Come riconoscere la povertà, e misurarla

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12-06-2009
Come riconoscere la povertà, e misurarla
Articolo tratto dal sito http://www.rassegna.it
di TARCISIO TARQUINI
Intervista a Raffaele Tangorra, direttore generale per l’inclusione e i diritti sociali del ministero del Lavoro. “La
povertà è un concetto che può essere interpretato in vario modo”. La differenza tra carta sociale e reddito minimo
di inserimento
C’è chi, come qualche esponente del governo, se la prende perfino con il papa o i vescovi se dicono che nel
nostro paese c’è la povertà, ma numerose ricerche, negli ultimi mesi, tracciano il disegno di un paese che
scivola dentro disuguaglianze sempre più profonde e in cui una fascia sempre più corposa di famiglie non
riesce a stare alla pari con la vita che ha condotto finora, o addirittura non riesce ad arrivare alla fine del
mese. Sui giornali abbiamo letto, però, proprio nei giorni scorsi, gli ardui ragionamenti del ministro
Brunetta che, impavidamente, ha snocciolato e interpretato i dati che dimostrerebbero come da noi
reddito e perciò condizioni di vita siano migliorati, a dispetto delle apparenze e della crisi. Messa così la
questione, potrebbe sembrare che ci si trovi di fronte a un forte contrasto di opinioni, prive del conforto di
una realtà oggettiva alla quale riferirci tutti. Non è così. La difficoltà di misurare la povertà e perciò di
individuare i poveri è però un problema vero.
Approfondisci: Vecchia e nuova povertà
Nelle definizioni, e nelle misurazioni, c’è sempre implicito – lo nota su Prospettive sociali e sanitarie (6/7,
2009) Raffaele Tangorra, uno specialista di questi studi che oggi ricopre l’incarico di direttore generale per
l’inclusione e i diritti sociali del ministero del lavoro – un giudizio di valore, che porta a far pesare alcuni
aspetti piuttosto che altri. Un’inchiesta recente ha rivelato, per esempio, che alla domanda se ci si senta di
far parte della fascia dei poveri, ben oltre i due terzi della popolazione italiana ha risposto affermativamente:
una percentuale tanto poco plausibile che non può che far ritenere che ciascuno degli interpellati indichi
con lo stesso termine condizioni diverse.
Come trovare, allora, una misura che possa andare bene per tutti, circoscrivendo con esattezza il
fenomeno “povertà” di cui vogliamo parlare? Come è persino superfluo sottolineare, non è una disputa
accademica. Conoscere bene la povertà di cui si parla è la premessa per escogitare le azioni, le politiche più
adatte per contrastarla.
Abbiamo rivolto questa domanda, e tante altre, proprio a Raffaele Tangorra nel corso di una trasmissione
di radioarticolo1; ne riproponiamo le risposte ai lettori di rassegna.it
Dottor Tangorra, riconoscere la povertà non è un’operazione così scontata come potrebbe sembrare, specialmente se
parliamo della povertà delle nostre società, più grigia che nera. Ci spiega quali sono i misuratori che gli esperti utilizzano?
Misurare la povertà non è semplicissimo a differenza di altre condizioni, come la disoccupazione. La povertà
è un concetto che può essere interpretato in vario modo. Può essere povero chi si trova in una condizione
molto distante da quella media della popolazione, ma questo dice poco sulle sue reali condizioni di vita; dice
piuttosto che, là dove questa povertà relativa è molto diffusa, c’è una notevole disuguaglianza. Il confronto
con la media caratterizza, dunque, la povertà relativa, ci sono però altre misurazioni che si concentrano
sulle condizioni materiali, e fondamentalmente è questo il concetto che si avvicina più al senso comune della
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povertà: è povero chi non è in grado di acquistare un certo paniere minimo di beni, di garantirsi il minimo
accettabile per la sopravvivenza. Questa povertà assoluta oggi in Italia può essere misurata meglio perché
l’Istat ha rivisto la sua metodologia.
Prima di arrivare a questo, ci aiuti a definire i concetti di cui sta parlando, povertà relativa, povertà assoluta…
C’è una corrente di pensiero che si è affermata negli anni settanta che ritiene che nelle società sviluppate il
concetto rilevante sia quello di povertà relativa, e cioè che il punto di riferimento su cui misurare chi sta
meglio e chi sta peggio in una società deve essere la condizione prevalente in quella società. Se
consideriamo il tasso di povertà relativa, possiamo affermare che in Italia e in Romania abbiamo tassi di
povertà assimilabili, il 20% in Italia, il 18-19% in Romania, però le condizioni di vita dei poveri dei due paesi
sono molto diverse.
Prima l’ho interrotta mentre accennava a nuove misurazioni per stimare quella povertà che all’apparenza sembra più
percepibile, più facile da decifrare, la povertà assoluta. Come si misura la miseria?
Per definire la povertà assoluta si parte dai bisogni materiali, primari, che sono l’alimentazione e l’abitazione.
Quindi si stimano le necessità nutrizionali per ogni fascia d’età e per ciascun sesso dell’individuo, si valuta il
costo di questo paniere di alimenti che permette di soddisfare le esigenze nutrizionali degli individui.
Si torna ai vecchi metodi della commissione parlamentare degli anni cinquanta.
