Dott.ssa Valentina Farris Psicologa Psicoterapeuta Albo Psicologi della Sardegna n°1872 Progetto: “ Emozioni, corpo e cibo” Premessa Viviamo in una società che si sta sempre più virtualizzando e che rende sempre più incorporea ogni esperienza. L’obiettivo per raggiungere il vero benessere è quello di conquistare e conoscere la globalità dell’individuo nella sua dimensione biologica, psicologica, sociale, affettiva e relazionale. Si può certamente affermare che lo scompenso psicologico da parte dei soggetti che poi presentano delle patologie non organiche è dovuto ad un mancato riconoscimento delle emozioni e dei propri costrutti mentali: esiste cioè una difficoltà a conoscere se stessi, a sentire e a capire i propri desideri, ad avere fiducia negli altri e a credere che è possibile un miglioramento del proprio stile di vita. Tutto ciò è ancora più difficile in pre – adolescenza e in adolescenza, poiché questa tappa evolutiva comporta una serie di cambiamenti fisici che determinano profonde implicazioni psicologiche: la “nuova” identità corporea, l’autostima vacillante, il non conoscere le proprie emozioni e non riuscire a gestirle, il confronto mai vincente con i coetanei e con i modelli di riferimento proposti dai mass media, possono generare e sviluppare molteplici conseguenze psicologiche e comportamentali. Il non conoscersi, l’incapacità d’identificarsi e sentirsi in sintonia con il proprio corpo portano, spesso, ad una scorretta alimentazione e a patologie che minano il fisico, sfociano in depressione e nelle peggiori delle ipotesi conducono alla morte. A proposito di quanto detto, Guidano e Liotti (1983), affermano che la caratteristica principale dell’anoressia nervosa, è un deficit nelle strutture cognitive profonde legate all’identità personale e quindi ad una scarsa conoscenza di sé. E’ utile quindi, per prevenire i disturbi del comportamento alimentare, non solo informare su una corretta alimentazione e stile di vita ma anche lavorare per aumentare la consapevolezza interocettiva. Cosa sono i disturbi del comportamento alimentare (DCA)? Come nascono e si sviluppano? I disturbi del comportamento alimentare (DCA) non riguardano principalmente le problematiche col cibo, col digiuno o con le abbuffate, ma nascondono i sintomi di un sottostante profondo disagio emozionale e psicologico. Per alcuni individui diventano il caratteristico stile di vita con il quale affrontano le difficoltà apparentemente irrisolvibili. La maggior parte dei disturbi alimentari si sviluppano fra gli 11 e i 24 anni. Anche se attualmente il periodo si è spostato ai 40 anni. In alcuni casi, l’anoressia nervosa si sviluppa anche in età infantile, attorno ai 6 / 7 anni, mentre per quanto riguarda la bulimia nervosa è rara prima dei 13 anni. ANORESSIA e BULIMIA sono entrambi due gravi (e potenzialmente letali) disturbi del comportamento alimentare, accompagnati da continue preoccupazioni riguardanti il proprio peso e il cibo, nonché dal terrore d’ingrassare. Di solito l’anoressia inizia a seguito di una drastica dieta dimagrante senza il controllo medico, oppure con una iniziale perdita di fame legata ad un evento doloroso e si evolve in una ossessione per il controllo della quantità di cibo ingerito. Le “vittime”, pur affamate, si impongono di digiunare o di mangiare solamente una quantità minima di cibo nello sforzo di mantenere il proprio peso il più basso possibile: anche se il proprio corpo è al di sotto del peso normale lo percepiscono “troppo grasso”. In questo atteggiamento, una ragazza può essere influenzata da spot pubblicitari (dove, per essere accettati, bisogna avere un corpo snello), oppure dall’idea di volere un corpo sottile e asciutto come tante top model; altre volte teme l’apparire di quei segni corporei che segnalano l’identità femminile (seno, curve, ciclo mestruale): in tal senso si può dire che l’anoressia esprime la paura di diventare adulta. I pazienti anoressici non ammettono di avere un problema grave, si sentono fisicamente bene e sono convinti di essere di fatto in sovrappeso: pertanto possono sottoporsi ad un eccessivo esercizio fisico per bruciare il “grasso in eccesso”. I costanti sentimenti di insicurezza, la pervasiva insoddisfazione di sé e l’ossessione della magrezza li trasformano da persone, un tempo, sane e felici in individui pressoché scheletrici, irritabili, ostinati e depressi. Dapprima il futuro anoressico non rispetta più l’orario dei pasti, mangia poche cose a orari insoliti (spesso da solo) e può imporsi un ritmo di vita frenetico (attività scolastiche, sportive, domestiche), pur di perdere sempre più peso. La malattia compromette, col passare del tempo, tutto l’organismo: diminuzione della temperatura corporea, della pressione e della massa muscolare, pelle disidratata e tesa, colorito giallo, occhi cerchiati e arrossati, fragilità delle ossa, dei denti e delle unghie, perdita dei capelli e di Sali (potassio e il calcio), amenorrea (assenza o scomparsa del ciclo mestruale), alterazioni cardiache , ecc. la malattia viene accelerata non solo da drastiche diete , ma anche da vomito volontario, abuso di diuretici, di lassativi e di farmaci anoressizzanti. Molti anoressici, infine, diventano bulimici in quanto, desiderando intensamente il cibo, periodicamente perdono il controllo delle restrizioni alimentari e si abbuffano. La malattia diventa conclamata quando il/la ragazzo/a perde più del 15% del proprio peso corporeo. Si può arrivare a pesare 28/30 Kg, che è il limite della sopravvivenza. In passato, l’anoressia nervosa , veniva considerata una patologia principalmente femminile, attualmente un sempre più crescente numero di maschi ne è affetto (passando da un 10 % dei casi totali a percentuali del 25%-30%). Criteri diagnostici secondo il DSM IV Di frequente anche