Il teatro spagnolo dei Secoli d`Oro, vol. I - Lope de Vega

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Il teatro spagnolo dei Secoli d’Oro, vol. I - Lope de Vega
Carpio, Tirso de Molina, Miguel de Cervantes,
coordinamento generale di Maria Grazia Profeti,
Milano, Bompiani, 2014, 2436 pp.
Daniele CRIVELLARI
Università di Salerno
È ben nota, a chi lavora con gli studenti che in ambito universitario si
avvicinano al teatro aureo spagnolo, l’importanza di proporre loro testi affidabili, in
edizioni critiche e annotate. Altrettanto nota, tuttavia, è la difficoltà di reperire quegli
stessi testi in traduzioni italiane ugualmente affidabili, critiche e annotate: la necessità
di avvicinare lettori non avvezzi alla frequentazione dei drammi del Siglo de Oro per
mezzo delle traduzioni si scontra con l’esiguità di versioni disponibili e, ciò che è
peggio, con l’obsolescenza o la scarsa qualità di alcune di esse. Se pure è vero che negli
ultimi anni sono sorte diverse iniziative editoriali volte a colmare questa lacuna – si
pensi, per non citare che un paio di esempi meritori, alla collana “Bagattelle” presso
ETS, diretta da Giulia Poggi, o a “Dulcinea” presso Marsilio, diretta da Marco
Presotto, da cui sono tratti, peraltro, due dei testi in traduzione riprodotti nel libro qui
recensito –, molto rimane ancora da fare. Il primo volume de “Il teatro spagnolo dei
Secoli d’Oro”1, coordinato da Maria Grazia Profeti, si inserisce a pieno titolo in questo
continuo e sempre più proficuo lavorio attorno alla grande stagione aurea spagnola
che si osserva recentemente in Italia.
L’opera, che appartiene alla collana “Classici della letteratura europea” diretta da
Nuccio Ordine, offre una selezione di dieci commedie di Lope, Tirso e Cervantes: La
dama boba, Los melindres de Belisa, Fuente Ovejuna, El caballero de Olmedo, El castigo sin
venganza, El vergonzoso en Palacio, Don Gil de las calzas verdes, El condenado por desconfiado, El
burlador de Sevilla e La entretenida2. Completano il volume un’ampia introduzione (pp.
vii-xxxvii) e tre brevi saggi bio-bibliografici dedicati agli autori (pp. 3-14, 1095-1101 e
1
Il titolo del volume è “Il teatro dei Secoli d'Oro. Volume I” nella sovraccoperta, “Il teatro spagnolo
dei Secoli d’Oro. Volume primo” nel frontespizio e “Teatro spagnolo dei Secoli d'Oro. Volume primo”
nel sommario.
2 Mentre scriviamo questa recensione è in uscita il secondo volume, che comprende altre dieci
commedie: La vida es sueño, La dama duende, El pintor de su deshonra, El alcalde de Zalamea e El príncipe
constante di Calderón, La serrana de la Vera di Vélez de Guevara, La verdad sospechosa di Ruiz de Alarcón,
El ejemplo mayor de la desdicha y capitán Belisario di Mira de Amescua, Entre bobos anda el juego di Rojas
Zorrilla e El desdén con el desdén di Moreto.
Orillas, 4 (2015)
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2045-2056), tutti a firma di Maria Grazia Profeti, nonché note introduttive alle
commedie curate da diversi studiosi e un ampio apparato di note esplicative ai testi.
Per quanto riguarda queste ultime, quasi certamente dettata da esigenze editoriali – ma
non per questo meno infelice – risulta la loro collocazione in fondo al volume (pp.
2271-2402): leggendo la densa introduzione, ad esempio, è piuttosto oneroso per il
lettore dover saltare avanti e indietro per più di 2000 pagine al fine di scoprire gli
approfondimenti e i rimandi bibliografici proposti, con il rischio che in alcuni casi la
pigrizia possa prendere il sopravvento sull'interesse. Ciò è ancora più spiacevole se si
considera che le note sono realizzate con estrema cura e si rivelano uno strumento
preziosissimo per addentrarsi non solo nei testi drammatici, ma anche nella
comprensione di alcune scelte traduttive; raccogliere l’insieme delle note relative a ogni
commedia in coda a ognuna di esse avrebbe reso indubbiamente più agevole la
consultazione. A questo riguardo, aggiungeremo anche che né nei testi spagnoli né in
quelli tradotti compaiono segni di rimando ai termini o alle espressioni oggetto di
commento nelle note; è dunque il lettore a dover controllare, alla cieca, quali punti
siano stati chiosati.