L’indagine parlamentare sulla miseria di quegli anni si concentrava su queste necessità elementari, il bisogno
alimentare e quello abitativo, e individuava le persone misere come quelle che non erano in grado di
soddisfarli. Ora, naturalmente, le condizioni di vita sono evolute; allora era considerato misero chi aveva
calzature miserrime, chi non riusciva a permettersi la carne, chi viveva in abitazioni sovraffollate, magari
grotte e cantine; oggi il paniere minimo accettabile è legato a uno stile di vita che è sicuramente molto
migliorato nel corso degli anni e quindi anche le misurazioni di povertà assoluta tengono conto
dell’evoluzione e dello sviluppo economico complessivo.
Lei, in un articolo recente sulla rivista online nelMerito.com ha anche illustrato gli effetti di queste nuove misurazioni nel
tratteggiare la fisionomia della povertà.
Il risultato più rilevante della nuova metodologia è che si arriva a una certa specializzazione delle soglie della
povertà. Il principio è lo stesso di prima, si parte dai bisogni elementari, si stimano i bisogni residui in
relazione a questi bisogni e si calcola il costo complessivo del paniere. Prima, questo costo si stimava in
media per tutte le famiglie e per tutto il paese e perciò la soglia di povertà cambiava solo al crescere del
numero dei componenti della famiglia. Oggi invece la scelta dell’Istat e degli esperti che hanno studiato le
innovazioni è diversa: le soglie non vengono riaggregate, non c’è un’unica soglia nazionale ma ci sono tante
soglie quante sono le ripartizioni territoriali, e poi ci sono diverse soglie per la diversa ampiezza dei comuni
di residenza, per il numero e l’età dei componenti del nucleo.
Il profilo classico del povero era: componente di famiglia numerosa, residente al sud, minore. Con la nuova misurazione
cosa cambia in questo profilo?
Ci sono cambiamenti. La soglia di povertà, che so, di un single, di un anziano, nel nord è diversa da quella
della stessa persona in un piccolo centro del sud; tra l’uno e l’altro c’è una differenza di circa duecento euro
per le necessità del vivere calcolate sul paniere minimo essenziale. Non c’è più la soglia unica nazionale,
nelle aree meno sviluppate c’è bisogno di minori risorse per garantirsi il paniere minimo, e il contrario
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accade nelle zone più sviluppate. Le differenze, perciò, tra poveri delle diverse aree ci sono ma si riducono
di molto.
Lei su nelMerito.com scrive che la vecchia soglia sottostimava il costo del vivere da soli o in coppia e che la
specializzazione territoriale delle soglie contribuisce a ridurre le distanze tra nord e sud, anche se nel mezzogiorno vive
pur sempre il doppio dei poveri rispetto al nord. Questo tipo di analisi mi fa pensare che le diverse misure intorno alle
quali negli ultimi tempi si è molto discusso e su cui si sono aperte controversie politiche molto aspre, come il reddito
minimo di inserimento e la card sociale, siano in un certo senso da riconsiderarsi, perché occorrerebbero misure molto
più mirate per poter incidere e contrastare la povertà. O non è così?
No, diciamo, che se si accetta questa metodologia la conclusione è proprio questa che lei suggerisce. In
realtà misure come la carta sociale non sono assimilabili al reddito minimo di inserimento. La carta sociale
fa riferimento alla capacità di acquisto rispetto all’ultima settimana, quindi assumendo di essere in una
comunità nazionale non rileva immediatamente la necessità di differenziare l’ammontare sul territorio.
Viceversa, misure come il reddito minimo di inserimento che sono dirette a portare i cittadini tutti a uno
stesso, dignitoso, livello, comporterebbero che si differenziassero sui territori le soglie di povertà e
conseguentemente le soglie di reddito a cui elevare le persone in condizione di povertà.
C’è una constatazione un po’ ingenua che le vorrei proporre per finire. A cadenza regolare ormai vengono prodotte
ricerche che da anni ci dicono che la quota di povertà del nostro paese, sia essa assoluta sia essa relativa, non sembra
destinata ad essere scalfita, ridotta, diminuita.. E’ un problema di politiche o solo di percezione? Oppure, dentro questi
dati ci sono elementi diversi che andrebbero meglio analizzati proprio per progettare politiche di contrasto efficaci? E
secondo lei quali azioni sarebbero necessarie per aggredire efficacemente la povertà?
Mi riallaccio a un dibattito svoltosi a livello comunitario. La strategia di Lisbona, inaugurata circa un
decennio fa, immaginava che le politiche di sviluppo economico dovessero coniugarsi con le politiche
dell’occupazione e le politiche di coesione sociale. Il modello che si aveva in mente allora prevedeva che
queste tre gambe permettessero di realizzare il modello sociale europeo; a metà del percorso si è deciso,
però, di rifocalizzare questa strategia solo su crescita e occupazione. Ora, secondo me, a distanza di dieci
anni, proprio per le cose che diceva lei, e che riguardano non solo l’Italia ma anche gli altri paesi europei, il
punto quale è? La crescita e l’occupazione non sono sufficienti per un’equa distribuzione delle risorse.
Quindi, le politiche di redistribuzione e quelle che permettano anche agli ultimi di ottenere uno stile di vita
dignitoso sono politiche che non perdono di senso anche in una società che cresce economicamente e si
sviluppa con tassi di incremento notevoli. Il discorso, ovviamente, assume maggiore rilevanza in periodi di
crisi come quelli che stiamo vivendo.
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