la bulimia è la diretta conseguenza di una drastica dieta (al pari di una crisi di astinenza da droghe pesanti). Da una nutrizione insufficiente, fame e debolezza presto si sviluppa un ciclo compulsivo e incontrollabile di abbuffate con l’ingestione di grosse quantità di cibo seguita da comportamenti di eliminazione (vomito, uso di lassativi, ecc.).Bulimia significa mangiare senza fame,senza uno scopo preciso: l’unica motivazione è quella di placare uno stato di ansia (come il latte calma il neonato). Nel corso di questa drammatica lotta interiore molti bulimici sono disponibili al trattamento e acconsentono ad una qualche alimentazione. Al contrario dell’anoressico il tipico bulimico non è emaciato, ma di solito conserva un peso corporeo normale e appare essere in forma e sano. Tuttavia il ciclo ossessivo di abbuffate e di comportamenti di eliminazione genera nei pazienti bulimici una profonda sofferenza, sentimenti di vergogna, sensi di colpa, disgusto di sé e isolamento sociale. Sviluppano, nel tempo, una grande abilità a nascondere il loro “vergognoso segreto” alla famiglia e agli amici: infatti quando sono in compagnia non cadono mai in questi eccessi e, ancor più degli anoressici, non ammettono la propria malattia. Il bulimico ha un’immagine fortemente negativa di sé e non prende mai decisioni in quanto vive la sua condizione con profondi sensi di colpa. In alcuni soggetti con bulimia, sono stati evidenziati problemi supplementari quali: abuso di sostanze stupefacenti e di alcool, gioco d’azzardo patologico, comportamenti auto lesivi e impulso incontrollabile al furto. LA BULIMIA Ricorrenti episodi di abbuffate compulsive: -Mangiare in un periodo di tempo circoscritto una quantità di cibo maggiore di quella che mangerebbe la maggior parte delle persone nello stesso tempo e in circostanze simili -Sensazione di perdere il controllo sul cibo PAURA DI ESSERE GRASSI Dieta Depressione Senso di colpa Perdita di controllo Eventi stressanti Ricorrenti comportamenti compensatori al fine di prevenire l’aumento del peso: Vomito autoindotto, lassativi, diuretici, farmaci o eccessivi esercizi fisici L’autostima è influenzata dalle forme del corpo e dal peso PURGING ABBUFFATA Circolo vizioso della bulimia nervosa Sensazioni di perdita di controllo,impotenza,tristezza,solit udine e oscillazioni d’umore. Alterazione del ciclo mestruale nelle femmine Mal di gola e carie dentarie, causati dal vomitare. Disidratazione, problemi dermatologici e apatia QUALI SONO LE CONSEGUENZE FISICHE DELL’ANORESSIA? Ventricoli e solchi cerebrali ingranditi: difficoltà di concentrazione, ritardo mentale Cardiovascolari: Aritmia Bradicardia Anomalie elettrocardiografiche Ipotensione Disfunzione ventricolare sinistra Capacità di lavoro ridotta Miocardiopatia da rialimentazione Immunologici Ridotta attività battericida dei granulociti Compromessa immunità cellulomediata Ridotta adesività dei granulociti Ridotti livelli sierici del complemento Ematologici Anemia Leucopenia Ridotta velocità di sedimentazione eritrocitaria Endocrini Amenorrea/ Ipogonadismo Sensibilità al freddo Diabete Insipido Ipoglicemia Osteopenia Gastrointestinali Dolori addominali Stitichezza Ridotta motilità intestinale Dilatazione duodenale Senso di sazietà precoce Dilatazione gastrica Gonfiore postprandiale Epatite da rialimentazione Pancreatite da rialimentazione Metabolici Ipercolesterolemia Ipocalcemia Ipokalemia Ipomagnesemia ipofosfatemia QUALI SONO LE CONSEGUENZE FISICHE DELLA BULIMIA? ORALI: Cheilosi Carie dentali Perimolisi Dolenza faringea MEDIASTINICHE Pneumediastino CARDIOVASCOLARI Aritmie Tossicità da farmaci “per dimagrire” Ipotensione Tossicità da ipecacuana Prolasso della valvola mitrale GASTROINTESTINALI Colon catartico Stipsi Diarrea Ematochezia Pancreatite ENDOCRINE Complicanze diabetiche Ipoglicemia Irregolarità mestruali Eccesso di mineralcortcoidi GASTROESOFAGEE Dispepsia Disfagia Rottura esofagea Stenosi esofagea Ulcera esofagea Esofagite Ematemesi Dolenzia e irritazione faringea POLMONARI Polmonite da aspirazione SISTEMA RISPRODUTTIVO Basso peso alla nascita Aborto spontaneo NEUROMUSCOLARI Tossicità da farmaci (convulsioni) Tossicità da ipecacuana(neuromiopatia) Equilibrio idrico-elettrolito, acido di base Disidratazione Alterati livelli elettrolitici e di ph di sodio, potassio, cloro, bicarbonato Edema idiopatico Acidosi metabolica Alcalosi metabolica Oltre all’anoressia nervosa e alla bulimia vi sono altre tipologie di disturbo del comportamento alimentare come il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge eating). Tale disturbo è definito da due particolari caratteristiche, entrambe necessarie (APA,1994): 1) mangiare in un periodo di tempo circoscritto (per esempio nell’arco di due ore) una quantità di cibo indiscutibilmente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo e in circostanze simili; 2) sensazione di perdere il controllo nell’atto di mangiare (ad esempio sentire di non poter smettere di mangiare o di non poter controllare cosa o quanto mangiare). La diagnosi di disturbo da alimentazione incontrollata prevede che le abbuffate si verifichino almeno “ due giorni la settimana”, infatti le abbuffate non sono limitate ad un certo periodo di tempo come nella bulimia nervosa, ma continuano spesso nell’arco di un’intera giornata. Le condotte eliminatorie, inoltre, a differenza dei soggetti bulimici e anoressici, non vengono utilizzate da questi soggetti per controbilanciare le conseguenze delle abbuffate . La maggior parte delle ricerche effettuate ha evidenziato che i pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata hanno un’incapacità generale di regolare la loro alimentazione sia durante che al di fuori delle abbuffate, hanno cioè un introito di cibo molto elevato e caotico sia ai pasti che