L’introduzione che apre il volume presenta un excursus attraverso alcuni degli
snodi centrali del teatro aureo spagnolo: la “crisi” storico-politica e la realtà letteraria, i
luoghi della teatralità (corrales e teatro palaciego), temi, personaggi e generi, oltre a una
rapida ma avvincente ricostruzione dei processi di produzione e diffusione dei testi
drammatici, dalla inventio alla stampa, passando per le dinamiche implicite nel
momento della mise en scène. Anche la nota introduttiva a La dama boba, a firma della
stessa Profeti, non solo presenta la sinossi dettagliata dell’opera, ma ne sviscera i
meccanismi di costruzione per mezzo di un’analisi che tiene conto delle linee
dell’azione drammatica, della versificazione, dei rimandi intertestuali e così via.
Estremamente positivo è poi il fatto che (se, come ci sembra, il testo non è rivolto
solo a un pubblico di specialisti) ci si soffermi su questioni ecdotiche puntuali,
utilissime non solo ai fini della ricostruzione del testo adottato, ma anche per mostrare
la centralità dell'attività filologica. Per quanto riguarda la traduzione di Rosario
Trovato, oltre a essere evidente la cura per il rispetto delle quantità sillabiche dei versi,
si osserva una certa attenzione per gli aspetti anche apparentemente meno significativi
dell’originale, come ad esempio il livello fonetico, anche a costo di scelte coraggiose: a
titolo esemplificativo citeremo il v. 188, “Bien es que Fabio, y que no sabio, sea”,
tradotto “Non fu saggio. Era Flavio ma non savio”; come segnala il traduttore in nota
(p. 2295), la modifica del nome del personaggio si spiega proprio al fine di rispettare il
gioco di parole. Apprezzabile è anche il fatto che si sia tenuto conto degli aspetti
spettacolari dell’opera, come traspare ad esempio dalla traduzione della didascalia
“Entren con agua, toalla, salva y una caja” del v. 960+, resa con “Entrano i servi con un
vassoio, acqua, salvietta e una scatola di dolci”; segno evidente, questo, dell’intenzione di
favorire nel lettore la rappresentazione mentale della pieza.
De Los melindres de Belisa, curata e tradotta da Katerina Vaiopoulos,
sottolineeremo anzitutto come nell’introduzione si mettano a fuoco in modo acuto i
profili dei personaggi e i complicati equilibri che si stabiliscono tra loro. Seguono
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interessanti note sulla struttura polimetrica dell’opera, con osservazioni per nulla
scontate sulla corrispondenza tra i diversi metri impiegati e le funzioni ad essi
connesse, in linea con i più recenti contributi sulla segmentazione del testo
drammatico. Così come per La dama boba e per tutte le altre commedie del volume,
chiude l’introduzione una panoramica critica che ripercorre le vicende editoriali del
testo. Com’è naturale, la traduzione della pièce deve piegarsi in alcuni casi
all’impossibilità di aderire all’originale sia sul piano del contenuto che su quello
metrico-rimico. La studiosa segnala ad esempio nella nota al v. 37 (p. 2303) di avere
preferito il rispetto della quantità sillabica a discapito della fedeltà alla parola per
quanto riguarda alcuni numeri; i termini “traditi”, tuttavia, non hanno un valore
vincolante nel testo, oltre al fatto che la presenza dell’originale spagnolo a fronte rende
la scelta meno pesante. Più curiosa risulta invece l’operazione di addomesticamento di
parte dell’onomastica e della toponomastica, che in alcuni casi sconfina in quella che
sembra un’eccessiva tutela del lettore italofono non specialista: se “Valencia” (v. 752) è
tradotto con “Valenza”, secondo una certa tradizione della lingua italiana, non è
altrettanto chiaro per quale motivo “Sigüenza” (v. 752) diventi “Siguenza”, o “Íñigo de
Mendoza” (v. 763) sia reso con “Ignigo de Mendoza”.
