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Working for Life
Il Cibo che nutre
Educazione Alimentare
A cura dei ragazzi del Liceo Petrarca di Trieste
classi I B, I C, V A, anno scolastico 2014/2015
In collaborazione con i docenti
prof. Elisabetta Zammitto, prof. Tiziano Vidoni,
dott. Rita Calderini
Si ringrazia l’Azienda Agricola Bastianich di Cividale del Friuli
Working for Life
Il Cibo che nutre
Educazione Alimentare
A cura dei ragazzi del Liceo Petrarca di Trieste
classi I B, I C, V A, anno scolastico 2014/2015
In collaborazione con i docenti
prof. Elisabetta Zammitto, prof. Tiziano Vidoni,
dott. Rita Calderini
Progetto
“Sviluppo attività di microimprenditoria femminile”
selezionato da Women for
STUDIO STORICO SCIENTIFICO
DELL’ALIMENTAZIONE
(parte generale dott. Rita Calderini)
Alimentazione e nutrizione:
aspetti medico scientifici dell’alimento
Dal punto di vista medico per parlare del cibo è opportuno fare una breve
precisazione riguardo al valore semantico dei termini utilizzati nel lessico popolare. Distinguo, dunque, i termini: alimentazione e nutrizione. Il primo indica l’aspetto generale di rifornimento di energia per qualunque sistema
(macchinario, motore, essere vivente, ecc.) che lo richieda per funzionare, il
secondo, invece, ha un significato diretto alla sfera biologica. Riguarda i processi e le funzioni che permettono la digestione degli alimenti, dai quali poi si
ricavano le macro e micro molecole, i nutrienti appunto, indispensabili all’assimilazione per fornire all’organismo sì l’energia, ma anche per soddisfare i
suoi bisogni specifici. La nutrizione si può definire come la specificazione
dell’alimentazione: il cibo contiene quello che serve e con i processi digestivi
ottengo i nutrienti necessari. Lo scopo principale nell’ambito della nutrizione
è lo studio dell’apporto equilibrato di nutrienti per il mantenimento in salute
dell’organismo. Nel gergo comune queste diversità possono sfumare in sinonimie o fraintendimenti come accade spesso per l’uso del termine “dieta” che
viene utilizzato essenzialmente per indicare un regime di privazione alimentare, piuttosto che per un regime di apporto equilibrato di sostanze in funzione
del fabbisogno umano. Le diete, quindi, sono l’apporto specifico di nutrienti a
seconda del fabbisogno dell’organismo in un dato momento della sua storia:
per l’accrescimento neonatale, per l’età dello sviluppo, per chi pratica lo sport
agonistico, per patologie specifiche. Questi vogliono essere esempi esplicativi
non certo esaustivi considerata la vastità e specificità dell’argomento. Nel linguaggio medico, però, queste sottigliezze fanno la differenza, e parlare di alimenti è diverso che parlare dei nutrienti. I nutrienti si trovano negli alimenti,
grazie ai processi digestivi si scindono le molecole e l’organismo li può utilizzare. Gli alimenti sono molteplici e conosciuti, quasi scontati: cereali e derivati,
legumi, carne, uova, latte, frutta, verdura, olii e grassi ecc. I nutrienti sono le
proteine e gli amminoacidi, le vitamine A-B-D-K, l’acqua, i minerali macro
(sodio, potassio, calcio, fosforo e magnesio), oligoelementi (ferro, manganese,
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zinco, rame, iodio, fluoro, ecc.) gli acidi grassi saturi e gli acidi grassi insaturi e
gli omega3. Non esamino nel dettaglio tutte le loro funzioni e specificità biochimiche poiché esulano dagli aspetti che andrò a trattare. Mi limito a considerare, però, le loro funzioni basilari. L’apporto energetico e le sostanze nutritive
per le cellule dei tessuti, le diverse reazioni che possono provocare: sia positive
sia negative, quali per esempio, le risposte immunitarie favorevoli all’organismo, quindi l’aumento delle difese e la protezione alle infezioni o le allergie.
Oppure le risposte immunitarie negative: intolleranze e allergie. Sono reazioni
che destano notevole interesse nella società odierna perché le conoscenze a
riguardo sono approfondite e hanno dato risposte a molti disturbi di cui la
popolazione soffre. Si pensi per esempio alle intolleranze alimentari della celiachia, senza trascurare le allergie vere e proprie che mettono a repentaglio la
vita stessa dell’uomo. La scienza medica considera un’unica vera intolleranza
quella della proteina Gliadina causa dell’intolleranza al grano, il glutine, cioè
questa proteina. Altre forme scientificamente rilevanti sono le allergie alimentari quali per esempio quelle alla proteina dell’uovo, del pesce, del latte, delle
noci o delle nocciole, o ancora della frutta. Alcune sostanze in esse contenute
scatenano nell’organismo gli IgE, anticorpi che danno diverse risposte immunitaria: per esempio reazioni cutanee o forme più gravi come lo shock anafilattico. L’attenzione all’alimentazione è, dunque, un pilastro per la medicina, con
essa si può prevenire, curare e mantenere la salute del corpo. Nella nostra
quotidianità siamo portati a introdurre nel nostro organismo quantità variabili
di alimenti atti a soddisfare i nostri “presunti” fabbisogni. Il medico nutrizionista suggerisce che una sana alimentazione debba rispettare una proporzione
precisa dei nutrienti fondamentali quali proteine, carboidrati, grassi, sali minerali, vitamine e deve essere accompagnata, sempre, dall’attività fisica. Sono
note le piramidi alimentari che vedono gerarchizzati gli alimenti dal meno frequente da assumere (zucchero, dolci e grassi) nei sette giorni, a quelli invece da
poter introdurre abbondantemente o con maggior frequenza (vegetali e fibre).
Da osservare che ogni Paese ha la sua produzione di cibo privilegiata e di conseguenza la sua “piramide” di consumo. Ciò che permette all’organismo di
mantenere la salute è l’attenzione dell’individuo a far proprio uno stile di vita
sano. L’alimentazione oltre a essere un problema di carattere biologico, riveste
anche l’interesse dell’economia, della politica, degli studi sociali per cui dei
processi culturali. Le abitudini alimentari, infatti, vengono apprese in tenera
età frutto di un insieme di interazioni familiari e sociali correlate all’ambiente
di riferimento. Modalità analoga all’apprendimento del linguaggio. I nutrizionisti si interessano all’ambiente socioculturale di appartenenza per comprendere come questo sia favorevole o meno all’acquisizione di una corretta scelta
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alimentare per il buon funzionamento dell’organismo e uno stato di salute del
corpo. Quando, però, l’alimentazione conduce l’individuo a una patologia
molto complessa come la bulimia e l’anoressia nervosa allora lo studio ambientale è intrinseco alla possibilità di riuscita a una adeguata terapia. Queste malattie, infatti, coinvolgono l’individuo in tutto lo spettro del suo essere, dalla
fisiopatologia al benessere-malessere psico-fisico. Il mio interesse verso la nutrizione si concentra sulla natura simbolica del cibo, a ciò che rappresentano le
pratiche alimentari e al valore attribuito al cibo all’interno di una cultura. Mi
concentro sull’aspetto comunicativo della nutrizione, sia considerando il momento della fruizione del pasto come momento aggregante e motivo di scambio comunicativo, ma soprattutto come il cibo stesso veicoli messaggi. Un
piatto ben fatto è indice sia di cura sia di attenzione, ma vado cercando un significato più profondo, un senso quasi nascosto all’apparenza, cerco tutti quegli aspetti non evidenti che caratterizzano la codifica di un messaggio. La
medicina riguardo l’alimentazione è molto precisa, poiché il funzionamento
dell’organismo dipende da meccanismi ed equilibri biochimici i quali possono
venir alterati dall’errata introduzione di elementi nell’organismo. Si pensi agli
squilibri dati dall’assunzione di sostanze eccitanti e nervine, all’alcol o alle droghe, al fumo e, quindi, a tutte le patologie correlate all’errata introduzione di
cibo nel proprio corpo. Non solo, la medicina pone attenzione anche al tipo di
sostanze da evitare o utili da introdurre a seconda della patologia di cui un
individuo è affetto. Alcuni esempi possono essere: il diabete, l’ipertensione, le
malattie cardiovascolari, le patologie psichiatriche depressive e le sofferenze
renali. La cura e attenzione verso l’alimentazione è la base della salute in ogni
momento della nostra esistenza, per preservarla o per migliorarla. Le medicine, comunque siano, vanno introdotte nell’organismo perché apportino beneficio e anche queste non esulano da effetti diversi da quelli attesi. Pensando al
settore medico scientifico possiamo osservare quanti altri ambiti siano coinvolti: scienze dell’alimentazione, biomedicina, medicina molecolare, farmacologia, scienze agrarie per la produzione alimentare e animale. Si delinea un raggio
d’interesse molto ampio che coinvolge il sistema economico nel suo complesso. Prendendo in considerazione, per esempio, l’alimentazione nello sport troviamo l’interesse scientifico abbracciare molti aspetti: la produzione degli
integratori alimentari, la ricerca verso le possibili intolleranze che inibiscono
l’efficacia degli sforzi fisici, la fisioterapia per uno sviluppo adeguato ed efficiente dei muscoli, la ricerca e la verifica dello stato di salute costante mediante test e analisi mirate. Trattare l’alimentazione significa trattare l’economia di
un intero Paese poiché sarà necessario regolamentare tutti questi aspetti.
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Diritto alla salute
La Costituzione della Repubblica Italiana nella prima parte, Diritti e Doveri dei Cittadini, Titolo II: Rapporti Etico-Sociali all’Art. 32: “Tutela (del)la
salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività
e garantisce cure […]”. La salute dei cittadini, dunque, è priorità del nostro
Paese. La salute viene riconosciuta sia come diritto di libertà, quindi diritto
soggettivo, sia come diritto sociale da garantire, meglio definibile come “interesse della collettività”. Il “bene salute” è riconducibile a un valore primario e
come tale trova la sua applicazione nel diritto all’integrità psico-fisica, diritto
alla difesa da malattie che si esplica nei trattamenti sanitari obbligatori, diritto
alla salute come libertà di cura, il diritto a determinate prestazioni e i suoi
rapporti con le organizzazioni sanitarie e il Sistema Sanitario nazionale. Nella
giurisprudenza italiana troviamo molti casi di tutela e risarcimento del danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica dell’individuo, e collegato a
esso c’è anche il tema del riconoscimento e della tutela all’ambiente salubre di
vita. Il comma 2 dell’art.32 stabilisce che “Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Addentrarsi nei particolari di questo argomento porta a toccare principi
etici e morali di una vastità enorme che aprirebbe un’argomentazione troppo
ampia e non esaustiva dell’importanza di questo settore. In questa sede considerare l’argomento per l’importanza che la salute dell’individuo comporta per
sé stesso e per l’intera comunità di appartenenza. L’alimentazione è il primo e
fondamentale mezzo per mantenere l’uomo in salute, desidero considerare e
cercare di approfondire questo aspetto.
Molti Stati e Nazioni adottano una politica sanitaria a garanzia e tutela dei
propri cittadini. Considerando la Comunità Europea, per esempio, tra i suoi
principali obiettivi c’è quello di prevenire le malattie, promuovere stili di vita
più sani, promuovere il benessere, promuovere l’informazione e l’educazione
in materia di salute. Sono finalità perseguite nel mondo con normative nazionali e locali specifiche per ogni territorio e nonostante ciò permane ancora
l’emergenza sanitaria e alimentare. Questo è il grande paradosso della nostra
epoca: esistono circa 900 milioni di persone che patiscono la malnutrizione e la
fame, e circa altrettanti invece subiscono i danni di un’alimentazione eccessiva
e disordinata.
Se ci sono posti in cui si muore di malnutrizione, nei Paesi del benessere si lotta per ridurre i gravi problemi di salute causati dall’obesità. La FAO
(FOOD AGRICULTURE ORGANIZATION) nella dichiarazione di Roma
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del 1996, durante il Word Food Summit, ha dichiarato l’urgenza e il diritto
alla “food security” ovvero alla “condizione di garanzia” per l’accesso fisico al
cibo, garanzia sociale ed economica a cibo appropriato e sicuro per quantità
e qualità, in modo da consentire una vita attiva e sana” per l’uomo. Possiamo
farci un’idea precisa del valore del cibo come espressione giuridica osservando
le linee guida adottate nel 2004 a seguito del 127 Concilio della FAO: “La
disponibilità di cibo sano migliora la salute delle persone e rappresenta un
diritto fondamentale umano. La ricerca della qualità del cibo costituisce un
altro obiettivo fondamentale del bisogno alimentare dell’umanità. La salubrità
del cibo si ottiene con un rigoroso controllo dei sistemi di produzione e con
una conoscenza sempre più approfondita della relazione fra condizione umana
e nutrizione”. Tra le linee guida troviamo anche sostenibilità per l’adozione di
politiche nazionali specifiche verso la produzione di alimenti sani, secondo le
capacità territoriali e i meccanismi di protezione della fauna locale e della limitazione all’inquinamento. La tutela delle piccole industrie agricole a usufruire
di meccanismi di produzione e di ricerca atti a favorire una riduzione dell’impatto ambientale. La protezione per la salubrità del cibo e del consumatore
mediante il coinvolgimento nel processo di nutrizione di tutti gli interessati,
dal consumatore alla filiera di produzione e agli stessi lavoratori. Addentrandoci in tutto questo spettro possiamo capire meglio come il benessere passi
attraverso l’alimentazione e in che misura notevole il mondo economico sia
coinvolto nella produzione degli alimenti e di quanto l’industria e il commercio gravitino e vivano con esso. La ricerca, la tecnologia, l’educazione, le risorse agricole, i mercati, i comportamenti sono solo alcuni dei protagonisti del
grande argomento “CIBO”.
Molti sono, dunque, gli interessi che gravitano, ma la salute resta fondamentale, il conflitto si delinea su due fronti: malnutrizione e obesità. Identificazione di povertà e ricchezza, conflitti vetusti come il mondo e attuali.
Drammaticamente attuali. La malnutrizione non riguarda solo i Paesi poveri di
risorse territoriali, industriali ed economiche, questi restano i più colpiti. Oggi
la malnutrizione riguarda anche le persone anziane, cittadini di Paesi colpiti da
crisi economiche, che non riescono a coprire le spese mensili con le loro pensioni. Gli eccessi, invece, dilagano un po’ in tutto il mondo con casi estremi in
America. L’obesità e il sovrappeso coinvolgono i sistemi sanitari per gli elevati
costi assistenziali a essi correlati. L’Unione Europea ha organizzato nel 2007
un gruppo di studio per la nutrizione e l’attività fisica per trovare soluzioni in
merito all’obesità, una patologia che pone le sue fondamenta nella scorretta
alimentazione e nell’inattività fisica. Gli interventi promossi dall’Unione Europea in azioni rivolte all’industria e alla società civile hanno lo scopo di di9
vulgare informazioni corrette e chiare sugli alimenti e in particolare modo sul
loro valore energetico, il tenore di acidi grassi, acidi grassi saturi, carboidrati,
sale e zucchero. Tutte queste caratteristiche fanno parte delle norme europee
sull’etichettatura dei prodotti alimentari, intervento legislativo mirante a una
corretta informazione per un’attività di prevenzione e riduzione della spesa
pubblica. La tutela della salute coinvolge a 360 gradi i popoli e le nazioni, i sistemi produttivi, le leggi di mercato, i sistemi del Welfare, la ricerca scientifica,
la politica e l’educazione. Ha carattere etico, morale e sociale. Da questa si può
definire l’efficienza e il benessere psico-fisico di un intera popolazione.
Il valore psicologico degli alimenti e i disturbi
dell’alimentazione
Mangiare è un atto istintivo, è immediato, necessario. Quando si ha fame
non ci pensi, lo senti e ricerchi il cibo per rispondere a questo stimolo. Nella
scelta del nutrimento siamo condizionati da molti fattori: le caratteristiche organolettiche come i colori, quindi l’attrazione visiva e il senso dell’olfatto perché
certi odori sono più invitanti di altri: anche l’udito viene coinvolto, spesso, nelle
scelte alimentari siamo attratti da certi alimenti proprio perché croccanti. Il
gusto è personale e fondamentale. Altri fattori che coinvolgono l’alimentazione sono quelli ambientali: dove si consumano i pasti, con chi e quali abitudini si apprendono. Non si mangia, dunque, solo per vivere. Mangiare diventa
l’espressione di tutto l’individuo, il benessere è psico-fisico perché la psiche
è inscindibile dall’uomo. Ecco che il cibo ha una polisemia: oggetto, bisogno,
attrazione, repulsione, passione, soddisfazione, piacere erotico, dono d’amore,
situazione duale, motivo d’odio, desiderio, dipendenza e moto della pulsione
istintuale. La fame, per il neonato, è la prima sensazione spiacevole che lo metterà in contatto con un oggetto del mondo esterno, il cibo, il quale sarà necessario per la sopravvivenza. Da qui l’incontro con l’altro, la madre, indispensabile
per approvvigionare la sostanza vitale. Scopre il piacere della suzione, dell’incontro corporale dell’oggetto esterno con l’io e il godimento nell’assumerlo. La
bocca, ci insegna Sigmund Freud, è il primo tratto corporeo dove il bambino
sperimenta il piacere erotico. Il pianto che scaturisce dalla fame risulta un’emergenza dolorosa che richiede una risposta con l’intervento di un altro, la fame e il
cibo sono quindi una prima forma di “linguaggio”. L’ingresso dell’alimento nel
corpo è la risposta piacevole a un interazione duale. Ma il piacere si accompagna spesso alla colpa e nel rapporto corporale individuale la percezione, a volte,
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può distorcere la realtà dando origine a disturbi del comportamento alimentare. Nell’adolescente le pulsioni sono molto forti e contraddittorie, sovente il
giovane mescola le pietanze dolci con quelle salate, alterna forte appetito a lunghe pause quasi di digiuno. L’alimentazione diventa un indice di qualcosa che
va oltre il semplice valore nutritivo. Quello che si mangia esprime condizioni
materiali, ma anche elementi di affettività, di relazione e di potere. Quando una
mamma vede i suoi bambini che non mangiano, si preoccupa e di conseguenza i bambini comprendono che l’alimentarsi o meno genera reazioni da parte
dei genitori nei loro confronti. Il bambino, infatti, percepisce di essere amato
non attraverso le manifestazioni più evolute e intellettualizzate, ma attraverso
l’offerta del nutrimento. Il cibo acquisisce in questo contesto quel valore di veicolo simbolico dell’amore, che rimarrà per sempre il nucleo centrale della sua
immagine. Il cibo, quindi, ha una valenza psicologica notevole sia per il piccolo
che per il ragazzino. Quest’ultimo desidera esprimere indipendenza e aggregazione condividendo dei pasti nel gruppo dei pari. A volte, stare in compagnia
dei propri coetanei permette all’adolescente di sentirsi svincolato da simbolismi
emotivi a cui si sente radicato a livello familiare.
