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Dal mondo
Sogni d’oro
con lo
yoga
Una buona igiene
orale contro l’HPV
Oltre alla prevenzione della carie, esiste un’altra buona
ragione per prendersi cura di denti e gengive: secondo uno
studio statunitense, infatti, una scarsa igiene orale apre le
porte all’infezione della bocca da parte del papillomavirus
(HPV), indipendentemente da altri fattori di rischio noti, come
il fumo di sigaretta o rapporti sessuali orali. In effetti, il virus,
noto soprattutto per il suo legame con il tumore della cervice
uterina, può infettare anche la bocca e la faringe, dove
assume un ruolo di primo piano nello sviluppo dei tumori
della gola. Lo studio, pubblicato sulla rivista Cancer
Prevention Research, ha analizzato poco meno di 3.500
persone di età compresa tra i 30 e i 64 anni con infezione
orale da ceppi di HPV a basso rischio di dare origine a cancro
e ceppi ad alto rischio. I risultati mostrano che le infezioni
orali da HPV sono più frequenti se l’igiene orale è scarsa o se
ci sono malattie gengivali o problemi dentali.
Due sedute di 75 minuti ogni settimana
possono migliorare la qualità e la durata del sonno
nelle persone che, dopo un tumore, non riescono più
a dormire bene. La chiave per raggiungere questi
risultati è lo yoga, in base ai dati di uno studio
pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Oncology.
Lo studio statunitense ha coinvolto 410 persone –
quasi tutte donne – metà delle quali hanno seguito
per un mese uno specifico programma di yoga
basato sia su posture fisiche sia su tecniche di
respirazione e meditazione, oltre alle terapie
standard seguite da tutti i partecipanti. Come spiega
Karen Mustian, autrice del lavoro, grazie allo yoga il
sonno è migliorato, indipendentemente dal fatto che
in origine ci fossero solo lievi disturbi o una vera e
propria diagnosi di insonnia e si è ridotto
notevolmente l’uso di farmaci per dormire. Il
risultato è degno di nota soprattutto se si pensa che
molte persone (tra il 30 e il 90 per cento secondo le
diverse stime) hanno problemi di sonno dopo una
diagnosi di tumore a causa dell’ansia o del dolore e
che lo yoga si può praticare anche a casa senza costi
eccessivi.
Il rischio si combatte anche a tavola
Una dieta quotidiana sana e basata sulle
raccomandazioni degli esperti è in grado di ridurre il rischio
di tumore del pancreas. Lo conferma un gruppo di
ricercatori statunitensi dalle pagine del Journal of the
National Cancer Institute in base ai risultati di un’analisi che
ha coinvolto poco meno di 537.000 uomini e donne. La
qualità dell’alimentazione è stata valutata grazie a un
questionario ad hoc: in base alle risposte è stato infatti
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possibile individuare le persone che seguivano più da
vicino le raccomandazioni delle linee guida sulla buona
alimentazione e quelle che invece se ne discostavano in
misura più o meno ampia. Dopo aver seguito i
partecipanti per circa 10 anni, i ricercatori sono arrivati a
dimostrare che nelle persone che mangiavano in modo
sano il rischio di tumore del pancreas si è ridotto del 15
per cento.
Una vita di qualità dopo
il tumore del seno
Dopo il tumore del seno la
qualità della vita non peggiora.
Secondo uno studio canadese
pubblicato sulla rivista Journal of
Clinical Oncology, dopo anni dal
trattamento per il tumore le donne si
dichiarano soddisfatte della loro
qualità di vita quanto quelle che non
hanno mai dovuto affrontare il cancro.
Gli autori hanno intervistato più di 500
donne al momento della diagnosi di
tumore del seno e subito dopo e
hanno risentito a distanza di oltre 10
anni le 285 che non avevano avuto
ricaduta della malattia. “Subito dopo
le terapie, dolore, nausea e fatigue
possono rendere difficile la vita
quotidiana” spiega Pamela Goodwin,
coordinatrice del lavoro, “ma a lungo
termine la situazione migliora e non
si discosta molto da quella delle
donne che non hanno avuto il
tumore”. La notizia positiva è che non
bisogna aspettare troppo a lungo per
vedere i primi miglioramenti: la
qualità di vita aumenta infatti già nel
primo anno dopo la diagnosi. “E non
bisogna inoltre dimenticare che
grazie ai continui progressi in campo
terapeutico, il dolore e i disagi legati
ai trattamenti sono sempre minori”
concludono gli autori.
Il potere
delle parole
Scovare il tumore
ovarico sul nascere
I termini utilizzati dai medici possono avere un peso
enorme nelle scelte terapeutiche dei pazienti, come
dimostra uno studio pubblicato sulla rivista JAMA Internal
Medicine. Elissa Ozanne dell’Università della California e i
suoi colleghi hanno realizzato un sondaggio su 400 donne
sane, alle quali è stato chiesto che cosa avrebbero fatto
nel caso di una ipotetica diagnosi di carcinoma duttale in
situ, la forma più blanda di tumore del seno, sulla quale
si può intervenire con la chirurgia, il trattamento
farmacologico o la semplice sorveglianza nel tempo,
senza intervento iniziale. “La malattia è caratterizzata
dalla presenza di cellule anomale nei dotti che
trasportano il latte, non genera metastasi e solo in pochi
casi si trasforma in un tumore pericoloso” spiega
l’autrice. Eppure quasi la metà (47 per cento) delle donne
coinvolte ha scelto l’intervento chirurgico se il medico ha
utilizzato il termine “cancro” per descrivere la malattia,
mentre la percentuale è scesa al 34 e al 31 per cento se il
medico ha parlato di “lesione mammaria” o di “cellule
anomale”. Questi risultati dimostrano ancora una volta
l’importanza del linguaggio utilizzato nella
comunicazione tra medico e paziente, entrambi coinvolti
nella scelta del trattamento.
Esame del sangue più ecografia. Due esami semplici
da eseguire e che potrebbero aiutare la diagnosi precoce di
tumore ovarico, una malattia difficile da diagnosticare nelle
sue fasi iniziali perché resta asintomatica per
molto tempo. Secondo i risultati di uno
studio pubblicato sulla rivista
Cancer da Karen Lu, del M.D.
Anderson Cancer Center di
Houston (USA) e colleghi,
misurare il livello del
marcatore CA-125 e il suo
cambiamento nel tempo
permette di ottenere buoni
risultati nella diagnosi di
questo tumore, grazie
all’utilizzo di una specifica
formula matematica che
identifica i casi “ad alto
rischio”. Nella loro analisi, Lu e
colleghi hanno coinvolto 4.000 donne
in post-menopausa in un percorso di
screening in due fasi: si parte con l’esame annuale del
livello di marcatore per determinare la categoria di rischio
(bassa, intermedia, alta) e poi si procede con un secondo
esame del sangue dopo un anno nel caso di rischio basso o
dopo tre mesi nel caso di rischio intermedio o con
un’ecografia (ed eventuale intervento chirurgico) nel caso di
rischio alto. “I risultati sono preliminari” spiega Debbie
Saslow dell’American Cancer Society, “ma sono molto
promettenti perché permettono di identificare il tumore e lo
individuano già nelle sue fasi iniziali quando le possibilità di
cura sono maggiori”.
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