tecnica. Per Isocrate i maestri costruivano delle trappole per i propri studenti ai quali venivano riempite le teste con vacue promesse attraverso ricette retoriche che miravano ad insegnare le virtù solo attraverso la teoria. Per Isocrate le virtù non si insegnano ma si acquisiscono e non sempre con facilità, ma solo se si ha la fortuna di avere un eccellente maestro che funga da esempio. Il maestro è, dunque, il paradigma; i suoi insegnamenti devono consentire all’allievo di superare i propri limiti, attraverso un’azione di cambiamento verso se stesso e verso l’ambiente che lo circonda. E per fare ciò, è chiaro che l’allievo non potrà contare solo sui contenuti teorici, ma soprattutto sulla prassi che è il motore propulsivo dell’agire umano. Una visione ben precisa questa che annuncia una didattica ‘attiva’ che vede interagire pedagogicamente maestro e allievo. Per Isocrate è quindi la prassi la giusta strada per acquisire la cultura vera, cioè la “filosofia”, intesa come patrimonio intellettuale e morale dell’uomo a servizio della comunità. Per il retore greco insegnare la grammatica è importante ma non può essere il solo passo. Così come è importante conoscere le regole fisiche e geometriche, ma non sono la cultura vera. Esse sono una 32 ‘ginnastica preparatoria’. La cultura vera e propria è la “filosofia” che risiede nella capacità di “cogliere l’occasione (kairòs) sul fondamento della giusta opinione”. L’oratoria diviene così la metodologia più corretta e sana di espressione dell’azione. Il metodo educativo è volto a creare la vera “filosofia”, ovvero quel metodo che guidi alla conoscenza della vita e che aiuti saggiamente ad adattarsi in maniera concreta, pragmatica all’ambiente. Una formazione culturale che ha l’obiettivo di definire la personalità dell’allievo, cogliendo le potenzialità naturali e usandole al fine di far sbocciare in lui idee etiche e morali che saranno messe a beneficio della polis. La Retorica, che per Isocrate è la vera “filosofia”, in polemica antiplatonica, «comprende in sé una dottrina delle idee (ideai), ove con questo termine egli allude alle forme fondamentali del discorso, e i princìpi generali di composizione e di elocuzione, la cui conoscenza costituisce il presupposto dell’arte, ma a cui deve essere aggiunta l’inventività dell’oratore, capace di rendere appropriato lo schema generale al caso particolare»33. Così quando parla di ideai si riferisce al materiale formale di cui sono composti i discorsi, come preciserà meglio in Sullo 33 E. Berti, La filosofia del “primo” Aristotele, cit., p. 89. 33 scambio, e fa riferimento agli entimemi, ovvero a quei concetti che servono a conferire ritmo al periodo (antitesi, parisosi). Tali ideai hanno una funzione persuasiva. Le ideai isocratee, invece, mirano a educare la scelta alle forme stilistiche più idonee a quella determinata circostanza. Così gli allievi, che si appropriavano di queste ideai davano, innanzitutto, forma alle realtà conoscitive, le adattavano, non modificandole, al proprio modo di pensare. La fase successiva prevedeva un lavoro che li valorizzasse ottenendo un risultato efficace e stabile. Le ideai, dunque, per Isocrate sono valide quando si fa appello alle risorse morali che non solo saranno utili a lui ma anche all’intera comunità. E in tal modo gli allievi si troveranno a mettere in pratica la formazione che il proprio maestro ha loro offerto. Un modello educativo che si contrappone anche a quello platonico per il quale l’educazione si realizza quando all’interno del processo dialettico si arriva all’episteme. Per Isocrate questo tipo di conoscenza non può essere raggiunta da tutti gli uomini; per tale ragione bisogna qualificare educativi quei discorsi che partoriranno deliberazioni moralmente giuste per la comunità. Tale metodologia, nel negare validità all’episteme (la conoscenza globale del tutto), con cui Paltone fa coincidere il percorso 34 formativo, dava rilievo alla doxa (il senso comune), che consente di inserire nei discorsi opinioni e orientamenti che si qualifichino come migliori deliberazioni per la comunità. «Isocrate trova una formula per esprimere la sua posizione di fronte all’ideale platonico dell’esattezza e profondità scientifica: il più piccolo progresso nella conoscenza di cose veramente importanti deve avere la precedenza sulla più profonda meditazione su oggetti da poco e senza importanza, privi di ogni utilità per la vita»34. La scuola di Isocrate, dunque, si propone di formare il ‘migliore cittadino’, e per tale ragione essa diviene l’istituzione simbolo e privilegiata per coloro che sapranno intervenire sulla realtà. In definitiva, Isocrate individua il primato spirituale della cultura greca, come aveva fatto già Tucidide, e la retorica, come forma stessa del pensiero e del logos, diventa per lui lo strumento di diffusione del programma politico che su di essa si fonda; essa è «[…] forma di vita intellettuale capace di improntarsi a fondo del contenuto di idee etico-politiche del tempo e di farne moneta di scambio, patrimonio comune»35. Atene cade ma non cede il suo patrimonio spirituale. 34 35 W. Jaeger, Paideia, cit, p. 1453. Ivi, p. 1422. 35 «La paideia isocratica fa centro sulla parola, è una paideia del Logos come ‘parola creatrice di cultura’, che pone il soggetto in posizione di autonomia, ma sempre come interlocutore della città, nella quale e per la quale sviluppa una soggettività più ricca di umanità»36, da cui promana un percorso di formazione integrale della persona potenzialmente universale37. Esattamente questo aspetto rende la riflessione pedagogica isocratea un esempio importante per la cultura occidentale, un modello riproducibile in ogni tempo38. 36 F. Cambi, Storia della pedagogia, Laterza, Roma-Bari 2003, p.40. Cfr. L. Bellatalla, G. Genovesi, Isocrate ovvero l’educazione innanzitutto, cit, p. 182 e ss.. 38 «La cultura dell’Europa moderna fino alla Rivoluzione industriale e alla Rivoluzione francese, non sarebbe stata la stessa senza il grande diaframma dell’Umanesimo, che fondava la formazione dell’uomo sullo studio delle humanae litterae: ma non ci sarebbe stato l’Umanesimo senza la lezione di Cicerone, né ci sarebbe stato Cicerone senza l’insegnamento di Isocrate» (A. Privitera, A Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca, Vol. I, Età arcaica ed età classica, Einaudi, Torino, 1997, p. 433). Cfr L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Rizzoli, Milano, 2004; Id., Storia della letteratura greca, cit.; N. Terzaghi, Lineamenti di storia della letteratura greca, Paravia, Torino 1937. 37 36 3. La parola e la politica Nell’arco della sua lunga vita Isocrate ebbe la possibilità di assistere prima alla parabola discendente dell’imperialismo ateniese nella guerra contro Sparta, poi a tutti i tentativi, peraltro fallimentari, di superamento dei particolarismi delle poleis che, se da un lato determinarono la debolezza e il limite politico della Grecia, dall’altro aprirono inevitabilmente le porte all’egemonia macedone. Vive il periodo della grande crisi sociale e politica delle poleis, in particolare di Atene, e per il superamento di essa ritenne di individuare nella retorica “una forma di vita intellettuale” e al contempo di “attività politica” che potesse indicare agli stati greci una strada per superare le logoranti lotte egemoniche seguite al periodo pericleo, cercando di porre un freno al dissolvimento della Grecia. La sua si rivela, quindi, come una missione culturale di carattere nazionalistico, secondo l’idea greca di superamento delle differenze etniche in una dimensione spirituale suscettibile di applicazione universale, in vista di un ideale sì eticamente sostenibile, secondo la concezione platonica, ma idoneo ad una pratica realizzazione nella realtà politica del tempo. Pertanto, parlare di paideusis significa rimarcare 37 l’appartenenza non a una razza, vincolata dallo ius sanguinis, ma a una coscienza spirituale superiore che travalica i confini della stessa “grecità”39. In un primo momento Isocrate auspicava una pacificazione generale delle poleis per opporre una solida coalizione sotto la guida di Atene in funzione antipersiana; in seguito, di fronte all’ascesa di Filippo II di Macedonia, Isocrate abbandonò le precedenti posizioni politiche, impraticabili e quanto mai utopistiche, e optò di proporre al re macedone di diventare il benefattore (euergetes) dei Greci, l’arbitro imparziale e la forza di aggregazione delle poleis greche. In politica interna Isocrate fu convinto sostenitore della democrazia, ma non quella deludente dei suoi tempi, quella dei demagoghi che hanno portato alla rovina del popolo. Il suo ideale è la democrazia dei tempi di Solone, idealizzata e vagheggiata come modello di costituzione moderata. Strettamente connessa alla vita politica è l’arte oratoria; un’oratoria celebrativa e solenne, stilisticamente ricca e complessa di genere epidittico o dimostrativo (epideiktikòn); infatti ciò che maggiormente gli sta a cuore è la formazione del proprio ascoltatore, in virtù della quale diventa possibile, sul 39 Cfr. W. Jaeger, Paideia, cit.. 38 lungo periodo, conseguire quei cambiamenti che Demostene, invece, si prefigge di raggiungere grazie all’azione diretta. Isocrate, infatti, ad essa attribuiva la funzione essenziale di preparare i giovani alla vita futura come uomini e cittadini onesti e di successo. Secondo il retore, solo chi sa correttamente parlare ed impostare un discorso, abbellirlo e argomentarlo efficacemente dimostra la propria eccellenza intellettuale e morale e conseguentemente è portato ad agire nel modo più giusto per la comunità. Isocrate attraverso la retorica vuole anche mostrare l’importanza di scegliere una costituzione per Atene che non sia inferiore rispetto a quella spartana e la volontà di far ritornare la democrazia vigente un tempo (prima del 462 a. C.) al posto di quella radicale40. «E nessuno immagini che io abbia inteso parlare della costituzione che le circostanze ci costrinsero a sostituire all’antica; parlo di quella degli antenati, che i nostri padri lasciarono per volgersi alla costituzione oggi in vigore non perché la disprezzassero, ma perché, se giudicavano la prima superiore per le altre imprese, reputavano la seconda più utile per Cfr. C. Bearzot, Isocrate e il problema della democrazia, in “Aevum”, 54 (1980), pp. 113-131. 40 39 esercitare la supremazia marittima. Appunto adottandola e abilmente praticandola furono in grado di difendersi dalle insidie degli Spartani e dalle forze dei Peloponnesi»41. Una democrazia radicale che soppianta quella ideale, vigente fino a quel momento, nasce in virtù di un’utilità, di una necessità, più che di un’analisi di valore. Non erano gli ideali che in quel momento servivano ad Atene, ma la necessità era quella di non essere schiacciata da Sparta e dai Peloponnesi. Nel Panatenaico (339 a.C. ca.), Isocrate propone un modello costituzionale democratico-radicale per ottenere superiorità nella politica estera e quindi in battaglia. Parlando, infatti, di democrazia radicale e della talassocrazia, la democrazia si identifica con la potenza navale; e la guerra viene vista come un importante fattore di orientamento istituzionale. È nel Panegirico (380 a.C.) che Isocrate riconosceva alla democrazia la sua importanza: «Sotto questo regime noi e i nostri alleati vivemmo per settant’anni di seguito immuni da tirannidi, liberi di fronte ai barbari, non turbati da lotte intestine, in pace col mondo intero»42. In definitiva, l’azione educativa e formativa, sui cui si fonda il programma politico, che può apparire velleitario ed anacronistico, 41 42 Isocrate, Panatenaico, 114. Isocrate, Panegirico, 106. 40 ha il grande merito di proporre una ricostruzione del mondo politico greco, indicando «[…] nuove mete, non solo alla vita morale del singolo, ma alla nazione greca intera»43. Anche se trova la sua culla naturale nel mondo greco, in particolare in Atene a cui riconosce una supremazia intellettuale e spirituale nell’Ellade, la sua paideia supera l’apparente contraddizione di una visione localistica per assurgere a paradigma universale, a denominatore comune dell’umanità, che si fonda sul logos e si esprime attraverso la retorica, segno distintivo dei Greci. In altre parole, la particolarità del pensiero isocrateo è che egli, pur partendo da un inesauribile orgoglio nazionalistico, lo travalica in nome di una missione culturale sovranazionale, ove il nome di “greco” si spoglia di ogni specificità territoriale per diventare di per sé valore depositario di una cultura che è progetto spirituale, politico e sociale, indice di superiorità intellettuale e morale44. È una paideia che può rappresentare il fondamento di un nuovo legame sociale, politico e spirituale, che faccia fronte alla crisi dissolutiva e agli atavici contrasti politici interni del mondo greco, agli egoismi dei singoli stati, 43 W. Jaeger, Paideia, cit, p. 1455. Isocrate, nel Panegirico, 50, scrive: «Atene ha distanziato di gran lunga il resto del genere umano nel pensiero e nella parola, che i suoi allievi sono diventati maestri del resto del mondo; ed essa ha ottenuto che il nome Elleni sia attribuito piuttosto a coloro che sono partecipi della nostra cultura che a coloro che hanno in comune con noi il sangue». 44 41 proponendo nuovi modelli formativi utili a una rinnovata concordia, a una nuova azione comune delle poleis, in un vincolo o, meglio, in un sentimento, che può dirsi di moderna solidarietà eticamente orientata. L’universalismo culturale della paideia isocratea diventa il sostrato ideologico di un nuovo concetto di cittadinanza, non più legato ai particolarismi delle poleis ma con una valenza cosmopolita, che troverà, di lì a poco, la sua più immediata realizzazione nell’universale civiltà ellenistica. 42 CAPITOLO II CICERONE: L’ORATORIA PER LA RES PUBLICA 1. L’ideale di humanitas La figura di Isocrate, come esempio della retorica greca, si lega nel mondo latino a quella di Cicerone, che alcuni studiosi45 ritengono sia stato influenzato dal retore ateniese soprattutto sugli aspetti relativi al rapporto retorica e filosofia e all’idea che un buon oratore deve possedere “omni quidem sapientia”, una cultura vasta, enciclopedica; il perfectus orator deve assommare in sé capacità oratorie, cultura enciclopedica e alta formazione etica46. Cfr. C. Natali, L’immagine di Isocrate nelle opere di Cicerone, University of California Press, 1985; H. M. Hubbell, The Influence of Isokrates on Cicero, Dionysius and Aristeides, New Haven-London-Oxford, 1913; S.E. Smethurst, Cicero und Isocrates, “T.A. Ph. A.”, 94, 1953, pp. 261-320. 