Per un approccio cristiano al genere di Anthony Favier in “Les Réseaux du Parvis” hors série n° 29 del maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org) Qual è il significato del mio corpo? Quale parte occupa nella definizione di ciò che sono? Perché le differenze fisiche? Come devo intendere il mio desiderio e quello degli altri? Si tratta di problemi cruciali che toccano sia le nostre società sia i gruppi religiosi che vi si inseriscono. La tradizione cristiana ha avuto a lungo due nozioni pertinenti ed efficaci per comprendere l'identità, la differenza dei sessi e i desideri: la creazione e la vocazione. Nel suo slancio creatore, e la Genesi ha un posto importante in questo modo di intendere, Dio ci ha creati sessuati in un faccia a faccia originale, insuperabile e ricco di senso, con l'altro sesso. Ma lungi dal rinchiuderci nel maschio e nella femmina, Dio ci chiama anche a diventare uomini e donne e a realizzare così la nostra vocazione. Quest'ultima è il luogo dove potrebbero idealmente congiungersi la libertà umana e la volontà di Dio, che resta fondamentalmente l'attenzione per gli altri e per i più piccoli tra i nostri fratelli e sorelle. In questa tensione tra creazione e vocazione, diversi stati di vita che danno un significato particolare al sesso (la vita religiosa o presbiterale) o alla differenza dei sessi (il matrimonio) devono contenere le esperienze sociali, sessuali ed affettive. Eppure il modo di intendere il mondo e i sessi attorno al polo creazione/vocazione, pur non avendo affatto perduto la sua pertinenza, si scontra oggi con molti problemi. Quante incertezze per noi dopo le lotte di emancipazione delle donne degli anni settanta. Le femministe hanno mostrato molto bene che ciò che si faceva basare sulla creazione, il sesso insomma, ciò che passava per naturale, era spesso costruito e giustificava soprattutto la subordinazione. Molte antifone del passato non sono del resto più ripetibili né nelle comunità cristiane né nella società. L'essenzialismo fatica a rinnovarsi, tanto sviluppa sermoni di chiusura, poco credibili, che vedono le donne complementari agli uomini. Esso stabilisce anche delle tipologie di tratti di carattere, di atteggiamenti o di ruoli che, se ci si riflette, non sono fondamentalmente maschili o femminili, ma forse comunemente e semplicemente umani. Degli uomini possono avere atteggiamenti materni e delle donne possono avere autorità. La varietà sociale delle configurazioni tra ruolo sociale e sesso è immensa. Sfugge ad ogni schema binario e semplicistico. Quante incertezze per noi anche da quando l'emancipazione delle minoranze sessuali tende a dire che non c'è continuità evidente tra l'anatomia e i desideri che gli individui hanno in sé. Nelle nostre società, uomini e donne non appaiono più “naturalmente” come i due poli del desiderio amoroso o erotico. L'attenzione crescente, infine, che si dà alla transidentità, l'inadeguatezza tra un'anatomia e il modo in cui una persona percepisce se stessa, ci mostra che ciò che si esibisce sempre come naturale è lungi dall'esserlo in molte situazioni. Da un altro lato, un approccio puramente costruttivistico spaventa ancora e a giusto titolo. Tutto è solo frutto di costruzione sociale e rapporti di forza? Il corpo è malleabile e non contiene alcun senso in se stesso? Bisogna rinunciare ad ogni accettazione della differenza dei sessi? Gli studi di genere sono nati in un momento di crisi della nostra storia comune, quando lo sviluppo dell'individuo e la valorizzazione dell'autonomia, il progresso tecnico, la padronanza sulla fecondità, in primo luogo, e l'emancipazione delle donne, poi delle minoranze sessuali, hanno rivelato i limiti di un pensiero dagli accenti troppo rapidamente naturalisti e differenzialisti. La corrente degli studi di genere, ben rappresentata oggi nei diversi ambienti intellettuali, ha così proposto una nuova via. Propone un cammino di riflessione sulle identità sessuate e sessuali, cataloga ciò che definisce il maschile e il femminile in diversi luoghi e in diverse epoche e si interroga sul modo in cui le norme si riproducono fino al punto da apparire naturali e potenzialmente fonte di ingiustizia. Come accogliere questa corrente in un quadro di pensiero cristiano? Quale spazio per un'etica cristiana del genere? Gli studi di genere invitano a porsi una serie di domande che possono essere destabilizzanti o inquietanti perché fanno vacillare