fuori pasto. L’obesità Esistono molti luoghi comuni riguardo all’obesità. Il più importante e difficile da sfatare è quello di considerare l’eccesso ponderale legato esclusivamente all’ingordigia e alla golosità. Una moltitudine di studi ha chiaramente dimostrato che non esiste una sola causa dell’obesità, ma entrano in gioco molti fattori (Genetici, comportamentali e sociali), che, interagendo tra di loro in modo complesso, conducono al sovrappeso e all’obesità (vedi tabella 1.1). Se i fattori sociali sono egualmente influenti su tutta la popolazione, quelli genetici possono essere più importanti per alcuni individui, mentre quelli comportamentali per altri. Se è vero che i fattori genetici determinano una predisposizione all’obesità e non una predestinazione, essi, però, fanno si che per l’individuo geneticamente predisposto sia particolarmente difficile mantenere un peso nel range della normalità in un ambiente ricco di cibi grassi e che incoraggia uno stile di vita sedentario. L’obiettivo principale dell’educazione sull’obesità è quello di rendere il paziente consapevole che anche il miglior programma dimagrante è inefficace nella diminuzione ponderale a lungo termine. L’intervento educativo è mirato a fare accettare alle pazienti il fatto che saranno sempre in sovrappeso e di taglia superiore alla media. Tabella 1.1 Alcuni dei principali fattori implicati nello sviluppo dell’obesità 1. Fattori biologici Suscettibilità genetica (responsabile del 25-40% dei livelli di BMI) Sesso femminile (maggiore predisposizione ad accumulare grasso in sede gluteo femorale) Periodo della vita che in alcuni casi si associano ad un aumento di peso Periodo prenatale 5-7 anni (rimbalzo adiposo) Adolescenza Prima età adulta Gravidanza Menopausa 2. Fattori comportamentali e psicologici Eccessivo introito abituale di grassi e di energia Modalità dell’assunzione del cibo (saltare la colazione, fare pochi pasti) Ridotti livelli di attività fisica Problemi psicologici Farmaci (cortisonici, antidepressivi triciclici, neurolettici) Eccessiva assunzione di alcool Malattie (ipotiroidismo, malattia di Cusching, tumori ipotalamici) Riduzione importante dell’attività fisica Cambiamenti sociali (matrimonio, nascita di un figlio, nuovo lavoro, cambiamenti di clima) 3. Fattori ambientali e influenze sociali Modernizzazione Aumento della disponibilità del cibo Aumento della sedentarietà Industria della dieta Media che pubblicizzano il cibo. Da WHO (1997). Obesity. Preventing and managing the global epidemic. Report of a who consultation on Obesity. NUOVE FORME DI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE ORTORESSIA BIGORESSIA Nightressia drunkorexia Preoccupazione per il mangiare solo cibi “puri” Ossessione per la muscolatura Mangiare e abbuffarsi solo di notte Bere alcool per non sentire la fame Quali sono le cause dei disturbi del comportamento alimentare? Fattori culturali Pressione verso la magrezza Insoddisfazione corporea Restrizione dietetica Fattori familiari Familiare a dieta per qualsiasi motivo Familiare a dieta per peso e forme corporee Conflitti familiari Fattori personali Auto-svalutazione Perfezionismo “disturbo” dell’Identità Pensare “ io valgo e sono bello/a solo se il mio peso, il mio corpo è uguale al mio ideale di peso, di corpo” PERCHE’ CI SI AMMALA O SI SVILUPPA UN DISTURBO DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE???????? PERSONALITA’ POCO STRUTTURATA: •Difficoltà a riconoscere le proprie emozioni e pensieri (autoconsapevolezza) •Difficoltà relazionali •Ricerca di perfezione data dall’insicurezza di base •Scarsa autostima •Eccessiva dipendenza •Difficoltà nell’accettare i cambiamenti ESISTE UN TIPICO AMMALATO DI ANORESSIA O DI BULIMIA? Queste patologie sottopongono i malati a terribili tensioni emotive. La malnutrizione provoca negli anoressici gravi difficoltà a pensare lucidamente e a concentrarsi. Malgrado la riluttanza della maggior parte degli ammalati ad ammettere che qualcosa vada male, la qualità della vita degli individui affetti da disturbo del comportamento alimentare lascia molto a desiderare: oltre ad isolarsi socialmente, provano disgusto per se stessi, sensi di colpa e di vergogna, paura dei cambiamenti, sentimenti di inadeguatezza e di rifiuto da parte degli altri. Sono soli, disperati, depressi e spesso evitano il contatto dei loro amici. CONSIGLI PER LA SOPRAVVIVENZA DELLE FAMIGLIE E DEGLI AMICI Occorre stimolare gli ammalati a ricercare un aiuto professionale. Non appena le condizioni fisiche sono sotto controllo e il miglioramento delle capacità intellettuali e dello stile di vita rendono possibile l’inizio di un trattamento, allora è bene far in modo che il paziente si assuma la responsabilità : deve essere lui a decidere come seguire i suggerimenti del terapeuta. E’ necessario che la famiglia stimoli gli ammalati a condurre una vita indipendente: i parenti, i professori e gli amici non possono prendersene il carico. E’ di vitale importanza offrire amore e sostegno, ma è poco ragionevole controllare il comportamento del paziente, anche quando è lui stesso a chiederlo. Bisogna evitare di concentrare l’attenzione sul cibo o sulla forma del corpo. Discussioni su quanto cibo assumono o sul peso possono stimolare l’ammalato all’uso strumentale della patologia per manipolare gli altri. Si consiglia di evitare di acquistare cibi esclusivamente per accontentare il familiare ammalato e di fare osservare regole, per quanto riguarda l’alimentazione, solamente quando è necessario per l’ammalato o per altri seri motivi familiari. L’ora dei pasti non deve diventare un campo di battaglia. Emozioni, quali la rabbia e la frustrazione, devono essere espresse, ma non all’ora dei pasti. La persona con disturbi alimentari non dovrebbero ricevere più attenzioni del dovuto da