Number 1/09 edico non è … … per chi Endoscopia digestiva: quello che il paziente deve sapere G. CAMMAROTA Istituto di Medicina Interna e Geriatria, Dipartimento di Medicina Interna, Scienze Specialistiche e Dermatologia, Università Cattolica del S. Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Policlinico A. Gemelli, Roma La sedazione in endoscopia digestiva Per un normale intervento chirurgico si effettua solitamente un’anestesia generale, con la quale si intende una sedazione profonda indotta da farmaci, somministrati dal medico anestesista, che deve contestualmente provvedere alla respirazione assistita del paziente durante tutto il periodo dell’intervento e dell’anestesia stessa. Egli deve intubare la trachea del paziente e ventilarlo con il respiratore automatico. Ciò è necessario in quanto i farmaci somministrati deprimono i centri respiratori e il paziente non respira più spontaneamente. Ebbene, questo tipo di anestesia generale non è necessario per un esame endoscopico. Sia la gastroscopia che la colonscopia possono essere eseguite con una sedazione moderata oppure con una sedazione cosiddetta profonda, mantenendo in entrambi i casi, però, il respiro spontaneo. La sedazione moderata (detta “cosciente”) prevede la somministrazione di un farmaco sedativo o ipnoinducente leggero, generalmente della famiglia delle benzodiazepine, come il midazolam, che non richiede necessariamente l’assistenza medica anestesiologica. Con questo tipo di sedazione, il paziente, seppur sedato, può comunque avvertire i fastidi e gli eventuali stimoli dolorosi provocati dalla procedura. Tuttavia, nella gran parte dei casi, si ottiene un accettabile controllo del dolore e dell’ansia, che in genere si accompagnano a questo tipo di esami, e un certo grado di amnesia che induce a non ricordare nulla dell’esame effettuato. Tale tipo di sedazione è considerata sicura, secondo alcuni addirittura in misura maggiore alla sedazione profonda. Per quanto riguarda invece la sedazione profonda, avviene anch’essa in respiro spontaneo, in quanto esiste ormai da vari anni un farmaco sedati- vo/anestetico puro, che si chiama propofol (Diprivan), il quale induce una anestesia, cioè analgesia, e induce il sonno, ma deprime poco (poco più delle benzodiazepine) i centri bulbari deputati alla respirazione, mantenendo così il respiro spontaneo del paziente. Si tratta, dunque, di una vera anestesia, ma non necessita dell’intubazione tracheale del paziente, in quanto questi continua a respirare autonomamente. Per la sedazione profonda, tuttavia, è necessaria l’assistenza del medico anestesista, per una valutazione clinica del paziente, per decidere gli opportuni dosaggi dei farmaci e per intervenire con una respirazione assistita, qualora i parametri clinici e fisiologici del paziente sedato lo richiedano. Non vi sono tuttavia in letteratura casi riportati di pazienti che abbiano richiesto un’intubazione endotracheale o che abbiano riportato danni gravi neurologici o che siano morti a causa della sedazione profonda. Sono stati invece segnalati con una certa frequenza episodi di depressione respiratoria che hanno richiesto una ventilazione assistita con ossigeno con o senza maschera facciale. In genere, per effettuare una sedazione profonda è sufficiente utilizzare il propofol. Talora, per la gastroscopia, è opportuna una premedicazione locale faringea con un farmaco anestetizzante (xilocaina in formulazione nebulizzante o spray). A volte il medico anestesista può decidere di somministrare preventivamente per via venosa una benzodiazepina (cioè un blando sedativo) o un cosiddetto tranquillante maggiore, della famiglia delle fenotiazine. Raramente, è necessario associare un antispastico intestinale (N-butilbromuro di joscina, Buscopan) se gli esami endoscopici sono “operativi” ed è necessario che il viscere sia il più possibile fermo, cioè non mosso dalla normale peristalsi. La colonscopia, in particolare, è un’indagine che può presentare dei passaggi dolorosi dovuti allo stiramento dei mesenteri a causa della conformazione convoluta del viscere, di pregressi interventi chirurgici e di briglie aderenziali oppure a causa della presenza di