l'etica e la dottrina tradizionali. Tali studi, li possiamo rifiutare, respingere, combattere, oppure li possiamo vedere come un'opportunità per pensare una pratica del Vangelo nella nostra epoca. Negli anni settanta, dei teologi erano pronti a vedere gli elementi più destabilizzanti dei saperi contemporanei di allora come positivi, anzi come altrettante opportunità per rinnovare il nostro modo di intendere la fede e rinnovare la nostra comprensione della fede e della sua intelligenza. Bisogna riabilitare quel metodo? Più concretamente, gli strumenti di elucidazione della condizione umana offerti dagli studi di genere possono essere interessanti? Non ci mostrano forse quanto, prima di puntare tutto sulla differenza dei sessi, occorra accettare anche il suo divenire in una storia? Perché c'è un vivace opposizione cristiana al concetto di genere? L'anno 2011 è stato segnato da una polemica di rara intensità nell'ambiente scolastico. Una polemica nata in occasione della revisione di un programma di biologia per le classi di “première” (ndr.: penultimo anno di scuola superiore). Il Segretariato Nazionale dell'Insegnamento cattolico e poi la Conferenza episcopale cattolica francese sono stati “turbati” dall'introduzione della “teoria del genere” nei nuovi manuali prodotti dagli editori scolastici. Hanno invitato i professori e i genitori degli studenti alla massima vigilanza. Ai loro occhi, i nuovi libri erano contaminati da un'ideologia che cercava di sovvertire i saperi biologici in materia di differenza dei sessi e di sessualità. Un'ideologia che sosteneva, a loro avviso, un approccio troppo comprensivo dei comportamenti omosessuali e della trans-identità. Un campo di studi riservato solitamente all'ambito più confidenziale e felpato dei dibattiti di pensiero accademici è stato così catapultato in primo piano sulla scena pubblica e mediatica, suscitando articoli sulla stampa, trasmissioni televisive e radiofoniche, interpellanze pubbliche al governo da parte di deputati. Da parte dei cristiani, anche degli ambienti più aperti, pochissime sono state le reazioni positive: è sembrato che il disagio e la mancanza di conoscenza avessero più peso della comprensione degli studi di genere. L'opposizione dell'istituzione cattolica agli studi di genere è, ricordiamolo, ben più antica e ha già una storia. La ritroviamo nell'ambito degli organismi internazionali dell'ONU e dell'Europa. Nel 1995, in occasione della Conferenza mondiale sulle donne a Beijing, il termine “genere” entra nei documenti di lavoro e nel programma d'azione finale. La nozione di genere appare allora come il mezzo migliore di affrontare in maniera dinamica la questione della condizione femminile. Con un approccio attraverso il genere, non si tratta più solamente di un problema che riguarda solo le donne, ma che si inserisce in una riflessione più generale sulla ripartizione sociale delle attività e dei ruoli storicamente costruiti che assegnano dei posti alle donne e agli uomini. La Santa Sede reagisce però vivacemente: “L'esistenza di una certa diversità dei ruoli non è assolutamente nociva per le donne, purché tale diversità non sia stata imposta arbitrariamente ma sia l'espressione di ciò che è proprio della natura di uomo o di donna” (Rapporto della quarta conferenza mondiale sulle donne, New York, Nazioni Unite, 1996, p. 173). Nello stesso momento, la Chiesa cattolica romana ricorda che la scelta di uomini da parte di Cristo come suoi apostoli non è legata ad un condizionamento sociale o ad un contesto storico e geografico particolare. Tale scelta rivela invece qualche cosa della fede presente nella natura umana, che non può quindi essere rimesso in discussione. Il ministero presbiterale maschile non può essere visto come un ruolo socialmente ereditato, agli occhi di Roma, e si capisce bene che il concetto di genere preoccupa, per il fatto che invita appunto a interpellare la differenza dei sessi e le evidenze della natura. L'idea propriamente cattolica che esista un complotto ideologico che cerca di opporsi alla famiglia tradizionale e di cui la teoria del genere sarebbe il cavallo di Troia che bisogna combattere risale chiaramente agli anni ottanta. E non ha cessato di rafforzarsi da allora. Nata negli ambienti di riflessione sui diritti umani, la nozione di “identità di genere” emerge all'inizio degli anni 2000. Definita come “in riferimento all'esperienza intima e personale del proprio genere