Profeti è l’autrice dell’introduzione a Fuente Ovejuna, oltre che la traduttrice del
testo: nella prima parte, la studiosa condensa i giudizi su quest’opera e le linee
interpretative frutto degli apporti dei critici negli ultimi cent’anni, da Marcelino
Menéndez y Pelayo in avanti, per poi passare in rassegna, come di consueto, le varie
fasi dell’azione analizzandole in rapporto alla struttura generale dell’opera e alla forma
metrica di volta in volta impiegata dal Fénix. La traduzione è scorrevole e da essa
trapela la cura posta nel tentativo di restituire non solo la misura metrica dei versi, ma
anche il loro ritmo, quel “movimento della parola nel linguaggio” cui Meschonnic ha
dedicato pagine illuminanti. In alcuni punti, poi, a nostro modo di vedere, la
traduzione riesce nell’ardua impresa di riprodurre l’intera tavolozza delle sfumature
dell’originale: è il caso, ad esempio, dello straziante soliloquio di Laurencia nel terzo
atto (vv. 1725-1795) o, sempre nell’ultima jornada, della concitata scena dell’uccisione
del Commendatore (vv. 1850-1921).
Frutto del lavoro di una sola studiosa, Fausta Antonucci, è anche l’edizione
critica annotata con introduzione e la traduzione de El caballero de Olmedo. In questo
caso la nota introduttiva segue in parte un percorso diverso, in quanto non presenta
nel dettaglio la sinossi dell'azione drammatica, ma si concentra piuttosto sull’analisi di
alcuni elementi tematici e strutturali dell’opera. In particolare, Antonucci dedica alcuni
densi paragrafi a sviscerare i complessi rapporti intertestuali che la “trágica historia” (v.
2731) scritta dal Fénix tesse con la letteratura antecedente, sia popolare che colta
(poesia tradizionale, lirica cancioneril), per poi mostrare le tecniche di costruzione messe
in atto da Lope per confezionare questo capolavoro: sapiente costruzione dei
personaggi, accorta rielaborazione dei nuclei narrativi precedenti, il tutto in un
costante dialogo con l’orizzonte d’attesa degli spettatori. Della bella traduzione del
testo ci piace sottolineare l’accuratezza con cui vengono mantenute le strutture
anaforiche (si vedano ad esempio i vv. 1636-1637, 2035-2036, 2044-2047, ecc.) e
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quelle allitteranti (vv. 2032-2033, 2150-2151, ecc.). Per quanto riguarda invece i giochi
paronomasici, spesso impossibili da rispettare, viene proposta una spiegazione in nota,
come ai vv. 95-96, 921-922 o 1234, mentre in alcuni casi il testo viene modificato per
offrire un’analoga dilogia (cfr. ad esempio i vv. 91-94 o 1075).
Chiude la serie di commedie lopiane El castigo sin venganza, a cura di Profeti: nella
nota introduttiva la studiosa si addentra nel complesso eppure chiarissimo sistema di
metafore su cui Lope puntella la storia d’amore impossibile tra Cassandra e Federico,
ripercorrendo altresì gli elementi portanti (dentro/fuori, justo/gusto, immaginazione e
confusione, ecc.) della commedia. A proposito della traduzione, Profeti cita la fitta
selva di giochi retorici e concettuali presenti nel momento culminante della tragedia,
alla fine del secondo atto; si tratta, per il traduttore, “di una serie di forche caudine,
sotto le quali tuttavia è necessario inoltrarsi per tentare di ridare al lettore i molti sensi
del passaggio” (p. 897). In effetti, la lettura dei vv. 1811-2030 – ma, a ben vedere,
dell'intera pieza – mostra in modo molto chiaro quale sforzo supponga la resa in
italiano di un linguaggio estremamente denso, che dice senza poter dire in un
equilibrio che appare perfetto e immodificabile; tuttavia il risultato, a nostro modo di
vedere, può dirsi riuscito.