un’infiammazione della mucosa o di diverticoli che possono rendere l’esame non facilmente tollerabile. Per questo tipo di esame è sufficiente la sedazione profonda in respiro spontaneo indotta dal propofol. Può essere utile, a volte, utilizzare farmaci antispastici. Va comunque sottolineato che, ad oggi, nella maggior parte dei Centri di Endoscopia Digestiva non è previsto un servizio anestesiologico dedicato alle procedure endoscopiche e pertanto gran parte degli esami endoscopici (siano essi colonscopie o gastroscopie) vengono effettuati inducendo la sedazione moderata del paziente. La colonscopia nelle strategie di prevenzione del cancro del colon Il cancro del colon è il terzo più comune tipo di cancro diagnosticato sia negli uomini che nelle donne, e la seconda più comune causa di morte da cancro, con più di 55 000 morti all’anno solo negli Stati Uniti. Oltre alla mortalità, risulta significativa anche la morbilità da cancro del colon e dal suo trattamento (chirurgia, radioterapia, chemioterapia). Lo screening del cancro del colon si è rivelato utile soprattutto per i casi asintomatici e con una prognosi più favorevole. Il tasso di sopravvivenza a 5 anni è dell’80–90%, quando la neoplasia è confinata alla parete intestinale, del 40–60% quando vi è un coinvolgimento extra-parete loco-regionale, e meno del 5% in presenza di metastasi a distanza. Sebbene la diagnosi nelle fasi precoci spesso possa salvare la vita, la prevenzione del cancro del colon attraverso strategie di screening ha anche un grande impatto sulla mortalità, morbilità e sui costi associati alla gestione dei pazienti affetti da questa patologia. Per screening si intende l’identificazione di individui, apparentemente sani, che più probabilmente possono avere una patologia misconosciuta, così da essere selezionati per esami diagnostici più approfonditi, eventualmente più invasivi e costosi, al fine di ottenere la diagnosi. La ricerca del sangue occulto fecale è un classico esempio di procedura di screening e il risultato del test è spesso utilizzato per identificare quei pazienti che più probabilmente possono avere un polipo o un cancro del colon e quindi possono essere selezionati per eseguire una colonscopia, che costituisce l’esame diagnostico definitivo. Molte organizzazioni e società professionali hanno pubblicato linee-guida pratiche sulle strategie di screening del cancro del colon e le relative raccomandazioni basate solitamente solo sulla stima del rischio individuale per cancro. Poiché gli altri metodi sono, al confronto, meno efficaci, la colonscopia è spesso utilizzata come indagine di screening, pur non essendone essa stessa un reale strumento. Se gli altri test di screening fossero più efficaci la colonscopia dovrebbe essere riservata per una diagnosi definitiva oppure per la rimozione terapeutica di polipi scoperti con altre procedure. Pertanto, la colonscopia ha un ruolo centrale non solo per la potenzialità di individuare le lesioni, ma anche per la possibilità di asportarne alcune nelle fasi precoci e di rimuovere i polipi adenomatosi che sono considerati come lesioni pre-cancerose. Alcuni studi riportano la diminuzione del 40–50% dell’incidenza del cancro del colon nei soggetti sottoposti a colonscopia [1]. Lesioni clinicamente rilevanti possono essere solo raramente non diagnosticate alla colonscopia. Uno studio recente ha dimostrato che, tra i soggetti con nessuna neoplasia colo-rettale a uno screening iniziale, la stima del rischio a 5 anni di insorgenza del cancro del colon o di adenomi con segni di evoluzione neoplastica è estremamente bassa [2]. Screening degli individui a rischio per età Gli individui a rischio di cancro per età non hanno altri fattori di rischio riconosciuti oltre all’età stessa. Lo screening è quindi raccomandato per gli individui con età ≥50 anni, poiché l’incidenza di cancro del colon inizia ad aumentare tra i 40 e i 50 anni di età. Dal momento che almeno il 75% dei casi di cancro del colon insorge in individui a rischio per età, lo screening in questa larga parte di popolazione potrebbe potenzialmente ridurre in maniera sostanziale l’incidenza complessiva e la mortalità da cancro del colon-retto. Le