profondamente vissuta da ciascuno, che essa corrisponda o meno al sesso assegnato alla nascita, compresa la coscienza personale del corpo che può implicare, se consentita liberamente, una modifica dell'apparenza o delle funzioni corporee con mezzi medici, chirurgici o altri”, l'identità di genere come concetto giuridico tenderebbe ad integrare nella protezione giuridica a cui ha diritto un cittadino non solo l'orientamento sessuale ma anche la trans-identità nelle sue diverse dimensioni: dal travestimento alla modifica chirurgica. Nei percorsi propri assunti dalle nostre società, omofobia e transfobia tenderebbero a diventare motivi aggravanti di discriminazione o di diffamazione sull'esempio del razzismo. La nozione di identità di genere è stata trasposta nel diritto europeo nel rapporto di Andreas Gross adottato dall'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa nella primavera 2010. Intitolato Discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere, è stato aspramente criticato dai nunzi e dalle organizzazione familiari cattoliche. Due modi di intendere il mondo contemporaneo entrano sempre più in contrasto. Uno classico, secondo il quale esistono delle norme naturali che non hanno a che fare con l'ambito del diritto, non sono negoziabili e non possono quindi essere cambiate. Si tratta principalmente oggi, per l'istituzione cattolica, dei diritti degli individui a controllare la loro fecondità o dei diritti delle persone dello stesso sesso di accedere al matrimonio. Dall'altro lato, abbiamo una visione del corpo e dell'intimo, in cui le regole, se democraticamente elaborate e accettate, possono evolvere. Se il genere delle società cambia, se le attività e le aspettative sociali si ridistribuiscono tra uomini e donne, se i giudizi etici si spostano davanti a certi comportamenti, allora significa che va bene qualsiasi cosa, che è giusto così e che non c'è più nessun criterio di valore da tener presente davanti all'evoluzione delle nostre società? Oggi, possiamo prendere come criteri importanti quelli dell'umanesimo e dello sviluppo dei diritti umani: l'uguaglianza, la dignità, la reciprocità e il rispetto dell'autonomia di ciascuno o di ciascuna. Sono criteri fortemente compatibili con il Vangelo. La Rete Europea Chiese e Libertà (Réseau Européen Eglises et Libertés) di cui fanno parte le reti dei Parvis (Réseaux du Parvis) e FHEDLES (Femmes et Hommes, Egalités, Droits et Libertés dans les Eglises et la Société), ha quindi sostenuto il rapporto Andreas Gross in nome del suo legame inalienabile ai diritti delle persone omosessuali o trans-identitarie ad essere protette ed accettate nella società. Si può “snaturalizzare” l'approccio alla sessualità umana? Per lungo tempo, la comprensione sociale e intellettuale della sessualità è infatti passata attraverso il prisma del genere. Ciò che definiva un uomo e una donna, era anche indissolubilmente l'esercizio esclusivo di una sessualità eterosessuale. Nel XIX secolo, in Proust, gli omosessuali maschili sono ancora visti come persone in cui un'anima femminile è prigioniera di un corpo maschile. Sesso, genere e sessualità non sono concettualmente separati. Si vede molto bene che le tre cose vengano intese come coincidenti nel fatto che un sesso viene ancora definito forte o debole, bello o virile, e che ogni scarto (distanza) rispetto alle norme del proprio sesso viene visto come sovversivo o patologico, come un disordine che bisogna necessariamente combattere o soffocare perché “contro natura”. La psicanalisi freudiana, sicuramente ancora pregnante oggi nel nostro modo di pensare, non va oltre questo quadro, lega fortemente la differenza dei sessi alla differenza delle generazioni, e l'attrazione per l'altro sesso alla maturità psichica. Non si potrebbe passare all'una se non attraverso l'altra, non ci si potrebbe realizzare come uomo e donna che tramite l'affettività e la sessualità con una persona di un altro sesso. Se l'approccio naturalistico alla sessualità è stato a lungo quello seguito qui da noi in Occidente, non è però detto che comprenda la varietà dei gruppi umani o delle situazioni storiche; e sta sicuramente in questo l'apporto principale degli studi di genere. Ci rivelano che delle configurazioni sociali sesso/genere lasciano spazio a pratiche omosessuali, a travestimenti rituali o a organizzazioni sociali di comportamenti sessuali non riproduttivi. Esistono anche delle società passate, come