Per essere consumato il cibo deve essere disponibile, accattivante, profumato, facilmente manipolabile, adeguato, bello da vedere perché coinvolge
tutti i sensi. La vista, quindi, l’olfatto, il gusto e l’udito sono coinvolti nella
fruizione del pasto. Come è stato spiegato in precedenza, molti cibi piacciono
perché sono croccanti, altri perché hanno un buon odore e sapore, altri ancora
sono appetibili per la cromaticità della portata. L’alimentazione è un processo totale del nostro corpo e la percezione esterna e interna si equivalgono. A
volte l’uomo si percepisce diversamente da quello che appare e si condiziona
le scelte alimentari compromettendo, nei casi estremi, la salute. Sono queste le
situazioni in cui si possono manifestare i disturbi dell’alimentazione.
L’anoressia nervosa e la bulimia sono gravi malattie psichiatriche. Nella società occidentale il benessere ha portato a rispettare meno il cibo e si è andata
perdendo anche la sacralità che un tempo lo contraddistingueva. Diventa un
elemento alla portata di tutti e i disagi nati da un rapporto distorto con il
cibo vengono somatizzati più di un tempo. Bisogna mettere in evidenza che i
disturbi alimentari non sono malattie che riguardano solo la sfera relazionale.
Le relazioni sono fortemente compromesse, ma la malattia è una patologia
psichiatrica che richiede l’intervento di più specialisti: lo psichiatra, lo psicologo clinico, il nutrizionista, il ginecologo, l’endocrinologo e ogni altra figura
specializzata che il caso lo richieda. Le cause non sono ancora tutte note e la
medicina non è in grado di dare risposte certe, quello che in questo frangente
si può evidenziare è la gravità dell’anoressia nervosa e della bulimia, patologie
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che una volta conclamate investono e destabilizzano l’intero nucleo familiare,
portando sofferenza e senso di impotenza a tutti i membri che vedono patire
il proprio caro. Negli anni la ricerca scientifica ha sfatato il “mito” che colpevolizzava la madre o il padre del paziente sofferente, permettendo alla società
una percezione più ampia sulla gravità di queste patologie. Il corpo è l’oggetto
del disturbo alimentare perché il malato si vede diverso da quello che è realmente: è troppo magro, denutrito, invece si percepisce gonfio e in sovrappeso.
Il malato ha una percezione deformante dell’io e si comporta di conseguenza.
Mangia poco, fa un’intensa attività fisica, se mangia pochi grammi in più si
scatena il senso di colpa così forte da spingerlo a indursi il vomito per liberarsi.
Altre volte, invece, il malato si lascia pervadere dal desiderio smodato di cibo
e mangia, mangia quantità abnormi di alimenti ipercalorici e non soddisfatto, comunque, finisce per liberarsene. Anche l’uso di lassativi e diuretici sono
pratiche consuete per i malati di anoressia e bulimia. Questi due termini sono
un binomio poiché “viaggiano” insieme nella stessa malattia a periodi alterni.
Quando si parla di questi disturbi alimentari la tendenza è quella di accusare
il sistema dei mass media, che utilizzano modelle dai corpi sotto peso, induce i giovani all’imitazione e, quindi, all’anoressia. Il problema risulta essere
più profondo, bisognerebbe domandarsi perché quei modelli estetici vengono
proposti con quelle fattezze malate, e perché la nostra cultura abbia deciso
di valorizzare esteticamente la morte e la malattia. Nella storia dell’umanità
il rapporto viziato con le forme del corpo è sempre stato presente. Esempi
dimostrano che il rapporto con il cibo è sempre stato sintomatico e non distaccato e che in ogni periodo storico si è valorizzata socialmente una certa
forma corporea, anche a discapito della salute e dell’estetica. Gli antichi greci,
per esempio, avevano un culto smisurato per la perfezione del corpo tanto
da stabilire delle proporzioni matematiche tra le diverse parti del corpo, ogni
anomalia era mal sopportata. Stabilirono un canone estetico definito “Policleto” ancor oggi apprezzato. Le numerose statue di atleti giunte fino a noi sono
esempi dei loro ideali estetici. Un altro esempio lo troviamo nel Medioevo,
esattamente opposto all’armonia greca, perché corpo e cibo vengono rubricati
come strumenti del peccato, fortemente influenzato dal Cristianesimo e dalla
sua morale, vengono esaltate le Sante ascetiche dai corpi anoressizzanti, magri
fino allo scheletro e morte di stenti. Rappresentavano la distanza dai piaceri
carnali e dalle tentazioni fisiche verso il piacere e per questo venivano venerate.
Nei tempi passati la tensione verso una forma corporea e l’altra si sono alternate vicendevolmente: il corpo deformato per difetto si è imposto come una
nuova femminilità, un modo nuovo di essere donna negli anni 80. Oggi viviamo in un momento di coercizione duale: godere e dovere. Vivere in un corpo
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perfettamente armonico, ma godere sempre di tutti i piaceri. L’alimentazione si
tratteggia come una realtà complessa: istintiva inizialmente, nutritiva, affettiva,
psicologica, erotica, patologica, comunicativa e culturale. Vedremo meglio più
avanti le ulteriori particolarità.
La linea: stile di vita e moda nell’età contemporanea
“La società contemporanea crea obesi, ma non li sopporta”. Iniziamo con
questa citazione perché quanto abbiamo osservato fin’ora metta in evidenza
che l’obesità è riconosciuta come una patologia dalle molteplici cause: fattori
genetici, fattori ambientali e comportamentali determinanti nella sua eziologia.
Gli studi e le ricerche condotte negli ultimi trent’anni presentano l’interesse
sia degli epidemiologi che dei sociologi. Le leggi a tutela della salute e contro l’obesità sono all’ordine del giorno in ogni Paese, eppure l’economia, i
sistemi produttivi e le filiere alimentari continuano a produrre cibi dannosi
per la salute perché propongono, in porzioni ridotte, concentrazioni elevate
di grassi, zuccheri e ogni altro elemento poco salutare mescolato agli altri ingredienti. Non parliamo certo di sostanze tossiche, ma pubblicizzare le patatine fritte in un Paese con il 36% di popolazione sovrappeso, il 3% di obesi
e il sistema sanitario fortemente coinvolto per distribuire cure e terapie per
migliorare questo status, non è certo una scelta lodevole dal punto di vista
economico generale. D’altro canto, la proposta sociale estetica, contraddice
l’offerta alimentare, mettendo in risalto il culto del corpo snello, muscoloso,
prestante e scolpito. Nella società occidentale contemporanea, infatti, l’aspetto
fisico è estremamente importante sia per l’auto percezione sia per quella altrui. In un’epoca d’incertezza, dove i corpi sono esibiti come status symbol, il
controllo degli stessi viene esercitato tramite la “disciplina dietetica” e questo
comprende una riduzione delle razioni e il controllo del tipo di cibo mangiato:
piccole quantità, evitare i grassi in nome della “forma” e della salute, si diventa vegetariani o vegani anche per motivi etici-estetici. Un regime dietetico
rigoroso non serve solo a dimostrare a chi ci osserva il nostro elevato livello di
autocontrollo: da una dieta ci aspettiamo di ottenere un corpo più snello, ma
ci serve come segnale di autodisciplina permanente verso tutte le persone con
le quali entriamo in contatto. Un corpo in sovrappeso parla di ingordigia, mancanza di autodisciplina, edonismo, autoindulgenza, mentre un corpo magro è
sinonimo di controllo elevato, di una grande capacità di trascendere i desideri
della carne. Così il corpo diventa motivo di grande soddisfazione da esibire o
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fonte di ansia e vergogna. Sembra che più acquistiamo conoscenza e informazioni sui nostri corpi più diventiamo insicuri. Nella nostra società consumistica
si evidenzia l’ossessione delle diete e del controllo del corpo: ci sono persone
che in un piatto fumante di pasta ben condita non vedono la possibilità di godere del cibo, scorgono un “mostro” nascosto di grassi e calorie e magari lo rifiutano pensando, altrimenti, a quanta fatica dovrebbero fare per bruciare solo
un boccone d’assaggio. In nome della salute ci ammaliamo. Eppure, sovente,
ci si trova a vivere questo tipo di contraddizione. La linea, dunque, non è solo
indice di uno stile di vita sano ma porta con sé la moda del momento. Non è
raro sentire nei luoghi d’incontro discorsi sul tipo di dieta che si sta seguendo,
periodicamente escono sulle riviste le “diete” stagionali “miracolose” indicate
per quel dato periodo dell’anno. Di regola seguono il ciclo stagionale e del prima festività, in modo da partecipare alle grandi abbuffate, e del dopo feste per
riacquistare il controllo. Sembra nuovamente che si manifesti il rispetto della
contraddizione moderna: il cibo diventa una fonte colpevole di piacere, le sue
qualità sono messe in luce nonostante i divieti, e il suo consumo richiede un
immediato regime restrittivo per porre rimedio ai danni dei cedimenti.
Questo atteggiamento si evidenzia nel contesto socio culturale occidentalizzato: bisogna tener presente che il cibo assume significati diversi a seconda
dell’aspetto considerato e di quale sia prevalente nella comunità di appartenenza. Se prendiamo in considerazione l’aspetto tecnico-economico, per esempio, possiamo osservare come la dicitura “civiltà agricole” o “civiltà pastorali”
attestano la centralità dei processi produttivi degli alimenti base. La tipologia
dei cibi assunti, le modalità di consumo del pasto e l’ideale di bellezza correlato
all’aspetto fisico determinato dal peso corporeo, variano in relazione all’assetto
storico-culturale. Il cibo e la convivialità hanno assunto, nelle diverse culture,
valore economico, sociale, oggetto di prestigio, condivisione e commercio. In
ogni società anche il dono del cibo assume una forma di rinforzo e significato di particolari legami fra i membri, viene scambiato come valore simbolico
in relazione a determinati periodi dell’anno in cui vengono consumati, per
esempio nelle festività. Inoltre, il codice culturale sotteso alle norme alimentari
è basato su delle proibizioni in base all’aspetto ideologico di appartenenza.
Posso concludere dicendo che la linea non si può semplificare solo a una moda
o una forte tendenza della cultura occidentale. Soggiacente all’aspetto estetico
possono prendere senso e significato aspetti molto più complessi e articolati
rispetto alla bella presenza. L’ideologia, il credo religioso, l’aspetto psicologico
e sociale sono elementi strutturanti della personalità individuale e della collettività di appartenenza. La moda caratterizza un periodo, un momento storico,
il senso profondo dell’essere del singolo, la sua identità lo contraddistingue per
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tutta la sua esistenza, può essere influenzato dai fenomeni sociali, dalla moda,
ma difficilmente la moda può trasformarsi in uno stile di vita.
Anoressia nervosa
Matteo Balestrieri, Professore Ordinario di Psichiatria – tratto da SocialNews
L’anoressia nervosa è caratterizzata da una progressiva perdita di peso dovuta ad una notevole riduzione dell’apporto calorico, da un’ostinata ricerca
della magrezza, da una patologica paura di ingrassare e dalla presenza di amenorrea prolungata.
Per una diagnosi di anoressia, il peso deve essere ridotto di almeno il 15%
rispetto al peso ideale, oppure deve esserci un indice di massa corporea (BMI)
uguale o inferiore a 17.5. È comunque importante valutare l’entità della variazione del peso e la rapidità con cui la riduzione di peso è ottenuta.
L’anoressia insorge tipicamente nell’adolescenza, anche se sono sempre più
numerosi i casi di insorgenza più precoce, intorno ai 10 anni. L’età giovanile è
di per sé connotata dai tipici problemi dello sviluppo, dalla ricerca di un’autonomia e dell’identità personale: l’anoressia è una espressione di difficoltà in
questo ambito. La necessità di conformarsi a modelli proposti dalla nostra società induce molti adolescenti ad identificarsi con i personaggi che rappresentano il successo e la sicurezza di sé. Per molte ragazze il desiderio di emulare
la linea delle modelle è una spinta ad adottare comportamenti di restrizione
alimentare e ad entrare in conflitto con i limiti biologici a mantenere una stabile riduzione di peso.
Un aspetto rilevante della anoressia è la negazione della malattia: la paziente non riconosce il proprio comportamento come patologico. Con il termine
“egosintonia” si indica che la rappresentazione che la paziente ha di se stessa
è quella di una condizione normale o desiderabile, comunque non malata. Ciò
contrasta con l’impressione che gli altri hanno: anche nel campo della moda,
se una decisa magrezza nell’ambito della moda è tollerata ed anche ammirata,
oltre determinati limiti la ragazza inizia ad essere esclusa e comunque non più
all’interno di una normalità, che se pur estrema, è però condivisa.
Le pazienti vivono inizialmente i propri comportamenti come un tentativo
per risolvere i propri problemi. La perdita di peso è vissuta come una straordinaria conquista ottenuta con ferrea autodisciplina e l’aumento di peso come
inaccettabile perdita della capacità di controllo. A causa dell’aumento della
fame, la paura di ingrassare tende ad aumentare con la diminuzione di peso.
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Molte pazienti effettuano esercizio fisico estremo e altre mettono in atto
comportamenti di eliminazione come il vomito o l’abuso di lassativi. Si distinguono infatti due sottogruppi diagnostici: il tipo restrittivo, in cui la diminuzione di peso è ottenuta con la riduzione dell’apporto alimentare ed,
eventualmente, con iperattività fisica, e il tipo con crisi bulimiche e/o condotte
di eliminazione, in cui si presentano crisi bulimiche, vomito autoindotto, abuso
di lassativi e diuretici.
Le pazienti anoressiche sono spesso adolescenti perfezioniste e competitive, con una identità che si appoggia sulla considerazione che riescono a suscitare negli altri. Coscienziose e impegnate a ottenere il massimo, sono in genere
molto preoccupate per il rendimento scolastico e per ogni altra prestazione che
si trovano ad affrontare.
L’anoressia inizia spesso in modo graduale e insidioso con una progressiva
riduzione dell’introito alimentare iniziata per motivi diversi: una dieta ipocalorica per motivi estetici, generiche difficoltà digestive, malattie, interventi chirurgici; nel periodo che precede l’esordio si rilevano in molti casi significativi
eventi stressanti o cambiamenti di vita. La riduzione dell’apporto calorico può
essere realizzata attraverso una riduzione progressiva delle porzioni o attraverso l’eliminazione drastica dei cibi maggiormente ipercalorici. Spesso accade
che i familiari si accorgano del problema soltanto dopo molto tempo, quando
la ragazza è dimagrita di molti chili.
Con il progredire del disturbo si manifesta una continua e ossessiva presenza del cibo al centro di ogni pensiero. Si parla di “ideazione prevalente”
sul cibo: molte pazienti collezionano ricette, contano le calorie, impiegano ore
a mangiare e tagliano il cibo in minuti pezzetti; alcune cucinano preparazioni
molto elaborate, preoccupandosi dell’alimentazione dei familiari. Le pazienti
diventano più irritabili, depresse e spesso sviluppano un’ossessione per la pulizia, per l’ordine, per gli orari. Il rapporto con i familiari diventa teso e difficile,
talvolta francamente ostile. I tentativi di aumentare la spinta all’isolamento sociale. Altre volte i rapporti familiari sono rigidi, formalmente corretti e l’atmosfera familiare è carica di aggressività latente. Alcuni studi hanno osservato che
l’ipercriticismo da parte dei familiari influenza negativamente il trattamento.
Le pazienti che fanno ricorso al vomito autoprovocato o all’abuso di lassativi e diuretici presentano complicanze mediche più frequenti. Ad esempio,
si manifestano irritazioni a carico delle mucose faringee, esofagee e buccali e
carie dentarie. A volte è il dentista che si accorge per primo del problema.
Anche se possono esserci alcuni casi che presentano una durata di malattia
di solo alcuni mesi, l’anoressia presenta spesso un andamento cronico, talvolta con recupero di peso e successive ricadute nel corso degli anni. Una per16
centuale di pazienti superiore al 50% presenta una remissione del disturbo,
mentre la cronicizzazione si rileva in un 20% dei casi. La mortalità è in media
del 5%ed è dovuta alle complicanze legate alla denutrizione, agli squilibri elettrolitici e al suicidio.
Bulimia nervosa
Tiziana Aureli Professore straordinario,
Elisabetta Bascelli – tratto da SocialNews
Il comportamento alimentare è un comportamento complesso, controllato da numerosi fattori che comprendono l’appetito, la disponibilità di cibo,
le abitudini familiari, culturali e generazionali, nonché, non da ultimo, la volontà. Gravi disturbi di tale comportamento portano a disordini, sia di tipo
fisico come riduzioni estreme e dannose dell’apporto calorico giornaliero oppure grave sovra-alimentazione, sia psicologico come sentimenti di disagio o
eccessive preoccupazioni riguardo al proprio peso o al proprio aspetto. Più
precisamente, il termine disturbo dell’alimentazione fa riferimento a disordini
persistenti del comportamento alimentare o dei comportamenti finalizzati al
controllo del peso corporeo, che danneggiano in modo significativo la salute
fisica e il funzionamento psicologico di un individuo e che non sono secondari
a nessuna condizione medica o psichiatrica conosciuta.