Di Tirso il volume accoglie, come si è detto, quattro commedie: la prima, El
vergonzoso en Palacio, è curata da Giulia Poggi (con la collaborazione di Frej Moretti per
la fissazione del testo spagnolo). La nota introduttiva ripercorre brevemente la sinossi
della commedia, per concentrarsi poi sull'intrecciarsi delle storie fondate su quella che
viene definita una “sorta di psicomachia rovesciata delle forze che tradizionalmente
presiedono alla dinamica amorosa” (p. 1107), ovvero sulla vicenda di Mireno e
Madalena. Vengono altresì presentate alcune riflessioni sull’impiego del travestimento,
oltre a un’analisi di taglio socioletterario sul contesto in cui venne prodotta e inscenata
la commedia, caratterizzato come fu dalla presenza dei privados (il duca di Lerma, nel
caso specifico). La traduzione si misura egregiamente con un testo affatto scontato,
che nella dialettica linguistica tra i personaggi e nella pluralità dei registri trova una
delle sue caratteristiche essenziali; come afferma Profeti nell'introduzione biobibliografica all'autore, il linguaggio tirsiano presenta un evidente sperimentalismo che
fa convivere perfettamente, ad esempio, vernacolo contadinesco (come nel dialogo
infarcito di sayagués tra Tarso e Melisa ai vv. 169-ss.) e slanci dal chiaro sapore
gongorino (come nel sonetto di Mireno ai vv. 647-660).
È ancora Giulia Poggi, in tandem con Frej Moretti per il testo spagnolo e Ida
Poggi Nuccio per la traduzione, ad occuparsi del Don Gil de las calzas verdes. La nota
introduttiva mette in luce i moventi tematici dell'azione, quali il binomio
nobiltà/ricchezza, il denaro, ma soprattutto il gioco delle parti frutto dei molteplici
travestimenti di Juana e Martín, nonché il significato simbolico del colore verde che
pervade l’opera già a partire dal titolo e l’ampio uso di proverbi e detti.
Dell’impossibilità di trasporre in italiano i molteplici livelli di significazione del
complesso linguaggio tirsiano (si vedano ad esempio i vv. 254-260, 811-819, 30193021, ecc.) avverte Poggi in chiusura dell’introduzione, eppure la lettura del testo
italiano dell’opera risulta scorrevole e piacevole, grazie anche a “un continuo
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confronto reciproco e una ininterrotta ricerca comune di un ritmo uniforme e fedele
alla varietà metrica e linguistica della commedia” (p. 1397) da parte delle due
traduttrici.
El condenado por desconfiado, il cui testo spagnolo è curato da Profeti, è introdotto,
tradotto e annotato da Giovanni Cara; dopo avere ripreso alcune delle questioni
centrali del fenomeno teatrale barocco già trattate nell'introduzione generale da
Profeti, nella nota introduttiva lo studioso fa luce sulle delicate tematiche su cui è
imperniata la vicenda: il binomio peccato/redenzione, ad esempio, o il valore della
confessione nella concitata fase storica post-tridentina e controriformista. Cara riesce a
mettere bene in risalto i richiami e le allusioni – a volte velate, altre meno – contenute
nel Condenado, che lo legano inscindibilmente a testi, concetti e questioni che
costituiscono chiavi imprescindibili di lettura del dramma. Non mancano alcune
osservazioni sui difficoltosi processi di attribuzione della paternità e di trasmissione
della pieza, che hanno influito sulla vita del testo. In conclusione, lo studioso riflette
estesamente sulla sua prassi traduttiva, con alcune suggestive note sulla traduzione in
generale: si dice contrario, ad esempio, alla “concezione narcisistica che pensa a una
«sconfitta»” (p. 1632) nella non sempre facile operazione di travaso testuale da una
lingua all’altra. Il punto di partenza per queste considerazioni è la resa in italiano del
titolo, ma la lettura della traduzione mostra una grande maturità nel confrontarsi con il
testo anche in una prospettiva che sa tenere conto della dimensione scenica, una
dimensione a cui peraltro si allude spesso nella nota introduttiva.