nella Grecia Antica, dove non è la differenza dei sessi che organizza la sessualità, ma il modo di gestire il piacere e una morale del controllo di sé. I dibattiti attuali sull'apertura al matrimonio per le persone dello stesso sesso danno luogo spesso a delle condanne dell'omosessualità che si basano su false evidenze naturalistiche: “È contro natura!”, su antropologie perentorie: “al di fuori della coppia uomo-donna, nulla di buono!” e su psicologie categoriche: “gli omosessuali sono immaturi!”, e, alla fine, ben poco sul Vangelo. E per dei buoni motivi! Si farebbe veramente molta fatica se si volesse trovare nel Vangelo un elemento esplicito per riprovare moralmente l'omosessualità. Cristo non è venuto per dare dei fondamenti antropologici alle società umane ma per chiamare ciascuno alla conversione, a vivere in accordo con Dio, a rendere più giusto il proprio desiderio e a rinunciare ad una certa forma di concupiscenza [i]. Perché l'oggetto di un desiderio sarebbe un criterio superiore al processo di umanizzazione che può riguardare questo desiderio? Quale spazio dare alle nuove rivendicazioni identitarie delle minoranze sessuali nella società e nelle comunità cristiane? Questo problema di fondo non si risolverà sicuramente con una riabilitazione artificiale dell'antropologia passata. Il genere come mezzo per comprendere le persone in condizione di subordinazione L'intuizione di una natura che nasconde una costruzione culturale dà fondamento ad una posta in gioco etica di emancipazione, molti aspetti della quale possono essere visti come cristiani. Tutti/tutte conosciamo la parola del filosofo Blaise Pascal: la cultura questa seconda natura. Determinati tratti, presi come evidenti e naturali, possono essere il frutto di una acculturazione progressiva così evidente, che si giunge a ri-naturalizzarli. Il sociologo Pierre Bourdieu con il suo concetto di habitus aveva detto qualche cosa di un po' simile: la società produce contemporaneamente evidenza e gerarchia. Se c'è norma, c'è in effetti potere e una posta in gioco di liberazione. Negli studi di genere, c'è perfino, in fondo, ben poca onnipotenza dell'individuo ma una “piccolezza” tutto sommato molto evangelica. Non si indossa un genere come un costume teatrale, a secondo del capriccio del momento, e anche secondo una filosofa come Judith Butler, a torto molto denigrata, una persona, prima di essere un soggetto libero, è già un soggetto prodotto da altri. Nell'evidenza di uno sguardo, nella ripetizione di un gesto, nell'incorporazione lunga, permanente e ripetuta di un gesto o di una posizione, il soggetto è prodotto ancor prima di prenderne coscienza e di venire a patti con quella realtà. Il fatto stesso che esistano nella nostra lingua espressioni come donna virile o uomo effeminato testimonia la debolezza di un pensiero che si fermerebbe all'evidenza naturale dei sessi. Se noi non fossimo veramente altro che maschio e femmina, non ci sarebbe né femminile né maschile. È ciò su cui gli studi di genere ci invitano a riflettere, secondo un modello molto più destabilizzante: nessuno si realizza veramente nel proprio genere, ciascuno resta al di qua del “maschile” e del “femminile”, di cui si farebbe veramente fatica a dare una definizione semplice e fissa. Siamo tutti in una “performance” di genere più o meno cosciente, più o meno alienante e più o meno soddisfacente per noi stessi e per gli altri. Un approccio tramite il genere permette infatti di porre la propria comprensione dalla parte di coloro che soffrono della natura sostenendo un rapporto di poteri già esistente e molto spesso ininterrogabile: donne, minoranze sessuali, persone che rientrano in “soggettività subalterne” [ii] e che non sono la misura (il campione di misura) dei discorsi sulla società. In questo, studi di genere e teologia della liberazione concorderebbero nei loro obiettivi: mettersi dalla parte di coloro che non sono qualificati per produrre le regole che li dominano. C'è un'evidenza del potere che si naturalizza e che permette di squalificare coloro che non vi si conformano. I gruppi religiosi non sono essi stessi nelle medesime logiche di controllo delle devianze di genere? Quando un magistero maschile afferma che le donne devono essere tenute lontano dai ministeri, non si neutralizza la parola delle prime interessate ad esprimersi su una vocazione? Quando si invitano attualmente le suore americane della Leadership of Women