I disturbi alimentari, di cui anoressia e bulimia nervosa sono le manifestazioni più note e frequenti, sono diventati nell’ultimo ventennio una vera e propria emergenza socio-sanitaria per gli effetti devastanti che hanno sulla salute
e sulla vita di adolescenti e giovani adulti. Essi appaiono frequentemente associati ad altri disturbi psichiatrici, come depressione, abuso di sostanze e disturbi d’ansia. Inoltre, le persone che ne sono affette soffrono spesso di notevoli
complicazioni a livello fisico, come patologie cardiache e insufficienza renale
che possono condurre alla morte, il che rafforza la necessità di riconoscere i
disturbi alimentari come malattie reali e trattabili.
Sono stati individuati alcuni fattori specifici che più facilmente mettono la
popolazione a rischio di contrarre tali disturbi. Innanzitutto il genere: a rischio
sono maggiormente le ragazze, dato che il 90-95% dei pazienti appartiene al
genere femminile, mentre solo una percentuale stimata tra il 5% e il 15% delle
persone con anoressia o bulimia sono maschi. In secondo luogo, l’età: in generale i disturbi alimentari si sviluppano frequentemente durante l’adolescenza
e la prima età adulta; in particolare, la fascia più colpita è quella fra i 12 e i
17
25 anni, all’interno della quale il periodo d’età compresa fra i 14 e i 18 anni è
soprattutto critica. Per citare un dato importante, risulta che nei paesi occidentali, inclusa l’Italia, 8-10 ragazze su 100 che hanno tra i 12 e i 25 anni soffrono
di un qualche disturbo del comportamento alimentare. Una possibile ragione è
facilmente rintracciabile: questa è l’età in cui il corpo si trasforma, diventando
di conseguenza oggetto di particolare attenzione e, nel contempo, cominciano a essere particolarmente interessanti ed efficaci i complimenti o le critiche
dei coetanei. Ancora, il rischio di sviluppo di patologie alimentari è maggiore
in giovani che vivono situazioni familiari critiche (ad es., malattie croniche,
disturbi psichici, relazioni familiari problematiche) o in famiglie in cui si dà
particolare attenzione al peso e alle forme corporee da parte dei genitori o di
fratelli/sorelle. Anche la cultura è un fattore predisponente, risultando tali disturbi tipici del sistema di vita occidentale. Infine, molti studi su famiglie e su
gemelli suggeriscono un’alta percentuale di ereditarietà, per cui attualmente la
ricerca è diretta a individuare i geni predisponenti i disordini alimentari, anche
se si ritiene che più geni possano interagire con l’ambiente e con altri fattori
individuali nell’aumentare il rischio.
In considerazione di tale complessità, il nucleo patogenetico che caratterizza i disturbi alimentari (bassa autostima, depressione, sofferenza causata da
una mancata corrispondenza tra peso reale e peso ideale) risulta pertanto determinato da un insieme di aspetti biologici, individuali e socio-culturali che,
interagendo fra loro, costituiscono il terreno predisponente, precipitante e di
mantenimento di tali disturbi (Dalle Grave, 2003). Il che permette di concludere a favore di una visione multifattoriale delle loro cause.
Oltre ad anoressia e bulimia, è presente un’ampia ed eterogenea categoria di disturbi dell’alimentazione atipici, cioè disturbi clinicamente significativi
ma che non soddisfano tutti i criteri diagnostici dell’anoressia e della bulimia
nervosa: alcune persone, ad esempio, iniziano con una forma di anoressia ma
poi, incapaci di mantenere il basso peso, scivolano verso comportamenti bulimici. Secondo l’American Psychiatric Association (A.P.A.), la metà dei pazienti
anoressici finiscono con l’avere anche sintomi di bulimia e, in qualche caso, i
pazienti bulimici sviluppano comportamenti anoressici.
Il presente contributo si occupa in modo specifico della bulimia nervosa,
concentrando l’attenzione su aspetti teorici e clinici. A lungo considerata una
variante dell’anoressia o, al contrario, come una particolare forma di obesità,
la bulimia nervosa è stata riconosciuta come disturbo psichiatrico autonomo
a partire dalla terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali (A.P.A., 1980). Il termine bulimia ha origine dalla fusione di due parole greche: bous (bue) e limos (fame), che, tradotte letteralmente, significano
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“fame da bue”. Insieme all’anoressia, fa parte dei Disturbi dell’Alimentazione
ed è pertanto caratterizzata dalla presenza sia di gravi alterazioni del comportamento alimentare che di una percezione distorta del peso e della propria
immagine corporea. Le somiglianze tra l’anoressia e la bulimia comprendono
la preoccupazione per la dieta, il cibo e il peso, il disagio quando si è a tavola con altri e la ricerca dell’approvazione sociale. Le differenze riguardano la
negazione del problema e il peso. L’anoressica nega a sé e agli altri che esista
una qualsiasi difficoltà o un comportamento alimentare anormale; la bulimica, invece, mentre nega l’esistenza del problema in pubblico, con gli altri, lo
riconosce in privato, dentro di sé. L’anoressica è sempre sottopeso (almeno
il 15% al di sotto del peso corporeo consigliato), mentre la bulimica può essere sottopeso, normopeso o sovrappeso. Infatti, il peso corporeo, malgrado
le abbuffate alimentari, può essere mantenuto costante, o addirittura ridotto,
a causa della messa in atto di comportamenti compensatori, come il vomito,
l’uso di lassativi o l’esercizio fisico.
La bulimia nervosa è molto più frequente dell’anoressia nervosa, come
risulta da una recente indagine che rileva un’incidenza di 12 casi annui su
100.000 soggetti rispetto agli 8 casi di anoressia. La patologia è prevalentemente appannaggio del sesso femminile: una percentuale tra l’1 e il 3% delle
donne soffre di bulimia nervosa nel corso della vita, mentre la percentuale è
nettamente inferiore o inesistente nei maschi. L’età di esordio si situa nella
tarda adolescenza o nella prima età adulta, con età media intorno a 20 anni e
un range compreso tra 11 e 45 anni. Differisce pertanto sotto questo aspetto
dell’anoressia nervosa, colpendo maggiormente donne adulte che si affacciano
al mondo del lavoro e si distaccano dalla propria famiglia, in concomitanza
cioè con due eventi critici che possono mettere a dura prova l’identità personale. I casi che insorgono prima della pubertà e prima del menarca sono più
frequentemente associati a psicopatologie e hanno una prognosi psichiatrica
più sfavorevole. La razza più colpita è quella bianca, di classe socio-economica
medio-alta, ma sono riportati casi appartenenti a diversi gruppi razziali e a
diverse classi sociali.
Nei soggetti con bulimia nervosa vi è un’aumentata incidenza di sintomi
depressivi (ad es., ridotta autostima) o Disturbi dell’Umore (Distimia e Depressione Maggiore) che nella maggioranza dei casi seguono la bulimia nervosa
o sono concomitanti con il suo sviluppo; inoltre vi è un’aumentata frequenza di
sintomi d’ansia (ad es., ansia nelle situazioni sociali) o di Disturbi d’Ansia propriamente detti. Circa un terzo degli individui con bulimia nervosa manifesta
un abuso di sostanze o qualche forma di dipendenza, in particolare da alcool
e da sostanze stimolanti, il cui uso di solito inizia nel tentativo di controllare
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l’appetito e il peso. Circa la metà dei casi di bulimia nervosa inoltre rivela tratti
personologici che incontrano i criteri per uno o più Disturbi di Personalità, di
cui il più frequentemente diagnosticato è il Disturbo Borderline di Personalità.
L’esordio della malattia è spesso associato a una dieta dimagrante: il 34,88%
delle pazienti indica la comparsa della bulimia dopo un periodo di restrizione
calorica, iniziato per lasciarsi alle spalle una storia di sovrappeso rispetto ai coetanei; mentre, in altri casi, vi è un vissuto di perdita o di separazione. Indipendentemente dall’inizio, comunque, la condotta bulimica sembra assumere nel
tempo un’esistenza autonoma, diventando un pattern abituale nella vita della
persona, fatto di abbuffate, alternate a periodi di digiuno o di rigide restrizioni,
che andranno progressivamente a sostituire del tutto i pasti regolari.
L’esordio avviene in concomitanza a fattori precipitanti. Un percorso tipico
di sviluppo della malattia comincia con l’insoddisfazione per il peso e le forme
corporee, spesso sollecitata dalle critiche di amici o da confronti perdenti con
compagni di classe o colleghi di lavoro, e continua con la decisione di iniziare
una dieta. Di solito, la dieta funziona molto bene e la persona comincia a ricevere rinforzi positivi dall’esterno, i quali da una parte aumentano la sua autostima, dall’altra la confermano nella convinzione che la dieta è la cosa giusta
da fare. Emerge quindi un fattore perpetuante che porta alla creazione di un
circolo vizioso, rendendo difficile l’interruzione della malattia.
In un primo momento, è evidente che la dieta rappresenta per la persona
una buona alleata e le conseguenze di un comportamento alimentare scorretto
non appaiono ancora evidenti. Per questa ragione, la richiesta al medico o allo
specialista arriva solitamente molto tardi, in genere dopo che sono trascorsi
dai 3 ai 6 anni dall’esordio della malattia, quando il disturbo è ormai cronicizzato e complesso, e i meccanismi regolatori di fame/sazietà e della defecazione
sono già alterati. Una volta che le conseguenze negative sia psicologiche che
organiche si fanno sentire, la persona smette di essere euforica come nei primi
mesi della dieta. Continua tuttavia nella decisione di non riprendere peso, dato
che, se lo facesse, tornerebbe a sentirsi di nuovo “orribile”, inaccettabile, non
adeguata. Tuttavia, non riuscendo più ad ascoltare il proprio corpo per sapere
quando ha fame e quando è sazia, vive nel terrore di aver mangiato troppo, si
pesa continuamente o evita di pesarsi, sempre con la paura di deludere se stessa e gli altri o di non essere così brava come prima, in sostanza avendo come
unico parametro di riferimento/valutazione della propria vita il cibo e il cibo
soltanto.
Oltre a queste conseguenze psicologiche che alimentano la malattia, la paziente può presentare diversi disturbi di carattere medico, dovuti essenzialmente all’uso delle metodiche di eliminazione. I disturbi più frequenti e più
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gravi sono gli squilibri idroelettrolitici presenti in circa il 50% delle pazienti, i
cui sintomi sono debolezza e apatia, sete, ritenzione idrica con edemi a braccia
e gambe, vertigini, spasmi, irregolarità del battito cardiaco. La stimolazione
meccanica del vomito può inoltre causare ferite superficiali nella parte posteriore della gola, che a loro volta possono provocare infezioni, dolori e raucedine; così, il ripetuto contatto che l’acido cloridrico prodotto dal vomito ha con
i denti porta a una erosione irreversibile dello smalto dentario. Sotto il profilo
endocrino, risultano molto frequenti le irregolarità del ciclo, mentre solo poche pazienti risultano del tutto amenorroiche. Di minore entità medica, ma
con una rilevante ricaduta sul piano psicologico, è l’aumento delle dimensioni
delle ghiandole salivari, in special modo le parotidi, che, oltre a causare una
maggiore produzione di saliva, conferisce al volto un aspetto tondo e paffuto,
il che porta le pazienti a percepire la propria faccia “grassa” e a pensare che
anche il resto del corpo sia così, finendo ovviamente per aumentare la loro
preoccupazione per forme e peso e perpetuare il problema.
Quando il cibo alimenta il sé
Tiziana Aureli Professore straordinario,
Elisabetta Bascelli – tratto da SocialNews
In passato, la ricerca clinica aveva cercato di individuare un unico fattore
come possibile responsabile dei disturbi alimentari; attualmente, si ritiene che
un complesso insieme di aspetti biologici, individuali e socioculturali concorra
a formare i fattori di rischio, i fattori precipitanti e di mantenimento di tali
disturbi.
I fattori di rischio sono condizioni antecedenti al disturbo, che aumentano
la probabilità del suo sviluppo. Dalle ricerche attuali, sembra che tali condizioni vadano rintracciate nella compresenza di una predisposizione genetica e di
un ampio numero di agenti ambientali. Tra questi ultimi, distinguiamo quelli
generali (sesso femminile, adolescenza o prima età adulta, vivere nella società
occidentale), quelli specifici (fare diete, disturbi dell’alimentazione in famiglia)
e quelli generici (bassa valutazione di sé, abuso di sostanze).
I fattori precipitanti sono situazioni che si verificano nell’anno che precede
l’esordio del disturbo e agiscono attivando lo schema di autovalutazione disfunzionale formatosi per il concorso combinato dei fattori di rischio (cambio
di città, interruzione di una relazione sentimentale, fallimenti scolastici, lavorativi).
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I fattori di mantenimento del disturbo si distinguono in standard (schema
di autovalutazione disfunzionale, preoccupazioni e pensieri sull’alimentazione, rinforzi positivi e negativi, comportamenti di controllo dell’alimentazione,
vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo) e aggiuntivi (perfezionismo clinico, bassa autostima, intolleranza alle emozioni).
La teoria cognitivo-comportamentale sostiene che il meccanismo centrale di
mantenimento della bulimia nervosa è uno schema disfunzionale di autovalutazione e che da esso derivano le altre caratteristiche cliniche del disturbo (dieta
ferrea, esercizio fisico eccessivo, vomito autoindotto). In condizioni di normalità,
le persone si valutano in base alla percezione delle proprie prestazioni in una
varietà di domini della propria vita; al contrario, le persone affette da disturbi
dell’alimentazione giudicano il proprio valore sulla base soprattutto del grado
di controllo che esercitano sull’alimentazione o sul peso o sulle forme corporee.
Di seguito analizzeremo il ruolo di alcuni di questi fattori. Le persone affette da bulimia nervosa hanno caratteristici pensieri automatici su alimentazione,
peso e forme corporei che non dipendono da processi di ragionamento, ma si
verificano in concomitanza di esperienze capaci di attivare lo schema di autovalutazione disfunzionale. Ad es., una persona affetta da bulimia nervosa se mangia un dolce può pensare in modo automatico “Ho perso il controllo, ingrasserò
come una botte” e inizia a rimuginare sul fatto che ha mangiato troppo, che deve
avere più controllo e che l’unico modo per recuperare la situazione è saltare
il pasto successivo. Pensieri e preoccupazioni persistenti mantengono attivo lo
schema di autovalutazione disfunzionale che, a sua volta, produce pensieri e
preoccupazioni, il che crea un circolo vizioso che agisce come una specie di
blocco del funzionamento mentale. Ciò che mantiene lo schema di autovalutazione disfunzionale in uno stato di continua attivazione sono soprattutto i rinforzi positivi che la persona ottiene quando controlla l’alimentazione, ad esempio i
commenti positivi ricevuti dagli altri se e quando riesce a perdere peso.
Anche l’esercizio fisico eccessivo mantiene il disturbo bulimico, perché
aumenta la preoccupazione per il peso e la forma corporei; favorisce inoltre
l’isolamento sociale, perché viene eseguito in solitudine; produce euforia, sensazione di controllo e benessere psicofisico che la persona può ricercare quando sperimenta emozioni negative.
Un comportamento caratteristico delle persone affette da bulimia nervosa è
l’abbuffata. Anche se sembra controintuitivo, numerosi studi hanno evidenziato che la principale causa delle abbuffate è il tentativo di restringere l’alimentazione. Il controllo rigido di ciò e di quanto mangiare porta il paziente bulimico
a compiere piccole trasgressioni che, se si verificano, favoriscono l’abbuffata,
la quale viene perseguita senza troppe angosce con l’idea di potere tornare
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successivamente a esercitare il controllo. Spesso, la modalità di pensiero sottostante a questo comportamento è del tipo “tutto o nulla” come: “Ormai ho
rotto la dieta, tanto vale che mi abbuffi e poi potrò liberarmi di tutto il cibo con
il vomito”. L’alimentazione in eccesso e il recupero del peso vengono favoriti
dalle modificazioni neurormonali determinate dalla restrizione alimentare e
dal decremento ponderale, che inducono entrambi un aumento della fame e
una riduzione della sazietà. Dieta ferrea e decremento ponderale possono anche portare allo sviluppo di emozioni negative (depressione, ansia, irritabilità)
che, a loro volta, scatenano le abbuffate, utilizzate in questo caso per modulare
stati emotivi intollerabili.
In alcune pazienti con bulimia nervosa si possono osservare uno o più processi di mantenimento aggiuntivi che ostacolano la guarigione: il perfezionismo
clinico, la bassa autostima nucleare, l’intolleranza alle emozioni e i problemi
interpersonali.
Il perfezionismo clinico è la tendenza dell’individuo a giudicare se stesso
in modo predominante o esclusivo rispetto al fatto di riuscire a raggiungere
standard eccessivamente esigenti in almeno un dominio della vita (scuola, lavoro, sport, relazioni), nonostante le conseguenze avverse che ciò comporta.
Quando il perfezionismo clinico coesiste con la bulimia nervosa, si verifica
un’interazione tra le due forme di psicopatologia e gli standard perfezionistici
si focalizzano sul controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporei.
Come in altre espressioni del perfezionismo clinico, sono presenti la paura del
fallimento (paura di ingrassare), i comportamenti di controllo della prestazione
(contare le calorie) e l’autocritica se non si raggiungono gli standard autoimposti (non riuscire a seguire la dieta).
La bassa autostima nucleare caratterizza quelle pazienti bulimiche che hanno una visione di sé negativa, incondizionata e pervasiva. Essa rappresenta
una costituente permanente dell’identità e ostacola il cambiamento, in quanto
crea senso di impotenza e sfiducia sulla possibilità di cambiare, spingendo la
paziente a raggiungere il successo nel controllo dell’alimentazione, del peso e
delle forme corporei piuttosto che nell’adesione al trattamento (Baruffi, Colombo e Goldwurm, 2005).