46 Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. La sua famiglia non era “nobile”, ma possedeva mezzi economici e relazioni sociali che permisero a Cicerone e ai suoi fratelli di compiere la carriera politica. Cicerone compì i propri studi nella città di Roma dove sin da subito frequentò il Foro, entrando nelle simpatie di illustri e autorevoli oratori del tempo, Lucio Licinio Crasso, Marco Antonio, e Quinto Mucio Scevola l’augure. Attraverso questi, l’Arpinate conobbe quello che sarebbe divenuto l’amico più caro Tito Pomponio Attico. Nel 75 inizia la carriera politica, esercitando la questura in Sicilia ed entrando l’anno dopo, per la prima volta, in senato. La fama di Cicerone toccò il punto più alto nel periodo del Rinascimento, seppur in età romantica, soprattutto ad opera di Mommsen, vita e opere dell’Arpinate furono sottoposte ad una severa revisione critica che ne ridimensionò i pregi e le dimensioni. Una negativa valutazione, senza dubbio questa di Mommsen che vide nelle opere di retorica prive di originalità e speculative, che giocavano tra il vivere concretamente la realtà e lo sfuggire da essa. Questo contrasto tra l’attenersi alla realtà e la volontà di astrarsi, l’autenticità dell’oratoria perdeva di valore. Infatti, essa venne valutata come espressione di 45 43 Con Cicerone gli scritti retorici si inseriscono nel dibattito fra le tendenze oratorie del tempo, l’atticismo e l’asianesimo 47. Egli carattere indeciso, incapace di prevedere il futuro agire dell’uomo (al contrario di Cesare, per Mommsen ‘campione del realismo’). Va precisato, però, che Cicerone visse in un momento di trasformazione dello Stato romano da repubblica in Principato. E tale momento di cambiamento innescava nelle persone incertezze, dubbi, ma anche illusioni. Vi erano coloro che credevano che tale mutamento fosse irreversibile e si affidavano ad esso completamente; altri, pur dovendo guardare necessariamente al nuovo, mantenevano un legame col passato, sperando che le fondamentali libertà repubblicane continuassero e vivere. Ma vi erano ancora altri che si proclamavano apertamente avversi in toto a tale cambiamento, in quanto esso veniva visto come una minaccia ai mores, destabilizzando la Repubblica. Proprio quest’ultimi si dividevano in due gruppi: coloro che sentivano la tradizione come patrimonio ideale di valori da salvare per la continuità di Roma, e coloro che miravano a conservare una condizione favorevole per il ceto al quale appartenevano e col quale identificavano lo Stato stesso. Cicerone, nell’81 a C., sostenne la sua prima causa in favore di Roscio d’Ameria contro un certo Crisogono, un liberto favorito dal dittatore Silla, (verso il quale non risparmiò elogi) attirando su se stesso la curiosità della gente comune, e andando avanti nel cursus honorum, si avvicinò sempre alla fazione degli aristocratici, sposandone le cause e gli interessi. Due momenti della vita ciceroniana vanno menzionati in relazione agli impegni politici e alle relazioni umane - momenti che incisero notevolmente sulla sua formazione intellettuale e caratteriale - il periodo successivo al consolato e il periodo della guerra civile tra Cesare e Pompeo. Nel 63 a.C., divenuto console, scoprì la congiura di Catilina, facendone condannare i congiurati, i quali erano nobili, senatori, che com’è naturale non accettarono l’affronto subito dall’Arpinate, e nel 58 a. C., il tribuno Clodio Pulcro fece approvare una legge contro chi avesse condannato cittadini romani senza concedere loro l’appello al popolo. Così Cicerone iniziò un periodo di dispregio e di attacchi che si placarono solo quando nel 57 a. C. però pronunciò due orazioni di ringraziamento al senato e al popolo. L’altra fase importante della vita di Cicerone, è legata alle vicende della guerra civile, durante la quale l’oratore difese Pompeo considerandolo tra i due il più idoneo a rappresentare gli interessi dell’aristocrazia senatoria, garante della supremazia politica della vecchia classe dirigente. Si aprì una breve parentesi di relativa serenità per l’oratore. Breve perché fu colpito da un lutto terribile: la morte dell’amatissima figlia Tullia. Disperazione e sconforto che si acuirono a causa della dittatura di Cesare e che neppure dopo la morte di questi, riuscì a placare. Iniziò il periodo dell’isolamento che lo portò a scrivere opere filosofiche, studiando con accanimento e costanza il pensiero greco, a tal punto da essere considerato come colui che occidentalizzò la cultura greca permettendo ad essa di sopravvivere nei secoli che videro la frattura tra mondo occidentale e orientale. Nel 43 a. C. venne ucciso dai sicari di Antonio. 47 Al tempo di Cicerone vi erano due tipi di eloquenza: una detta “asiana” e l’altra detta “atticista”. L’eloquenza “asiana”, nata nel III secolo A.C. in Asia Minore, si rifaceva ai modelli greci e mirava a sfruttare razionalmente le risorse più raffinate dell’arte oratoria al fine di ottenere uno stile caratterizzato da un alto grado di ornamentazione, ridondante, atto a persuadere, a carezzare l’orecchio, più che mostrare e spiegare i fatti. Cicerone nel Brutus (par. 325), del 46 a.C., distingue 44 cercò di superare queste dicotomie di generi, di stile, ma anche di liberare la retorica dagli schematismi a cui fino ad allora era rimasta vincolata. Con una visione più ampia del problema egli indica come chiave del successo di un oratore proprio la capacità di usare diversi registri a seconda delle situazioni e delle esigenze48. Si porrà l’attenzione, innanzitutto, sul valore autonomo che Cicerone riconosce alla cultura e all’eloquenza da intendere come facoltà umana per eccellenza, l’occupazione più degna e propria dell’humanitas. Un aspetto anche questo che per alcuni Cicerone eredita da Isocrate. Se si prescinde dal fatto che egli accoglie l’ideale aristotelico di mirare ad una formazione globale e non solo retorica, come invece voleva Isocrate, è comunque evidente che in entrambi il soggetto, partecipe di una dimensione di coscienza culturale che è frutto dell’incivilimento, si realizza non due tendenze asiane con caratteristiche quasi contrapposte. Indica in Ortensio Ortalo il più illustre esponente di entrambi gli stili. L’altro tipo di eloquenza, affermatasi a Roma nel I secolo a.C., fu detta “atticista”, e si rifaceva al modello greco lisiano. Era uno stile retorico cronistico, più semplice perché presentava una scrittura scarna e scevra di orpelli, in termini moderni telegrafica, in nome di una rivendicata purezza linguistica che faceva capo ai modelli attici del V secolo a. C., appunto. Si parla, poi, di un terzo stile - di cui Cicerone è l’unico e massimo esponente - definito “rodiese”, ossia della città di Rodi, dove Cicerone seguì gli insegnamenti di Molone di Rodi. Quintiliano indicherà in questo stile una via di mezzo tra asianesimo e atticismo, non sovrabbondante come il primo né troppo stringato come il secondo. 48 Nell’ambito della trattazione dell’elocutio si fa riferimento alla teoria della tripertita varietas, che consiste nel sapere usare i tre livelli stilistici (umile, medio e sublime), in conformità con i tre scopi dell’oratore (probare, delectare, flectere), alternandoli e subordinandoli a quanto detta il decorum (cfr. Orator). 45 solo in una sfera privata ma soprattutto nella vita pubblica e politica, dove essere utili alla società e allo stato diventa dovere preminente rispetto agli altri. Non deve, altresì, passare inosservato che nell’ideale di humanitas ciceroniana trovi spazio il concetto di ‘filantropia’, intesa come condiscendente cordialità umana, riconducibile alla clementia, virtù propria di chi detiene il potere, quindi caratteristica dell’uomo romano, il cui esercizio risponde ad un impulso non propriamente umanitario ma razionale49. Ancora una volta il concetto di ‘filantropia’, su cui poggia questa nuova idea di “umanità”, rimanda alla cultura attica del IV secolo, come testimonia la presenza, in molti passi di oratori greci, di termini quali ‘benevolenza’ (eunoia), ‘mitezza’ (praotes) e ‘compassione’ (eleos), che gravitano attorno al più vasto significato di ‘filantropia’. Se pure tali termini non hanno una valenza propriamente giuridica, è comunque indicativo che essi figurino nella concezione del diritto. Resta in ogni caso difficile stabilire se la ‘filantropia’ coincida con la parola “umanità”. Sicuramente erano avvertiti come ‘umani’ i personaggi della commedia di Menandro e, a Roma, di 49 Cfr. L.A. Seneca, De clementia (55/56 d.C.), 2, 3,1; M.T. Cicerone, De Officiis (44 a.C.), 1, 35. 46 Terenzio50, nel cui modo di essere si scorgeva quella consapevolezza di appartenere alla condizione umana, che sottintendeva anche atteggiamenti di tipo solidaristico. Nell’ideale di humanitas ciceroniana dunque è racchiusa sia l’idea di “umano” sia di “umanistico”: la fierezza di appartenere alla stirpe degli uomini, il ‘sentimento dell’umanità’ - in cui è evidente l’influenza della Ciropedia di Senofonte (365-360 a.C.) - ossia quell’atteggiamento di benevolenza, affabilità e cortesia verso il prossimo, sostenuto da quelle facoltà di eloquenza e di cultura che fanno dell’uomo un essere unico. Questa comune appartenenza al genere umano orienta verso un sentimento di fratellanza naturale, peraltro innato perché deriva dal fatto che, come dirà Seneca, la stessa natura ci ha generato come fratelli ovvero come membra di uno stesso corpo51; immagine che sarà ripresa in ambito cristiano da San Paolo52. In Seneca è riscontrabile, addirittura, una sorta di anticipazione del concetto di caritas, ancora più straordinario perché supera i precetti etici pagani che prevedevano solo di non arrecare danno È nell’Heautontimorumenos di P. Terenzio Afro, rappresentata nel 163 a.C., che troviamo formulato un primo compiuto significato del termine humanitas, inteso come dovere e, al contempo, sentimento di condivisione, che fa sì che l’uomo non si senta estraneo nei confronti di un altro uomo e, dunque, sia compartecipe di un comune destino proprio in quanto uomo: homo sum: humani nihil a me alieno puto (v.77). 51 Cfr. L.A. Seneca, Epistulae morales ad Lucilium (62-63 d.C.), 95, 51-53. 52 Cfr. Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 12,12-27. 50 47 agli altri e rivendica per gli schiavi la qualità di uomini e quindi il diritto alla parità di trattamento. Tra l’altro questo senso di fratellanza universale diventa presupposto del vivere sociale e civile, in virtù del fatto, come dice Seneca, che proprio la natura «[…] Illa aequum iustumque composuit», ha, cioè, disposto equità e giustizia, concetti non sovrapponibili per intero perché la prima trova una naturale collocazione nella sfera dell’humanitas, che di per sé ha un campo di applicazione più ampio, e l’altra, si svolge nell’ambito più ristretto della regolamentazione delle modalità di convivenza all’interno del corpo universale dell’umanità. In definitiva, la ‘filantropia’, svuotandosi di quella pessimistica rassegnazione tipica di una civiltà “disillusa”, che si dibatte tra spinte individualistiche ed anelito cosmopolitico, propria dell’Ellenismo, trova un nuovo e fecondo humus nell’humanitas romana, in una visione armonica delle relazioni sociali ed umane, rapportate a parametri di convivenza etico-politica. «La filantropia egualitaria si traduce in un’etica dei rapporti sociali che, recuperando e rielaborando i “valori” della tradizione romana, indica nell’impegno morale, nella solidarietà, nella 48 giustizia i fondamenti della convivenza umana»53. Tutto ciò è l’espressione di una felice sintesi tra mos maiorum e riflessione greca: il primo attenua i propri tratti rigoristici, mentre, di contro, il pensiero greco, in questo nuovo contesto, ridimensiona il suo tradizionale carattere speculativo, divenendo concreto stimolo culturale e politico. Ma è con Cicerone che l’humanitas, attraverso la mediazione della filosofia greca di Panezio54 e Polibio e superando l’astratto G. Aricò, Le origini dell’umanesimo romano, in I. Lana e E.V. Maltese, a cura di, Storia della civiltà greca e latina, Vol II, Dall’ellenismo all’età di Traiano, Utet, Torino 1998, p. 368. Sul punto, cfr. D. Gagliardi, Il concetto di humanitas da Terenzio a Cicerone, in “Le parole e le idee”, VII, 1965, pp. 187-198. 54 Variegato è il panorama della filosofia in età ellenistica. Alle scuole fiorite nel IV secolo a. C. si affiancano, tra fine IV e inizio III secolo a. C. nuove scuole e tendenze filosofiche: epicureismo, scetticismo e stoicismo, destinate a dominare la scena e a improntare la cultura di tutta quest’epoca fino all’età romana. Lo stoicismo, frutto dell’apporto di diversi pensatori, subisce significativi modificazioni. La storiografia filosofica suddivide il movimento in tre periodi: lo stoicismo antico (III secolo a. C.) i cui capiscuola furono in successione Zenone, Cleante e Crisippo, che elaborarono e diedero sistemazione ai concetti fondamentali della scuola; lo stoicismo medio, nella fase matura dell’Ellenismo (III secolo a. C.), i cui teorizzatori furono Panezio e Posidonio, che diedero nuovo impulso alla scuola e all’insegnamento, attenuando il rigorismo originario con infiltrazioni eclettiche; lo stoicismo nuovo, o romano, che ha come rappresentanti in ambito greco Epitteto e Marco Aurelio, e nella cultura latina, Seneca. Lo stoicismo godette di una grande fortuna per diversi secoli, raggiungendo un vasto pubblico. La dottrina stoica proponeva le norme di una condotta morale, la forza interiore per resistere alle avversità e l’ideale di cosmopolitismo. Il diverso atteggiamento nei confronti della vita pubblica, che prescriveva al saggio di non astenersi dalla partecipazione alla vita pubblica, dedicandosi alle cure dello Stato, in ragione del proprio senso di giustizia e del suo amore per gli uomini, è all’origine del successo della filosofia stoica in ambito morale, poiché consentiva di innestare una morale pratica sulla tradizione del rispetto del mos maiorum. Panezio, nato a Rodi intorno al 185 a. C., dopo un periodo di studi a Pergamo e ad Atene, fu a Roma. Qui entrò in contatto, insieme a Polibio, con i personaggi più in vista della vita politica e culturale, entrando a far parte del ‘circolo degli Scipioni’ che tanta parte ebbe nello sviluppo dei rapporti tra cultura greca e mondo romano. Il suo contributo consistette nell’attenuare l’intellettualismo e gli aspetti più inflessibili della morale stoica. Egli concentrò la propria attenzione sul kathèkon, il dovere, che acquista forza pragmatica, divenendo uno dei cardini della concezione morale del mondo romano. Ad esso era dedicata la sua opera più importante, che ispirò il De 53 49 cosmopolitismo stoico ed ellenistico, diventa principio morale oggettivo contrapposto all’utile personale da cui discende il dovere (officium dirigit55), dimensione etica che rende migliore il cittadino e che indica nell’impegno morale, nella solidarietà, nella giustizia i princìpi fondanti della communitas umana. Non può negarsi, comunque, che tale tensione cosmopolita non supera i confini dell’Impero di Roma, a cui lo stoicismo forniva la base ideologica per giustificare il carattere ecumenico e civilizzatore della sua politica imperialistica. Va attribuito a Cicerone il merito di avere individuato nell’humanitas la natura umana universale, prima nella sua dimensione etico-culturale e poi in quella più propriamente politica, specificando che la prima dà forma e sostanza alla seconda, corrispondendo all’ideale di formazione e di educazione dello spirito. Quella di Cicerone è una nuova proposta educativa per le giovani generazioni, basata sui princìpi dell’humanitas, da cui deriva un profilo più articolato di “uomo politico”, felice combinazione di Officiis di Cicerone. Nella formula “vivere secondo le propensioni che ci sono date dalla natura” è condensato il dovere morale, che consiste non nell’estirpare le inclinazioni naturali dell’individuo, unione di ragione e istinto, al fin di raggiungere l’apathia, ma nel moderarle orientandole secondo una norma di misura e armonia, designata come “decoro morale” (prepon). In questa dimensione concreta rientra il cosmopolitismo che diventa fondamento teorico della missione universale di Roma. 55 Cfr. M.T. Cicerone, De Officiis, 3, 89. 