linee-guida nella pratica clinica nei soggetti a rischio per età raccomandano la ricerca annuale del sangue occulto nelle feci e la colonscopia ogni 5 anni o entrambe le procedure in individui di ≥50 anni. La prassi di una colonscopia ogni 10 anni in questi stessi soggetti costituisce una valida alternativa di screening, sebbene non vi siano convincenti evidenze di efficacia. L’esame radiologico del clisma opaco a doppio contrasto può costituire un’alternativa diagnostica solo per quei soggetti in cui non può essere eseguita, per vari motivi, una colonscopia completa. La colonscopia resta tuttavia una procedura invasiva, con un minimo ma reale rischio di 1–2 complicanze ogni 2 000 esami (associate soprattutto alle procedure eventualmente operative), ma la maggior parte dei pazienti riferisce un certo disagio soprattutto per le procedure legate a una corretta preparazione intestinale piuttosto che all’indagine di per sé. Negli Stati Uniti, la US Preventive Services Task Force consiglia ai medici di spiegare bene ai propri pazienti i rischi e i benefici derivanti da ogni procedura di screening e di convincerli a eseguirne almeno uno a scelta del paziente [3]. Tuttavia, secondo molti opinion-leader, un approccio più ragionevole sarebbe quello di raccomandare la colonscopia laddove possibile. Altre procedure diagnostiche emergenti (ad esempio la colonscopia virtuale) o non sono ancora pienamente studiate e standardizzate oppure non ancora pronte per un uso di routine nella pratica clinica, al di fuori dei protocolli di ricerca e dei centri sperimentali selezionati. Screening di individui ad alto rischio Alcuni individui possono essere ad alto rischio di cancro del colon a causa della propria storia personale o familiare. Una storia personale di polipi adenomatosi, cancro del colon o di malattia infiammatoria intestinale (ad esempio retto-colite ulcerosa) richiede una sorveglianza endoscopica specifica a causa dell’aumentato rischio di cancro associato a queste condizioni. Altri pazienti possono avere anch’essi un rischio aumentato di cancro per una storia familiare (rischio familiare comune, poliposi adenomatosa familiare, cancro del colon-retto ereditario non-poliposico) e sono a rischio di sviluppare polipi adenomatosi pre-cancerosi (Tabella 1). Le opzioni diagnostiche raccomandate per questa tipologia di pazienti variano dal semplice inizio dello screening in età precoce (con gli stessi esami utilizzati per gli individui a rischio per età) all’aumento della frequenza dei controlli colonscopici e, in qualche caso, ai test genetici. Può la colonscopia virtuale sostituire la colonscopia ottica tradizionale? La colonscopia virtuale (propriamente colonscopia tomografica computerizzata) rappresenta una procedura diagnostica non invasiva che permette di esaminare il colon con immagini bi- e tri-dimensionali derivanti da una tomografia computerizzata. Sebbene la colonscopia virtuale non richieda sedazione, e necessiti complessivamente di un minor tempo di esecuzione, essa prevede tuttavia la stessa preparazione intestinale richiesta per la colonscopia convenzionale e la stessa insufflazione gassosa dell’intestino che è spesso associata al disagio riferito dai pazienti durante una colonscopia ottica. Sebbene i dati non siano ancora complessivamente univoci, la colonscopia virtuale può, in prospettiva, costituire una seria alternativa alla colonscopia tradizionale, soprattutto per quanto riguarda lo screening del cancro del colon. I risultati di un recente trial dell’American College of Radiology Imaging Network (ACRIN) hanno permesso di porre una serie di domande sia per i medici che per i pazienti [4]. Sulla base dei dati derivanti da questo studio, condotto in 15 centri diversi e su 2600 soggetti asintomatici di ≥50 anni, la colonscopia virtuale raggiunge risultati accettabili in termini di sensibilità della metodica, ma piuttosto deludenti per quanto riguarda invece i valori di specificità e valore predittivo positivo (Tabella 2). La specificità infatti per la visualizzazione di polipi con diametro maggiore di un centimetro era dell’86% e il valore predittivo positivo era del 25%. Ragionando su questi