parte degli altri membri della famiglia, dai professori o dagli amici. La cosa più importante è manifestare amore, attenzione e fiducia. Cosa fare? Il rifiuto sistematico di alcuni alimenti, le bugie su quanto mangiano, scappare in bagno dopo aver mangiato sono segnali da non sottovalutare. Un professore e un genitore non dovrebbe mai sottolineare troppo spesso l’importanza della linea (ad esempio tra colleghi: “ma quanto sei dimagrita, ti trovo bene!!!”). Osservare se un ragazzo butta il cibo, se corre in bagno dopo aver mangiato e/o se salta la merenda. Verificare se dietro le troppe ore passate in palestra non vi sia l’ansia di diventare molto magri. Se il/la ragazzo/a sale sulla bilancia più volte al giorno, è probabile che sia scattato il meccanismo ossessivo del controllo. Ritenere un importante campanello d’allarme il fatto che la ragazza si veda grassa in alcune parti del corpo. Osservare se il/ la ragazzo/a passa ore davanti allo specchio senza trovare un abito che gli/le piaccia. Sono preoccupanti anche lo studio eccessivo e la tendenza ad impegnarsi in mille attività intellettuali. Analizzare gli atteggiamenti provocatori che il/la ragazzo/a assume: il rifiuto del cibo può diventare una forma di protesta contro la dipendenza (avvertita come eccessiva) nei confronti dei familiari e professori. L’ALIMENTAZIONE EQUILIBRATA NEI RAGAZZI LA NUTRIZIONE rappresenta una modalità più stretta di relazione tra AMBIENTE, CIBO E BIOLOGIA, la relazione tra ambiente e biologia è il comportamento alimentare influenzato da fattori biologici, psicologici e sociali -Importanza del “RICONOSCIMENTO DELLA SENSAZIONE DI FAME E DELLA SAZIETA’”nei disturbi del comportamento alimentare vi è un’incapacità nel riconoscere queste due sensazioni (per cui si mangia perché è ora di pranzo o di cena, si mangia perché ho avuto un brutto giorno a scuola, non mangio perché sono troppo arrabbiato) - E’ importante un’alimentazione varia ed equilibrata per crescere in armonia -Fare attività sportiva -Non esistono cibi sani o sbagliati è la quantità che lo rende “nocivo” E’ importante fare almeno 5 pasti al giorno (Colazione, spuntino, pranzo, Spuntino, cena) per aumentare metabolismo per non restare “a corto” di energie IMPORTANTE:FARE SEMPRE PRIMA COLAZIONE studi dimostrano che le persone obese saltano la colazione (Dalla Grave) Cibo, sport e lavoro sulle emozioni sono i giusti ingredienti per una VITA EQUILIBRATA E ARMONIOSA Una giornata equilibrata è così composta: Almeno 1 litro di acqua al giorno (per gli adulti 1.5 litri) GRUPPO VERDE: almeno 5 porzioni di frutta e verdura (2-3 porzioni di frutta e 2-3 porzioni di verdura) GRUPPO MARRONE: 3-4 porzioni di farinacei al giorno (preferendo prodotti integrali) GRUPPO BLU: 2-3 porzioni di latticini al giorno GRUPPO ROSSO: una porzione di carne, pesce, uova, leguminose GRUPPO GIALLO: al massimo 4 cucchiaini (preferendo gli oli di oliva e colza) Il piatto equilibrato è così composto: gruppo verde gruppo rosso e blu gruppo marrone I GRUPPI ALIMENTARI Gruppo verde: frutta e verdura Ad esempio: frutta fresca, secca, cotta, congelata, in succo, verdura fresca, in minestra o in insalata. Questi alimenti contengono fibre, vitamine C e B-carotene, potassio, magnesio. Frutta e verdura sono essenziali per mantenersi in salute perché favoriscono il funzionamento dell’intestino e apportano all’organismo vitamine e sali minerali indispensabili. Svolgono un ruolo di prevenzione dei tumori, rafforzano le strutture nervose, aumentano la resistenza alle infezioni, proteggono dalla degenerazione cellulare 2 o più volte al giorno un frutto e da 2 a 3 volte una porzione di verdura, variando il più possibile i colori. Semplice da ricordare, vale la regola del 5 volte al giorno! Porzione di frutta: 4-12 anni Al minimo 100 g Porzione di verdura: 4-12 anni Al minimo 100 g Gruppo marrone Ad esempio: pasta, riso, patate, pane, fiocchi di cereali, mais, orzo, miglio, polenta, avena. Questi alimenti contengono molti carboidrati (= zuccheri) sotto forma di amido, fibre (se sono integrali), vitamine del gruppo B, magnesio. I carboidrati forniscono costantemente energia all’organismo, permettono di studiare, di pensare, di giocare, di crescere. Sono come il carburante per la macchina!!! Porzione di farinacei: 4-12 anni 40 – 50 grammi (Crudi) Gruppo rosso: carne, pesce, uova, leguminose Ad esempio: pollo, manzo, maiale, fegato, cavallo, coniglio, tacchino, prosciutto, bresaola, salmone, sogliola, uova, lenticchie, fagioli, ceci, tofu. Questi alimenti contengono proteine (elementi costruttori, i “mattoni” del corpo), ferro (soprattutto nella carne rossa e nelle uova) e vitamine del gruppo B. Le leguminose contengono soprattutto le vitamine B, ferro, calcio, fosforo, magnesio e fibre alimentari. Questo gruppo è importante per costruire e rinnovare i tessuti, per assicurare un buon funzionamento del nostro corpo, per prevenire l’anemia e la perdita di appetito. Porzione di carne: 4 - 7 anni 60 - 70 g (cruda) 8 - 12 anni 80 - 90 g Porzione di pesce: 4 - 7 anni 60 - 70 g (crudo) 8 - 12 anni 80 - 90 g Uova: 4 - 7 anni 1 uovo 2 volte alla settimana 8 - 12 anni 1 uovo e mezzo 2 volte alla settimana Porzione di leguminose: 4 - 7 anni 20 g (crude) 8- 12 anni 30 g Gruppo blu: latte e latticini Ad esempio: latte, yogurt, ricotta, formaggio a pasta dura, formaggio a pasta molle, formaggini da spalmare, mozzarella. Questi alimenti contengono calcio, proteine, vitamine D e A, B2 e fosforo. Il latte e i latticini sono importanti per la formazione delle ossa e dei denti. Ogni giorno 2-3 porzioni di latticini Porzione di latte: 4 - 6 anni 1 dl 7 - 9 anni 1 dl 10 - 12 anni 2 dl Porzione di yogurt: 4 - 6 anni 125 - 150 g 7 - 9 anni 100 g 10-12 anni 180 g Porzione di formaggio: 4 - 7 anni 25 gr 8 - 12 anni 30 - 35 g Porzione