50 virtù tradizionali, come la gravitas, la severitas, la costantia, mitigate da valori più moderni e flessibili, come la comitas (affabilità) e l’urbanitas, ma anche la liberalitas, la clementia, la suavitas, la levitas. Il riferimento è a un homo politus che padroneggia la cultura intellettuale della sua epoca, è fornito d'una nobiltà ideale, sviluppa tutte le virtualità insite nella sua natura, realizzando un altissimo ideale umano56. Così come è stato affermato: «Il suo (di Cicerone) progetto politico di riforma dello stato va di pari passo con un analogo progetto di rinnovamento etico, per l’educazione e la formazione dei cittadini e della nuova classe dirigente; un progetto che, al rispetto dei valori della tradizione e del mos maiorum, accompagna una moderata apertura verso nuovi modelli di comportamento più flessibili e duttili, adeguati alle esigenze di un mondo in trasformazione; e che comunque ha sempre come fine ultimo la responsabilizzazione dei cittadini di fronte ai propri doveri nei confronti dello Stato»57. Quindi, in Cicerone, il concetto di humanitas è composito. Esso, partendo dal principio della comune natura umana, fondata sul dono della ragione e della parola, da cui discende la doverosità Cfr. M Pohlenz, L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel De Officiis di Cicerone, trad.it. M. Bellincioni, Paideia, Brescia 2000. 57 G.B. Conte, B. Pianezzola, Corso integrato di letteratura latina 2. L’età di Cesare, Le Monnier, Firenze 2003, pp. 74-75. 56 51 del rispetto e del servizio verso gli altri, e sulla valorizzazione della cultura come tratto distintivo dell’uomo, fattore di crescita e di civilizzazione umana, si definisce e si completa, infine, attraverso l’armonia estetica, resa con il termine “decorum”, che esprime compiutamente la coesistenza equilibrata di tutte le facoltà dell’umana natura. In questa dimensione, culturale e civile al contempo, trovano una piena realizzazione sia la dimensione sociale fra uomini civili che la massima e libera valorizzazione delle inclinazioni individuali58. In definitiva, l’humanitas ciceroniana assomma in sé aspetti di carattere sociale, estetico, inteso come insieme di qualità che si riassumono nel decoro, e culturale, anzi si identifica con il concetto stesso di cultura, che da un lato è tutela della propria autonomia intellettuale, dall’altro coscienza di una missione sovra-personale al servizio della collettività. Essa, nel momento culminante della potenza di Roma, è espressione dell’ideale di vita della società romana configurandosi, ancor prima che come dovere verso gli altri, come dovere verso noi stessi ossia definisce anche un’etica che, sul solco della “filosofia 58 Come nota Luciano Perelli, tuttavia, non sono estranei al concetto di humanitas elementi di contraddittorietà. Uno fra tutti l’aristocraticità di fondo dell’ideale implicita nella formulazione del concetto e la naturale uguaglianza fra gli uomini, su cui si basa il principio democratico. Cfr. L. Perelli, Storia della letteratura latina, Paravia, Torino 1969. 52 dell’attualità” di Panezio, deve conformarsi alla propria individualità. Come ha sostenuto Richard Reitzenstein «Ogni pagina dei suoi scritti con il suo lessico, quasi ogni scritto con il suo contenuto testimonia che egli stesso volle essere per il suo tempo il maestro di questa humanitas»59. 59 A. Ronconi, F. Bornmann, a cura di, Pagine critiche di letteratura latina, Le Monnier, Firenze 1984, p.159, che riprendono lo scritto di Reitzenstein da titolo Das Romische in Cicero und Horaz, Leipzig, Berlin 1926. 53 2. La cultura e la politica Cicerone, come noto, parte da una concezione etica dello Stato. Il suo è, quindi, un progetto in fieri etico e sistematico, che trova posto in tutte le sue opere e ha come fine quello di guidare e regolare in tutti i suoi aspetti, nessuno escluso, la condotta di una classe dirigente moralmente legittimata, mediante la proposta di un programma politico di formazione. Esso trova la sua più compiuta teorizzazione nel De Officiis, scritto nel 44 a.C., trattato in tre libri dedicato al figlio Marco, in cui, riprendendo i contenuti dell’opera di Panezio “Peri tou kathekontos”, “Del conveniente”, sviluppa la riflessione sui problemi e sulla prassi dell’etica tanto privata quanto sociale. È un’opera che esprime più di ogni altra “la grande Etica della latinità” - come ebbe a dire Carlo Emilio Gadda - su cui è stata edificata l’etica occidentale, sulla base della rettitudine del vivere, contrassegnata dal controllo di sé, dal rifiuto dell’eccesso, dalla moderazione, dalla subordinazione degli impulsi alla razionalità60. Cicerone elabora, così, un modello più articolato di uomo politico portatore di un sistema di valori che contemperi 60 Cfr. C. Marchesi, La Letteratura Romana, Principato, Messina 1950; E. Narducci, Introduzione a Cicerone, Laterza, Roma-Bari, 1992. 54 quelli della tradizione con nuove istanze morali, volto a mitigare l’intransigenza e, soprattutto, a consentire al politico di calibrare la propria azione in ragione delle circostanze. Tutto ciò è garanzia e salvaguardia di uno stabile assetto della società e dello Stato. In Cicerone, infatti, si avverte costantemente la preoccupazione di contribuire alla vita politica dello Stato, sia in prima persona, sia, laddove impossibilitato a farlo per le note vicende pubbliche che lo avevano coinvolto, attraverso un progetto di formazione dell’uomo politico, in primis, e, di conseguenza, di una nuova classe dirigente, che è il trait d’union di tutta la sua produzione letteraria. Il carattere ideale ed etico del progetto ciceroniano, sia pure declinato come sotterranea utopia, non inficia la validità del suo messaggio, insieme culturale e politico, che riappare sistematicamente nella storia come nobile ideale educativo, dischiude un mondo infinitamente più ricco e libero di quello contemporaneo e, sia pure in mancanza di una riproducibilità dello Zeitegeist in cui si sono sviluppati quei valori, affranca dal principio di autorità e rivendica quella autonomia intellettuale da cui devono derivare atteggiamenti di superiore ed aperta tolleranza, i soli che proiettano verso una libertà civile e politica, capace di vivificare e rigenerare continuamente il legame sociale. 55 Egli delinea il ruolo dell’intellettuale come di colui che è facitore e divulgatore di valori e di ideali etici e culturali, impegnato a far prevalere la civiltà del dibattito politico in un momento di agonia per la res publica romana. È quello di Cicerone, un progetto culturale, che anche attraverso i suoi scritti e la sua personale militanza civile e politica, è finalizzato a proporre linee di indirizzo culturali ed ideali etici ai propri cittadini, chiamandoli ad agire nell’interesse dello Stato. In tal senso, fondante nel pensiero ciceroniano è l’indissolubile legame fra politica e cultura che si qualifica come dovere morale per il filosofo e che pone in essere il problema del rapporto tra il pensiero e l’azione. Nel De Republica (54-51 a.C.) Cicerone non esita a dare preminenza all’impegno politico in frangenti particolari per la patria e per la società, pur auspicando, chiaramente, il contemperamento fra politica e attività filosoficoculturale. Se da un parte «Il primato dell’attività del politico su quella del filosofo viene affermato senza mezzi termini e con accesa passione: molto superiore alla virtù dei filosofi è la virtù degli uomini politici e dei legislatori, i quali hanno lottato per la patria e hanno guidato i loro concittadini indirizzandoli alla 56 moralità con l’esempio e con le leggi»61, dall’altra la filosofia non è concepita come isolamento egoistico, perché essa «[…] ha valore in quanto giova alla vita, alle relazioni fra gli uomini, al miglioramento morale e materiale della società, additando il miglior sistema di convivenza e suggerendo i metodi più adatti per la direzione della vita pubblica»62. Infatti, nel proemio del III libro del De Republica, pur attribuendo alla filosofia una funzione subordinata rispetto alla politica, si pone l’accento sul fatto che entrambe concorrono a formare un modello insuperabile di umanità, incarnato da Scipione e dalla cerchia dei suoi amici. La filosofia rende perfetta la virtù dell’uomo politico. Ciò pone in essere la possibilità di una via mediana che contemperi i due generi di vita, quella attiva e quella dedita agli studi, tradotto nella formula bìos synthetos. In ragione delle circostanze e quando la scelta è obbligata, tra i due modelli di vita deve essere privilegiato quello politicamente impegnato; altrimenti, quando la situazione lo consente, la mediazione tra le due forme è auspicabile per la formazione del modello perfetto di umanità. A tal fine la cultura filosofica deve permeare l’eloquenza, darle quella sapientia etico-politica di cui era priva e, dal canto suo, 61 L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, La Nuova Italia, Firenze 1990, p. 5. L’Autore affronta il problema del peso dato da Cicerone nelle sue opere al rapporto tra cultura, in particolare filosofica, e impegno pubblico. 62 Ivi, p.15. 57 ricucire quel legame reciso con la vita politica. È la famosa formula cum dignitate otium in cui si dovrebbero identificare, secondo Cicerone, gli uomini politici al vertice del governo della res publica, perchè assomma in sé due generi di vita, anche se sembra, come sostiene Perelli, che nella Pro Sestio riveste un significato più circoscritto all’ambito politico. «Qual è dunque lo scopo che debbono proporsi questi piloti dello stato e dove devono dirigere la loro rotta? Quella che è la cosa più eccellente e più desiderabile per tutti i cittadini saggi, onorati e benestanti, la tranquillità congiunta con la dignità. [...] In questo caso otium significa tranquillità, pace sociale; ciò che accomuna i due significati della formula, quello politico e quello culturale, è che otium concerne la sfera del privato, mentre dignitas indica i doveri e i compiti della sfera pubblica, che conferiscono onore e prestigio. In entrambi i casi l’accento viene posto sulla dignitas, sul dovere della classe dirigente di mantenere il proprio prestigio e il proprio impegno politico senza lasciarsi troppo trascinare dall’amore per gli studi o per la tranquillità ad ogni costo. Sembra dunque che l’otium sia la condizione desiderata dalla moltitudine degli ottimati, mentre la dignitas è prerogativa dei summi viri, dei principes optimatium, che devono spesso lottare, sudare, sacrificarsi e affrontare pericoli per garantire l’otium 58 altrui»63. Nell’ambito della formazione enciclopedica di cui deve essere provvisto l’oratore, è la filosofia – come espresso nel De Oratore – che lo educa al rispetto dei valori sui quali poggia la res publica e lo preserva dall’essere manipolatore di coscienze, perché il suo intento non è imporsi sull’individuo, ma orientare la comunità. È proprio nel De Oratore che Cicerone tratteggia la figura del perfetto oratore, forte del potere della parola e nutrito non solo di cultura retorica ma anche filosofica e letteraria, identificato nell’uomo politico. È un modello di uomo al servizio della comunità e del bene comune, esemplare per dirittura morale che gli deriva dalla formazione culturale, quello che Catone, sia pure con una prospettiva non ampia come quella ciceroniana, denominava vir bonus dicendi peritus. Nel De Oratore, trattato che ha forma di dialogo letterario di stampo platonico-aristotelico, scritto nel 55 a. C., Cicerone ripartisce le diverse sfumature delle sue opinioni circa l’eloquenza tra i due principali interlocutori, Antonio e Crasso, i due oratori che dominavano la vita forense del tempo. Per il primo all’oratore sono sufficienti le doti naturali di parola e 63 L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone, cit., p. 65. Il corsivo si riferisce alla traduzione di un passo del par.98 della Pro Sestio di Cicerone. 