Religious Conference ad adottare un atteggiamento più conforme alla dignità del loro sesso, cioè la modestia e la non-rimessa in discussione delle norme pastorali o degli scritti dottrinali prodotti da uomini, che cosa si dice sottobanco del genere femminile cattolico? Come questa situazione ci “illumina” sull'esercizio dell'autorità del maschile sacerdotale? Si potrebbe sostenere che l'ambito della società civile (terrain sociétal), l'uguaglianza uomo-donna, la lotta contro le discriminazioni di cui sono ancora vittime le minoranze sessuali costituisce molto meno la posta in gioco di una teologia della liberazione che il terreno sociale (terrain social) dei rapporti socio-economici Nord-Sud o della lotta contro la precarietà che colpiscono le nostre società occidentali. Oltre al fatto che non è proprio certo che le logiche di esclusione differiscano davvero (quando non si assommano - pensiamo particolarmente alle donne dei paesi in via di sviluppo), è interessante notare oggi che le comunità più avanzate nella pastorale delle minoranze sessuali sono anche quelle spesso più sensibili ai problemi economici. Non sviluppano tanto un appello a costituire delle “chiese gay” quanto luoghi di condivisione “inclusivi”. Saint-Merry o il tempio della Maison Verte a Parigi, che si presenta come “una coalizione di minoritari”, o molti luoghi che ci sono sicuramente nelle regioni, intendono ad esempio essere aperti tanto alle persone in situazione di marginalità socio-economica o socio-culturale che a persone provenienti da minoranze sessuali. Come posizionarsi tra un riconoscimento della propria specificità e della propria sofferenza e il mantenimento di gruppi aperti a tutti e a tutte? Come far entrare questo interrogativo nelle nostre comunità? Non dobbiamo aver paura del genere! In una rivista di teologia morale, il frate domenicano Laurent Lemoine si chiede se alla fine la paura degli studi di genere non sia un po' priva di fondamento: “Alcuni presentano gli studi di genere come una ideologia storicamente pericolosa come il marxismo! Significa fare la Cassandra sostenere questo? (…) Di fatto, la galassia del genere propone agli avventurieri un viaggio indefinito fatto di permanenti decostruzioni socio-culturali di sé (…) che non è privo di ostacoli, ma che non porta necessariamente al naufragio”. Pur senza sottoscrivere un ottimismo superficiale di fronte agli studi di genere, si chiede se essi non possano aiutarci a comprendere come il soggetto parli di se stesso e produca la sua identità come i personaggi del Vangelo: “Come Zaccheo, l'adultera, il giovane ricco, il cieco-nato sono individui dall'identità incompiuta, errante, che si cerca, che ha bisogno di dirsi, di essere espressa a qualcuno, Gesù in questi casi, che li aiuta a raggiungere la verità di se stessi, una verità che possiedono senza saperlo nonostante le vie senza uscita seguite fino ad allora. Gesù è piuttosto discreto in materia di etica sessuale. Questo è stato più volte sottolineato. Essa (la galassia del genere) mette in primo luogo l'accento sulla ricerca di verità (…). Pone la ricerca di sé, la ricerca di identità su uno sfondo molto vasto, di cui la sessualità, per quanto importante, non è che un aspetto, non un dettaglio, certo, ma un aspetto. Gesù ha guidato un gruppo minoritario che si è costituito al suo seguito sulla base di una sovversione identitaria dei suoi membri, che hanno lasciato la loro famiglia, il loro modo di vivere, i loro punti di riferimento sociali, etici e culturali. La sovversione etica proposta da Gesù portava ad affermare questo nella sua vita (…): 'il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato'”. [i] “La sainteté pour tous”, dal blog Baroque et fatigué, del 4 ottobre 2012 [ii] Secondo l'espressione della filosofa Gayatri Chakravorty Spivak Riferimenti bibliografici: - Béraud Céline (février 2011) : Quand les questions de genre travaillent le catholicisme, Études, 414/2, pp. 211-221. - Bereni Laure, Chauvin Sébastien e Jaunait Alexandre (2008) : Introduction aux gender studies, Bruxelles, De Boeck, p. 247. - Fassin Éric (2010): «Les forêts tropicales du mariage hétérosexuel, loi naturelle et lois de la nature dans la théologie actuelle du Vatican», Revue d’éthique et de théologie morale, n° 261, pp. 201-202. - Lemoine Laurent (2011): «Questions nouvelles par les identités sexuelles d’aujourd’hui», Revue d’éthique et de théologie morale, n°263, pp. 9-29.