dati, la specificità dell’86% è sicuramente un incoraggiamento a utilizzare questa metodica per lo screening del cancro del colon. Tuttavia, in 10 anni e con 3 esami effettuati una quota rilevante di questi soggetti investigati con la colonscopia virtuale effettuerebbe anche una colonscopia convenzionale per risultati falsamente positivi ottenuti con la tecnologia radiografica. Tale quota di pazienti si aggiungerebbe alla parte di pazienti che deve effettuare una colonscopia tradizionale perché “veri” positivi alla colonscopia virtuale o perchè falsamente positivi per lesioni di diametro inferiore a 1 cm. Tutto ciò risulterebbe in un enorme incremento dei costi. Inoltre, anche il dato del valore predittivo positivo del 25% potrebbe costituire un problema, poiché pazienti con una colonscopia tradizionale negativa ma con colonscopia virtuale positiva potrebbero essere indotti a eseguire nuovamente, a breve termine, la colonscopia virtuale per essere sicuri di non presentare lesioni a rischio. D’altra parte, si sta molto discutendo sul significato dei polipi con diametro inferiore a 1 cm riscontrati alla colonscopia virtuale: secondo i fautori della colonscopia virtuale dovrebbero essere ignorati o controllati con successive colonscopie virtuali. La letteratura suggerisce che i polipi con un diametro di 6–9 mm hanno, approssimativamente, la probabilità dell’1% di essere già neoplasie invasive al tempo della loro scoperta. Pertanto è molto improbabile che, sebbene tali lesioni comportino una minima possibilità di essere pericolose, i pazienti o i medici che li abbiano in cura accettino l’idea di ignorarle oppure di controllarle nel tempo. Da tutti questi dati si evince che siamo ben lontani dal potere affermare che la colonscopia virtuale possa, ad oggi, sostituire la colonscopia convenzionale. In aggiunta, una serie di fattori legati al tipo di strumentazione adoperata per la colonscopia virtuale oppure al tipo di software utilizzato o al tipo di preparazione intestinale o di training specifico dell’operatore radiologo possono essere determinanti nell’ottenere risultati ancora meno attendibili di quelli ottenuti dallo studio ACRIN. Infine, dal punto di vista del paziente, vi sono dati che complessivamente sono più favorevoli alla colonscopia convenzionale ottica rispetto a quella virtuale (Tabella 3). In definitiva, allo stato attuale vi è solo la certezza che la colonscopia virtuale possa rappresentare una valida alternativa alla colonscopia tradizionale per quei pazienti che non possono completare o sottoporsi a una colonscopia convenzionale per una patologia ostruttiva nota del colon. La capsula endoscopica Da circa 6 anni è stata introdotta la video-capsula endoscopica come possibilità diagnostica per alcune patologie intestinali. Tale dispositivo, del diametro massimo di 2,5 cm, provvisto di un proprio apparato ottico, di batteria, di antenna e di trasmettitore, la cui progressione nel tratto gastrointestinale è favorita dalla normale peristalsi, viene facilmente deglutito a Tabella 1. Strategia di screening del cancro del colon in individui con rischio familiare comune (dell’American Cancer Society) Criteri di valutazione Strategia Un parente di primo grado con cancro del colon o con adenoma diagnosticato a ≥60 anni di età Un parente di primo grado con cancro del colon o adenoma diagnosticato a <60 anni o due parenti di primo grado con cancro del colon a qualsiasi età Un parente di secondo o terzo grado con cancro del colon Stessi esami dei pazienti considerati a rischio per età (ricerca annuale del sangue occulto nelle feci, la colonscopia ogni 5 anni o entrambe le procedure), ma effettuati a partire dai 40 anni Colonscopia ogni 5 anni, a partire dall’età di 40 anni o da effettuare ad una età di 10 anni più giovane di quella del caso più precoce presente in famiglia (quale delle opzioni sia applicabile) Gli stessi criteri adoperati per i soggetti a rischio per età (ricerca annuale del sangue occulto nelle feci, la colonscopia ogni 5 anni, o entrambe le procedure) Tabella 2. Dati riportati dallo studio ACRIN. Da [4] Grandezza dei polipi Sensibilità Specificità Valore predittivo positivo Valore predittivo