59 ingegno; Crasso esprime il punto di vista ciceroniano della necessità di un’oratoria meditata e nutrita di cultura. Ma l’esposizione delle tesi è funzionale ad accreditare presso l’opinione pubblica la dignità e l’irrinunciabile utilità di una cultura vastissima che abbracci letteratura, storia, filosofia, giurisprudenza ed elementi delle artes più disparate. È Crasso che si fa portavoce del suo ideale di un oratore provvisto di un vasto sapere e della rivendicazione del valore stesso della cultura, tratto distintivo dell’uomo e dell’umanità, e del suo rapporto con l’attività politica. L’eloquenza, mediante la parola, ha lo straordinario compito di esporre «l’origine, l’essenza e le modificazioni di tutte le cose, delle virtù e dei doveri, e di tutti quei princìpi naturali che regolano i costumi, gli animi e la vita degli uomini»64. L’oratore, dunque, che sa con concetti e parole illustrare i vari aspetti dell’esistenza è preposto a reggere e guidare lo stato. È per questo che un’arte così potente non può prescindere da sapientia e rettitudine morale, valori di cui la formazione dell’oratore non può fare a meno. Saldare strettamente l’eloquenza alla ‘saggezza’, ascrivendola ad una dimensione etica e politica, significa affrancarla da un basso profilo tecnicista o da strumento moralmente “neutro” – come 64 M.T. Cicerone, De Oratore, III, 76. 60 invece ritiene Antonio -, ma, soprattutto, considerarla un fattore di controllo delle turbolenze interne e della dissoluzione dell’ordine sociale. Solo la vastità della formazione intellettuale dell’oratore può consentire di tradurre le res in parole. Viene così riproposta il modello formativo, di ascendenza greca ed isocratea, dove pensiero, parola e azione vengono a dipendere l’uno dall’altro e a costituire un’unità inscindibile. Il bene dicere non è mera “arte della persuasione”, ma ha implicazioni morali: saper infiammare gli animi o placarli dipende dalla capacità di sapersi orientare in un universo di valori65. È, quello delineato da Crasso per il suo oratore, un ideale di cultura, fondato sull’articolazione di singole discipline, che porta avanti l’idea di un recupero dell’unità della cultura, venuta meno a causa della specializzazione dei saperi e del ristabilimento dell’interscambio tra le diverse artes, che trovano proprio nella retorica il punto di accordo. Anzi, Cicerone non manca di rimarcare la parità statutaria tra eloquenza e altre artes nel rivendicare, per bocca di Crasso, come oggetto dell’eloquenza «tutto quanto tra gli uomini può formare materia di dibattito»66. Cfr. E. Narducci, Cicerone e l’eloquenza romana. Retorica e progetto culturale, Laterza, Roma-Bari 1997, con riferimento al discorso di Crasso nel De Oratore (I, 202). 66 M.T. Cicerone, De Oratore, II, 5. 65 61 È proprio la compattezza culturale e l’ampiezza di orizzonti culturali richiesti all’oratore che concorrono al rafforzamento del potere costituito, che per Cicerone è quello dell’aristocrazia senatoria. Come sottolinea Narducci, «L’oratore deve essere insieme filosofo, giurista e uomo di stato anche per custodire con la propria auctoritas le istituzioni e le tradizioni»67. Lo stesso Autore, ravvisa che nella rivendicazione dell’unità del sapere «[...] l’assunto platonico della solidarietà di tutte le artes favoriva del resto il ricupero di valori tradizionali di una saggezza onnicomprensiva»68. Significativa in tal senso è la denuncia di Crasso della decadenza della classe dirigente che predilige un sapere settoriale che ne degrada le prestazioni69 e l’avanzamento del provvedimento di chiusura delle scuole dei rhetores Latini, che precludeva ai giovani la possibilità di accedere ad una ampia e ricca formazione, dunque, di educarsi ai valori fondanti della res publica. Non è, pertanto, ammissibile per Crasso, alias Cicerone, che coloro che si dispongono ad affrontare la vita politica prescindano da una sapientia polivalente e onnicomprensiva. 67 E. Narducci, Introduzione a Cicerone, cit., p. 131. E. Narducci, Cicerone e l’eloquenza romana, cit., p. 69. Cfr, anche, M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, ESI, Napoli 1971, p.86. 69 «Coloro che aspirano alle magistrature e al governo dello Stato, oggi si fanno avanti, per lo più, nudi e senza armi, privi di qualsiasi cultura e competenza» (M.T. Cicerone, De Oratore, III, 136). 68 62 Dunque anche nel mondo romano la politichè philosophia si profonda su un ideale educativo con valenza fortemente pragmatica. Da qui il ruolo centrale che Cicerone assegna all’eloquentia che, oltre ad essere “arte della parola”, è ‘strumento’ politico. L’arte retorica, cui è data particolare rilevanza, trova la sua naturale espressione nel Senato, laddove si confrontano due tipologie di difensori: i populares e gli optimates. I primi difendevano gli interessi delle classi meno agiate della società, i secondi esprimevano quelli delle classi aristocratiche e ne peroravano la causa. Il successo dei dibattimenti dipendeva, ovviamente, dalla grande capacità oratoria, e chi la possedeva era in grado di influenzare gli animi, se non addirittura condizionare le idee, le opinioni dell’uditorio. Il mondo greco, attraverso Isocrate, aveva già riconosciuto nella retorica la sostanza dell’impegno civile e politico del cittadino, ascrivendo ad essa il compito proprio della filosofia, cioè la ricerca di una verità in concreto (doxa) e non in astratto (episteme), attraverso il tentativo di svuotare di identità quest’ultima. Per il retore ateniese è dunque la retorica la vera filosofia, che diventa filosofia civile esente dall’astrattismo metafisico ma utile alla comunità, assumendo un nuovo significato e un proprio statuto epistemologico. Nel mondo 63 romano Cicerone cerca «[…] di ricomporre l’antica unità (di riflessione intellettuale e impegno civile, caratteristica della tradizione greca come quella romana) elaborando un sistema retorico in relazione alla filosofia e sottolineando che, se spetta al filosofo indagare e analizzare la verità, è poi compito del retore divulgarla, ma tutti e due non possono non incontrarsi in zone determinate del sapere dove una vivisezione netta di princìpi e un’assoluta discriminazione di competenze sono nocive e alla retorica e alla filosofia. Le ipotesi (quaestiones finitae) che rappresentano l’ambito particolare dell’oratoria, non possono infatti non rimandare a tesi (quaestiones infinitae) cioè a quei temi generali la cui indagine spetta alla filosofia: così, ad esempio, in una causa del genus iudiciale, rientrano le tesi de aequo et iniquo e de iusto et iniusto»70 . È nell’Orator che viene espressa la tesi ciceroniana della complementarità dell’eloquenza e della filosofia, definite, rispettivamente, doctrina verborum e doctrina rerum71. Se dunque forte è l’influsso di Isocrate nell’ascrivere un ruolo civile e politico all’eloquenza, Cicerone supera la concezione del rapporto tra retorica e politica del retore greco che riteneva la retorica come unica istituzione educativa di 70 N. Flocchini, Argomenti e problemi di letteratura latina, Mursia, Milano 1977, p. 83. 71 Cfr. M.T. Cicerone, Orator, par. 17. 64 tipo etico e politico72, riducendo a mere esercitazioni propedeutiche all’educazione superiore la dialettica e le discipline matematiche. Era quella tra retorica e filosofia una disputa che in Grecia si trascinava dal II secolo a. C. e che, una volta che i Romani erano diventati padroni del Mediterraneo, si riproponeva in ragione dei nuovi interessi culturali dei vincitori, per i quali preminenti erano i risvolti pratici dell’attività intellettuale. I termini della questione riguardavano la rivendicazione esclusiva, come proprio ambito di competenza, dell’educazione e della formazione dell’uomo politico. La filosofia imputava alla retorica un arido tecnicismo e la mancanza di adeguati orizzonti culturali; di contro la retorica voleva sottrarre il primato alla filosofia, perché scollata rispetto alla prassi politica, relegandola a livello di specializzazione con il compito di affrontare solo problematiche di ordine scientifico ed erudito. 72 A riprova delle affinità ideali e di pensiero fra Isocrate e Cicerone nonché dell’incontestato valore e dell’importanza dell’eloquenza giova menzionare la celebrazione della parola come forza civilizzatrice, presente rispettivamente nell’orazione Nicocle e nel De Oratore. 65 3. Formazione e politica Cicerone, come già detto, si fa propugnatore di un’idea di formazione globale, sintesi di eloquentia e sapientia, in cui, cioè, l’arte oratoria non è mera tecnica ma si fonda su una vasta cultura e non è mai disgiunta da qualità morali di saggezza e onestà, caratterizzando il peculiare profilo formativo di quei cittadini chiamati a partecipare attivamente alla vita pubblica e al dibattito politico, così come era avvenuto nel mondo greco. È proprio la cultura il veicolo privilegiato perché i rappresentanti dell’élite politica possano coltivare i valori dell’humanitas. Una cultura, che è insieme formazione e trasmissione dei valori utili alla comunità, non può che essere pensata al servizio dell’impegno politico. È una formazione culturale vasta e approfondita che ha lo scopo di rendere consapevoli la nuova elitè di “uomini eccellenti” del proprio ruolo politico che si fonda su criteri meritocratici, in un’ottica di superamento del precedente progetto della concordia ordinum che coinvolgeva la vecchia oligarchia e l’aristocrazia di nascita. L’oratore si fa interprete di questo progetto politico di promozione e di affermazione di ceti più ampi rispetto al passato, di cui mira ad intercettare il consenso e ad avere l’approvazione 66 attraverso l’uso della parola, dell’eloquenza, dell’oratoria nutrita di cultura, che diventa ideologicamente politica, facendo leva su quelle che sono le tre qualità essenziali dell'oratore, docere o probare, delectare, movere o flectere, così come illustrate nel II libro del De Oratore73. L’oratore è profondamente impegnato nella vita politica, è quindi suo compito svolgere una missione per la comunità che può, tra l’altro, illuminare il popolo, renderlo capace di avere un quadro ben definito della situazione che sta vivendo: il suo compito è convincere il popolo. Senza un buon fondamento culturale il discorso di un oratore è infantile, privo di significato, degno di essere deriso. Si nota benissimo l’opposizione di Cicerone verso quei retori greci che affermavano che per essere buoni oratori bastasse possedere una buona dose di tecnicismi ed esercizi. Cicerone fa capire benissimo il perché l’oratore deve essere enciclopedico: «Hoc tantum oneris imponam nostris praesertim oratoribus in hoc tanta occupatione urbis ac vitae»74. L’elaborazione di questa nuova teoria politica prefigura una base Il primo compito dell’oratore è quello di informare sul fatto ed esporre la propria tesi dimostrandone la validità (docere o probare); il secondo è quello di esporre i fatti piacevolmente, con un discorso vivace, serio, faceto, ironico, satirico, esemplificando sempre (delectare); l'ultimo infine è quello di coinvolgere emotivamente l'ascoltatore, suscitando via via ira, entusiasmo, commozione, pietà (movere o flectere). Commuovere gli animi degli ascoltatori è compito soprattutto dell'arringa finale (peroratio), culmine dell'orazione. 74 M.C. Cicerone, De Oratore, par. 20, «un così grande impegno imporrò specialmente ai nostri oratori in questa così grande attività civile e privata». 73 67 sociale non più esclusivamente romana ma allargata a vari “ordini sociali” di tutta la penisola italica. È il consensus omnium bonorum, cioè l’accordo di tutti i buoni cittadini abbienti75 denominata “natio optimatium”76 nella Pro Sestio, scritta nel 56 a.C, che può essere considerata un manifesto programmatico del partito conservatore secondo la visione ciceroniana, - interessati al bene dello Stato, un nuovo blocco sociale che, rappresentando una prima “pubblica opinione”, chiede conto della scelte politiche, e di essere responsabilizzata relativamente ai destini della res publica del bene comune. «La necessità di consolidare e orientare questo blocco sociale significava di per sé un superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana, per lo più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche clientelari: da parte di Cicerone, la divulgazione frequente dei propri discorsi, e successivamente della propria produzione filosofica, è segno di un’attenzione per la formazione di una ‘pubblica opinione’ che trova ben pochi paragoni in leaders precedenti o anche contemporanei»77. 75 Vi è da dire che Cicerone verosimilmente non si riferisse ai ceti inferiori ma solo alle aristocrazie municipali italiche, e fra questi ai maggiori possidenti. Si veda sull’argomento: E. Lepore, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Il Mulino, Bologna 1954; E. Narducci, Cicerone. La parola e la politica, Laterza, Bari 2009. 76 Cfr. M.T. Cicerone, Pro Sestio, par. 96. 77 E. Narducci, Introduzione a Cicerone, cit., p. 83. 68 Per Cicerone occorreva, però, garantire pur sempre un equilibrio sociale che non poteva non passare da un rinnovamento della classe politica dirigente e, di conseguenza, da un progetto culturale che allargasse le basi del consenso sociale e mirasse a diffondere il dibattito politico a più strati della società civile. Si scorgono, verosimilmente, i presupposti dell’elaborazione di una nuova cultura utile alla formazione fra i cittadini di guide politiche, in grado anche di sostenere nei luoghi della politica le élites tradizionali, attraverso quella “parola” che diventa espressione politica, incarna la politica stessa. È uno stile di vita, un habitus mentale, esercizio delle doti naturali come prodotto dell’educazione e della formazione, che propugna il consensus come cardine della ideologia politica ciceroniana che mira, attraverso la mediazione dei conflitti politici e sociali del tempo, alla creazione di un governo di Roma autorevole. Se Isocrate prende come punto di riferimento la retorica per costruire un’identità culturale, Cicerone punta sull’eloquenza per creare una identità politica forte, capace di contrastare i pericoli di individualismi autoritari che minavano le basi della res publica e di mirare, secondo l’insegnamento di Platone, all’interesse complessivo della cittadinanza e non di una determinata parte o 69 di particolari categorie78. È un richiamo al dovere dell’individuo di impegnarsi a vantaggio della collettività in rapporto alle sue doti naturali, nella consapevolezza che l’uomo solo in un organismo giuridicamente organizzato trova la sua piena realizzazione umana e sociale. Si scorge qui l’evidente influsso di Panezio che, come detto, proponeva ai romani una vera e propria “arte del vivere”, puntando sull’attuabilità della saggezza, sul concetto di socialità come dote naturale dell’uomo e sulla doverosità dell’impegno civile79. L’urgenza di formare una nuova classe politica, dotata di una forte coscienza critica e politica, che deriva da una solida formazione culturale, propugnata da Cicerone, rappresentava l’ideale più profondo e più sacro della sua vita, cioè salvare la patria e preservare e rinsaldare le istituzioni della repubblica senatoria, a suo avviso il “miglior governo” possibile per assicurare il rispetto della costituzione e la pace sociale contro possibili sovvertimenti, garantendo, così, la legalità e le libertà personali il cui baluardo vedeva rappresentato in una classe dirigente disinteressata, dedita al bene dello stato e costituita dagli ordini sociali alti e medi. 78 Cfr. M.T. Cicerone, De officiis, I, par. 85. Cfr. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, I, trad.it., La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 387 e ss.. 79 70 Cicerone, dunque, «[…] rimase strenuo assertore dell’antica costituzione repubblicana, che era ormai uno strumento al servizio di una oligarchia decaduta e corrotta. Questa limitatezza di visione storica nulla toglie all’onestà e alla buona fede con cui egli tenne fermo il suo ideale politico, che rimase sostanzialmente immutato, mentre variò soltanto la valutazione delle forze e degli uomini con cui ritenne possibile realizzare il suo programma»80. Il mito di Cicerone, a fronte del progetto irrealizzato di una repubblica di boni cives, persegue strenuamente un legalitarismo istituzionale che si alimenta di una premura educativa iuxta propria princìpia. Fornire all’impegno politico una base di appassionata eticità attraverso la formazione di un habitus mentale e di uno stile di vita adeguato, coinvolgendo le componenti sociali più in vista, sia per censo che per tradizione, alle sorti del governo, poteva valere, soprattutto, ad arginare la crisi che inevitabilmente si innesca quando sorgono tensioni tra ambizioni individuali e organizzazione politica81. 80 L. Perelli, Storia della letteratura latina, cit., p.144. Anche se a Cicerone stavano a cuore le aristocrazie municipali italiche e teneva in debito conto la salvaguardia degli interessi dei pubblicani, in un’ottica di equilibrio e di inalterabilità sociale, egli ritiene che preposti alle cariche dello Stato, con compiti decisionali, debbano essere i pochi membri delle grandi famiglie senatorie. 81 71 Se la paideia di Isocrate si può, a ragione, definire “umana” in quanto, in un momento storico in cui si è smarrita l’identità della polis greca e con essa del polites, recupera l’individualità del soggetto attraverso un’educazione che esalta le doti intellettuali e le virtù dello spirito, nell’humanitas ciceroniana, sia pure in un diverso contesto storico ma animato dalle medesime urgenze e istanze di rinnovamento, tali doti e virtù si saldano prospettando una dimensione umana e politica insieme. Il sapere, attraverso queste due figure emblematiche di intellettuali, diventa una sorta di koinè culturale, cioè un comune codice linguistico per chi ha la responsabilità del governo di uno stato82. 82 Cicerone, nella Pro Sestio, li definisce gubernatores. 72 CAPITOLO III JOHN DEWEY: L’EDUCAZIONE PER LA DEMOCRAZIA 1. L’etica della democrazia Tenendo presente due figure importanti per il mondo greco e per il mondo romano, Isocrate e Cicerone in alcuni momenti significativi del loro pensiero, ho ritenuto opportuno riflettere su quanto le loro idee abbiano influenzato in qualche modo la società contemporanea. Poiché l’argomento è vastissimo, è opportuno circoscriverlo focalizzando un autore e di esso, in particolare, il rapporto educazione-democrazia così come si è sviluppato nella sua opera. Per tale ragione ho ritenuto John Dewey, studioso contemporaneo tra i più discussi e i più attuali, il pensatore che più contrasta e nel contempo si avvicina a Isocrate e a Cicerone. Dal populus da intendere come societas coetus e vinculum iuris, si passa con il filosofo americano ad una società intesa come Great Community, in cui la democrazia diviene il bene comune e il bene comune la democrazia. Attraverso la figura di Dewey, ed in particolare attraverso l’analisi del rapporto educazione-democrazia nel suo pensiero, mi propongo, dunque, di chiarire quanto sia importante, nella società 73 contemporanea democratica, comprendere il comportamento etico del cittadini e come questo rapporto tra etica, democrazia e educazione abbia le sue chiare radici proprio nei concetti di paideia e di humanitas esaminati in alcuni specifici momenti e nelle figure significative di Isocrate e Cicerone83. Il pensiero di John Dewey rappresenta uno dei nodi cruciali della filosofia e della pedagogia del secolo scorso. Il filosofo, riconosciuto come uno dei fondatori assieme a William James e a Charles Sanders Peirce del pragmatismo classico americano, è stato considerato, sia in Italia sia in diversi altri paesi, il filosofo della democrazia, ma in effetti ancora non è stato studiato complessivamente seguendo in modo cronologico lo sviluppo del suo pensiero84. 83 Cfr. G. Spadafora, Studi deweyani, Fondazione Italiana John Dewey, Cosenza 2006, che è il punto di riferimento per la presente trattazione; G. Spadafora, a cura di, John Dewey. Una nuova democrazia per il XXI secolo, Anicia, Roma 2003 e T. Pezzano, Il giovane Dewey. Individuo, educazione, assoluto, Armando, Roma 2008. 84 John Dewey nasce a Burlington il 20 0ttobre del 1859 da Archibald e Lucina Rich Dewey. La caratteristica della sua vita è quella di avere attraversato i periodi più significativi della storia culturale e politica degli Stati Uniti dalla guerra di secessione (a cui il padre prese parte e che avvia l’incredibile sviluppo dell’economia americana tra Otto e Novecento), fino al 1952 (anno della sua morte), periodo caratterizzato dalla guerra fredda e dall’affermazione dell’energia nucleare come paradigma tecnologico e culturale che si affermerà compiutamente proprio in quel periodo. Dopo avere conseguito la laurea a Burlington insegna nell’High School di Oil City in Pensilvanya e, successivamente, nel 1884 consegue il dottorato presso la Johns Hopkins University di Baltimora dove ha come maestri Gorge Sylvester Morris, Stanley Hall e Charles Sanders Peirce. È chiamato da Morris presso l’università del Michigan dove diventa Professor of Pilosophy. Nel periodo universitario 1888-89 insegna un semestre all’università del Minnesota. Durante i dieci anni di permanenza all’università del Michigan egli incontra e sposa nel 1886 Harriet Alice Chipman da cui avrà sette figli. Nel 1894 è nominato Professor of Philosophy e Chairman del Department of Philosophy, Psychology and 74 Inoltre, un aspetto recentemente evidenziato e che si lega fortemente alle problematiche della società contemporanea è il suo grande interesse per il rapporto tra la tecnologia e lo sviluppo della democrazia nella società globale contemporanea85. Education presso l’università di Chicago dove rimane fino al 1904 e dove tra il 1896 e il 1903 organizza la famosa scuola-laboratorio, altrimenti detta “scuola del Dewey”. Dopo la fondamentale esperienza d’insegnamento presso l’università di Chicago, per contrasti con il Rettore di quella università, preferisce insegnare fino al 1929 presso la Columbia University di New York. Dagli anni ’20 in poi la sua “travelling theory” – filosofia viaggiante – confronta il suo modello di democrazia con la possibilità di applicarlo in numerosi paesi europei e asiatici. I suoi viaggi fondamentali in Cina, Giappone, Russia, Europa, Turchia, Messico danno il senso di un’intensa attività d’intellettuale globale sempre in giro per il mondo; un mondo meno “globale” – rispetto a quello contemporaneo – per quanto concerne la possibilità delle comunicazioni, ma reso “globale” dal desiderio di Dewey di comprendere le possibilità di costruzione della democrazia in differenti civiltà. Inoltre l’impegno politico, testimoniato dai suoi scritti, che teorizzano un “nuovo individualismo” sociale, la sua costante fede in una forma di democrazia sociale diversa dal liberismo individualistico e dal comunismo staliniano come dalle dittature nazifasciste, il suo tentativo fallito di creare un terzo partito negli Stati Uniti, la sua presidenza nel 1937 della Commissione d’inchiesta su Leon Trotsky, il suo intervento nel 1940 in difesa di B. Russell, al quale era stato negato di insegnare all’università di New York per le sue idee in materia di morale sessuale, dimostrano la centralità morale e politica della sua figura nell’ambito della cultura americana e internazionale del Novecento. Si spegne per polmonite il 1° Giugno del 1952 a New York. L’interpretazione del pensiero di Dewey non può essere limitata alle opere più note, ma va compresa anche attraverso l’analisi dei numerosi interventi apparentemente “minori”. Si possono ricordare qui, soprattutto: The Reflex Arc Concept in Psychology del 1896 e The Sources of a Science of Education del 1929. E ancora, tra le opere organiche più note: Psychology del 1887; My Pedagogic Creed del 1897; The School and Society del 1899; How we Think, del 1910; Democracy and Education, del 1916; Reconstruction in Philosophy del 1920: Human Nature and Conduct. An Introduction to Social Psychology, del 1922; Experience ad Nature del 1925; The Public and Its Problems del 1927; The Quest for Certainty del 1929; Individualism Old and New, del 1930; Ethics scritta assieme a J. Tufts, seconda edizione rivista del 1932 (la prima era del 1908); Art as Experience del 1934; A Common Faith del 1934; Liberalism and Social Action del 1935; Logic: The Theory of Inquiry, del 1938; Experience and Education del 1938; Freedom and Culture del 1939; Theory of Valuation del 1939; Problems of Men, del 1946; Knowing and the Known, del 1949. (La maggior parte delle opere menzionate è tradotta in italiano, in particolare dalla Nuova Italia di Firenze). 85 Cfr. L. A. Hickman, John Dewey’s Pragmatic Technology, Indiana University Press, Bloomington 1990 e Armando, Roma 2000, con una presentazione di G. Spadafora. 75 La complessità del suo pensiero, in effetti - basti pensare che l’edizione critica deweyana consta di ben 37 volumi più un volume d’indici -, è da definire alla luce anche degli intensi rapporti politici coltivati nella sua lunga vita, dei viaggi e delle svariate iniziative culturali; tutte cose che gli hanno valso l’appellativo di “intellettuale globale ante litteram”86. È indubbio che alcune biografie sul filosofo, dagli anni Novanta in poi, in particolare quella di Robert Brett Westbrook, rappresentano un contributo rilevante, che permette di cogliere la complessità dei legami tra il senso della sua filosofia e le trasformazioni culturali e politiche del tempo87. La mia analisi, proprio per tentare di legare il discorso deweyano alle problematiche prima evidenziate in Isocrate e in Cicerone, cercherà di soffermarsi principalmente sul rapporto tra l’educazione e la democrazia nel suo pensiero, mettendo in evidenza soprattutto tre momenti della produzione filosofica del pensatore americano simboleggiati, in particolare, da quattro testi fondamentali, che rappresentano in modo molto chiaro il legame educazione-democrazia come chiave di lettura complessiva del suo pensiero: The Ethics of Democracy del 1888, The School and 86 Cfr. J. A. Boydston, Guide to the Works of John Dewey, SIUP, Carbondale 1970. Cfr . R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, Cornell University Press, Ithaca, 1991, Armando, Roma 2011 (trad. it. a cura di T. Pezzano). 87 76 Society del 1899, Democracy and Education del 1916, The Public and Its Problems del 1927. I quattro testi, ovviamente, saranno contestualizzati nell’ambito del lavoro filosofico deweyano e messi in correlazione con la sua riflessione complessiva. Focalizzando i nodi centrali dell’itinerario culturale del filosofo americano, ho potuto constatare che il suo disegno complessivo è stato quello di “ricostruire la filosofia” rispetto all’impostazione idealistica e al realismo materialista e naturalista, ma, nello stesso tempo, anche quello di “ricostruire” il sistema educativo con la teoria dell’“educazione progressiva” e con la scuola- laboratorio di Chicago. L’interesse filosofico e pedagogico deweyano, dunque, ha determinato la definizione e la progressiva teorizzazione di un modello di democrazia forse utopistico, in antitesi ad ogni forma di dittatura del tempo, che si è posto come un modello universale di democrazia, un modello di “democrazia globale”. La prima formazione del giovane Dewey rappresenta uno degli aspetti di maggiore interesse affrontati dalla letteratura critica deweyana per chiarire il senso del suo hegelismo giovanile o, se si vuole, il significato del passaggio dall’“assolutismo allo sperimentalismo”, così com’è stato definito dallo stesso filosofo 77 americano in un suo scritto autobiografico88. Dalla data del primo scritto, The Metaphisical Assumptions of Materialism, del 1882, fino alla sperimentazione della scuola laboratorio di Chicago, 1896-1903, ci si trova di fronte ad una trasformazione problematica della filosofia deweyana: da una concezione dell’assoluto, considerata di matrice hegeliana, si passa sempre più ad una dimensione “sperimentale” del rapporto soggettooggetto. Il giovane Dewey sviluppa, in effetti, attraverso la lettura a volte eclettica di filosofi centrali nella cultura europea quali Spinoza, Leibniz, Kant e lo stesso Hegel, unitamente ad una chiara influenza religiosa di matrice protestante pietista- congregazionalista da parte della madre Lucina Rich, una critica al materialismo e un’attenta riflessione nei confronti del metodo filosofico kantiano89. Nei primi scritti del 1882 (The Metaphysical Assumptions of Materialism e The Panteism of Spinoza), il problema che Dewey evidenzia è la critica della dimensione metafisica del materialismo e dell’assolutismo panteistico di Spinoza per mettere in evidenza come la filosofia deweyana cerca di 88 Cfr. A. Granese, Il giovane Dewey, La Nuova Italia, Firenze 1966; N. Coughlan, Young John Dewey, University of Chicago Press, Chicago 1975. 89 Cfr. T. Pezzano, L’organismo sociale nel giovane Dewey, Periferia, Cosenza 2011. 