L’intolleranza alle emozioni consiste nell’incapacità di gestire in modo adeguato gli stati emotivi negativi come rabbia, ansia e depressione. La persona
adotta comportamenti disfunzionali di modulazione dell’umore (autolesionismo,
sostanze psicoattive) che riducono la consapevolezza dello stato emotivo e dei
pensieri a esso associati. Queste pazienti possono usare l’abbuffata, il vomito
o l’esercizio fisico eccessivo come mezzi abituali di modulazione dell’umore,
producendo un processo aggiuntivo di mantenimento del disturbo.
23
Infine, alcune pazienti affette da bulimia nervosa manifestano problematiche
interpersonali: le tensioni familiari vissute da una giovane paziente bulimica possono aumentare la resistenza a riprendere un’alimentazione corretta, riflettendo
un meccanismo di intensificazione della necessità di controllo che si esprime
appunto nell’aumento della restrizione dietetica. Anche vivere in famiglie dove
è presente un altro membro con un disturbo dell’alimentazione oppure esercitare professioni in cui è forte la pressione ad essere magri possono a loro volta
accentuare la preoccupazione nei confronti dell’alimentazione, del peso e delle
forme corporei, minando l’autostima e favorendo lo sviluppo di emozioni negative, che a loro volta sono meccanismi di mantenimento aggiuntivi.
Nell’ambito della teoria cognitivo-comportamentale, è stato messo a punto
uno specifico trattamento dei disturbi alimentari. Il modello più utilizzato nel
trattamento della bulimia nervosa è quello di Fairburn, strutturato in tre fasi:
nella prima, si utilizzano tecniche comportamentali per sostituire le abbuffate
con un pattern regolare di alimentazione e il ricorso ad attività alternative; nella seconda, si mira a rendere stabile il comportamento alimentare attraverso la
normalizzazione delle porzioni e la scelta della qualità degli alimenti, eliminando quindi la restrizione alimentare; insieme, viene implementato un intervento
cognitivo per modificare le distorsioni del pensiero al riguardo; nella terza,
l’enfasi è posta sul mantenimento del cambiamento.
Secondo Fairburn, il disturbo alimentare è mantenuto dall’interazione
autoperpetuante di bassa autostima, estrema preoccupazione per il peso e le
forme corporei, dieta ferrea, abbuffate, vomito autoindotto. Nella sua visione,
la scarsa valutazione di sé può portare a usare la magrezza quale parametro
principale per valutare se stessi, sia per motivi sociali, dato che spesso la perdita di peso è una condotta socialmente rinforzata, sia individuali, poiché il peso
e le forme corporee sono più facilmente passibili di controllo rispetto ad altri
aspetti della vita. Così, con gli anni, la persona tenderà a giudicare il proprio
valore prevalentemente in funzione del peso e delle forme corporee e manifesterà una continua preoccupazione a tenerli sotto controllo attraverso diversi
comportamenti (dieta ferrea, vomito autoindotto, controllo del peso). A ciò
si aggiunge il perfezionismo e il pensiero dicotomico. Il perfezionismo porta
le pazienti bulimiche a imporsi obiettivi ambiziosi, che generano frustrazione
ogni volta che non vengono raggiunti. L’alimentazione è ovviamente solo uno
degli ambiti in cui esso può estrinsecarsi ma, essendo più facilmente soggetto
al controllo, è probabilmente quello su cui sono riposte le aspettative maggiori. La tendenza al pensiero dicotomico si esprime sia attraverso l’estrema
rigidità di giudizio su se stesse, sia riguardo alla capacità di seguire un regime
alimentare con caratteristiche estremamente definite. Anche minime trasgres24
sioni rispetto al regime dietetico prefissato conducono a considerare fallimentare tutta l’impalcatura alimentare costruita e quindi a svalutare e considerare
inutile ogni tentativo di rimedio all’errore di percorso. Il risultato finale di ogni
perdita di controllo sul cibo è il rinforzo della bassa stima di sé e delle angosce
riguardo al peso e al corpo.
Obiezioni al modello di Fairburn vengono da nuove proposte di terapia
cognitivo-comportamentale che pongono l’accento sui fattori emotivi. Molte
pazienti con bulimia nervosa non seguono regolarmente rigide restrizioni alimentari e le abbuffate avvengono anche senza diete o pratiche compensatorie;
il che chiama in causa l’intervento di fattori diversi da quelli specificamente
connessi agli effetti del controllo calorico. Inoltre, molte pazienti descrivono
come antecedenti delle abbuffate stress emotivi piuttosto che appetitivi. A
supporto delle osservazioni cliniche circa l’importanza dei fattori emotivi nella
genesi e nel mantenimento dei comportamenti di abbuffata, sono state condotte verifiche sperimentali. Meyer, Waller e Waters (1998) hanno mostrato
che nelle pazienti bulimiche la fame associata a una deflessione dell’umore ha
più probabilità di tradursi in un’abbuffata, mentre il livello di fame precedente
all’abbuffata è in genere inferiore a quello che precede episodi di alimentazione normale. Inoltre, le ricerche hanno evidenziato come le pazienti bulimiche riportino più frequentemente stati emotivi negativi prima delle abbuffate
piuttosto che prima dei pasti normali. Infine, studi di correlazione hanno evidenziato come comportamenti di tipo compensatorio e perdite di controllo
con conseguenti abbuffate sono in stretto rapporto con una polarizzazione
dell’attenzione incentrata su stimoli riguardanti l’autostima ed emozioni negative. Pertanto, le ricerche più recenti evidenziano l’esistenza di uno stretto
rapporto tra stati emotivi negativi, inclusi i fattori legati all’autostima, e perdita
di controllo sul cibo.
Problemi etici nella terapia dell’anoressia nervosa
Secondo Fassino, Professore Straordinario di Psichiatria
Dott.ssa Nadia Delsedime - Tratto da SocialNews
L’Anoressia Nervosa (AN) è un disturbo complesso, dove componenti
psicologiche, psicopatologiche e organiche si intrecciano strettamente; è una
malattia “esistenziale” (Bruch, 1988), poiché costituisce, in fin dei conti, una
notevole ragione di vita per chi ne è affetto e il desiderio di perseguire la magrezza scalza spesso ogni altro valore o obiettivo. Questi pazienti hanno “ne25
cessità” della propria malattia ed essa diventa il loro unico modo di affrontare
la vita. I sintomi – digiuno, ristrettezza, abbuffate e successive condotte di
eliminazione, perfezionismo e ossessività – rappresentano in effetti tentativi,
pseudorassicuranti e controproducenti per la paziente, di curare angoscia, rabbia e insicurezze inconsce che, a loro volta, aumentano il bisogno di controllo
della ragazza. Il controllo riguarda gli affetti, le paure, la fame cogente e imperiosa di “amore” che coincide con quella di cibo. In ultima analisi si tratta
di una malattia in cui si ha una pervicace e maligna aggressività contro di sé e
contro gli altri: l’autodistruzione inconscia, che Alfred Adler nel 1914 definì
“suicidio cronico”, è la più disperata e perversa, forma di richiesta di amore
tramite la distruzione dei genitori. Inoltre questo disturbo non si auto-limita,
ma si ingigantisce sempre più a causa sia delle distorsioni cognitive che percettive, anche dovute all’emaciazione corporea.
Pertanto uno dei maggiori problemi in cui ci si imbatte quando si cerca di
curare l’AN è la resistenza al trattamento, sia conscia che inconscia. La malattia si auto-mantiene perché in certa qual misura così vuole la paziente. Essa,
infatti, concede sempre dei vantaggi, primari e secondari: il non dover affrontare la vita adulta, il controllo sulla famiglia, l’affetto e le cure che si ricevono,
la sensazione di essere forti e onnipotenti attraverso il controllo su di sé.
Vi è quindi un dilemma: la resistenza alle terapie è sostenuta da una volontà
lucida o viziata dalla malattia? In altre parole, la paziente è in grado di autodeterminarsi, nonostante la denutrizione e le conseguenze cognitive di questa?
Questo porta a considerare l’aspetto immediatamente successivo…il continuo dialogo con la morte che queste pazienti intrattengono. Ma sono esse in
grado di comprendere che la loro malattia può condurre alla morte? Cos’è per
loro la morte? Sono esse in grado di scegliere consapevolmente un rischio di
vita continuo che deriva dall’ostinato rifiuto delle cure o dalla non collaborazione ad esse?
E quando l’insistenza dei terapeuti, che possono ricorrere anche al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) e alla nutrizione forzata, diventa terapeutico o è ininfluente?
Queste e altre domande nella sfera dell’etica medica attanagliano il terapeuta che si occupa specificamente di disturbi alimentari.
Si è iniziato a parlare, soprattutto nei paesi anglosassoni, anche per l’AN
di accanimento terapeutico, terapie palliative, valutazione della competence,
cioè della capacità decisionale del paziente, e i dubbi etici a questo riguardo si
moltiplicano.
Non si deve dimenticare, infatti, che i disturbi alimentari hanno una percentuale di mortalità fra le più alte tra i disturbi psichiatrici (5-20%) e che
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la denutrizione prevede una serie di complicanze organiche e cognitive che
tolgono lucidità al paziente.
Il non avere una risposta precisa a tali domande, porta il terapeuta ad uno
stato di scoraggiamento, impotenza, dubbio, rabbia che modula le sue capacità
terapeutiche e il rapporto con i pazienti.
Un caso clinico esemplare riguarda Carol, una diciottenne affetta da AN
grave che rifiuta le terapie; non vuole morire, ma preferirebbe essere morta
piuttosto che aumentare di peso. L’importanza dell’essere magra supera tutti
gli altri aspetti della sua vita, come le relazioni, la scuola e la vita stessa. Carol
si è creata un nuovo sistema di valori che l’ha portata a decidere che la morte è
preferibile al recupero ponderale (Tan, 2003).
Queste patologie conducono talvolta all’esasperazione. E non solo i terapeuti che cercano di curare, ma anche e soprattutto le famiglie di questi pazienti, che si trovano “fra incudine e martello”, nel doppio ruolo di sostegno
alle figlie malate e di alleati dei terapeuti.
Alcune ricerche (Treasure et al, 2001; Fassino, 2002), hanno messo in luce
che i familiari delle pazienti con AN mostrano elevato stress e affaticamento,
al pari di quelli di pazienti schizofrenici. Molti genitori provano sensi di colpa
e vedono le figlie come “inguaribili” e percepiscono le conseguenze negative
della malattia sul benessere fisico, mentale e sociale delle figlie. Molti genitori
sottolineano la propria frustrazione, la mancanza di aiuto, la sensazione di essere manipolati dalla malattia (la figlia diventa colei che gestisce il tempo dei
genitori), sentimenti di tristezza, paura, rabbia, ostilità, deprivazione di sonno,
depressione. I familiari provano sensi di colpa per aver scoperto tardi la malattia, frustrazione, difficoltà al momento dei pasti, difficoltà a comunicare con i
pazienti, rabbia a causa dell’impatto economico della malattia, inadeguatezza
a controllare l’impulsività dei pazienti; desidererebbero più informazioni sulla
malattia, supporto e aiuto pratico, confronto con altri riguardo la propria esperienza; fondamentali quindi risultano i gruppi di supporto e di auto-aiuto per
familiari, al fine di migliorare la qualità di vita nella famiglia.
Le ultime linee guida dell’APA (2006) per il trattamento dei disturbi alimentari dedicano poche righe alle questioni etiche implicate; ma consigliano
di “rispettare la volontà dei pazienti competenti e di intervenire rispettosamente su quei pazienti la cui capacità di giudizio è scemata a causa della malattia
mentale, qualora gli interventi siano di comprovata efficacia”.
L’articolo 51 del Codice di Deontologia Medica (1998), definisce il dovere
da parte del medico di rispettare la volontà del paziente “sano di mente” che
rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, dopo averlo debitamente informato delle possibili conseguenze.
27
Nel nuovo Codice Deontologico appena approvato, nell’art. 52 scompare
la dicitura “persona sana di mente”, aprendo così nuovi scenari anche per
quanto riguarda i disturbi alimentari, soprattutto in fase iniziale, quando la
persona è lucida e consapevole delle proprie scelte.
Contemporaneamente, in altri articoli si sottolinea l’importanza di rispettare la volontà del paziente, fino ad aprire uno spiraglio alle direttive anticipate
di trattamento (art. 36).
Ne consegue pertanto che i dilemmi etici per il clinico che si occupa di
tali patologie si amplificano e che è necessario aprire al più presto una tavola
rotonda unitamente a giuristi ed esperti di bioetica al fine di creare delle linee
guida per la cura di queste patologie, che tengano conto anche di queste complesse problematiche etiche e medico-legali.
L’anoressia nervosa: aspetti medici
Dott. Marco Pezzani Direttore USC di Neuropsichiatria Infantile – Tratto da SocialNews
I disturbi della condotta alimentare (DCA) costituiscono uno dei più importanti problemi psichiatrici dell’età adolescenziale per la loro gravità, per la
particolare complessità clinico –gestionale, anche a livello familiare, per l’alto
impatto sociale e per la loro crescente prevalenza nel mondo occidentale ed
individualizzato. Si è assistito ad un incremento dei DCA nel dopoguerra;
nella fascia d’età 12-25 anni la prevalenza dell’anoressia nervosa è oggi calcolata 3 su 1000, con rapporto maschi/femmine 1:10. Sembra che solo 1 su 3
pazienti anoressici acceda a centri specialistici.
La complessità di queste malattie è soprattutto legata alla compromissione multisistemica ed all’associazione di problemi psichiatrici ed organici; ne
consegue quindi anche una particolare complessità della presa in carico, che
deve essere integrata e duratura. La gravità deve essere considerata sia dal
punto di vista prettamente sanitario, per il rischio di vita o di cronicizzazione,
sia dal punto di vista del carico assistenziale molto elevato e del relativo costo
sociale ed economico.
I due principali disturbi dell’alimentazione, l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa, sono entrambi caratterizzati da stereotipia clinica, prevalenza
nel sesso femminile ed epoca di insorgenza caratteristica.
L’anoressia nervosa, il disturbo più grave ed invalidante, è noto da maggior
tempo: in una adolescente o giovane donna l’alterazione del comportamento alimentare è sempre associata a dimagramento ed amenorrea. Il nucleo
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centrale del disturbo psicopatologico consiste nell’intensa paura di diventare
obesi, unitamente a significativa ed eccessiva perdita di peso non associata ad
alcun disturbo fisico primario. L’individuazione precoce dell’anoressia nervosa è fondamentale e si deve avvalere soprattutto della collaborazione dei
medici di base e dei pediatri di libera scelta; è basata sui criteri diagnostici
di classificazione psichiatrica secondo l’approccio categoriale descrittivo sia
dell’O.M.S. che dell’Associazione Psichiatrica Americana. L’aspetto principale è il rifiuto a mantenere il peso corporeo al livello minimo normale per età e
statura, con perdita di peso autoindotta o mancato aumento per i bambini, e
scarto di almeno il 15% dalla normalità.
L’intensa paura di ingrassare, pur essendo sottopeso, si associa da una
parte alla percezione di sé come troppo grassi e dall’altra al diniego della
gravità della perdita di peso. L’amenorrea, per le ragazze che hanno già avuto
il menarca, deve essere di almeno tre cicli mestruali consecutivi; è dovuta al
disturbo endocrino che coinvolge l’asse ipotalamo – ipofisi – gonadi.
La classificazione americana considera due sottotipi: quello restrittivo e
quello bulimico. Nel primo la perdita di peso è primariamente ottenuta con
restrizione dietetica, digiuno e attività fisica eccessiva; nel secondo sottotipo,
ora più frequente, vi possono essere frequenti episodi di abbuffate compulsive o di comportamenti di svuotamento, come vomito autoindotto ed uso
improprio di lassativi e diuretici.
Il profilo comportamentale e personologico delle ragazze anoressiche è
ben noto: l’incredibile capacità di negare la fame e tollerare la denutrizione,
l’interesse ossessivo per gli aspetti calorici e nutritivi della dieta, la distorsione della percezione della propria immagine corporea, l’esagerata importanza
data all’attività motoria ed una tendenza all’iperattività non solo fisica ma
anche intellettiva, più spesso in assenza di alterazione dell’umore. Spesso il
profitto scolastico è buono, con tendenza al perfezionismo ed all’intellettualismo; vi è rifiuto della sessualità e del corpo adulto e frequentemente si riscontrano tratti ossessivi della personalità. Altrettanto ben noto è l’aspetto fisico
delle ragazze anoressiche: importante riduzione di muscoli ed adipe; aspetto
molto emaciato con guance scavate, perdita delle forme femminili, cute secca
e cosparsa di lanugo, capelli opachi e unghie fragili.
Le complicanze somatiche interessano molteplici organi ed apparati: renale, cardiocircolatorio, endocrino-metabolico, gastrointestinale, la crasi ematica e le difese immunitarie. I disturbi endocrini possono riguardare, oltre agli
ormoni sessuali, gli ormoni tiroidei, ipofisari e il cortisolo; il deficit estrogenico può provocare ipodensità ossea ed osteoporosi. L’evoluzione, e quindi la
prognosi, dell’anoressia nervosa sono molto incerte; la contraddittorietà dei
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dati di cui si dispone è dovuta soprattutto alla diversa durata con cui si seguono i pazienti nei vari studi di esito della malattia.
Più è lunga la durata dello studio e più emerge l’elevata tendenza alla cronicizzazione, con le recidive anche dopo molti anni.
Comunque la normalizzazione ponderale e, dopo 1 o 2 anni, del ciclo avviene molto spesso nell’arco di anni; mentre disturbi psicopatologici importanti persistono in più di metà dei pazienti, anche dopo il miglioramento fisico
e della condotta alimentare e nonostante un funzionamento sociale e lavorativo abbastanza buono. Fortunatamente non mancano singoli episodi benigni
che,o spontaneamente o grazie ad interventi efficaci e tempestivi, si risolvono
nell’età adolescenziale.
All’opposto non sono rari i casi che vengono portati all’attenzione dei clinici in uno stadio di estrema gravità, che può anche comportare il pericolo
di vita: il tasso di mortalità all’anno della malattia è di 0,5%, con rischio più
elevato tardivamente rispetto all’esordio.