di formaggio fresco: 4 – 7 anni 60 gr 8 - 12 anni 80 g Gruppo giallo: grassi Ad esempio: burro, oli, panna, maionese e frutta oleaginosa. Questi alimenti forniscono molta energia, contengono vitamine A, D, E e K e altre sostanze indispensabili al nostro corpo (negli oli). Noci, nocciole e mandorle contengono vitamina E. Un consumo moderato e variato di grassi è indispensabile. Gli oli da preferire in cucina sono l’olio di oliva e quello di colza. Il burro può essere usato a freddo (da spalmare). La quantità consigliata è pari al massimo a 4 cucchiaini da tè al giorno. Porzione di olio a pasto: (5-10 g) 4-12 anni 1-2 cucchiaini Porzione di burro giornaliera 4-12 anni 1-2 cucchiaini Bevande Ad esempio: acqua, tisane, brodi. Un corretto apporto di acqua è molto importante per facilitare il lavoro dell’intestino e dei reni e per prevenire la disidratazione e la stitichezza Regole: Ciò che è stato elencato qui sopra è il prospetto per una corretta alimentazione per bambini e pre-adolescenti (11-13 anni). E’ importante che i cibi non vengano etichettati come “proibiti” Il ragazzo ha bisogno di tutto anche di mangiare “le schifezze”, dovremmo insegnare noi, attraverso l’esempio, che si possono mangiare tutti i tipi di cibo senza abusarne. Mai riprendere in “pubblico” un alunno che sbaglia nel modo di alimentarsi, bisognerebbe creare un momento di dialogo da soli con l’alunno in questione e comprendere come mai porta a scuola sempre cibi appartenenti alla categoria dei “cibi grassi”. Spiegare le conseguenze (ad esempio: i grassi non servono per creare energia subito disponibile per affrontare le altre ore di lezione, ma hanno un'altra funzione, per cui potrebbe optare per altre categorie di cibi). Se il professore si accorge che un alunno butta o evita di fare merenda a scuola parlare con il ragazzo cercando di capire le sue motivazioni e poi informare la famiglia , ricordandosi di non avere un atteggiamento giudicante. Non eliminare o punire i ragazzi con il cibo o saltando la ricreazione o l’attività fisica. La ricreazione non è solo momento di svago ma è anche la regola del cibo a metà mattina per evitare di restare a corto di energie e per aumentare il metabolismo(regola dei cinque pasti al giorno). Cosa succede ai ragazzi? L’adolescenza è una fase di sviluppo che copre approssimativamente il periodo che va dagli 11 ai 22 anni. PUBERTA’passaggio dalla condizione fisiologica del bambino a quella dell’ adulta ADOLESCENZApassaggio dallo status sociale del bambino a quella dell’adulto Caratterizzata da cambiamenti fisici PREADOLESCENZA Problemi legati alla crescita fisica, all’identità corporea e alla definizione sessuale ADOLESCENZA Maturazione delle capacità di analisi, di introspezione e definizione dell’identita’, dei valori e delle scelte “prima adolescenza” età compresa fra 10 e 14 anni, comincia con la pubertà e finisce con il rallentamento della crescita fisica, tendenza all’allontanamento dalla famiglia avvicinamento ad un gruppo di coetanei. La “media adolescenza”15 ai 18 anni - periodo di separazione psicologica dalle figure genitoriali - tensione verso la definizione dell’identità sessuale -modalità di relazionarsi con la società“allargata” La “tarda adolescenza”dai 19 ai 22 anni (o 25 anni) è il periodo finale dello sviluppo e del consolidamento dell’identità, in cui la famiglia, gli amici e il proprio io, con le sue complesse ramificazioni psicologiche, affettive, sessuali, sociali, attitudinali, vocazionali cominciano a trovare un loro armonico equilibrio. La fine di questa fase è assolutamente difficile da determinare (particolarmente nelle socioculture avanzate) CAMBIAMENTI psichici fisici/sessuali relazionali comportamentali VERSANTE PSICHICO MAGGIORE CONFUSIONE MENTALE MAGGIORI SBALZI D’ UMORE Sviluppo intellettivo in adolescenza PENSIERO OPERATORIO FORMALE • raggiungimento delle capacità di astrazione la realtà viene percepita come realizzazione del possibile, molti sè • nascita della capacità di formulare ipotesi e di trarre conclusioni • capacità di valutare diverse combinazioni tra variabili • capacità di utilizzare il pensiero proposizionale • scoperta del piacere dell’utilizzo del pensiero • sviluppo del pensiero narrativo Identità adolescenziale L’identità personale Idea che un individuo ha di sé (cioè quello che pensa di essere) Ciò che l’individuo è realmente Nella pubertà e nell’adolescenza il SENSO D’IDENTITA’ si esprime tramite IDEA DI SE’ CERCATAricerca attiva di esperienze e situazioni in cui mettersi aLla prova AUTOSTIMA IDEA DI SE’ RIFLESSAricerca di una coerenza nelle qualità personali nelle esperienze; sforzo di riflessione e consapevolezza VERSANTE RELAZIONALE MAGGIORE DISTACCO DAI GENITORI MAGGIORE RICERCA DEI COETANEI TENDENZA ALL’ISOLAMENTO E RICERCA DEGLI SPAZI PROPRI VERSANTE COMPORTAMENTALE ADOLESCENZA “VISIBILE” ADOLESCENZA “SILENZIOSA” Tendenza trasgressioni Ricerca dell’isolamento e/o pochi amici Rendimento scolastico in calo Rendimento scolastico nella norma Esplosione di amore e/o odio verso i genitori Poche esplosioni verso i genitori Superficialità Riflessioni interiori VERSANTE FISIOLOGICO E SESSUALE Insorgenza peli pubici Mestruazioni Aumento del peso Interesse per la sessualità “ormoni impazziti” Eiaculazioni notturne masturbazione Ricerca/timore per i rapporti sessuali Effetti psicologici dei cambiamenti corporei • Mentalizzazione del corpo: fenomeno per cui al corpo viene attribuito un significato relazionale, sociale, sentimentale, erotico, generativo, etico, a cui viene riconosciuta continuità nel tempo, in termini di sviluppo ma anche di decadimento. • Maturazione precoce: il confronto con i coetanei può portare: nei maschi ad un aumento del ruolo di responsabilità, della leadership, della fiducia in sé e del senso di sicurezza nelle