negativo ≥5 mm ≥6 mm ≥7 mm ≥8 mm ≥9 mm ≥1 cm 65% 89% 45% 95% 78% 88% 40% 98% 84% 87% 35% 99% 87% 87% 31% 99% 90% 86% 25% 99% 90% 86% 23% 99% Tabella 3. Esperienza riferita da pazienti che hanno effettuato diversi esami diagnostici per il colon. I questionari erano mirati a valutare il livello di accodo dei pazienti a specifiche domande: 1 = in accordo totale; 3 = neutrale; 5 = in totale disaccordo. Da [5] Dolore con la procedura Preoccupato dalla procedura Istruzioni difficile da seguire Preparazione non piacevole Procedura scomoda Imbarazzante Procedura ritenuta affidabile Disponibilità a ripetere la procedura Preoccupato dai risultati Inconvenienti derivanti dalla procedura Soddisfazione Clisma opaco a doppio contrasto Colonscopia convenzionale Colonscopia virtuale Significatività statistica (P value) 2,90 3,06 4,22 2,77 2,26 3,74 1,59 2,08 3,22 3,08 2,11 3,7 3,22 4,22 2,67 3,46 4,06 1,61 1,78 3,03 3,30 1,81 3,02 3,45 4,25 2,69 2,62 3,95 1,54 1,90 3,57 3,33 1,94 0,0001 0,0001 0,94 0,07 0,0001 0,0001 0,53 0,0001 0,0001 0,0001 0,0001 Tabella 4. Indicazioni all’uso della video-capsula endoscopica Indicazione Commento Sanguinamento occulto gastro-intestinale Sospetto morbo di Crohn Sospetta neoplasia del piccolo intestino Sorveglianza delle sindromi poliposiche ereditarie Valutazioni di anomalie di imaging del piccolo intestino ottenute con altre modalità diagnostiche Valutazione da danni da farmaci sul piccolo intestino (FANS) Malattia celiaca refrattaria alla terapia Internazionalmente riconosciuta come l’indicazione principale La seconda indicazione principale digiuno con un semplice bicchiere d’acqua. Dopo due ore dall’inizio dell’esame, il paziente può bere e mangiare (moderatamente) e può svolgere le consuete attività quotidiane. Sebbene non siano necessarie particolari procedure prima dell’ingestione della capsula endoscopica, secondo alcuni studi effettuati recentemente un certo grado di preparazione intestinale ne migliora le performance diagnostiche. La video-capsula è in grado di catturare circa 60 000 immagini digitali prima di essere normalmente eliminata con l’evacuazione. Per il medico attualmente rappresenta un ausilio diagnostico di prima linea per le patologie del piccolo intestino. Per il paziente rappresenta un esame facile da eseguire, sicuro, non invasivo, praticabile in ambulatorio. Negli ultimi anni sono stati pubblicati circa 700 studi sulla video-capsula, al fine di valutarne gli aspetti tecnici, l’affidabilità, la sicurezza e l’utilità nelle diverse condizioni cliniche. Le principali indicazioni diagnostiche della video-capsula sono elencate nella Tabella 4. In sintesi, fin dalla sua introduzione la video-capsula endoscopica si è rivelata come la modalità diagnostica principale per quanto riguarda l’imaging del piccolo intestino. Vi è ormai un certo grado di consenso che essa dovrebbe costituire un’opzione diagnostica di prima linea nel sanguinamento occulto gastrointestinale capace, in questo caso, di condizionare gli interventi diagnostici e terapeutici successivi. La videocapsula ha un considerevole valore diagnostico anche per il morbo di Crohn o per le sindromi poliposiche ereditarie. Tuttavia, occorre sottolineare che la video-capsula non sostituisce in alcun modo le normali procedure diagnostiche endoscopiche come la comune gastroscopia o colonscopia. Poche sono le complicanze legate a questo importante dispositivo diagnostico. Tra queste, la più importante è la mancata eliminazione della videocapsula con l’evacuazione a causa di riduzioni significative del calibro del viscere (sindromi sub-occlusive, come quelle che si possono avere con il morbo di Crohn o con i tumori dell’apparato gastrointestinale). In questi casi l’opzione chirurgica potrebbe rimuovere la capsula e contemporaneamente la causa della sua ritenzione. Screening e sorveglianza endoscopica per l’esofago di Barrett in pazienti con reflusso gastro-esofageo L’esofago di Barrett è definito dal riconoscimento endoscopico di epitelio di tipo intestinale nell’esofago (generalmente nell’esofago distale) e dalla successiva conferma istologica di metaplasia intestinale sulle relative biopsie. Tale lesione viene