L’assoluta necessità di ricovero ospedaliero si impone in caso di abbassamento critico dei parametri della frequenza cardiaca, pressione arteriosa,
glicemia, potassiemia e temperatura corporea, unitamente a rapida perdita
del peso corporeo che scende al di sotto del 75% del peso normale.
Anche il rifiuto totale ad alimentarsi, con necessità di alimentazione nasogastrica o parenterale, l’assenza totale di collaborazione, l’inadeguatezza del
supporto familiare e la presenza di altri disturbi psichiatrici concorrono a motivare il ricovero. Ovviamente i parametri critici variano in rapporto all’età e
la precocità del ricovero è necessariamente sempre maggiore con l’abbassarsi
dell’età stessa. Anche il rischio di suicidio deve essere sempre considerato con
grande attenzione.
La sede del ricovero nell’acuzie per le minori deve essere un reparto ospedaliero di pediatria o di neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza. È indispensabile l’intervento coordinato di un’équipe multiprofessionale costituita
da neuropsichiatri dell’età evolutiva o psichiatri, psicoterapeuti, pediatri o
internisti o endocrinologi, dietisti e personale infermieristico preparato. Idealmente dovrebbero essere istituiti nuclei specifici per la diagnosi e cura dei
disturbi alimentari; ciò vale anche per le cure ambulatoriali per i casi meno
gravi e per il ricovero in strutture intermedie, possibilmente specializzate, in
regime di lunga degenza o residenziale o semiresidenziale. L’anoressia nervosa
è un disturbo mentale che richiede un approccio multidisciplinare, una forte
alleanza terapeutica con la paziente ed una stretta collaborazione con la famiglia.Spesso è necessaria la separazione dall’ambiente famigliare attraverso
ospedalizzazione o degenza post –acuta in centro terapeutico specializzato.
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Di fondamentale importanza è la presa in carico psicoterapeutica, che di solito deve essere a lungo termine.
Diversi però sono gli indirizzi teorici e tecnici, ispirati alla scuola psicoanalitica, familiare-sistemica e cognitivo –comportamentale. Come spesso accade
in questo campo i criteri empirici prevalgono su quelli strettamente scientifici;
sembra tuttavia che le terapie relazionali-sistemiche siano più efficaci nelle
pazienti anoressiche più giovani, mentre la terapia cognitiva comportamentale appare più indicata nei disturbi bulimici. Anche quando la psicoterapia
è individuale il counselling psicologico alla famiglia è indispensabile. Molto
più limitato invece è l’utilizzo di psicofarmaci,di solito indicati per i sintomi
depressivi ed ossessivi ma dopo la fase più acuta e complicata della malattia;
in generale gli psicofarmaci vengono considerati in rapporto alla comorbilità
psichiatrica.
Vari fattori sono predisponenti per l’anoressia nervosa: di tipo biologico-genetico, ambientale –famigliare e psicologico, come la dipendenza, le difficoltà nel processo di separazione – individuazione, e la tendenza a fissarsi
all’infanzia e la scarsa definizione dei ruoli familiari. Tra gli aspetti socioculturali di particolare attualità sono il mito del successo, la competitività e l’adesione a modelli di bellezza ispirati alla magrezza.
Sono invece da considerarsi come fattori precipitanti eventi traumatici di
vario tipo, la crisi puberale vissuta come minacciosa o la pratica esagerata di
una dieta prescritta per sovrappeso. Talora il rifiuto del cibo si insinua subdolamente mascherato da disturbi gastroenterici: in realtà una scusa per non
alimentarsi mentre si controlla rigidamente il peso.
Molto deve essere ancora fatto per adeguare, dal punto di vista delle risorse e dell’organizzazione, la rete assistenziale per la prevenzione, diagnosi
tempestiva, cura e riabilitazione dei disturbi del comportamento alimentare.
I reparti ospedalieri di degenza di neuropsichiatria dell’infanzia ed adolescenza, per l’assistenza delle fasi acute, sono numericamente insufficienti; lo
stesso vale sia per le strutture riabilitative dedicate all’intervento intensivo dei
DCA, di tipo residenziale o day hospital, sia per i servizi territoriali che devono garantire la più ampia disponibilità di intervento diagnostico, terapeutico
e di supporto psicologico alle famiglie.
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Anoressia e adolescenza
Laura Bellodi, Professore Straordinario di Psichiatria – tratto da SocialNews
L’anoressia nervosa, tale è l’etichetta diagnostica di questo disturbo nella
nosografia psichiatrica, è un problema per il quale come ricercatori siamo impegnati verso la comprensione dei fattori causali biologici e non, e come clinici
sul fronte della ottimizzazione delle cure, non solo quelle della fase acuta, ma
soprattutto quelle di mantenimento, dal momento che si tratta di una malattia
che almeno in una percentuale rilevante dei casi, circa il 70%, ha un forte
rischio di ricomparsa dei sintomi dopo l’esordio e il primo episodio, con la
possibilità negli anni successivi di cambiamenti del profilo clinico che possono
in modo significativo aggravare il decorso e le complicanze fisiche.
La prima adolescenza è l’età in cui il rischio di ammalare per le giovani è
maggiore. La maggior incidenza di esordi del disturbo si concentra nella fascia
di età compresa tra i 13-18 anni, anche se va ricordato che non sono più una
rarità alcuni casi di esordi ancora più precoci, prima quindi del menarca. Neppure sono una rarità i casi di anoressici al maschile, nonostante il disturbo si
qualifichi ancora nell’immaginario di tutti come una “prerogativa”, pur triste,
al femminile.
È evidente che, proprio perché colpisce gli adolescenti, la malattia investe
l’intera famiglia, soprattutto i genitori nel loro ruolo di responsabili e garanti
della salute psicofisica dei figli. Spetta ai genitori avviare la ricerca di un percorso diagnostico-terapeutico, spesso estremamente faticoso, che deve essere
tempestivamente intrapreso: dal riconoscimento possibilmente precoce dei
sintomi, fino all’attuazione di una cura la cui necessità viene molto spesso negata, osteggiata e procrastinata dalla giovane paziente.
La famiglia d’altra parte non è soltanto il “luogo” all’interno del quale si
giocano intrecciandosi elementi di conflittualità generazionale, oltre che criticità educative che hanno una loro estensione nella scuola, luogo privilegiato
di crescita dell’adolescente nella dimensione della socialità e della comunicazione.
La famiglia è anche espressione di un elemento della eziologia della malattia e l’avanzamento delle conoscenze scientifiche attuali ci consente oggi di affermare che i fattori genetici di stampo biologico hanno un ruolo significativo
nella predisposizione individuale ad ammalare. Su questa vulnerabilità di tipo
genetico si iscrive successivamente poi il ruolo di fattori ambientali la cui presenza e molteplicità contribuisce a “precipitare” il quadro clinico. Non è un
caso forse che, a livello mediatico, si tenda a parlare di questi ultimi molto più
diffusamente ed estesamente di quanto non vengano diffusi i risultati di studi
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di biologia molecolare e di imaging cerebrale funzionale che propongono modelli di ereditabilità e identificano aree e circuiti cerebrali malfunzionanti che
non sono riconducibili al solo stato di inanizione e deperimento generalizzato
dovuto al rifiuto del cibo a al dimagramento conseguente.
Questi stessi studi sulla familiarità del disturbo del comportamento alimentare ci indicano che si tratta di una predisposizione non limitata a questo
disturbo ma si allarga al Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) che spesso
nella paziente coesiste all’anoressia ed è presente tra i membri della sua famiglia in modo significativamente maggiore che nella popolazione generale. Ciò
rende ragione delle osservazioni risalenti ai primi anni ‘60 di una lunga serie
di elementi di comunanza nei profili personologici e nella qualità delle relazioni interpersonali che caratterizzano le famiglie di queste pazienti. Quello che
decenni or sono veniva già descritto e costituiva il substrato per un approccio
terapeutico psicologico che coinvolgeva l’intera famiglia, ha oggi riscontri in
batterie testali complesse che misurano profili neuropsicologici individuali e
rappresentano la base per la qualità delle interazioni, dei comportamenti e
delle strategie decisionali vigenti all’interno delle famiglie.
In particolare, parlando di profili neuropsicologici che caratterizzano le
pazienti e i loro familiari di primo grado (genitori e fratelli), l’attenzione si
focalizza sulle cosiddette funzioni esecutive, ovvero quelle facoltà mentali alle
quali è deputata la pianificazione strategica dei comportamenti e delle scelte,
la valutazione sotto il profilo emozionale delle motivazioni che costituiscono
la base di comportamenti di approccio e ricerca piuttosto che di evitamento.
Si comprende bene che la malattia implica una serie di comportamenti intenzionali e volontari, pur riconosciuti dalle pazienti stesse come irrazionali,
sostenuti dalla forte valenza emotiva negativa attribuita al cibo, inteso come
minaccia al mantenimento di un certo ideale patologico di immagine corporea.
Rispetto a tali comportamenti a volte anche aggressivi, dettati dalla patologia,
la famiglia fatica ad assumere un atteggiamento appropriato, specie quando
la giovanissima età della paziente suggerisce preferibilmente toni autoritari e
giudicanti piuttosto che non un rapporto empatico nei confronti della figlia
malata. A maggior ragione quando uno dei genitori presenta tratti di personalità tipo rigidità, freddezza e distacco emotivo e perfezionismo.
Questo è il quadro attuale delle conoscenze all’interno del quale leggere il
valore di iniziative anche lodevoli sul piano sociale (tipo la regolamentazione
delle caratteristiche di BMI minimo per accedere alle passerelle delle sfilate di
moda) volte a ridimensionare la tendenza ad attribuire un valore positivo alla
magrezza estrema come espressione del controllo assoluto sugli istinti “bassi” come la fame. Ma l’ipercontrollo patologico, in realtà, è semplicemente
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il frutto di un’attività di inibizione esagerata di alcuni componenti di circuiti
cerebrali deputati all’attivazione di comportamenti ”appetitivi” appropriati,
per la regolazione e il mantenimento dell’omeostasi energetica dell’individuo.
Il futuro dei programmi terapeutici, soprattutto quelli ad orientamento non
farmacologico si giocherà sulla possibilità di applicare programmi di neuro-riabilitazione cognitiva sulle funzioni mentali defettuali riscontrate in queste
pazienti, in analogia con quanto già viene fatto per altre patologie neuropsichiatriche.
IL CIBO NELLA STORIA, NELL’ARTE
E NELLA RELIGIONE
(a cura dott. Rita Calderini)
Nozione di cultura e di identità
Il dibattito sul significato di cultura pone le sue origini nel XVIII secolo.
Con questo termine si voleva indicare l’azione di istruire: cioè la condizione dello spirito erudito dall’istruzione, formato dall’educazione nella conoscenza delle arti, della scienza, della letteratura e della musica. Una dicotomia concettuale
rispetto al termine “natura”: possedere uno spirito naturalistico non nobilitava
l’essere umano, non lo sottraeva all’ignoranza e all’irrazionalità. La cultura, invece, rappresentava la somma totale delle conoscenze accumulate e tramandate
dall’umanità nel corso della sua evoluzione, e veniva considerata propria della
specie umana: affinava i costumi, valorizzava la ragione e la conoscenza. Natura,
dunque, contro cultura. Il movimento dell’Illuminismo favorì la diffusione del
concetto di cultura considerandolo sinonimo del termine “civilizzazione”.
La cultura evidenzia un legame con il progresso individuale, mentre la civilizzazione fa riferimento al progresso economico, tecnico collettivo di un’intera comunità. Per i filosofi riformisti la civilizzazione viene a rappresentare
il processo che viene a sottrarre l’umanità dall’ignoranza e dall’irrazionalità,
ed è considerato un processo di riforma delle istituzioni, della legislazione e
dell’educazione. È proprio in questo secolo che avviene una nuova concezione
desacralizzata della storia: la filosofia si stacca dalla teologia, una nuova forma
di speranza può essere considerata la “cultura” e la “civilizzazione. Questa
concezione universalista di cultura trova delle opposizioni in Johann Gottfried
Herder per il quale ogni popolo per mezzo della sua cultura, ha un destino
specifico da compiere, ogni cultura esprime un aspetto dell’umanità. Secondo
questo studioso tedesco, ogni popolo possiede il suo orgoglio e a questo appartengono le conquiste artistiche, intellettuali e morali che formano il patrimonio
di una nazione e ne fondano l’unità. Nel corso del XIX secolo gli autori romantici tedeschi contrappongono la cultura, espressione dell’animo profondo di
un popolo, alla civilizzazione, definita ormai dal progresso materiale connesso
allo sviluppo economico e tecnico. Questa concezione particolarista di cultura
servirà da fondamento alla costituzione dello stato-nazione tedesco che nello
specifico distinse anche l’etnia e la razza proprie degli appartenenti a un tipico
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ceppo originario. Questo particolarismo diede modo di radicare negli anni a
venire, purtroppo, in certi uomini, ideologie razziste che portarono drammatiche persecuzioni. In Francia non si evidenzia: “cultura” resta contraddistinto
all’idea universale di unità del genere umano. Nel corso del XIX secolo l’etnologia e la sociologia vengono a definire il loro ruolo di discipline scientifiche:
la prima tenterà di dare una risposta oggettiva alla questione della diversità
umana poiché concepisce come postulato quello dell’unità dell’uomo e la sua
difficoltà sarà concepire la diversità nell’unità. La sociologia, invece, cercherà
una descrizione scientifica di come funzionano le società, di quali sono i legami
tra l’aspetto espressivo e quello relazionale e quali le leggi che li regolano.
Il termine cultura sarà, dunque, lo strumento di esplorazione per descrivere
ciò che essa è, non come lo utilizzavano i filosofi, per dire ciò che doveva essere. Gli etnologi indagheranno gli aspetti unitari e particolaristici dando importanza alla diversità, e ciò che non è in contraddizione con l’unità fondamentale
di umanità. Nel 1871 l’antropologo britannico Eduard Burnett Tylor dà una
definizione etnologica di cultura: “La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso
etnografico più vasto, è quell’insieme complesso che include le conoscenze,
le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una società”. Con questa
definizione oggettiva e descrittiva l’autore mette in evidenza come la cultura
sia l’espressione della totalità della vita sociale dell’uomo e di come essa si
acquisisca. Il suo è un approccio universalista che considera la società in tutti
i suoi aspetti: materiali, simbolici e persino corporali. Il suo metodo di analisi
richiede l’adozione del confronto: le singole culture necessitano di un’analisi
comparata per cogliere il movimento di progresso culturale. Mediante la formulazione di una scala rudimentale di comparazione poteva individuare lo stadio di sviluppo di una determinata società studiata. Una semplice somiglianza
tra i tratti culturali, di due culture diverse, non era sufficiente a dimostrare che
fossero situate sulla stessa posizione della scala di sviluppo, ipotizzava solo la
diffusione o lo slittamento di una verso l’altra. Tylor è l’ideatore del concetto scientifico del termine cultura. Il primo antropologo a seguire la ricerca
sul campo attraverso l’osservazione diretta dei particolarismi culturali è stato
Franz Boas. Si deve a lui l’invenzione del metodo etnografico. Grazie ai suoi
studi ha cercato di definire la diversità dei gruppi umani sulla base delle differenze culturali e non razziali. Per Boas non ci sono differenze di natura biologica tra primitivi e civilizzati, ma solo differenze di cultura, dunque, differenze
acquisite e non innate. Con questo studioso il concetto di cultura si modifica
verso lo studio delle “culture”. Ogni cultura costituisce un complesso coerente
e funzionale, solo l’analisi metodica di un sistema culturale preso per se stesso
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poteva far venire a capo di tale complessità. Un’usanza particolare non può essere spiegata se non in rapporto al contesto culturale di appartenenza. Ognuna
ha uno “stile” particolare che si esprime attraverso la lingua, le credenze, i costumi, l’arte e molte altre pratiche. Tutto ciò influenza gli individui e ne influisce sui comportamenti. Il sociologo francese Emile Durkheim, contemporaneo
di Boas, analizza i fenomeni sociali attribuendone una dimensione culturale
in quanto fenomeni simbolici. Egli non parla di cultura, ma sviluppa la teoria
della coscienza collettiva: la presenza di rappresentazioni collettive, di ideali,
di valori e di sentimenti comuni a tutti gli individui appartenenti a una stessa comunità. Questa coscienza collettiva precede l’individuo, lo domina, gli è
estranea e trascendente: c’è discontinuità tra coscienza collettiva e coscienza
individuale, la prima è superiore alla seconda in quanto è più complessa e
indeterminata, realizza l’unità e la coesione di una società.
Se ci addentrassimo nello studio di autorevoli sociologi troveremmo ancora
diverse definizioni di cultura, in questo contesto risulta interessante mettere
in evidenza come lo stretto legame fra civiltà, comunità e processi simbolici
disarticola e definisce i costituenti della cultura. Uno di questi fondamentali
elementi è anche il linguaggio. Lo stretto legame tra lingua e cultura determina
sia la trasmissione della cultura stessa che l’influenza che essa ha sulla lingua
medesima. Il linguaggio risulta come classificatore e organizzatore dell’esperienza sensibile (ipotesi di Sapir-Whorf) seppur sia esso stesso un prodotto
della cultura. L’illustre linguista Claude Lévi-Strauss considerò i rapporti fra
linguaggio e cultura fra i più complessi dando la seguente definizione di cultura: “Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici
in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione. Tutti questi sistemi tendono ad
esprimere taluni aspetti della realtà fisica e della realtà sociale, ancor di più, le
relazioni che intercorrono tra questi due tipi di realtà e quelle che intercorrono
fra gli stessi sistemi simbolici.”