78 focalizzare subito il tema della libertà dell’individuo rispetto all’assoluto che può essere considerato la metafora filosofica della collettività, del bene comune, della società, dell’istituzione democratica. Questo problema ha in Dewey una soluzione che si confronta con l’attività della soggettività trascendentale. Proprio questo approccio determina una grande interesse del filosofo americano per i temi della psicologia che vengono analizzati nel testo Psychology, del 1887. La “nuova psicologia”, interiorizzata e rielaborata grazie all’influenza di Stanley Hall alla John’s Hopkins University di Baltimora, è una concezione della psicologia che definisce una teoria della coscienza connessa all’evoluzione dell’ambiente di vita del soggetto e, soprattutto, alla possibilità di trovare un punto di incontro tra la soggettività e l’oggettività. La soggettività si tripartisce, secondo la “nuova psicologia”, in conoscenza, sentimento e volontà, categorie imprescindibili per la formazione del soggetto, passando da una concezione idealistica ad una concezione funzionalista del processo conoscitivo. Il sé è espressione delle trasformazioni della soggettività dell’individuo, che connette il processo conoscitivo alla “scelta morale”; relazione che determina inevitabilmente la centralità del 79 processo educativo. La dimensione psicologica diventa il fondamento epistemologico alla trattazione centrale del pensiero deweyano nei confronti della democrazia. In effetti il filosofo americano già un anno prima aveva pubblicato nel 1886 Soul and Body, che rappresenta uno dei testi centrali della prima formazione deweyana, in quanto analizza il nesso mente-corpo. In questo testo egli è contro qualsiasi dualismo mente-materia, soggetto-oggetto e considera il rapporto mente-corpo continuo e non scisso. L’individuo è ciò che vuole essere, anche se la sua individualità si pone all’interno di un’esperienza problematica e questa dimensione è studiata proprio nella complessità del rapporto tra la soggettività e l’oggettività90. La relazione problematica io-mondo apre Dewey al tema della democrazia. Nel testo fondamentale della sua produzione giovanile sulla democrazia, e cioè The Ethics of Democracy del 1888, Dewey, in effetti, giustifica la questione della democrazia in relazione all’etica91. Il saggio nasce dalla critica che Dewey fa al lavoro di Sir Heny Maine che nel 1886 aveva pubblicato Popular Government, in cui si afferma che la democrazia è un 90 Cfr. J. Dewey, Soul and Body, in The Early Works, vol. 1 1882-1888, SIUP, Carbondale 1969 pp. 93-115. 91 Cfr. J. Dewey, The Ethics of Democracy, in The Early Works, vol. 1, 1882-1888, SIUP, Carbondale, 1969 pp. 227-249. 80 sistema politico che pone dei problemi molto specifici e che non li risolve. La democrazia, infatti, secondo Henry Maine è il “governo dei molti” e, quindi, è da considerare negativa, in quanto le specifiche conseguenze della sua realizzazione sono o l’anarchia, espressione dell’attività di ogni singolo individuo che intende perseguire i propri specifici interessi, o è l’espressione della impossibilità di determinare il governo dei molti e, quindi, diventa inevitabilmente l’anticamera della tirannide, in quanto non permette la possibilità di realizzare il governo del popolo, anche per i limiti della rappresentanza politica, subito individuati92. La risposta del filosofo americano è chiara e diventa un momento fondamentale della sua futura ricerca. La democrazia è l’unica organizzazione sociale, umana e politica che garantisce all’individuo uno specifico sviluppo nell’ambito della sua attività umana. La democrazia è tale, quindi, proprio quando garantisce all’individuo una sua specifica possibilità di sviluppo e di realizzazione umana e sociale. Essa rappresenta, quindi, lo sviluppo compiuto dell’individualità. La centralità della democrazia, in quanto espressione dello sviluppo dell’individualità, diventa il tema strettamente legato 92 Ivi, pp. 246-249. 81 alla teoria pragmatista dell’individualità che ha nel testo del 1896 sull’arco riflesso, considerato il Manifesto del pragmatismo, un suo sviluppo fondamentale. In questo testo, che riprende le problematiche già affrontate nei Principles of Psychology del 1890 di William James e, in modo mediato, di Cartesio, Dewey propone il tema della soggettività in rapporto alle coevolutive trasformazioni dell’ambiente, tema sviluppato in tutta l’opera successiva93. Il rapporto soggetto-oggetto non è un arco riflesso determinato da parti “disgiunte di un processo”, ma è una coordinazione complessiva dell’attività umana, un “circuito”, un “circolo” coordinato, in cui avviene uno squilibrio e un riequilibrio della situazione in cui si compie il rapporto stimolo-risposta94. Questo testo rappresenta un momento fondamentale della riflessione deweyana che prelude allo sviluppo successivo del suo pensiero. Da esso, tenuto ancora non nella dovuta considerazione nell’ambito della riflessione critica deweyana, si possono trarre alcune osservazioni che ci guidano nella comprensione del suo percorso filosofico. La teoria dell’arco riflesso è fondamentale, in quanto chiarisce la natura della filosofia deweyana che cerca di 93 Cfr. J. Dewey, The Reflex Arc Concept in Psychology, in The Early Works, vol. 5, 1895-1898, SIUP, Carbondale 1972, pp. 96-110. 94 Ivi, pp. 102-103. 82 superare il tradizionale dualismo corpo-anima, riproposto proprio dalla separazione dello stimolo dalla risposta. Questa filosofia intermedia, in cui la dimensione idealistico-spiritualistica non è separata da quella materialistico-realistica, è definita in questo scritto che rappresenta il vero punto di svolta del filosofare deweyano. Lo stimolo e la risposta sono distinzioni teleologiche, cioè distinzioni di funzione con riferimento al raggiungimento o al mantenimento di un fine. La distinzione, teleologicamente orientata, chiarisce un concetto centrale: l’arco riflesso non è costituito da uno stimolo e da una risposta, ma da un atto coordinato “incerto”, problematico, che determina uno squilibrio e un riequilibrio all’interno di ogni specifica situazione. Il problema etico della democrazia si lega, quindi, strettamente al tema del rapporto dell’individuo con la realtà e, di conseguenza, con l’educazione. Il processo educativo e la democrazia diventano proprio attraverso questi studi le categorie centrali della riflessione deweyana. In effetti, i vari studi deweyani sulla psicologia dello sforzo, sul “feticcio dell’educazione primaria”, sulla pedagogia come disciplina universitaria, sulla necessità di una scuola-laboratorio rappresentano il tentativo di porre la questione della soggettività 83 in modo diverso rispetto alle filosofie di matrice europea. È in particolare, nel periodo di Chicago (1894-1904), che la filosofia deweyana giunge ad un più maturo compimento esplicitando con chiarezza il rapporto tra la scuola, l’educazione e la democrazia. Una filosofia, insomma, che cerca di definire una “terza via” teoretica tra idealismo e realismo, che cerca di collegare la ricerca filosofica sulla soggettività dell’individuo, la teoria dell’educazione progressiva e la riflessione sulla concezione della democrazia95. Uno scritto che testimonia l’intreccio tra la ricerca filosofica e quella educativa è The School and Society 96 del 1899 in cui l’autore in gran parte analizza le esperienze maturate nella scuola-laboratorio di Chicago nel primo triennio 1896-1898, ma nello stesso tempo sviluppa un punto centrale della sua ricerca e cioè che la scuola “è il laboratorio della democrazia”, proprio perché la scuola non è il luogo dove il bambino vive, anzi spesso è un luogo artificiale all’interno del quale il bambino deve crescere. Per trasformarsi la scuola deve aprirsi alla società nei suoi valori e nella sua organizzazione e il bambino, nella sua crescita 95 Cfr. G. Spadafora, Studi deweyani, cit., p. 23. Cfr. J. Dewey, The School and Society, in The Middle Works, vol.1, SIUP, Carbondale, 1976, pp. 3-109. 96 84 mentale e fisica, deve essere al centro del processo educativo, non subendo passivamente l’insegnamento, ma facendo sì che si determini sotto la guida dell’insegnante, in modo problematico e progressivo, la sua esperienza, condividendola con gli altri. Questo testo si basa su tre princìpi fondamentali, ma anche su numerosi altri criteri di interpretazione educativa della realtà. a) La scuola, per poter essere credibile, deve aprirsi alla società, nel senso che deve sviluppare i contenuti del suo curriculum e le sue metodologie e didattiche tenendo presente ciò che contestualmente avviene nella società. b) Il bambino è al centro del rapporto educativo, nel senso che non deve più subire l’azione dell’insegnante, inteso come trasmettitore di conoscenze, ma deve rendersi conto all’interno di un ambiente di apprendimento predisposto dall’insegnante, considerato da Dewey un giardiniere, della sua capacità progressiva di conoscere la vita sociale proprio all’interno dell’aula scolastica. c) La scuola è una organizzazione, nel senso che la scuola non è il luogo dello spontaneismo didattico dell’insegnante o dello spontaneismo del bambino, ma è il luogo in cui il dialogo 85 costituisce l’elemento fondamentale per la progressiva crescita civile e morale dello studente97. Questa problematica persiste nella filosofia deweyana sino al 1903, anno di pubblicazione degli Studies in Logical Theory che costituiscono un momento fondamentale per comprendere il passaggio “dall’assolutismo allo sperimentalismo”, proprio perché la logica già in questo scritto rappresenta uno “strumento” per trasformare la realtà sociale e politica. La riflessione sulla soggettività negli studi logici esprime la forma di un soggetto che vive nella situazione specifica e che si trova dinanzi ad un’esperienza problematica continuamente da riequilibrare e da adattare all’ambiente proprio attraverso lo strumento della logica. È proprio nel periodo tra il 1903 e il 1906, che il filosofo sviluppa una serie d’interventi non organici ma preparatori alle opere più mature che caratterizzano la piena definizione della concezione pragmatista del conoscere. Si tratta d’interventi sulla filosofia, sull’etica, sull’educazione e sulla democrazia. Ma il problema del rapporto educazione-democrazia è sviluppato ulteriormente in un articolo del 1903 Democracy in Education. 97 Ivi, pp. 52-55. 86 La vita moderna significa democrazia, democrazia significa liberare l’intelligenza per una realizzazione indipendente. In un altro intervento del 1904, The Relation of Theory to Practice in Education, dopo avere chiarito le differenze tra “l’educazione diretta e indiretta” scolastica ed extrascolastica quasi a testimoniare come il vero problema della scuola consista nell’organizzare un insegnamento-apprendimento che riproduca le situazioni della vita individuale e sociale - il filosofo rileva il valore dell’educazione progressiva che lega la teoria alla pratica: il discorso centrale della sua riflessione logica e filosofica trova nell’educazione il luogo di maggiore approfondimento. 87 2. Democrazia e educazione: il nodo centrale Il tema della “teoria della vita morale” dell’individuo che si sviluppa nella democrazia rappresenta uno dei momenti centrali della riflessione deweyana. La sua teoria morale si basa sulla “situazione morale” e, in modo più specifico, sulla centralità della vita pratica, che mette in rapporto l’individuo e l’organizzazione sociale, la società civile e lo stato politico. L’etica è una condizione fondamentale per l’analisi della condotta umana, in cui la ricerca filosofica sulla soggettività, le problematiche dell’educativo e la ricerca della convivenza democratica tra gli individui trovano il più ampio sviluppo. In tale prospettiva, il valore centrale della sua teorizzazione si lega al concetto darwiniano dell’evoluzione per un motivo fondamentale: l’influenza di Darwin sulla filosofia dimostra che non ci può essere nessuna possibilità per una forza casuale intelligente a priori.98 È nel testo del 1910, How We Think, che il problema logico si collega al ripensamento della soggettività. Il pensare è legato all’operatività dell’indagine dal momento che ogni inferenza va 98 Cfr. J. Dewey, The Influence of Darwinism on Philosophy, in The Middle Works, vol. 4, SIUP, Carbondale, 1977, pp. 3-30. 88 provata attraverso il metodo dell’indagine, che si caratterizza nel favorirla e nel collegarla ai princìpi logici e psicologici riconducibili all’induzione e alla deduzione99. Questa problematica è connessa alla missione politica che in quegli anni, alla vigilia dell’ingresso degli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale, quando Woodrow Wilson era presidente degli Stati Uniti, il filosofo americano intende sviluppare. Nello scritto del 1915, German Philosophy and Politics100, è chiara la missione storica di costruire una filosofia e una politica per l’America. Non una filosofia assoluta come quella tedesca, ma una filosofia diversa da quella europea, proiettata verso le opportunità del futuro e i bisogni di ogni singolo individuo. Una filosofia della storia rivolta alla costruzione del futuro deve basarsi su una sperimentazione intelligente come metodo culturale. In questa prospettiva il testo, scritto insieme alla figlia Evelyn, Schools of To-Morrow - dello stesso anno, 1915 dimostra la fede culturale nel futuro che si basa sulle scuole ispirate, in gran parte, all’educazione progressiva elaborata sin dai tempi di Chicago101. 99 Cfr. R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., in particolare pp. 230-231. 100 Ivi, pp. 214-215. 101 Ivi, pp. 227-234. 89 Il testo di maggiore maturazione, dove si evince con chiarezza il nesso centrale tra filosofia, educazione e politica, è Democracy and Education, del 1916 che è da considerare uno dei testi più diffusi e conosciuti del filosofo americano, ma anche uno dei lavori centrali e più significativi della sua opera. I primi quattro capitoli del lavoro analizzano le varie definizioni del concetto di educazione (l’educazione come necessità della vita, come funzione sociale, come direzione, come crescita). Dal 5° al 23° capitolo egli entra nel vivo della concezione democratica dell’educazione nella scuola e al di fuori della scuola. Negli ultimi tre capitoli, dal 24° al 27°, egli tratta il tema delle teorie della conoscenza, delle filosofie dell’educazione e morali. Un testo, questo, che fa emergere i nodi centrali della ricerca deweyana: la riaffermazione della “naturalità” dell’educazione, la sua funzione necessaria nell’attività umana e interpersonale, legata allo sviluppo progressivo dell’individuo in cui la crescita (growth) biologica, psicologica e involontaria si unisce all’attività intenzionale del crescere (growing). In questo testo il filosofo americano riprende le tematiche già sviluppate in The Ethics of Democracy e in The School and Society. La democrazia, come way of life, si fonda 90 sull’educazione, e si presenta come l’unica possibile forma di governo che favorisce lo sviluppo dell’individuo. Nel cap. IX del testo, infatti, intitolato Natural Development and Social Efficiency as Aims, egli afferma con chiarezza che la vera efficienza sociale è lo sviluppo dell’individuo, delle sue embedded powers, delle sue potenzialità inespresse e che l’educazione nella scuola, ma anche fuori dalla scuola, è fondamentale per il processo democratico. Nelle battute finali del testo Dewey afferma che la filosofia «è una teoria generale dell’educazione», una filosofia che non deve essere solo astratta riflessione sull’individuo ma che, attraverso l’educazione, dia un significato per risolvere i problemi degli individui102. Il testo del 1916 è quello in cui la sua filosofia è “esposta più compiutamente”. L’educazione deve fondare la democrazia e, proprio attraverso il metodo dell’intelligenza, deve sviluppare quella “intelligenza creativa” che applica le potenzialità della scienza per controllare lo sviluppo sociale e per costruire la società. Dewey considera, dunque, la democrazia come il valore fondamentale da perseguire e, proprio per questo, sostiene, in 102 J. Dewey, Democracy and Education, in The Middle Works, vol. 9 , SIUP, Carbondale, 1980, p. 338. 