femmine ad un aumento dell’indipendenza e della sicurezza di sé, ma anche a comportamenti adultizzati e di tipo antisociale • Dismorfofobia: preoccupazioni immotivate circa la presenza di difetti fisici • Ipocondria: paura di avere malattie fisiche o psicologiche Compiti di sviluppo (Havinghurst, 1952) • instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi i sessi • acquisire un ruolo sociale femminile e maschile • accettare il proprio corpo e usarlo in modo efficace • conseguire indipendenza emotiva dai genitori e da altri adulti • raggiungere la sicurezza di indipendenza economica • orientarsi verso e prepararsi per un’occupazione o professione • prepararsi al matrimonio e alla vita familiare • sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie per la competenza civile • desiderare e acquisire un comportamento socialmente responsabile • acquisire un sistema di valori e una coscienza etica come guida al proprio comportamento Intelligenza emotiva a scuola – scuola e famiglia:alla ricerca di una cultura pedagogica condivisa Riprendendo ciò che ho detto nella premessa è importante insegnare ai ragazzi una propria autonomia e indirizzarli ad avere una propria struttura di personalità che eviti in loro lo svilupparsi di patologie o problematiche adolescenziali che poi si accompagnano fino in età adulta (disturbi del comportamento alimentare, ansia, comportamenti antisociali, abbandono scolastico, etc). Quando si parla di autonomia e di come far raggiungere ai figli un sufficiente grado di indipendenza e autostima, sembra chissà quali forche caudine debbano attraversare le famiglie. Insegnare l’autonomia appare oggi un grande problema e si è convinti il più delle volte di chissà quali competenze educative e pedagogiche occorra possedere per rendere figli e alunni forti, autonomi e sicuri. In verità, si dimentica spesso che le condotte autonome possono essere insegnate a partire da cose molto pratiche e semplici. Troppo spesso purtroppo si tende a pensare che educare all’autonomia un figlio sia opera complessa, fine e certosina. Eppure basterebbero alcune accortezze, un po’ di volontà e soprattutto la convinzione che già all’età di 12-13 anni i figli sono di certo ancora fragili e bisognosi di guida, ma dotati di capacità notevoli per eseguire e portare a termine condotte complesse. A questa età ogni ragazzino dovrebbe essere in grado di cambiare una lampadina, sistemare la propria camera, tenere a posto il proprio armadio, eseguire i compiti da solo, fare qualche piccola spesa, andare a scuola autonomamente, svegliarsi da solo con la sveglia e tanto altro ancora. Non favorire l’apprendimento di queste attività, lasciandoli in una bambagia protettiva e totalizzante, può inibire in loro non solo le competenze di base dell’autonomia, ma anche lo stesso desiderio di crescere di diventare indipendenti e di sviluppare una buona autostima. Purtroppo molti genitori, spesso, per fare presto e alleviare ogni incombenza ai figli, si sostituiscono completamente a loro, risparmiando ogni passo, ogni tentativo di misurarsi con la realtà, ogni esplorazione. Tra un esonero e l’altro i ragazzi, percepiscono, sia pure inconsapevolmente, l’estraneità al mondo e alle cose che li circondano e l’incapacità di agire sulla realtà, diventando spesso dei piccoli geni armati di tastiere e mouse, senza la pur minima capacità di capire cosa succede intorno a loro, dentro loro e tra di loro. Perciò si dovrà stare accanto ai figli, da quando sono piccoli, al fine di insegnare loro con pazienza a fare le cose e soprattutto a sviluppare sia il gusto di farle che il senso di responsabilità e il sacrificio, ingredienti indispensabili per affrontare la vita adulta senza correre il rischio di diventare invisibili o con mille problematiche. La scuola ha il compito di implementare l’autonomia o di favorirla qualora fosse scarsa, creando spazi e tempi qualificati di riflessione comune con i genitori degli alunni. Vanno cioè introdotti momenti istituzionali dedicati alla collaborazione, in un’ottica di continuità, evitando contrasti e schieramenti per lo più sempre sterili. Tra famiglie e docenti si possono infatti sviluppare pregiudizi contrapposti: da una parte molti genitori ritengono che i loro figli non siano sufficientemente capiti e tutelati dagli insegnanti; dall’altra i docenti reputano completamente inadeguati i genitori dei propri alunni. Lungi da rappresentare una risorsa e importanti alleati in ambito educativo, i genitori rappresentano per molti insegnanti una vera e propria difficoltà. Esistono due tipologie problematiche di genitori: i disimpegnati e permessivi, tendenti sempre a colludere, difendere e giustificare i figli, fino a negare o banalizzare anche il più evidente segno di difficoltà e inadeguatezza; gli invischianti e simbiotici, sempre pronti a sovrapporsi ai figli, a pressare gli insegnanti, a manipolare, a chiedere interventi magici e risolutivi, sperando che però non cambi nulla. I primi si vedono raramente a scuola e la collaborazione è spesso difficile se non impossibile. I secondi vi si recano sovente, mettendo a dura prova gli insegnanti, i quali fanno appello a tutta la loro pazienza per far rispettare i confini e i ruoli, placare le ansie e tentare di far capire che per educare i figli è necessaria una collaborazione lucida, efficace e costruttiva. Quando gli insegnanti si trovano davanti alle prese con alunni problematici (aggressività, bullismo, tendenza alla chiusura, difficoltà di attenzione, etc,), di norma dovrebbero contattare i genitori per informarli della situazione, per raccogliere informazioni su eventuali particolari condizioni dell’alunno e per collaborare assieme su un piano comune d’intervento, per mettere in atto atteggiamenti pedagogici adeguati e non in conflitto tra