classificata in base all’estensione dell’area metaplasica: pazienti con segmenti di metaplasia intestinale ≥3 cm hanno il tradizionale (o long segment) esofago di Barrett, mentre pazienti con un’estensione di meno di 3 cm hanno il cosiddetto esofago di Barrett tipo short-segment. L’esofago di Barrett è una lesione considerata a rischio di cancro (adenocarcinoma dell’esofago) che si ritiene in aumento negli ultimi anni e la cui incidenza è approssimativamente dello 0,5% all’anno nei pazienti portatori di esofago di Barrett. Attualmente, le questioni inerenti lo screening e la sorveglianza dei pazienti con esofago di Barrett sono molto controverse. Sebbene siano state pro- poste delle linee-guida, esse sono variabili e non basate sull’evidenza. Per screening si intende quando effettuare l’esame endoscopico (esofagogastro-duodeno-scopia) ai fini della diagnosi dell’esofago di Barrett e/o dell’adenocarcinoma esofageo. Per sorveglianza si intende invece il monitoraggio endoscopico dei pazienti con esofago di Barrett riconosciuto, ai fini della precoce individuazione dei cambi displasici e del cancro. Per quanto riguarda lo screening, le principali linee-guida, come quelle dell’American College of Gastroenterology (AGA), generalmente dichiarano che “i pazienti con sintomi da malattia da reflusso cronica sono quelli più a rischio di sviluppare un esofago di Barrett e dovrebbero pertanto effettuare delle endoscopie”. Tale asserzione, tuttavia, non definisce cosa si intende esattamente per malattia da reflusso “cronica” né definisce il valore di ulteriori fattori di rischio (ad esempio obesità, sesso, età, razza) che dovrebbero indirizzare all’endoscopia. In ogni caso, le raccomandazioni dell’AGA non incoraggiano lo screening endoscopico in senso stretto [6]. Il discorso, invece, è diverso per quanto riguarda la sorveglianza endoscopica di pazienti con un esofago di Barrett già diagnosticato. In questi casi, infatti, il grado di displasia dovrebbe determinare l’intervallo delle successive endoscopie di sorveglianza. I pazienti senza displasia sulle biopsie effettuate in due successive endoscopie dovrebbero essere sottoposti a endoscopie di controllo (con biopsie multiple sulle aree metaplasiche) ogni 3–5 anni. Per pazienti con una displasia di basso grado riscontrata all’esame istologico delle biopsie effettuate sulle aree metaplasiche è invece raccomandabile una sorveglianza endoscopica annuale. Nei pazienti con un alto grado di displasia dovrebbe essere tentata una resezione della mucosa e il grado di displasia dovrebbe essere attentamente valutato da un istopatologo esperto. La rimozione della mucosa per via endoscopica è considerata attualmente una valida alternativa all’opzione chirurgica in questo tipo di pazienti. Infine, l’endoscopista dovrebbe opportunamente discutere di queste problematiche con i pazienti e questi ultimi dovrebbero comprendere che non esistono ancora dei dati certi sullo screening e sulla sorveglianza dell’esofago di Barrett. Bibliografia 1. Muller AD, Sonnenberg A (1995) Prevention of colorectal cancer by flexible endoscopy and polypectomy: a case control study of 32,702 veterans. Ann Intern Med 123:904–910 2. Imperiale TF, Glowinski EA, Lin-Cooper C et al (2008) Five-year risk of colorectal neoplasia after negative screening colonoscopy. N Engl J Med 359:1218–1224 3. US Preventive Services Task Force (2002) Screening for colorectal cancer: recommendation and rationale. Ann Intern Med 137:129–131 4. Johnson CD, Chen MH, Toledano AY et al (2008) Accuracy of CT colonography for detection of large adenomas and cancers. N Engl J Med 359:1207–1217 5. Bosworth HB, Rockey DC, Paulson EK et al (2006) Prospective comparison of patient experience with colon imaging tests. Am J Med 119:791–799 6. Sharma P, McQuaid K, Dent J et al (2004) A critical review of the diagnosis and management of Barrett’s esophagus: tha AGA Chicago Workshop. Gastroenterology 127:310–330 IMPRESSUM Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 4 Num. 1 Editore: Springer-Verlag Italia Srl, Via Decembrio 28, 20137 Milano Stampa: Grafiche Porpora, Segrate (MI) – Copyright © SIMI, Società Italiana di Medicina Interna