Nelle definizioni prese in esame i fattori universali sono: l’interazione uomo
con uomo che può aver luogo grazie all’uso del linguaggio, contatto e scambi
economici e sociali, le relazioni istituzionalizzate, l’arte, la scienza, la confessione religiosa. Per poterli acquisire un individuo deve riuscire a starne in contatto e farli suoi, secondo Durkheim, l’educazione è il metodo di appropriazione
delle norme sociali e culturali. Il concetto di cultura, però, non va inteso rigidamente poiché gli elementi che la compongono sono distanti nel tempo
e nello spazio, non sono mai totalmente integrati, si realizzano nell’incontro
delle libertà degli individui e dei gruppi che la compongono.
La cultura non è omogenea, presenta una struttura gerarchizzata, una com37
presenza di culture (anche sub-culture) dove i gruppi sociali sono in rapporto di dominazione o subordinazione fra loro. Ciò non annulla l’una a favore
dell’altra, permane un’autonomia culturale perché si tratta di rapporti fra simboli non fra gruppi. Una cultura non può imporsi in modo assoluto come,
invece, può farlo un gruppo nei confronti di uno più debole. La cultura dominata, nel proprio ambiente, nell’oblio del dominio, produce simbolizzazioni
originali e in gran parte sono frutti di processi inconsci. La presa di coscienza dell’appartenenza a una cultura pone in essere il concetto di “Identità”. Il
senso di identificazione definisce una relazione simbolica di inclusione-esclusione: permette all’individuo di situarsi nel sistema sociale e di essere a sua
volta individuato socialmente. L’identità culturale appare come una modalità
di categorizzazione della distinzione noi/loro, fondata sulla differenza culturale. Essa si costruisce attraverso delle strategie, si decostruisce, è la risultante
dell’identificazione che ci si vede imporre dagli altri e che si afferma di sé. Considerando tutte le implicazioni del significato di cultura e d’identità possiamo
ritenere il cibo parte integrante del sistema di pratiche proprio della cultura di
riferimento. Sulle scelte alimentari, infatti, intervengono diversi fattori capaci
di influire a livello inconscio anche sul gusto. Ognuno di noi è nato e cresciuto
in un determinato ambiente dove sono diffuse specifiche procedure sociali che
condizionano le nostre scelte. Esistono regole diverse che definiscono i confini
tra gli alimenti proibiti e quelli concessi, a seconda dello stadio di sviluppo
della vita, del genere sessuale, della posizione e classe sociale dell’individuo.
L’atto alimentare possiede pertanto un significato che va al di là della semplice funzione nutritiva, il particolare modo in cui si apprendono le abitudini
alimentari sin dall’infanzia, tramite l’educazione, nell’ambiente familiare e si
trasmettono di generazione in generazione con le tradizioni culinarie, risultano
essere strettamente correlata alla cultura e possono essere considerate la sua
espressione, come il linguaggio. L’atto di nutrirsi diventa un mezzo di comunicazione e di identificazione sociale assumendo di volta in volta valori simbolici
differenti in relazione alle ispirazioni nazionali, ideologiche, culturali, religiose
degli individui.
Il percorso storico degli alimenti
Nelle diverse epoche storiche cambia il valore e il significato che viene dato
al cibo. Partendo dall’epoca Paleolitica cioè ben oltre 10.000 anni a.C. il cibo
era pura sopravvivenza, gli ominidi andavano a caccia con strumenti di pietra,
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raccoglievano radici e si nutrivano di carcasse. Nel Mesolitico iniziò l’uso del
fuoco per affumicare e arrostire i cibi: la cottura avveniva dentro fosse scavate nel terreno, riempite di bore ardenti, depositate dentro le carni e, quindi,
arrostite. I cacciatori cominciarono a praticare anche la bollitura utilizzando
sacche ricavate da pelli di animali. La raccolta di bacche, frutti, vegetali proseguiva, si aggiunse alla raccolta sistematica di animali di piccola taglia e di qualsiasi specie, dai roditori ai volatili, e poi si pratica la pesca e si utilizza l’acqua
anche per rendere commestibili cibi prima non edibili. Nell’epoca Neolitica
l’alimentazione viene integrata dai cereali grazie alla scoperta dell’agricoltura
e con quella dell’allevamento l’uomo può nutrirsi anche di prodotti derivanti
dalla fermentazione del latte degli animali. Il sale viene utilizzato per la conservazione della carne e le tecniche di immagazzinamento permisero la conservazione di cereali e legumi.
Gli antichi Egizi, nel lontano 1000 a.C. utilizzavano le farine per produrre
il pane, usavano l’olio ricavato da semi e olive sia come alimento sia come unguento, mentre dalla fermentazione dell’orzo ricavavano la birra che assieme
ai succhi di frutta e all’acqua erano le bevande in uso presso la civiltà. La birra,
assieme al pane e alle carni, aveva un valore rituale per l’offerta ai defunti e
alle divinità. Rilevante fu il ritrovamento di giare di vino nella tomba di Tutankhamon come testimonianza d’uso e importanza della bevanda già a quel
tempo. Interessante è l’uso della bollitura che il popolo babilonese faceva per
tutti gli alimenti: questa veniva praticata aromatizzando l’acqua con vegetali
(porro, cipolla, sesamo) e arricchita persino col sangue. Anche i popoli della
Mesopotamia bevevano la birra e la aromatizzavano con i datteri. Il suo consumo era quotidiano e serviva anche da ricostituente. Dal 1000 a.C. il popolo
ebreo assume notevole rilevanza rispetto al consumo di certi alimenti, e vista
la particolarità e l’importanza della religione ebraica mi riserbo un paragrafo a
parte per esplicitarla. Nell’antica Grecia dell’età classica, i cibi assumono una
valenza medica importante. Da Ippocrate si credeva nelle virtù medicinali dei
cibi e una convinzione era quella che bisognava combattere la malattia attraverso le qualità intrinseche degli alimenti opponendogli punto per punto agli
squilibri da essa provocati. Si consumavano, comunque, molti cereali e pane
preparato con diverse farine e persino farcito con olive e condito con salse di
pesce. Ricordo i Fenici per le zuppe di legumi e gli Etruschi per una bevanda
rinfrescante fatta di latte fermentato. Nella Roma dell’età imperiale il cibo seppur vario, lo ricordo per una forte connotazione di ordine sociale: l’alimentazione serviva come “linguaggio” per distinguere e collocare nel tempo e nello
spazio le persone nobili, dal popolo; gli eventi socializzanti da quelli culturali.
I risvolti sociologici sono prevalenti rispetto a quelli di ordine strettamente
39
alimentare. Le leggi disciplinavano i banchetti, l’onore di un nobile dipendeva
dalla sua magnificenza o dalla sua frugalità, a seconda di quale norma doveva
attenersi. Nel Medioevo l’importanza era direttamente collegata all’aspetto del
cibo e alla sua cromaticità: sui ricettari medioevali essa rifletteva lo statuto culturale attribuito a ciascun colore. Si usavano molto le spezie per insaporire sia
gli alimenti che le bevande.
Con la scoperta dell’America e della conseguente importazione del mais,
del pomodoro, dei carciofi, della patata e del riso si delinea la cucina come
“arte culinaria”. Nel Rinascimento il cibo va ricordato anche per il trattato di
Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V, dedicato alla professione e al ruolo sociale del cuoco, scritto utilizzando un linguaggio tecnico e specializzato,
il cuoco doveva possedere anche doti morali atte a mantenere il segreto e la
confidenza, nonché era considerato un depositario di segrete verità gastronomiche. Nel XIX secolo l’applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche applicate anche al settore agricolo e alimentare cambiano profondamente
anche il modo di alimentarsi nei vari paesi. Per esempio le teorie della fermentazione di Pasteur migliorano la produzione del vino e vengono applicate
alla produzione casearia. A seguito dei due conflitti mondiali l’alimentazione è
cambiata significativamente, oggi viviamo nella società dei consumi, dove tutto
abbonda e viene prodotto industrialmente, è difficile persino rendere coscienti
gli individui che gli alimenti provengono da determinate specie di animali allevati appositamente per la nutrizione umana. Esistono norme sull’etichettatura
che devono espressamente segnalare l’origine del prodotto e la provenienza
ma non sono sufficiente per la presa di coscienza di molti, la carne non esce
da un’industria per essere porzionata, impacchettata e deposta sui banconi
per la vendita. A monte ci sta l’animale, i suoi bisogni e il rispetto di questo.
Purtroppo gli allevatori stanno pensando al profitto e quantificando tutto il
sistema della produzione. Oggi contano i numeri che producono altri numeri.
Molte sono le lamentele sulla povertà di nutrienti contenuti negli alimenti dovuta alla produzione intensiva, o la presenza nelle carni di sostanze chimiche
dovuti agli antibiotici somministrati agli animali rinchiusi dentro i capannoni
per l’allevamento. Le farine risultano troppo finemente macinate e raffinate,
nascono “nuovi bisogni” per “integrare” il troppo benessere bisogna produrre
altre sostanze: gli integratori alimentari. Abbiamo così le industrie del benessere che producono alimenti “dietetici”, integratori alimentari per far fronte alle
nuove difficoltà sociali legate alla sovralimentazione. Il consumismo produce
nuove malattie e molti sprechi. Si conta che con questi, se fossero equamente
distribuiti, non ci sarebbero problemi di denutrizione nel mondo.
Non è infrequente, per noi appartenenti alla società dell’abbondanza, tro40
vare persone che mangiano barrette alimentari sostitutive dei pasti principali
per dimagrire o bevono soluzioni ricche di qualche nutriente speciale per “regolarizzare” il metabolismo. Viviamo circondati da manifesti che sponsorizzano pietanze, mangiamo il più fugacemente possibile e abbiamo cambiato
i connotati del “pasto”, di quello che potrebbe ancora essere un momento
rituale della vita di ognuno di noi. Passano i tempi, si formano le mode, poi
scompaiono, ma l’identità e la cultura dovrebbero sopravvivere al tempo che
scorre inesorabile per dare senso profondo all’esistenza umana.
Il cibo nell’arte e nella letteratura
Come testimonianza del valore culturale e simbolico del cibo posso fare
una breve osservazione di come la pittura e le arti in generale lo abbiano rappresentato da sempre. Le pitture rupestri del periodo Paleolitico già fanno
intravedere la duplice funzione simbolica del cibo. Attraverso la pratica della
caccia, l’animale ucciso veniva esposto al sacrificio per favorire la benevolenza
delle divinità, e tramite la rappresentazione, un significato pedagogico, per
indicare la modalità corretta dell’uccisione dell’animale a scopo di sussistenza.
Osservando i periodi artistici in senso stretto, i più produttivi, in epoca greca
esaltavano la bellezza della natura umana e il cibo serviva da completamento
all’opera. La mela, per esempio, era un simbolo importante per la mitologia
poiché era un attributo di Venere e delle tre grazie. La natura morta viene
ben esaltata in epoca romana dove si possono veder affreschi, dipinti in terracotta e su legno. Gli alimenti fanno parte anche dei corredi funebri, usati
per rappresentare il passaggio nell’aldilà. Si ritrovano, infatti, persino oggetti
riprodotti con vari materiali a simboleggiare uova, uva, melograni e quant’altro
poteva essere ritenuto utile nella vita successiva. L’osservazione più evidente è
la simbologia del cibo nella pittura religiosa. Prendendo in considerazione la
religione Cristiana si evincono i significati che certi cibi detengono, prendiamo
ad esempio i più salienti: l’uovo, il pane, il vino, l’uva, il pesce, l’acqua e la
mela. La forma specifica dell’uovo rimanda alla ciclicità cosmica della natura
che si rinnova, cristianamente identifica Cristo che risorge. Il pane o meglio
dire l’ostia, simbolicamente è la carne di Cristo così come il vino e l’uva indicano il suo sangue. Questi alimenti sono i più raffigurati sia nell’arte sacra sia
laica. Diversi pittori hanno riprodotto “L’ultima Cena. Il cenacolo è simbolo
che unisce l’alimentazione, quindi la vita terrena, alla morale religiosa: il tradimento di Giuda che porta alla morte di Gesù e la fede cristiana della resur41
rezione dopo la morte. Numerose sono, dunque, le ispirazioni artistiche che
ritroviamo, si pensi a Leonardo da Vinci, Tintoretto, Giotto, Rubens, nell’arte
pop Andy Wahrol Altre simbologie le troviamo nelle raffigurazioni della pesca
e dell’acqua. I pesci sono un antico simbolo del Battesimo, mentre l’acqua,
oltre a ricordare la fonte battesimale, simboleggia lo Spirito Santo. Il cibo e
l’atto del mangiare detengono una funzione che va oltre la semplice e scontata
nutrizione. Considerando alcuni di questi alimenti anche nella pittura laica
osserviamo come il vino e l’uva, per esempio, sono allegorie del Dio Bacco,
rappresentazione dell’ebrezza e dell’eccesso.
Non si può, quindi, confinare la simbologia degli alimenti al ruolo rappresentativo solo religioso, filosofico e morale che investe la sfera completa
dell’uomo nella sua dimensione sociale. In ambiti letterario, inoltre, l’interesse
si estende non solo al settore culinario per la compilazione di numerosi ricettari di ogni epoca, popolo e nazione. Troviamo, infatti, ampio spazio dedicato al
cibo nella produzione letteraria ad litteram. A titolo esplicativo consideriamo
Dante Alighieri: nella sua opera letteraria “Divina Commedia” i riferimenti al
cibo sono molteplici. Il VI canto dell’Inferno è dedicato ai dannati per il vizio
della “Gola”. Questo si ha quando l’uomo, spinto dagli stimoli della soddisfazione dell’appetito, eccede la giusta misura nell’assumere alimenti e bevande
fino ad avere la mente confusa. Chi si trova nel terzo girone, infatti, è colui che
mangiando e bevendo smodatamente non ha le facoltà intellettive lucide, ha
cioè lasciato prevalere il suo lato “bestiale”. La condanna eterna che Dante
prevede che sarà afflitta loro consisterà proprio nel vivere per l’eternità in uno
stato mentale offuscato, privi di intelletto e avvolti da odori sgradevoli e precipitazioni atmosferiche simili al fango. In una rilettura dell’intera opera si può
osservare come Dante abbia riservato a diversi condannati la somministrazione
di “intrugli” sgradevoli. Nel Purgatorio si possono trovare i “golosi pentiti”,
coloro i quali hanno chiesto il perdono delle loro colpe prima di morire, quindi, potranno espiare il loro peccato e raggiungere, poi, il Paradiso.
Nel canto XXIV del Purgatorio 23-24, per esempio, troviamo il Papa Martino IV che “purga per digiuno/ l’anguilla di Bolsena” Questo era un modo di
cucinare l’anguilla di cui questo Papa ne andava assai goloso; si racconta che lo
facesse preparare per i giorni di magro prescritti dalla liturgia, per non soffrire
il digiuno stabilito. L’alimentazione fa ruotare intorno a sé molteplici significati
e valori in qualsiasi epoca ci si voglia soffermare ed è frequente l’uso del cibo
per comunicare stati particolari dell’esistenza umana. Nel mondo fiabesco possiamo suscitare la fantasia dei piccoli con ricette “incantate”, si trovano, infatti,
anche in questi racconti simbolismi con il cibo. Nella tradizione siciliana c’è la
fiaba “La serpe Pippina” che descrive il rito per fatare un bimbo appena nato
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offrendo un dolcetto preparato con cura. Anche in questo contesto gli ingredienti definiscono il significato di un rito propiziatorio, che, se non adeguati
causano effetti negativi. Il cibo nelle favole assume connotazioni diverse: rappresenta il nutrimento, ma anche il raggiungimento di un certo obiettivo come
diventare re o regina. In genere i racconti del cibo sono associati a stadi sociali
di ricchezza o povertà e permettono di evincere la connotazione antropo-sociologica osservando le descrizioni che vengono fatte delle tavole imbandite. Nelle
case dei ricchi i banchetti sono sontuosi, le tavole apparecchiate finemente con
posate preziose, le pietanze sono di ogni qualità: selvaggina, carne, pesce, pane
farcito, frutti e bevande aromatizzate. La tavola dei poveri, invece, presenta
pezzi di pane raffermo, qualche zuppa di legumi o di verza, sulle migliori si
trova un pezzo di formaggio e una bottiglia di vino. In altre fiabe il significato
del cibo esprime delle difficoltà materiali. In “Pollicino”, per esempio, l’abbandono dei figli da parte dei genitori indica proprio l’impossibilità di dare loro da
mangiare, d’altronde, le molliche di pane che Pollicino fa cadere per ritrovare il
sentiero sono il simbolo della semplicità e dell’unione familiare. Le descrizioni
nelle fiabe sono dedicate anche a interi paesaggi fatti di cibi: “la casetta di marzapane” in Hansel e Gretel, il “Paese della Cuccagna” dove tutto è fatto interamente di alimenti. Ogni popolo e paese è condizionato anche nella narrazione
a “parlare” di cibo o tramite questo per esprimere il senso profondo dell’animo
umano: sia un conflitto o l’amore, sia piacere o dolore, sia libertà o costrizione.
Il codice culturale sotteso dalle norme di appartenenza è basato sovente su dei
tabù alimentari che nascono nel momento in cui si attribuisce un significato
particolare ad alcuni cibi, quando esistono regole mentali, morali e sociali per
cui un alimento non deve essere consumato.
Il valore religioso del cibo
Prendere in esame questo aspetto così delicato e impegnativo del cibo
all’interno della professione della fede richiede molta attenzione e rispetto per
ogni individuo e gruppo di credenti. Ci tengo a precisare che non è mia intenzione far emergere nessun giudizio sull’argomento, mi scuso anticipatamente
se non riuscirò a trattare in maniera esauriente ogni religione.
L’animo umano è delicato e sensibile e la dimensione religiosa di ognuno
ancora più intima e ancestrale. Fin dalle sue più antiche origini l’uomo venerava gli Dei, la percezione di essere sovrastato da un’energia superiore lo spingeva a credere nelle forze della natura: nel sole, nell’acqua, nella terra e nel cielo.