loro. Questo, almeno, in teoria. Spesso la risposta è molto vaga, superficiale, disarmante e a volte piena di risentimento. Verrebbe voglia di lasciare perdere, benché sia comprensibile, non è l’atteggiamento più costruttivo. Lo si può pensare, lo si può dire tra colleghi, ma non ci si dovrebbe mai arrendere: normalmente tali atteggiamenti dei genitori sono la causa del disagio dell’alunno. Bisogna, con fermezza e continuità spiegare l’importanza di una collaborazione per garantire lo sviluppo adeguato del ragazzo e occorre anche rassicurarli che la collaborazione non implica giudizio, vergogna o etichetta mento, bensì il contrario: solamente collaborando l’alunno non si sentirà giudicato, diverso o escluso, ma avrà la percezione che gli adulti si stanno interessando a lui e ai suoi vissuti di discontinuità. Occorre che la scuola diventi un palcoscenico sul quale tutti gli attori riescono serenamente a confrontarsi per affrontare efficacemente il complesso tema dell’educazione. Che il mestiere di genitore sia complesso e difficile si sa da sempre. Che invece l’insegnamento sia un lavoro faticoso lo riescono a comprendere ancora in pochi. Insegnare non è soltanto un’operazione di accrescimento informativo: alunni e bambini portano con sé la loro storia personale, caratterizzata da curiosità, desiderio e gioia, così come da paure, difficoltà e disadattamento variamente espresso. Il salto concettuale da una scuola “insegnante” a una scuola “educativa” non è così immediato:pone ulteriori me inevitabili fatiche. Lo spazio classe non è una scatola nera dove i bambini entrano, apprendono ed escono educati. L’esperienza di discontinuità vissuta dagli alunni all’entrata della scuola è data dalla difficoltà di riadattare le consuete e consolidate modalità di relazione vissute per lo più all’interno del nucleo familiare, a nuove condizioni ambientali in genere complesse e mutevoli proprie del mondo della scuola. Il passaggio dalla famiglia alla classe è sempre delicato anche per quei bambini e ragazzi solitamente tranquilli e solidi. Questo passaggio è mediato dall’insegnante. Se lo sviluppo della personalità, partendo da una base ereditaria istintuale piuttosto ridotta, consiste in una sorta di fasi successive di montaggio, sulle quali l’ambiente (scuola e famiglia) inserisce una grande quantità di informazioni cognitive, emotive e affettive, l’insegnante dovrà tenere conto di tutti gli elementi interagenti: La fase di sviluppo di ogni soggetto, i livelli di partenza, la capacità di apprendimento e le potenzialità; La situazione emotiva ed affettiva; Le eventuali difficoltà di relazione La struttura della famiglia e le sue caratteristiche; L’ambiente di provenienza; Il sistema scolastico nel suo insieme. Non bisogna poi mai dimenticare di mantenersi sempre AUTOREVOLI, senza mostrarsi lassisti, a costo di scontrarsi con le famiglie. Un’educazione efficace è proporzionale alla possibilità di dilatare il contesto proprio dell’alunno:nella misura in cui il docente ha l’opportunità e la capacità di operare su più contesti (il bambino, la famiglia, le istituzioni, il territorio), la sua attività educativa produrrà soggetti più sani. Quali competenze allora? Almeno dieci: 1. Conoscere la materia che si insegna: (sembra una cosa scontata, ma non sempre lo è); 2. Sapere ascoltare gli alunni; 3. Cogliere in tempo i segnali del loro disagio; 4. Sapere sempre cosa si deve fare quando si evidenzia un problema o esplode una crisi; 5. Cogliere i fenomeni emergenti del mondo giovanile (le mode, i modi, i linguaggi); 6. Avere una certa conoscenza della psicologia dello sviluppo, aggiornandosi spesso sugli ultimi studi; 7. Prospettare strategie e interventi adeguati per affrontare i problemi (ci sono molte “buone pratiche” da adattare alle differenti esigenze); 8. Sperimentare procedure e protocolli d’intervento; 9. Verificare sempre quanto si sta facendo; 10. Avere passione, autorevolezza e la capacità di affascinare. Si tratta di competenze poco tecniche e molto attitudinali da affinare e collaudare attraverso confronti, collaborazioni e formazione di un certo livello: una formazione intesa come sperimentazione di progetti educativi condivisi, interessanti e innovativi finalizzati alla crescita dell’intera comunità scolastica. Tutto ciò assieme al potenziamento delle abilità personali è attualmente considerato tra tutte la strada migliore per promuovere il benessere e implementare fattori protettivi. Tra le abilità da sviluppare l’OMS nel 2001 ne ha individuate alcune particolarmente importanti: - Il riconoscimento, la discriminazione e la condivisione delle emozioni degli altri (empatia); - La gestione delle proprie emozioni (autoregolazione); - La modulazione dello stress per raggiungere obiettivi concreti (autoefficacia); - Il senso di controllo personale (autostima); Queste quattro competenze costituiscono le basi necessarie per uno sviluppo sano, equilibrato e foriero di autonomia. Basi teoriche, applicazioni pratiche, procedure e strategie d’intervento. Insegnare le emozioni a scuola è dunque un modello d’intervento educativo e di prevenzione precoce con queste caratteristiche: - Non è un surplus di lavoro per i docenti Non intralcia le attività didattiche È di facile applicazione Ha un costo economico tendente a zero Può essere utilizzato in tutte le classi Affronta molte esigenze pedagogiche e situazioni di criticità - È efficace poiché sperimentato su vasti campioni. Si tratta di allenare con continuità, utilizzando alcune tecniche in base all’età degli alunni, alla più adeguata decodifica delle proprie emozioni e degli stati d’animo altrui, in modo da attivare quei canali comunicativi profondi e quella sensibilità interna che concorrono insieme alla costruzione dell’empatia. Le tecniche e le