editoriale di Stefano Ciccone Questo numero de Il Calendario del Popolo non tratta quella che siamo stati abituati a considerare la “questione femminile”: il perdurare della discriminazione delle donne nel lavoro o nella politica, la necessità di valorizzare il contributo sociale delle donne. Ragionare sul rapporto tra femminismo e sinistra è un’occasione per rispondere a domande più generali e profonde. Mette in discussione la nostra stessa idea di politica e ci porta a cercare con radicalità un’innovazione nelle forme, nei linguaggi e nell’identità stessa della sinistra. Il rapporto della sinistra con il femminismo è stato parte di uno sforzo di innovazione a partire dal ’68: la necessità che il movimento operaio si misurasse con nuove domande, nuove contraddizioni e nuove soggettività emergenti dalla società. Non si trattava semplicemente di “ascoltare la società” ma di rimettere in discussione l’economicismo e lo statalismo della sinistra che la rendevano subalterna a un’idea di crescita economica illimitata, incapace di mettere in discussione il modo di produrre e il rapporto tra stato e società, tra governanti e governati. Sulle diverse idee di innovazione si sono misurate a sinistra prospettive politiche divergenti. All’inizio degli anni Ottanta si sono confrontate due ipotesi di innovazione: quella craxiana e quella dell’ultimo Berlinguer, quello dell’alternativa. Non a caso l’alleanza competitiva tra Psi e Dc fu all’insegna dell’alternanza contrapposta all’alternativa. L’ipotesi di modernizzazione craxiana, fatta di personalizzazione, centralità della dimensione del governo, fastidio per i corpi intermedi, escludeva esplicitamente un’ambizione della politica a mettere in discussione il paradigma dello sviluppo, del governo come esercizio separato e sovrapposto alla società. È significativo che Berlinguer scelga in quei mesi di coniugare la scelta dell’opposizione e la relazione con il conflitto sociale – la Fiat – con il dialogo con il femminismo, l’ambientalismo e il pacifismo intesi come pratiche sociali e culture che ripensavano lo svilup- po, il rapporto tra politica e vita, i modelli di welfare. Nell’89 nella proposta di Occhetto il riferimento a culture e movimenti appare accessoria rispetto alla scelta di liberarsi del peso di una storia percepita come ingombro. Proprio in quella contingenza sia l’opposizione di Ingrao sia la quarta mozione delle donne sfidano la proposta dello scioglimento del Pci proprio sul terreno dell’innovazione politico culturale e sul rapporto con culture critiche. Oggi la discussione sul concetto di innovazione torna col mito semplificato della velocità, dell’efficienza, dell’autonomia del governo, della personalizzazione del leader. Ma sarebbe riduttivo considerare il femminismo come una cultura politica critica utile per innovare i programmi e le proposte della sinistra. Il femminismo pone una critica radicale al fondamento della politica: la distinzione tra una dimensione pubblica, governata e trasformata dalla politica e una dimensione privata che non la riguarderebbe. Così la sessualità, le relazioni di potere tra le persone sono state per molto tempo considerate dimensioni non politiche. Ma se la politica riguarda le relazioni di potere e la libertà delle persone possiamo dire che non siano in gioco anche nelle relazioni tra donne e uomini, nella sessualità, nell’imposizione di modelli, aspettative attitudini stereotipate in base al genere? Gli spazi per far vivere quella domanda radicale prodotta dal femminismo di una politica capace di guardare ad altre dimensioni della vita, non ridotta alla dimensione istituzionale o della delega che metta in discussione il nesso tra vita, movimenti collettivi e istituzioni, si sono tuttavia drammaticamente ristretti ed è cambiata la politica come pratica sociale diffusa. La vita dei partiti come comunità plurali si è impoverita, l’attività delle istituzioni è divenuta più impermeabile al conflitto e alla creatività sociale, le esperienze e le culture politiche si sono frammentate frammentando la stessa esperienza delle persone. 9 10 Eppure, l’immaginario sessuale irrompe di nuovo in politica in modo imprevisto e spesso distorto. A invadere il discorso politico non è, infatti, l’assunzione della politicità delle relazioni tra i sessi, della sessualità e dell’immaginario come terreno di conflitto, di costruzione di nuove libertà o di nuove forme di controllo e dominazione. La sessualità è tornata per un verso sotto le mentite spoglie della trasgressione berlusconiana, come richiamo di complicità a un immaginario arcaico e gerarchico, dall’altro come fantasma perturbante da espungere dall’ordinato esercizio del governo delle istituzioni. La messa in scena del tradizionale scambio di sessodenaro e potere tra donne e uomini ha riportato la sessualità al centro e al tempo stesso l’ha nascosta e imprigionata. È diventato difficile farne oggetto di riflessione politica, di pratiche collettive di critica, trasformazione e liberazione ed è rimasta come allusione: richiamo complice all’egoismo proprietario aggiornato in salsa pecoreccia o appello al mercato come spazio di relazioni senza aggettivi tra individui neutri. È possibile costruire una critica politica del sistema di potere che si rivela dietro questo scambio, senza cadere nell’insulto verso le donne coinvolte e senza produrre un nuovo moralismo? L’unica alternativa al giudizio moralistico è la sospensione di uno sguardo critico su ruoli, relazioni e rappresentazioni? È possibile esplicitare la differenza tra giudizio morale e critica politica? Credo sia possibile solo se si assume la sessualità, la dimensione relegata nel privato delle relazioni tra i sessi, la costruzione dell’immaginario attorno ai corpi e ai desideri, non come terreno “naturale” ma come luogo di conflitto e dunque anche di critica collettiva, di decostruzione di ruoli, modelli e attitudini. Se riconosciamo però che è in gioco una questione di potere e di libertà nelle relazioni tra le persone, si pongono alcune domande: cosa dice tutto questo agli uomini della sinistra e in generale agli uomini che devono misurarsi con i cambiamenti in corso nelle relazioni tra i sessi? Si tratta di concedere quote di accesso al lavoro, alle istituzioni o di mettere in discussione anche il nostro rapporto come uomini con il lavoro e con il potere come fonti di identità? Quel potere è ancora capace di dare senso alle nostre vite o è diventato un feticcio? E la nuova autonomia e libertà delle donne è per noi solo una minaccia o anche l’opportunità per rompere una solitudine e una miseria che ha segnato la nostra sessualità, le nostre relazioni e le nostre vite? Possiamo pensare che quello sguardo prodotto dal femminismo ci riguardi? Quella domanda di libertà può riguardare anche le vite degli uomini?