Il teatro tirsiano si chiude, come era prevedibile, con El burlador de Sevilla a cura
di Profeti; in poche pagine la studiosa riesce a condensare gli elementi salienti di
questa commedia e a spiegare le ragioni di un successo quasi unico nel panorama
barocco spagnolo. A suon di citazioni da opere di altri autori (Lope, Vélez, Mira de
Amescua) si evidenzia in modo chiarissimo come i materiali principali del Burlador
fossero già presenti nella letteratura teatrale coeva; eppure, come dimostra Profeti, la
grande forza innovativa di don Juan risiede proprio in una nuova visione drammatica,
che inscena la dannazione del personaggio. Per quanto concerne la traduzione, in una
nota la studiosa si scusa segnalando che “dato il peculiare carattere del testo, le note
sono quasi esclusivamente incentrate su problemi ecdotici” (p. 2379). Ciononostante,
nell’ottica di un lettore discente, proprio l’acribia filologica che traspare dalle note (si
pensi a quelle ai vv. 204-206, 598-599, 1154, 1687-1693, 2103, ecc.) costituisce a
nostro modo di vedere un elemento di estremo interesse, che può insegnare anche più
di una spiegazione sulla mancata resa, ad esempio, di un gioco paronomasico.
Chiude il volume La entretenida, frutto di un lavoro a otto mani: il testo spagnolo
e le note sono curate da Federica Cappelli, l’introduzione è di Giulia Poggi, mentre la
traduzione è opera di David Baiocchi e Marco Ottaiano. La nota introduttiva, oltre a
un breve riassunto della trama, mette in prospettiva la produzione teatrale cervantina
nel contesto dei primi tre lustri del XVII secolo, avendo come termine naturale di
paragone Lope. Proprio riguardo al “Monstruo de la naturalezza” Poggi sottolinea
come dietro al carattere “entretenido” della pièce di Cervantes si celi una posizione
polemica nei confronti del nuovo modo di fare teatro inaugurato dal Fénix. Nella
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prospettiva del testo tradotto, è interessante il fatto che la studiosa sottolinei alcuni
elementi linguistici come aspetti nodali della commedia: lo “stile volutamente enfatico
con cui i galanes esprimono le loro angosce amorose” (p. 2062), la “tessitura linguistica
che, modulata su una serie di registri intermedi, riflette [...] lo stile — variegato e
imprevedibile — del parlato” (p. 2063), o ancora un “parlato colorito e intessuto di
onomatopee, deittici ed espressioni figurate” (p. 2064). Con tutti questi aspetti (e altri,
quali l’uso ricorrente di vezzeggiativi, interiezioni e imprecazioni, la creazione di
neologismi e il ricorso ai giochi linguistici) si deve confrontare la traduzione,
naturalmente; il testo italiano ci pare riesca a restituire in modo soddisfacente questa
molteplicità di piani (si vedano ad esempio i vv. 43-46, 1040-1043, 1269-1285, 16351636, 1803-1816 o 2072-2075), rimandando in nota alcune soluzioni dalla resa
impossibile.
Durante la lettura del volume l’occhio rileva qui e là alcuni errori e refusi: ne La
dama boba la didascalia del v. 492+ recita “Vanne”, invece che “Vanse”; più avanti si
legge “Debéis de hablar en rornances, (sic) / porque un discreto y un necío (sic)” (vv.
1306-1307); la didascalia del v. 501+ de Los melindres de Belisa, “Vase”, è tradotta
"Escono"; in Fuente Ovejuna, a p. 639, compare il termine “minaccie”; nella nota
introduttiva al Don Gil (p. 1388) si cita il verso “Elvira sin vira” senza segnalare
l’avvenuta espunzione del “pero” all’interno dello stesso, e indicando erroneamente
che si tratta del v. 1725 del terzo atto, mentre è il 1705 del secondo; nella didascalia a
p. 1727 del Condenado por desconfiado manca un punto e virgola, e sia in quest’opera che
nel resto del volume saltano a volte i punti finali delle didascalie; nella nota
introduttiva a La entretenida (p. 2066) si citano le parole di don Francisco al v. 1925
“trújole de su amo”, ma nel testo si legge “trájole de su amo”. Come si vede, si tratta
di poche sviste in un mare magnum di quasi 2500 pagine, che ben poco inficiano
l’ottimo lavoro compiuto dai vari studiosi, e da Maria Grazia Profeti come
coordinatrice, nel riunire in questa silloge testi affidabili, critici e tradotti in modo
perlopiù eccellente. Il secondo volume, che presenterà anche opere di autori meno
frequentati – ma non per questo meno interessanti, come Vélez o Moreto –,
completerà questo bel progetto di sicura utilità nel panorama dell’ispanismo italiano.
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