strategie, “costringono” alunni e docenti a sostenere scambi comunicativi verticali, che spesso sono disturbati da altri rumori di fondo. Ciò favorisce un clima più collaborativo con ricadute positive sui comportamenti, sul profitto e sullo stesso svolgimento delle attività. Sono gli stessi docenti che mettono in atto questo percorso di “alfabetizzazione emotiva”. ALCUNE TECNICHE DA UTILIZZARE: La tecnica che si è rivelata più efficace e anche la più apprezzata è l’appello delle emozioni. E’ una strategia molto semplice indicata in soggetti tra i 6 e i 16 anni. Consiste nel fare l’appello ma invece che rispondere con la parola “presente” si risponde con un valore da 0 a 10, cioè il valore dell’umore personale in quel momento. Valori bassi indicheranno uno stato d’animo negativo e pesante (tristezza, molta rabbia, paura, ecc.); valori gradualmente più alti esprimeranno benessere. Dopo un breve periodo di rodaggio (sono sufficienti pochi giorni), l’insegnante che normalmente conduce l’appello dovrà strutturare l’attività, registrando su di un apposito foglio i valori riferiti giorno per giorno, in modo da visualizzare e monitorare in un arco di tempo predefinito l’andamento delle emozioni e dell’umore di ciascun allievo. L’arco di tempo ottimale per la verifica collettiva dell’andamento dell’esperienza non debba essere superiore a un mese, né inferiore a venti giorni. A ciascuna scadenza (ogni 20-30 giorni, quindi) viene fatto il punto della situazione: l’insegnante sollecita ciascun alunno a riflettere sulle proprie valutazioni, sulla loro origine emotiva, aiutando a identificare con i giusti termini linguistici lo stato d’animo prevalente. Durante questa verifica il docente deve astenersi da condotte investigative o moraleggianti e dal chiedere spiegazioni dirette, preoccupandosi soltanto di capire se le emozioni espresse dagli allievi in quell’arco di tempo siano relative a problematiche interne o esterne alla scuola. La funzione dell’appello emotivo ha come scopo, infatti, oltre che di aumentare negli alunni le competenze nella gestione delle emozioni e relazioni, di agevolare l’insegnante a sintonizzarsi con i bisogni, le aspettative e le richieste più profonde e nascoste dei ragazzi, verificandone l’evoluzione nel corso del tempo. La procedura da adottare per la verifica periodica è la seguente: 1. Individuare le valutazioni basse di ciascun soggetto (punteggi da 1 a 5) 2. Chiedere all’alunno se ricorda il motivo dell’autovalutazione, in modo da consentirgli di poter fare mente locale sulla sua situazione; 3. Individuare l’andamento delle emozioni nel periodo considerato (andamenti regolari, positivi, negativi, ondulatori, ciclici, ecc.) 4. Invitare a riflettere sulla base delle rivelazioni effettuate e delle osservazioni; 5. Invitare a specificare la natura, esterna o interna alla scuola, dei disagi, dei problemi, ma anche degli agi e del benessere individuati con l’appello; 6. Sollecitare a dare un nome agli stati d’animo prevalenti. Che durante l’appello gli alunni si attribuiscano veritieri o meno è irrilevante: l’appello delle emozioni costituisce un vero e proprio allenamento all’introspezione, alla comunicazione con se stessi e con gli altri al di là dell’autenticità dei valori auto assegnati. Domande e dubbi. 1. se si vanno a provocare così tante emozioni, chi sarà poi in grado di gestire i relativi problemi? Nessuna paura. In qualunque ambito educativo, ogni relazione basata sull’ evitamento delle emozioni e stati d’animo è destinata a essere parziale, fuorviante e a produrre disagio, normalmente sotto forma di chiusura o controreazioni aggressive. 2. Cosa faccio se qualcuno si rifiuta di svolgere questi tipi di attività? E’ necessaria una maggiore rassicurazione, evitando pressioni o minacce disciplinari. Se l’atmosfera è distesa diventa tutto più facile e si riesce a trascinare anche i soggetti più inibiti. 3. Alcune attività sono già svolte in classe Quello sopra proposto non è un’attività speciale, ma sicuramente si può integrare al meglio con le diverse attività. La comunicazione a scuola La classe si configura come un gruppo particolare che non è né assimilabile né ai gruppi spontanei, finalizzati allo stabilizzarsi di rapporti di vicinanza e di attrazione, né a gruppi che si caratterizzano per relazioni di intimità e di amicizia. In classe dovrebbe realizzarsi una reciproca passione comunicativa, una solidarietà dinamica tra insegnanti e alunni, e degli alunni tra loro. A questo riguardo bisogna sottolineare l’importanza del clima relazionale e dello stile dei rapporti. Nel corso dell’età evolutiva sono necessarie relazioni personali con educatori significativi e le stesse conoscenze hanno maggiore incidenza nella formazione dello studente se poste in un contesto di coinvolgimento personale, di autentica reciprocità, di coerenza negli atteggiamenti, di stili e di comportamenti quotidiani. Nelle situazioni educative la priorità non viene data al contenuto della comunicazione, ma al rapporto interpersonale che si instaura. La convivenza quotidiana offre molte opportunità di avere una breve conversazione in corridoio, alla fine di una momento di lezione, nelle pause (che devono essere sempre predisposte alla fine di ogni ora di lezione, anche con lo stesso insegnante). Questi contatti sporadici e brevi, quando sono di appoggio al colloquio formale, hanno un grande valore per stimolare e incoraggiare l’alunno, per risolvere un problema occasionale, per congratularsi con chi ha raggiunto l’obiettivo che perseguiva, insomma per dimostrare ad ogni alunno che all’insegnante interessa il “suo mondo”. Tutto ciò senza dimenticarsi di essere autorevoli, l’autorevolezza in termini di costanza di fermezza con un dialogo aperto alle emozioni sono i pilastri fondamentali di una relazione educativa.