91 polemica con il suo allievo Randolph Bourne, la necessità anche di imporre la democrazia con la guerra e, nel caso specifico, per giustificare l’intervento degli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale103. Nel biennio 1918-1919, l’attività culturale del filosofo può essere riassunta nell’articolo del 1919 Philosophy and Democracy, in cui insiste sul rapporto organico tra filosofia, democrazia ed educazione, riflettendo sul problema dell’individuo, «la cui esistenza ha qualcosa di unico e irripetibile», che solo nell’associazione umana può comprendere il senso dell’uguaglianza e della disuguaglianza. Le vicende successive al primo conflitto mondiale, le questioni territoriali dell’Europa e dell’integrazione multietnica degli Stati Uniti del tempo, il problema centrale della costruzione della democrazia di tradizione occidentale anche nel mondo orientale e islamico (ad esempio in Giappone, in Cina e in Turchia), costituiscono l’humus politico che fanno di Dewey l’intellettuale che si lega meglio alla visione universalistica del presidente Wilson104. 103 104 R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., p. 271. Ivi, pp. 311-323. 92 La conseguenza filosofica è la comprensione dell’esperienza che deve porsi al centro della riflessione filosofica. In questo senso una “ricostruzione filosofica” dovrebbe, quindi, basarsi su un nuovo concetto d’esperienza in cui i valori prefissati di verità non esistono, ma sono messi in discussione nelle situazioni specifiche e la dimensione estetica, la poesia, l’arte, l’immaginazione sono fenomeni non separati dalla scienza e dalla tecnologia. Il filosofo parla di una “ricostruzione” come espressione di una filosofia sociale che si esprime nell’esperienza umana105. La “ricostruzione” della filosofia che deve essere un processo legato alle trasformazioni della scienza e della tecnologia, si sviluppa proprio grazie al rapporto educazione-democrazia. 105 Cfr. J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, in Middle Works, vol. 12, SIUP, Carbondale 1982, pp. 77-201. 93 3. Il Pubblico e i suoi problemi: educare alla Great Community Il problema dell’individuo e dell’associazione umana, però, non può che legarsi a quello della ricerca delle possibilità di dialogo e di associazione della vita umana, come il filosofo ci suggerisce sia in Human Nature and Conduct del 1922, sia in Experience and Nature del 1925. La filosofia si può ricostruire solo mettendo in discussione la tradizionale concezione della metafisica, secondo cui esiste un’organicità assoluta o una soggettività trascendentale che esprimono una valenza universale prevalente sulla particolarità individuale. In Human Nature and Conduct del 1922 Dewey analizza il ruolo della soggettività all’interno delle “abitudini”, intese come “funzioni sociali” da migliorare e da trasformare progressivamente verso il meglio106. La comprensione del rapporto tra le abitudini e la loro dimensione sociale è data dal senso complessivo della vita, determinata da un “meccanismo flessibile” ma “indispensabile” in cui è presente uno slancio che caratterizza l’esistenza umana. 106 Cfr. J. Dewey, Human Nature and Conduct, in The Middle Works, vol. 14, SIUP, Carbondale, 1983, pp. 4-227. 94 La vita è fatta di “abitudini”. Sta all’individuo far sviluppare un impulso specifico per andare oltre l’abitudine e superare le situazioni cristallizzate della vita umana in altre situazioni innovative. Il rapporto tra l’impulso e l’abitudine fa emergere il significato della libertà umana che deve esprimersi come la possibilità e il desiderio per diventare decisivi nella scelta in rapporto agli eventi. In questa prospettiva, la morale deve costituire un fenomeno sociale, che solo il concetto di azione all’interno dell’esperienza può chiarire. Un’altra considerazione da proporre, avuto riguardo al testo del 1922, è che la caratteristica fondamentale del pensiero deweyano è quella di non “rivoluzionare” il contesto sociale e politico in cui gli eventi umani si svolgono, ma solo quello di modificare progressivamente le “abitudini” sociali. In questo senso l’educazione rappresenta un elemento fondamentale per comprendere lo sviluppo sociale umano. In Dewey, quindi, il richiamo all’educazione, indispensabile alla formazione politica della democrazia, è l’unico antidoto alla distruzione dell’umanità in un tempo storico in cui le incertezze delle democrazie occidentali preparavano alla nascita delle 95 dittature nazifasciste, e il bolscevismo post-rivoluzionario determinava l’avvento dello stalinismo in Russia107. Il luogo di riflessione più autentico, che porta ad un’ulteriore elaborazione del rapporto che sussiste tra l’educazione e la democrazia, è Experience and Nature del 1925, uno tra i testi più noti della filosofia deweyana. Il tema centrale del libro è rappresentato dall’esperienza che supera la tradizionale divisione epistemologica cartesiana mente-materia, come già il testo giovanile del 1886 Soul and Body lasciava intravedere. Experience and Nature, anche nella riedizione del 1929, prende le mosse dalla considerazione, contenuta nel primo capitolo, che il metodo filosofico è qualcosa di naturale, che presenta i “tratti generici” del cambiamento, rappresentando l’esperienza complessiva della vita dell’organismo vivente. La vita esprime un’attività comprensiva, in cui l’organismo e l’ambiente sono inclusi. È indubbio, quindi, che il metodo filosofico a cui Dewey fa riferimento è quello scientifico, basato su una continuità della sperimentazione, ma è altrettanto vero che l’esperienza è un fenomeno complesso e articolato in cui sono presenti sia gli aspetti positivi che quelli negativi della vita umana. 107 Cfr. L. A. Hickman, Philsophical Tools for Technological Culture, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 2001. 96 L’esperienza è il fondamento dell’esistenza umana che presenta caratteri di precarietà e di stabilità. Un’esperienza come applicazione concreta delle ipotesi della scienza “pura”, non esiste. L’applicabilità più indicativa nell’esperienza umana è quella che si riferisce alla comunicazione umana che, come già è stato osservato in Democracy and Education, determina la costruzione e la condivisione dei valori. L’esperienza è espressione del rapporto individuo-ambiente, il living organism, il circolo critico uomo-natura che dà significato all’esperienza umana. Già nel secondo capitolo del testo dal titolo Existence as Precarious and as Stable, il filosofo americano pone il problema della complessità degli eventi naturali che caratterizzano l’esistenza umana come stabile e precaria al tempo stesso, che si costruisce e si evolve all’interno della situazione che educa un uomo come una creatura che desidera, che lotta, che pensa, che ha sentimenti108. La situazione è esperienza, in quanto espressione di qualcosa di complesso e non statico che oltrepassa le dimensioni della soggettività naturalisticamente intesa. La natura è problematica ed è espressione di un’universalità che non è finale, come il sistema aristotelico aveva teorizzato, ma 108 Cfr. J. Dewey, Experience and Nature, in The Later Works, vol. 1, SIUP, Carbondale 1981, pp. 42-68. 97 “strumentale” nel senso che si “consuma” all’interno dell’attività umana. La tradizione classica, quindi, aveva espresso una concezione dell’esperienza che poneva il pensiero e l’apprendimento come “fini in se stessi” e che si basava su un sistema rigido che, dal punto di vista sociale, determinava la divisione in classi sociali. L’esperienza è espressione fondamentale di comunicazione e di significato che si può definire solo grazie agli “strumenti”. Questi sono fondamentali per costruire la realtà e per definire l’esperienza come qualcosa che va continuamente ripensato. La chiave per una corretta interpretazione sulla problematicità della posizione dell’individuo nel mondo sta per Dewey nell’azione umana, al tempo stesso naturale e sociale: oggetto tra gli eventi naturali, “fine naturale” e soggetto che costruisce e definisce i suoi valori comprendendo la difficoltà di definire le operazioni mentali e culturali all’interno delle trasformazioni della realtà. L’esperienza, in altri termini, è espressione del patire e dell’agire, della sofferenza, della gioia, che sono entrambe espressione della capacità di costruzione del mondo naturale, sociale e politico. In questo senso l’esperienza è il luogo in cui il living organism sviluppa il “metodo dell’intelligenza”, ossia quel metodo che 98 determina la scelta dei valori in base alle trasformazioni “transazionali” del soggetto e dell’ambiente. È proprio in questa dimensione dell’esperienza che il filosofo americano coglie il suo rapporto con l’arte, con la dimensione estetica. Non vi può essere separazione tra la scienza e la costruzione estetica della vita. Quindi, anche la politica ha bisogno della dimensione estetica e educativa per potersi definire e realizzare. In un articolo del 1926 Art in Education-and Education in Art è chiarito dal punta di vista estetico l’ulteriore approfondimento della soggettività. Il filosofo, dopo aver preso visione diretta del ruolo che la democrazia riveste al di fuori degli Stati Uniti e dopo personali valutazioni sui paesi visitati, quali ad esempio la Cina, la Turchia, il Messico, nel 1927 con The Public and Its Problems, offre una lettura illuminante sul tema della democrazia legata alla “scoperta delle istituzioni” e, in particolare, dello Stato non solo come l’istituzione rappresentativa degli interessi della società civile, ma soprattutto come un’istituzione che va sperimentata e ridefinita continuamente dall’attività politica e associativa. Il mondo delle trasformazioni tecnologiche e della comunicazione, “il nuovo mondo” (a cui profeticamente fa riferimento il filosofo americano) deve ispirare la ricerca di una “Great Community” che leghi la costruzione della democrazia 99 delle piccole comunità ad una democrazia planetaria, individuata dal filosofo nel 1946 nell’Introduzione alla nuova edizione del testo del 1927, nell’Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U). Il concetto di Pubblico, definito in questo testo, chiarisce un problema fondamentale: la democrazia è un ideale regolativo e flessibile che si adatta alle varie possibilità dell’associazione umana e che, soprattutto, deve limitare il potere delle élites politiche. La filosofia, in questa prospettiva, non può che favorire il processo di “civilizzazione” della storia umana proponendo la costruzione di una nuova democrazia, grazie ad una teoria educativa che aiuti la soggettività a scoprire gli orizzonti culturali ed estetici dell’esistenza umana. Il concetto di Pubblico, quindi, espressione dell’opera del 1927, si poneva in contrasto con la visione di Walter Lippman, l’autore che coniò successivamente il termine “guerra fredda”. Nei suoi due testi, uno del 1922 Public Opinion e l’altro del 1925 Phantom Public, considerati oggi dei classici della sociologia dell’opinione pubblica, l’autore metteva in evidenza la difficoltà di poter educare una opinione pubblica consapevole. Anzi, l’opinione pubblica era ritenuta da questo punto di vista, 100 manipolabile e, quindi, la democrazia era ritenuta altrettanto difficile da realizzare se non come potere delle élites109. John Dewey sostiene che il tema centrale della democrazia, riprendendo quella che era la tesi della polemica giovanile con Henry Maine, era da considerare la centralità dell’individuo nella comunità e che, quindi, solo una educazione dal basso la poteva costruire. Bisogna, quindi, partire dal basso, dalle piccole comunità che in un certo senso possono dare la possibilità di costruire una Great Community110. Il riferimento di Dewey era sicuramente alla specifica situazione storica degli Stati Uniti in grande crisi di identità democratica prima della fatidica data del 1929, la grande crisi economica, ma il suo messaggio, specialmente dopo i viaggi che dagli anni Venti in poi avevano caratterizzato la sua attività di politico culturale, di intellettuale di apparato dell’intellighenzia del tempo alla ricerca di conferme sul valore della democrazia come modello da diffondere nella comunità internazionale, era di carattere universale. Ai fini del nostro discorso complessivo sul rapporto tra l’educazione e la democrazia, il testo The Public and Its 109 110 R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., pp. 351-389. Ivi, pp. 399-400. 