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Anche i frutti della natura potevano in qualche modo interferire o portare senso
alla vita. I cinesi, per esempio, dal lontano 500 a.C. credono alla legge del Tao,
cioè al “non essere” ovvero “ordine cosmico” da cui provengono e a cui debbono aspirare di tornare per raggiungere l’immortalità. Loro osservano pratiche
igieniche e dietetiche che mirano a portare il corpo al suo stato iniziale di “soffio
vitale”. Il taoista per poter restituire al proprio corpo questa purezza originaria
non mangia cereali. Crede che il cibarsi di questi favoriscano la crescita, all’interno del corpo, di tre vermi (San-ch’ung) chiamati anche tre cadaveri (San-shih)
perché portatori di malattie e causa di invecchiamento precoce, quindi di morte.
Inoltre questi tre vermi hanno il potere di uscire dal corpo per andare in cielo a
denunciare agli Dei i peccati commessi dall’uomo. Il peccato stesso accorcia la
vita. La longevità, invece, è indice di possibile conquista di immortalità già sulla
terra. Il loro tipo di nutrizione, dunque, risulta funzionale al loro ideale ascetico
d’immortalità. Altre pratiche a questa finalizzata sono le tecniche respiratorie e
il ripristino di energie mentali se fuoriuscite dall’organismo. Il liquido seminale
è considerato proprio energia mentale liquefatta che necessita per forza un reintegro una volta sparsa all’esterno del proprio corpo. Per riparare a ciò il taoista
si deve alimentare con cibi idonei quali le pinne di pescecane o nidi di rondine.
I seguaci di questo credo, dunque, sono rigidi vegetariani. Parlare di credenze o
quasi superstizioni legate al cibo mi sembra davvero ridurre questo ambito a una
posizione poco degna della grandezza che, invece, riveste oggi nel mondo. Le
religioni a cui dedicherò una breve, seppur più approfondita trattazione, sono il
Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Induismo e l’Islamismo.
Cristianesimo
La religione cristiana, monoteista e diffusa in tutto il mondo, non ha tabù
alimentari particolari. Vigono delle astensioni al consumo di carne e di non
bere alcolici solo in particolari giorni di specifici periodi dell’anno. La Quaresima è uno di questi perché ricorda i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni e dove fu indotto in tentazione
dal demonio per tre volte, resistette, e dopo di che Gesù incominciò il suo
ministero. È un periodo liturgico molto importante, centrale per la religione
poiché culmina con la Pasqua di Resurrezione. Durante la Quaresima è suggerito di astenersi dal cibarsi della carne il venerdì, e durante tutto il periodo si
richiede di compiere dei “fioretti”, cioè piccole rinunce, anche alimentari, per
fuggire le tentazioni carnali e far prevalere lo spirito (in questo caso specifico
la forza di volontà). La simbologia cristiana come già detto sopra (cfr. 2.3) utilizza il pane, il vino, l’olio e l’acqua come segni sensibili della Grazia di Dio. I
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Sacramenti uniscono e rinnovano la fede dell’uomo in Gesù Cristo: mediante
lo Spirito Santo, Dio si è incarnato nel ventre della Vergine Maria, si è fatto
uomo in Gesù, fu crocifisso, morì e fu sepolto, il terzo giorno resuscitò, salì al
Cielo per indicare la via della salvezza riservataci da Dio stesso. “Dio infatti ha
tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in
lui non muoia, ma abbia la vita eterna”. L’incarnazione è il mistero che unisce
“il vero Dio” al “vero uomo”.
Nella celebrazione dell’Eucaristia i segni del pane e del vino sono centrali,
per mezzo dello Spirito Santo diventano rispettivamente “Corpo” e “Sangue”
di Cristo. I segni del pane e del vino vogliono significare anche la bontà della
Creazione per cui all’Offertorio si ringrazia per “il frutto della terra” e per “il
frutto del lavoro dell’uomo” equivale a ringraziare per il pane e per il vino.
L’Eucarestia unisce a Cristo e per tale effetto allontana dai peccati, come il cibo
fortifica il corpo e lo rinvigorisce, la comunione fortifica la Carità. Non cancella i peccati (per questo c’è il sacramento della Riconciliazione) ma consente
di far sempre più parte del Corpo di Cristo. L’Eucarestia fa la Chiesa, con il
Battesimo siamo stati chiamati a far parte di un solo corpo, quello che Cristo
unisce. La “comunione” è il sacramento di coloro che sono nella piena “unità
del corpo mistico”. Ricevere questo sacramento significa essere in intima unione
con Cristo Gesù. Il Signore dice infatti “Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue dimora in me ed io in lui” “Come il Padre che ha la vita, ha mandato me,
e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”.
Il significato attribuito al pane e al vino racchiudono il mistero della Fede e
il rendere grazie alla Gloria di Dio per tutto ciò che ha fatto di buono, di bello
e di giusto. Cristo si definisce come il pane di vita disceso dal cielo. Il “Regno
di Dio” viene spesso identificato come un campo di grano, il seme del grano
rappresenta la “Parola” di Dio e Gesù stesso affermò di essere il “Verbo” (la
Parola) di Dio. Nel linguaggio biblico il pane caratterizza diverse situazioni
della vita “un pane di lacrime”, “un pane di gioia”. L’Eucarestia assunta in
prossimità degli ultimi giorni di vita dell’uomo assume un nome particolare
“Viatico” in segno di accompagnare l’uomo nel passaggio verso la vita eterna.
Anche nelle parabole è presente il pane, un miracolo attribuito alla moltiplicazione “dei pani e dei pesci” proprio a sottolineare l’importanza dello stesso.
Non solo, nell’Antica Alleanza il pane e il vino sono offerti in sacrificio tra le
primizie della terra in segno di riconoscenza al Creatore. I “Pani Azzimi” (senza lievitazione), che Israele mangia ogni anno a Pasqua, nel contesto dell’Esodo, commemorano la fretta della partenza liberatrice dall’Egitto; il ricordo
della Manna del deserto richiamerà sempre a Israele che egli “vive del pane”
della Parola di Dio. Possiamo considere questa breve e non esaustiva panora45
mica come un profondo significato attribuito al nutrimento che, partendo dal
sostentamento, penetra così nel profondo dell’essere umano tanto da poter,
per mezzo dello Spirito Santo, edificare l’anima. Nella simbologia cristiana
l’acqua e l’olio, sempre per intercessione della “Divina Grazia”, diventano Sacramenti: “l’acqua battesimale” e “il Sacro Crisma”. L’acqua nel Battesimo
indica “Nuova Creazione” poiché si libera dal peccato originale e si “nasce
a nuova vita”. Nel Vangelo di Giovanni l’acqua ha un significato messianico,
l’acqua non è più acqua, diventa vino che non solo è più abbondante, ma
anche più buono. L’olio non è rilevante come alimento in questo ambito della
simbologia lo ricordo perché usato come “sigillo indelebile” fonte di luce, balsamo, segno dell’Amore di Dio.
Mi soffermo a questi brevi esempi poiché la vastità e sacralità della trattazione esulano dal mio percorso di studi. Ritengo, comunque, che sia indispensabile considerare gli aspetti religiosi dell’alimentazione per nobilitare il cibo
sempre più.
Ebraismo
Parlare di regime alimentare all’interno di una confessione religiosa implica
definire un confine fra lecito e illecito, poiché trattasi di regole che vietano di
mangiare o bere alcune cose e ne prescrivono altre.
Queste norme alimentari fanno parte integrante della normativa ebraica
chiamata “Halachah” che si occupa prevalentemente degli aspetti ritualistici,
legali e comportamentali, molto meno di questioni spirituali. La “Halachah”
si occupa di quello che è “permesso” e quello è “proibito”. Queste regole,
quindi, servono a imprimere nei credenti un atteggiamento di “disciplina spirituale” nel momento della vita terrena, proprio quando si sta compiendo, apparentemente, un atto così materiale come il cibarsi. Il cibo assume un valore
di memoria. Gli osservanti dell’ebraismo si alimentano osservando le leggi e
i precetti ricevuti da Mosè sul monte Sinai: “la Torah”, e osservando antiche
norme igieniche e dietetiche. La cucina ebraica è “kasher” cioè idonea al consumo, pura, e la “Kascheruth” è l’insieme delle norme giuridiche che certificano il controllo e danno garanzia al fedele dell’idoneità di un determinato cibo
di poter essere ingerito.
La carne può provenire solo da certi tipi di animali, sono escluse, infatti, le
carni del maiale, del coniglio e del cavallo. “Ogni quadrupede dallo zoccolo
spaccato, dall’unghia divisa e che è ruminante potete mangiarlo”. Anche il
pesce ha delle indicazioni per essere consumato: è lecito mangiare solo specie
con pinne e squame, quindi, sono esclusi i crostacei e i molluschi. Si trovano
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limitazioni anche per la cottura delle carni, il capretto per esempio, non può
essere cotto nel latte di sua madre. A tal riguardo va considerato che il consumo di carne e latte è ammesso solo separatamente.
Ci sono regole molto precise che indicano il loro utilizzo: non possono essere mescolati e neppure conservati vicini, le stoviglie devono essere dedicate
a quello specifico alimento e non possono essere confuse, persino gli utensili
per la loro preparazione (padelle, mestoli, dosatori) devono essere specifici per
uno solo dei prodotti. Il consumo di uno dei due esclude l’altro e la successiva
ingestione dell’altro alimento deve rispettare la distanza dalle tre alle sei ore.
Regole ferree sono osservate soprattutto per la macellazione degli animali destinati al consumo “Shechitah”: il “macellatore” deve essere “autorizzato” cioè
idoneo a eseguire la manovra che renda la carne “adeguata” al consumo “kasher”. La morte dell’animale deve avvenire per sgozzatura recidendo la vena
giugulare, reclinato l’animale affinché raggiunga subito lo stato d’incoscienza,
procedere nella recisione dell’arteria carotidea, l’esofago e la faringe. Questa
manovra deve avvenire con un unico taglio preciso e continuo senza interruzioni. Il mancato funzionamento di una sola parte della procedura rende immangiabile la carne. Non solo, ci sono comunque parti dell’animale che vanno
escluse dal consumo pur essendo macellato adeguatamente: certi tipi di grasso,
il nervo sciatico e le parti dirette col sangue dell’animale. Il sangue è proibito e
la carne deve essere salata a crudo per eliminarne i residui, poi adeguatamente
sciacquata per essere idonea al consumo. Le bevande concesse sono anche
alcoliche, ma tutti i prodotti destinati al consumo alimentari devono essere
autorizzati dalle autorità rabbiniche per assicurare il rispetto di tutte le regole
stabilite. Anche il raccolto dei prodotti della terra ha importanti procedure da
rispettare e modalità di consumo. A titolo di esempio porto il “pane”: durante
le festività di “Pesah”, festa molto antica celebrata per il raccolto dell’orzo, “in
ricordo della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto”, bisogna ripulire tutte la madie e cesti dalle briciole del pane che abbia subito lievitazione e anche gli ambienti che fossero venuti a contatto da residui di prodotti
lievitati. Per sette giorni mangiano pane frutto della farina del nuovo raccolto
prodotto senza lievito.
Ancora possiamo trovare delle prescrizione sui tipi di grassi da poter consumare, quelli concessi sono l’olio, “il burro, grassi animali provenienti da bestiame macellato ritualmente e certificato (a esempio il grasso del pollo)”. Non
è semplice la nutrizione per un credente di questa religione, ma è fondamentale per testimoniare il loro credo, quindi, è parte integrante della loro dimensione religiosa. Il cibo, dunque, unisce esercitando sull’uomo un gran senso di
appartenenza, conferisce senso di unità attraverso i gesti quotidiani visibili del
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nutrirsi e allo stesso tempo nel sottoporsi alla Dieta di Dio. Segna un confine
rispetto all’ambiente ed educa attraverso il gusto.
Induismo
L’india dispone del numero maggiore al mondo di bovini, infatti, è l’animale sacro per eccellenza. Nessun induista può cibarsi di questo animale, la
sua venerazione e protezione fa parte integrante dell’induismo. La “vacca” è
protetta perché simboleggia la protezione verso la maternità, è considerata la
loro “madre” perché fornisce il latte da cui si può ricavare il burro, partorisce il
vitello, maschio, con cui si può arare la terra per coltivarla. Possedere una mucca e allevarla rappresenta un piacere spirituale che nessuno dovrebbe esserne
privato. L’animale è lasciato vagare liberamente in India tanto da detenere il
diritto di precedenza lungo le strade. Ogni popolo, ogni cultura e ideologia
diversa con la professione della propria fede include ed esclude, definisce ciò
che è e ciò che non è, con la nutrizione rende visibile questi confini.
Islam
La religione islamica vieta l’assunzione della carne di maiale, il quale è
considerato secondo la legge del Corano, animale impuro e il consumo di
carne di animali morti naturalmente, il sangue e l’assunzione involontaria
di cibo proibito, poiché Dio è indulgente e dispensatore di misericordia.
Le norme dietetiche sono meno articolate complesse di quelle ebraiche, ma
delineano il confine entrambe con la proibizione della carne del maiale. La
macellazione riveste un momento rituale anche per i credenti islamici, ma
si differenzia dalle regole ebraiche. L’animale per essere ucciso deve essere
rivolto con il muso in direzione della Mecca, luogo sacro e di culto per eccellenza, bisogna che il sangue fuoriesca totalmente dall’animale prima di differenziare i tagli della carne. Una probabile contaminazione del sangue con
la carne non la renderebbe idonea al consumo. La carne deve essere “halal”,
lecita di contro ciò che non lo è viene definito “haram”. Un periodo distintivo per i credenti mussulmani è il mese del “Ramadan”: in tutti i giorni che
lo compongono nelle ore prescritte di luce si devono astenere dal cibo e dal
bere, nelle ore notturne, invece, è concesso il pasto, ricco e nutriente, tale da
permettere di sopportare le privazioni diurne. Il pasto inizia con la celebrazione di un’invocazione e si conclude con una preghiera di ringraziamento a
Dio. Il cibo per l’islam è un dono di Dio che va consumato con moderazione
e condiviso con chi ne ha bisogno.
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Come mangiavano i Greci
(A cura prof. Tiziano Vidoni)
Alimentazione dei Greci
Ricette cucina antica in Grecia
Banchetto nell’antichità!
Alimentazione banchetto funebre
Grecia classica
Dopo l’improvvisa scomparsa della civiltà micenea nel tredicesimo secolo
a.C., forse causata dall’ondata migratoria dei Dori, vi fu un periodo di decadenza (Medioevo ellenico). A partire dall’ottavo secolo a.C. ebbe inizio una
lenta ripresa in tutta la Grecia, che portò ad un progressivo aumento della
popolazione.
In seguito alla rivoluzione agricola, che permise l’incremento demografico,
sorsero città-stato politicamente autonome chiamate «poleis». La scarsità di
terra da coltivare indusse molti centri, come Corinto ed Eritrea, a inviare gruppi di cittadini in zone lontane dell’Asia Minore dell’Italia meridionale e della
Sicilia. La Sicilia era abitata in quel periodo, lungo le coste ioniche, dai Siculi
ed in quelle tirreniche dai Sicani e dagli Elimi. Dall’incontro tra la civiltà greca
e quella sicula si affermò il gusto di una cucina più raffinata. I suoi segreti ci furono tramandati da alcuni scrittori come Archestrato di Gela (IV secolo a.C.).
Quest’ultimo, che era anche un noto filosofo, avendo visitato molte terre, as-
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serì che in Sicilia aveva scoperto il piacere della buona cucina. Fu autore di
un poemetto eroicomico sull’arte culinaria, “Hedypatheia”, cioè “Le delizie”,
imitato dal latino Ennio in “Hedyphagetica”.
I Greci furono i primi a occuparsi dello studio dell’alimentazione. Padre
della dietetica attuale fu infatti Ippocrate, grandissimo medico greco che considerava ogni alimento fattore di salute o causa di malattie. Dimostrò, con le
sue teorie, che molti cibi sono dannosi per le vie biliari (formaggi invecchiati,
vini densi, carne troppo salata) e che altri hanno un effetto benefico sull’organismo (la carota e il sedano sono diuretici, alcune verdure sono rinfrescanti,
il vino rosso è astringente, l’idromele fa bene alla gola). Un altro medico che
s’interessò di dietetica fu Galeno, vissuto nel secondo secolo: egli consigliava un’alimentazione ricca di vegetali, pesce ed olio come condimento, perché
salutari per l’organismo. Tra gli alimenti maggiormente consumati nell’antica
Grecia c’era il pane. Ateneo nei suoi scritti cita 72 nomi di pani: allo zafferano,
al finocchio, al rosmarino, all’oliva, all’anice, ai capperi, alla cipolla ecc.
Insieme col pane, il pesce costituiva l’alimento maggiormente consumato.
A noi sono giunte solo poche ricette tra cui quella del pesce al cartoccio (cuocere dei filetti di sarda avvolti in foglie fico). La pesca era per i Greci un vero e
proprio mestiere di cui Platone esalta il piacere. Il vino non veniva bevuto puro
(ácratos), ma allungato con acqua fino a formare una miscela più o meno alcolica in grandi vasi chiamati crateri, a cui attingevano i servi usando dei lunghi
mestoli. Il vino veniva bevuto soprattutto durante i banchetti.
L’olio d’oliva, alimento principe di Creta, è tuttora parte vitale dell’alimentazione nel Mediterraneo. Come frutta, si consumavano mele, pere, uva,
melegrane, fichi, datteri e noci. Le bevande (vino, the a base di erbe, idromele): molto gradito dai contadini greci era il kykeón (consisteva in una mistura
di farina d’orzo ed acqua, aromatizzata con la menta o il timo). L’idromele
era una miscela di acqua e miele. La carne veniva consumata soprattutto dai
ricchi.
Il pane
Ad accompagnare il cibo quotidiano del greco antico era il pane, che, talvolta, sotto forma di galletta, fungeva anche da piatto. Alimento-icona della
dieta mediterranea, esso era preparato in numerose varianti. L’informatissimo
Ateneo ne elenca un centinaio di tipi. Quello più diffuso era la “maza”, una
galletta di farina d’orzo, consumata, soprattutto, dai meno abbienti. Il pane di
farina di frumento, più pregiato, era riservato ai giorni di festa. Quello venduto
nell’Agorà di Atene, detto “agoraios”, era il più rinomato tra i pani dell’Attica.