101 Problems risulta fondamentale, in quanto è espressione di un ulteriore livello di approfondimento rispetto ai nodi concettuali che erano emersi precedentemente sia in The Ethics of Democracy e The School and Society, sia in Democracy and Education. Il concetto di Pubblico, infatti, testimonia la centralità e l’importanza della comunità come comunità di individui che dal basso possono determinare l’autentico cambiamento della democrazia che in quell’epoca viveva in un momento di grave crisi di identità, dovuta alla messa in evidenza delle grande disuguaglianze sociali che la caratterizzavano. La crisi della democrazia come rappresentanza politica era quindi superabile attraverso una grande opera educativa dal basso. Proprio per questo, ancora di più rispetto alla precedente teorizzazione, la nuova dimensione del filosofare deve far riferimento alla capacità della soggettività di intervenire nel mondo per trasformarlo senza farsi condizionare dalla tradizionale ricerca dell’immutabilità e della trascendenza, così come mette in rilievo in The Quest for Certainty del 1929, ma deve cercare il cambiamento educativo della democrazia. Il soggetto conosce non attraverso le forme a priori della conoscenza, ma attraverso asserzioni ipotetiche e probabili che 102 determinano una doppia caratteristica della soggettività: quella di modificare la realtà attraverso l’uso della scienza e quella di costruire valori per la definizione del “bene comune”. Il rapporto tra l’educazione e la democrazia dagli anni ’30 in poi è ancora di più lo sfondo complessivo della sua ricerca. Il problema della filosofia e dell’educazione si lega più chiaramente al tema della politica e della filosofia. In Individualism Old and New, del 1930, il filosofo americano cerca di definire i concetti d’uguaglianza e di libertà basati sulla costruzione di valori condivisi. Motivo questo, che giustifica la problematica di una nuova soggettività legata alla definizione di un “nuovo individualismo” che tiene conto della “scienza e della tecnologia” in quanto espressione delle forze fondamentali del nostro tempo. Nella terza parte della seconda edizione (completamente rivista) del testo Ethics del 1932 dal titolo The World of Action, il controllo sociale è evidenziato dall’affermazione di un’etica pubblica che determina anche il controllo degli affari e dell’industria. Il futuro che il filosofo americano intravede è legato al ruolo dell’educazione in ogni espressione della società, per migliorare l’etica della cooperazione sociale e per costruire le possibilità di una nuova democrazia basata su una chiara 103 concezione del matrimonio e della famiglia in quanto espressioni delle trasformazioni sociali e politiche del tempo e della libera scelta degli individui. Il significato dell’ulteriorità del rapporto soggetto-oggetto è il cuore di questa fase del pensiero deweyano che trova nella dimensione estetica e in quella religiosa i suoi punti di riferimento. La ricchezza della relazione intersoggettiva e comunicativa tra gli individui chiarisce che il senso stesso della comunità non può esistere senza la dimensione religiosa ed estetica. Nei testi A Common Faith e Art as Experience, entrambi del 1934, cerca di esplorare, sia pure attraverso prospettive diverse, il valore della ulteriorità della soggettività. La fede a cui Dewey fa riferimento è quella del genere umano e per renderla esplicita e concreta il filosofo ricorre al rapporto con l’educazione e la politica. In questo senso l’arte è la dimostrazione dell’uso che l’individuo fa dei propri materiali, non solo per agire sulla realtà, ma anche per rendere ulteriore il senso della sua soggettività. Ciò significa fondamentalmente l’accettazione e la trasformazione, al tempo stesso, dell’esperienza con le sue incertezze, i suoi misteri e il suo dubbio problematico e non metodico. Il filosofo dimostra che, grazie all’arte, ogni azione umana può essere definita nella sua complessità, sia dal punto di vista teorico che nelle sue 104 realizzazioni pratiche. L’arte si realizza nel mondo della “civilizzazione”, nel mondo dell’industria e del capitalismo avanzato perché definisce in modo chiaro la soggettività umana nel suo processo di comunicazione sociale. Solo un “umanesimo religioso”111 può tentare di rifondare il significato della metafisica nella realtà e soprattutto il senso del liberalismo sociale, com’è chiarito nel testo del 1935, Liberalism and Social Action. Il liberalismo deve rinascere nella dimensione sociale, in quanto ha bisogno di una programmazione sociale112. Quello che traspare dagli scritti deweyani, fino alla Logic del 1938, è l’approfondimento del rapporto tra la democrazia e l’educazione, con particolare riferimento a Horace Mann e alla sua battaglia per una scuola pubblica e aperta a tutti. Nel 1936 nel testo The Challenge of Democracy to Education, il filosofo riferendosi alla nota frase di Horace Mann: «Education is our political safety; outside of this ark is the deluge», pone il problema centrale dell’educazione come salvezza del genere umano113. Il problema della soggettività è ripreso nello scritto The Logic: The Theory of Inquiry, del 1938. Il modello dell’indagine, il 111 Cfr. Th. C. Dalton, Becoming John Dewey. Dilemmas of a Philosopher and Naturalist, Indiana University Press, Bloomington 2002. 112 Cfr. R. B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, cit., pp. 518-525. 113 Ivi, pp. 548-553. 105 “cuore” del problema della logica deweyana, esprime la necessità di costruire una nuova logica sperimentale che non solo rifletta sulle modalità di azione del soggetto sulla realtà, ma che metta anche in discussione l’intera questione della filosofia e della logica del pensiero occidentale. La logica deweyana va letta anche come l’opera centrale del filosofo che vuole conferire un significato nuovo alla ricerca logica, ma anche intende ripensare radicalmente il problema del soggetto nella situazione specifica dell’esperienza. La logica deweyana si propone, quindi, di mostrare come il soggetto si caratterizza nella sua unicità e irripetibilità all’interno della situazione specifica in cui opera e si sviluppa. L’indagine è un modello continuista, secondo cui la soggettività riequilibra progressivamente e linearmente la situazione e in cui non emerge con chiarezza la dimensione “transazionale” della soggettività e dell’oggettività.114 La trasformazione delle situazioni problematiche nell’ambito sociale è considerata, a tutti gli effetti, espressione di una gestione dei conflitti, in quanto i fatti, che costituiscono la matrice esistenziale della situazione problematica, devono essere considerati “ostacoli” o “risorse” per migliorare le situazioni. 114 Cfr. R. Calcaterra, Idee concrete. Percorsi nella filosofia di John Dewey, Marietti, Milano 2011. 106 È sulla base della riflessione sulla soggettività nella Logic del 1938, che alcuni scritti successivi (Experience and Education e Freedom and Culture entrambi del 1938 e Theory of Evaluation del 1939) pongono in evidenza il rapporto educazione-politica. Il progetto del filosofo è quello di costruire una democrazia creativa che si ponga come un modo di vivere controllato da una fede che lavora nelle possibilità della natura umana. Questi aspetti trovano una sintesi finale sia in Problems of Men del 1946 che in Knowing and the Known del 1949, scritto insieme ad Arthur Bentley che, unitamente ad una notevole serie di saggi, sia pure episodici e occasionali anche postumi, rappresentano l’ultimo sforzo per chiarire il senso della sua riflessione sulla soggettività. Nel testo politico del 1946 è fondamentale la fede democratica nell’educazione, in quanto espressione di un uso intelligente della scienza e della tecnologia in un mondo uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che si deve confrontare con la tecnologia nucleare e con il mondo della contrapposizione ideologica capitalismo-comunismo. In altri termini, il nesso educazione-democrazia, messo in evidenza in alcuni testi fondamentali del filosofo, costituisce il filo conduttore complessivo della sua ricerca. La democrazia è 107 per il filosofo americano la democrazia dell’individuo, di un individuo unico e irripetibile all’interno della situazione specifica e problematica della vita e della storia. Ma senza l’educazione nella scuola, ma soprattutto nell’azione culturale e politica la democrazia, che esprime elementi di paideia e di humanitas anche nel pensiero deweyano, non può realizzarsi. L’educazione è un elemento naturale che si consustanzia con la democrazia in modo totale con il pensiero deweyano. 108 CONCLUSIONI L’assetto ideologico isocrateo e ciceroniano si configura come un vasto e armonioso complesso di conoscenze che assicurano alla persona umana la capacità di agire bene, orientandone le doti naturali secondo postulati morali e politici, che realizzano pienamente la formazione di una persona “attiva”, cioè potenzialmente in grado di esercitare la propria umanità all’interno delle istituzioni del tempo. È un nuovo umanesimo, caratterizzato da una piena consapevolezza dei grandi problemi dell’attuale condizione umana, del rapporto della persona con il mondo. Solo in questa dimensione culturale la persona umana può emanciparsi dalla “perdita” della tranquilla idea di appartenenza alla comunità legata alla tradizione, passiva e omologante, acquistando quella sensibilità che consente di esprimere il senso di identità culturale e civile nei confronti della collettività di riferimento, diventando costruttore di civiltà nel proprio tempo e per il proprio tempo, in una visione etica della convivenza finalizzata al perseguimento del bene comune. Infatti, la visione isocratea e, in particolare, quella ciceroniana, dello stato era etica; e per tale ragione il governo doveva essere 109 retto da uomini politici che incarnassero delle precise caratteristiche, qualità, virtù, come l’onestà, l’intuito politico, la saggezza e l’intelletto, preoccupandosi soprattutto delle necessità della comunità e risultando essere, così, i soli punti di riferimento dei concittadini. Un uomo con tali caratteristiche viene definito da Cicerone vir bonus dicendi peritus, e l’oratore isocrateo viene accomunato proprio a questa tipologia di uomo, in quanto per poter raggiungere i propri obiettivi senza usare la forza egli usa la parola, l’arte del persuadere per garantire stabilità sociale. È la definizione di una libera espressione dell’individuo che si realizza nella valorizzazione delle potenzialità della persona umana, che trova nella cultura la possibilità di esprimerle, attraverso l’affermazione di un proprio stile di vita, che oggi si chiama pluralismo, in cui convergono, armonizzandosi, profili identitari tanto privati che pubblici. Isocrate, Cicerone e Dewey vissero la concretezza della loro epoca. Il primo arrivando, come abbiamo visto sopra, a dare vita a quella che viene denominata partecipazione diretta dei discepoli nella scuola, un metodo didattico da lui inaugurato che aveva come finalità la preparazione dei giovani alla vita concreta e si fondava sull’importanza della parola e della capacità di espressione. Infatti, è ben noto che per Isocrate chi era capace di 110 possedere il logos e di farne l’uso corretto era in grado di agire rettamente. E ciò poteva essere lo strumento per risollevare la società greca di quel periodo dalla profonda crisi etico-politica in cui versava. Il secondo, Cicerone, considerava l’impegno politico una virtù umana; una concezione che l’oratore latino ereditò dalla tradizione greca, per l’appunto, come si evince dal De Republica che scrisse organizzando le proprie idee su quelle platonicoaristoteliche, e in cui contestò apertamente le teorie epicuree e stoiche. Si parla, infatti, di bìos synthetos, ovvero quella capacità di unire la vita ‘attiva’ a quella ‘contemplativa’. Seguendo, dunque, l’esempio della cultura greca, Cicerone ritiene che l’uomo è in grado di usare la parola, di comunicare e dunque di dare concretezza al proprio pensiero e per tale ragione dominare gli altri suoi simili. All’elemento naturale si lega la realizzazione. Ed è questo aspetto che garantisce, per Cicerone, il progresso, lo sviluppo della comunità, e, dunque, dell’umanità. «Quando uno Stato va incontro alla crisi [...], è un po’ come se tutto questo intero mondo sprofondasse nella rovina e nella morte»115. Infine, anche per Dewey, è la società che, tramite l’educazione, deve fornire all’individuo strumenti precisi che gli consentano 115 M.T. Cicerone, De Republica, 3, 34. 111 una partecipazione attiva. È chiaro che l’esperienza di Dewey ha come fondamento la profonda radice nei modelli di paideia e di humanitas. La paideia, secondo il modello isocrateo, esprime le caratteristiche della “potenzialità formativa” dell’individuo, i cosiddetti “embedded powers” che costituiscono le possibilità che l’individuo può realizzare soprattutto in politica. Per quanto concerne il modello ciceroniano, vi è da dire che è fondamentale come radice del pensiero deweyano, in quanto il filosofo americano esprime una dimensione etica che deriva proprio dalla centralità di un modello di soggettività, così come delineato nel De Oratore di Cicerone, che, dopo aver fatto rilevare le sue competenze, si realizza nella dimensione della eticità. I momenti culturali che sono stati esaminati all’interno del pensiero di Isocrate, Cicerone e Dewey dimostrano come i paradigmi educativi del tempo che ha espresso concezioni del mondo così distanti, la paideia, l’humanitas, la democrazia, pur con la prudenza interpretativa necessaria dovuta al fatto che nel corso del lavoro ho approfondito solo alcuni momenti significativi nella vastissima produzione di questi autori, rivelano un tratto comune e cioè la centralità del rapporto tra l’educazione e la politica. 112 La retorica per la polis, l’oratoria per la res publica, l’educazione per la democrazia dimostrano inequivocabilmente come la paideia, l’humanitas e la democrazia siano costantemente espressione del rapporto educazione- politica e come, pur nella improponibilità di una comparazione storica del pensiero degli autori presi in considerazione, in essi si esprime una costante sincronica e immutabile: quella dell’educazione finalizzata allo sviluppo della persona e alla sua realizzazione politica, per consentire all’individuo di partecipare in vario modo attivamente alla costruzione del bene comune. È probabile che la “naturalità” del problema educativo, intravista ma non sviluppata completamente nel pensiero deweyano, si leghi molto bene alla interpretazione dei tre autori e dei tre paradigmi educativi presi in considerazione e diventi un patrimonio culturale per reinterpretare le tematiche educative della contemporaneità. In definitiva, Isocrate, Cicerone e Dewey, attraverso i paradigmi della paideia, dell’humanitas e della democrazia individuano la ragione essenziale della loro opera di educatori nell’etica politica che deve fondare qualunque comunità organizzata in Stato; e laddove non esista un governo in grado di creare una coscienza 113 ‘pubblica’ e ‘attiva’, solo l’educazione e la cultura diventano fondamentali per lo sviluppo della civiltà umana. 114 Bibliografia ARICÒ G., Le origini dell’umanesimo romano, in I. Lana e E.V. Maltese, a cura di, Storia della civiltà greca e latina, Vol II, Dall’ellenismo all’età di Traiano, Utet, Torino 1998. 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