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Ma anche quelli della Beozia e della Tessaglia erano ritenuti di buona qualità. Per Ippocrate, il migliore era l’”obelites”, cotto allo spiedo. I fantasiosi
greci producevano perfino un pane a forma di fungo, detto “boletos”. Numerosi erano anche i pani cerimoniali offerti sugli altari alle varie divinità. Su
di un sarcofago rinvenuto ad Haghìa Triada (Creta) compare, in bassorilievo,
un sacerdote nell’atto di offrire un cesto colmo di pani. La Creta minoica già
conosceva, dunque, i segreti della panificazione. Vi erano poi anche dei pani
speciali, preparati per varie ricorrenze (matrimoni, funerali, battesimi ecc.). Il
“gamelio”, impastato con miele e sesamo, era consumato nel banchetto nuziale; mentre, la “koliva” di semi e frutta secca, impastati con miele, era immancabile nei funerali. Un’usanza, questa, giunta fino ai nostri giorni.
Le olive
Un altro prodotto immancabile sulle mense greche erano le olive, consumate fresche o in salamoia. Archestrato raccomandava di “servirle rugose e
mature e che tutti mettano sempre il finocchio in quelle in salamoia”.
Secondo Ippocrate, queste sarebbero state molto nutritive, tanto che un
uomo poteva sopravvivere con otto olive al giorno. Anche Platone era un
grande estimatore del sacro frutto dell’ulivo, tanto che, nei simposi era capace
di mangiare soltanto olive. Quelle preferite dal filosofo erano le olive lasciate
maturare sull’albero, dette “druppae”. Ve ne erano di moltissime qualità: la
bianca, la nera, la georgerina, la pitryde e la iscadi erano le più diffuse.
Le verdure
Tra le verdure, consumate crude e cotte soprattutto dalla plebe rurale, ricordiamo le cosiddette “portulacee”, diverse specie di cavolo e di cicoria, vari
tipi di bieta, di spinaci e di lattuga. Quest’ultima, in particolare, aveva fama di
spegnere il desiderio sessuale e, perciò, tenuta in gran considerazione dal morigerato Pitagora che la chiamava “eunuco”. Per Diocle di Carysto, la migliore
lattuga era quella nera, ma ve ne erano molte altre specie (rossa, verde, bianca,
“a cappuccio”). La più saporita, secondo il botanico Teofrasto, giungeva nei
mercati greci da Cipro.
Al contrario della lattuga, erano ritenuti afrodisiaci i porri, le cipolle, l’aglio, la menta. In particolare, quest’ultima era ritenuta un’erba sacra, dal potere eccitante e corroborante, nata dal corpo smembrato della ninfa Mintha,
amante del dio degli Inferi, Ade. Anticamente, essa era usata nei riti funebri
per profumare i cadaveri.
51
Il vino
Oltre all’acqua e all’idromele, che si bevevano soprattutto in estate, era
senza dubbio il vino la bevanda per eccellenza degli antichi greci. Intorno a
questa bevanda si sviluppò tutta una liturgia ricollegata della socialità simposiale. “Nettare degli dei”, “sangue di Dioniso”, “ambrosia dell’Olimpo” erano
alcuni degli appellativi con i quali i greci definivano il vino. L’immaginario
primitivo credeva che nella bevanda vi fosse una componente di fuoco. E ciò
perché il vino greco antico vantava una altissima gradazione alcolica, dovuta
alla vendemmia tardiva (la raccolta si effettuava quando le foglie erano già
cadute, ndr.).Diversi erano i vini di buona qualità. Archestrato di Gela pone
ai primi posti il “biblino profumato” proveniente da Biblo (Libano) ed il “lesbio”, prodotto sull’isola di Lesbo. “Gloria d’ambrosia, bevanda che circola
sulle mense dell’Olimpo” declama il gastronomo siciliano. Mentre, sulle tavole
degli eroi omerici, oltre all’Ismaro, compariva il vino Pramnio (prodotto ad
Ikaria), considerato il primo vino d.o.c della storia. Nell’Iliade, Nestore offrirà al medico Macaone “vino pramnio, mescolato con formaggio grattugiato
e bianca farina”. Inoltre, è documentato come tutti i vini greci, a prescindere
dalla qualità e dalla gradazione, avessero in comune un retrogusto resinato,
dovuto alla resina di pino che sigillava le anfore. Per conservarlo più a lungo, lo
si aromatizzava con miele, timo e altre spezie. Non di rado lo si miscelava con
acqua di mare, una mistura che, come riferisce l’informatissimo Ateneo “aveva
il profumo delle viole”.
Leggi news tavola antichi Greci
Come allenare il corpo per le attività sportive? Che dieta scegliere e quali
esercizi praticare? Per i greci, il popolo che ha inventato le Olimpiadi, tali
questioni erano di grande importanza e suscitavano dibattiti molto accesi. Già
intorno al 440 a. C. un ex campione di pentathlon, Icco di Taranto, scrisse un
manuale al riguardo, in cui raccomandava tra l’altro l’astinenza sessuale prima
delle gare, come si usa ancora oggi nei raduni pre-partita dei calciatori.
Tuttavia non sempre allenatori e medici erano in sintonia. In origine, gli
sportivi antichi si attenevano a un regime alimentare a base di cereali, fichi secchi e formaggi freschi. Poi si affermò invece la dottrina secondo cui dovevano
consumare grandi quantità di carne. Gli allenatori erano convinti della bontà
di questa dieta, specie per i lottatori la cui vittoria era sovente determinata dal
peso corporeo, ma i medici condannavano severamente il carattere smodato di
un simile regime alimentare.
Al tempo degli imperatori romani, il clinico Galeno scrisse una dura requisitoria contro lo stile di vita degli atleti, i quali non fanno altro che «bere,
dormire, e mangiare come porci» e sono tutti sovrappeso e flaccidi «come
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sacchi di farina». In effetti, gli eccessi non mancavano. La dieta seguita da
Milone di Crotone, uno dei più grandi lottatori di tutti i tempi, prevedeva
otto chili di carne e cinque litri di vino al giorno. Con quella dieta Milone
vinse alle Olimpiadi ben 31 volte: possiamo considerarlo il primo caso di
doping della storia.
Il cibo diventa cultura
(A cura dott. Rita Calderini)
Le tre più diffuse religioni monoteistiche esaminate qui sopra, Cristianesimo, Ebraismo e Islam pongono dei cibi limiti alla nutrizione nel loro credo, ma
sono accomunati dall’Agnello. In tutte e tre non è casuale, infatti, che le principali feste religiose celebrino l’agnello come simbolo di cui cibarsi: la Pasqua,
il Pesah e l’Id Adha (festa del sacrificio del montone). Agnello come simbolo
mistico della Fede.
Sulle nostre scelte alimentari intervengono diversi fattori, quelli derivanti
dall’insieme delle nostre pratiche sociali influenzano a livello inconscio anche
sul gusto. Questo, quindi, non sempre può essere considerato il frutto di una
libera scelta, piuttosto il condizionamento imposto dal sistema di credenze
d’appartenenza. A influire, dunque, sulla definizione di cosa sia buono da
mangiare concorrono molti fattori.
Abbiamo potuto considerare sommariamente come l’alimentazione sia indicativa di molte funzioni: nutritiva biologica, religioso ideologica, simbolico
relazionale. Il pane e il vino sono alimenti comuni in ogni società, prodotti
frutto della conoscenza delle pratiche di macinatura e elaborazione delle farine poi cotte; il vino frutto della fermentazione dell’uva. Alimenti “culturali”,
perché non si trovano direttamente in natura, sono investiti di cariche simboliche religiose che uniscono conoscenze “umane” al trascendente, mediante
l’osservazione di accurate leggi l’ascesa al Divino è garantita già vivendo. Il
cibo, dunque, riassume proprietà intrinseche nutritive a simbologie ultraterrene, unisce e separa, indica la via della salvezza o “si trasforma” in sacramento
per nutrire l’anima.
Il nutrirsi osservando determinate regole e non altre identifica l’appartenenza a una comunità, è identità e cultura (si prepara secondo una metodologia
e non l’altra). L’alimentazione non può essere confinata a semplice consumo
per la sussistenza, diventa la risultante di processi fenomenici, psicologici, procedurali, è sacralità e misticismo, nutrimento per la vita terrena e tempra per
53
lo spirito diretto verso la vita eterna. Se pensiamo all’uomo come capace di
dominare i suoi desideri istintivi verso il cibo, allora diamo valore al concetto
di Kantiana memoria che definisce la cultura come strumento di superamento
dei vincoli naturali per trascendere la natura stessa (istinto di sopravvivenza) e
di creare significati. Se facciamo prevalere l’idea che la cultura è un costrutto
della realtà, e non un dato, allora gli individui che la interpretano costantemente, la generano dando senso e identità in ciò che producono e il cibo rientra in una loro attività diventando cultura esso stesso. Se noi viviamo in un
ambiente già trasformato dagli esseri umani che ci hanno preceduti e siamo
capaci di adottare i sistemi creati precedentemente per orientarci nel mondo
circostante, significa che siamo capaci di servirci di “mezzi” per raggiungere i
nostri scopi (artefatti). Tali possono essere considerate, per cui, anche le ricette
poiché adottano una serie di accorgimenti tali da rendere il cibo da crudo a
cotto, arricchito di spezie o privato di alcune parti, da non commestibile a edibile; mediano la natura della materia prima naturale e la rendono sì nutritiva
ma culturale. Mi piace ricordare Marschall McLuhan che nei suoi studi sugli
effetti dei mezzi di comunicazione sosteneva che il “medium è il messaggio”,
seppure lui parlasse dei mezzi tecnologici, è interessante poter pensare al cibo
proprio in questi termini.
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RICERCA FILOLOGICA
E LETTERARIA
(A cura della prof. Elisabetta Zammitto)
Le lingue antiche attestano che fin dalle origini il “mangiare” è considerato
elemento indissolubile dal concetto di esistere per l’uomo.
Greco: brotòs (la cui radice è riconducibile al verbo bibròsco- mangio) che
identifica il mortale e che fin dall’Odissea è utilizzato in contrapposizione a ciò
che è immortale (faesimbròtou, Odissea, libro X, v137 = che dà luce ai mortali), mentre per esprimere il concetto di uomo come cittadino-eroe si ricorre al
termine anèr, mentre il concetto di genere umano è identificato con il termine
ànthropos.
Latino: mangiare in latino si dice edo, verbo che però è attestato in alcune
sue forme come est, esse, vale a dire che tali forme verbali coincidono esattamente con le corrispondenti forme del verbo essere (egli è-egli mangia, essere-mangiare).
Tale verbo deriverebbe (cfr Dizionario Etimologico Comparato delle Lingue Classiche Indoeuropee) dalla radice sanscrita *ad che, unita al suffisso
–nus, sarebbe l’origine del vocabolo anno, nonché annona, il “complesso delle
norme e delle attività con cui i governi provvedono alle necessità dell’alimentazione pubblica”.
Victum è inoltre il supino del verbo vivere ed ha lasciato ancora oggi traccia
nell’Italiano “vitto”, nella sua accezione di “nutrimento necessario al vivere”.
Quali erano allora quegli alimenti che, nell’immaginario degli antichi, avevano la capacità di “alimentare” la mortalità o l’immortalità?
Di certo non la quantità di cibo ingerito.
Particolarmente a Roma, in epoca imperiale, le attestazioni di rifiuto dell’eccesso e del consumismo si sprecano: basti leggere alcuni passi del Satyricon di
Petronio o della Consolatio ad Helviam matrem di Seneca. Esagerazioni ed eccessi che portano Quintiliano ad affermare nell’Institutio oratoria (IX, 3, 81) :
Non ut edam vivo, sed ut vivam edo”(Non vivo per mangiare ma mangio
per vivere).
Ciò che però conferisce l’immortalità agli dei, o meglio, ciò che consente
agli dei di mantenere la propria immortalità è anche un alimento che presenta
antichissime attestazioni.
Partendo sempre dalla lingua greca, l’attestazione linguisticamente più fre55
quente è individuabile nel termine ambrosìa, sulla cui etimologia si discute, in
quanto esistono tesi diverse, che ne riportano ad esempio la radice antica ad un
*mr (forza vitale), ma che contestualmente attesta sempre questa radice *bro,
che, preceduta da alfa, andrebbe suggestivamente a rinforzare il concetto di
cibo-non-cibo che conferisce l’immortalità agli dei.
In che cosa consistesse l’ambrosia però non è dato fornire certezze, in
quanto le fonti sono numerose e di vario genere.
Ambrosia è termine che risulta ad esempio essere utilizzato ai piedi della statua del dio Anubi (“mangio ambrosia e bevo sangue”), iscrizione che lascerebbe
intendere che l’ambrosia presso gli Egizi non fosse considerata una bevanda.
L’ambrosia viene però messa spesso in correlazione con l’idromele, usato
nell’Egeo come enteogeno prima del vino e che era per i Norreni la bevanda
degli dei.
Per i Greci poi l’ambrosia era nascosta nel giardino delle Esperidi, elemento questo che non può non richiamare alla memoria l’albero della Vita che si
trovava nel giardino dell’Eden (Giovanni 4.14).
In Europa l’ambra color miele era un dono tombale già nel Neolitico ed era
indossata nel VII secolo a.C. come talismano.
Altre fonti definiscono l’ambrosia come un “liquido dorato”, peculiarità
che trova conferma in altre culture nella definizione di oro liquido del Sura 18
e dei Nag Hammadi, nello Zoroastrismo, secondo il quale il deva Idra e il dio
Agni bevono un liquido speciale, chiamato Soma (Rig Veda 8.48.3).
Ambrosia presenta inoltre una consonanza rapportabile al termine hindu
“amrita”, anch’essa bevanda che dona immortalità.
Per i Sumeri la bevanda degli dei era prodotta dalla dea della fertilità Ninhursag (dea mucca), che presenta quindi piccole somiglianze con la capra Amaltea.
L’ambrosia era dunque il nutrimento delle divinità, degli immortali. Agli
uomini era vietato nutrirsi di ambrosia, in quanto sarebbero diventati a loro
volta immortali. Una delle empietà di Tantalo, infatti, fu l’offerta ai propri ospiti
dell’ambrosia (furto simile a quello forse più noto di Prometeo): essendo stata
portata da colombe, potrebbe essere pensata come un’esalazione della Terra.
Secondo alcuni studiosi l’ambrosia sarebbe però identificabile con dei tipi
di miele. In questo caso il suo potere di conferire l’immortalità sarebbe da
ricollegare al supposto potere curativo del miele.
Collegato all’ambrosia è anche l’elisir della vita, che nel Medioevo prese il
nome di Pietra Filosofale. Quest’ultima, oltre a donare immortalità, avrebbe
avuto anche il potere di creare la vita.
Anche in religioni e credenze moderne possiamo trovare cibi o bevan56
de che conferiscono immortalità. Nella religione cinese troviamo le “pesche
dell’immortalità”; nella mitologia giapponese per raggiungere l’immortalità
basterebbe nutrirsi di una ningyo (ossia una sirena); nel taoismo l’elisir è donato dall’Huadan (cioè solfuro di mercurio) e infine nella religione Cristiana
l’immortalità può essere raggiunta attraverso il Sacro Graal.
Cibo o bevanda che sia, dunque, l’ambrosia è “riservata” ai non-uomini,
o comunque gli uomini aspirano a nutrirsi di essa per diventare non-uomini.
Ma cosa mangiavano invece gli uomini?
Nel mondo latino il termine homo viene messo in relazione etimologica già
dagli antichi con humus, terra, offrendo dunque ampio spazio alle ovvie deduzioni che ne comportano il legame indissolubile con essa.
Saranno dunque i prodotti della terra quelli che ne consentono la naturale
sussistenza, in quanto “siamo ciò che mangiamo” (Feuerbach).
L’argomento è anche a questo proposito estremamente ricco di fonti ed
impossibile da sviscerare nella sua interezza.
Interessante però può risultare la disamina di alcuni alimenti ricorrenti ed
indispensabili nella dieta degli uomini greci e latini, tra i quali risultano imprescindibili dalla dieta il sale, l’olio, il vino ed i cereali.
Questi erano infatti gli elementi di base per la preparazione anche di quella
sorta di “zuppe” che costituivano il nutrimento degli atleti e dei soldati, quelle
categorie cioè che necessitavano di offrire prestazioni particolari e continuative (ciceone, garum), ma anche la puls (polenta), che era alimento base dei
Romani, definiti dallo stesso Plauto “ mangiatori di polenta”.
Alcuni di tali elementi erano ritenuti inoltre conferire poteri “speciali” e
non solo tramite l’assunzione.
L’olio ad esempio veniva spalmato sul
corpo degli atleti o dei defunti per rendere gli uni imbattibili e gli altri eterni nella loro vita ultraterrena.
Il vino poi presenta quelle
particolari caratteristiche che
lo portano ad essere definito a tutt’oggi “nettare degli
dei”, quindi ambrosia.
L’opportunità di tale
definizione presenta risvolti interessanti e degni
di un approfondimento a
parte.
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L’uomo e la terra (homo- humus)
Francesca Muscia - 1C Liceo Classico F. Petrarca
La parola “uomo” deriva dal vocabolo latino “homo,-inis”, strettamente
legato al termine “humus,-i”che significa “terra”; in particolare terra umida,
acquosa (da humor o umor,-oris) quindi coltivabile. Anche nell’ebraico è
possibile trovare un parallelismo nella parola “adamah”(terra) con il termine
“adam” (uomo). È chiaro il richiamo alla descrizione della creazione dell’uomo
contenuta nella Genesi, secondo cui il primo uomo (Adamo) fu creato da Dio
dalla terra: “Dio allora plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue
narici un alito di vita. E l’uomo divenne un essere vivente.” Questa relazione tra
uomo e terra viene trattata da importanti autori latini quali Varrone ed Ennio.
Varrone infatti dice (1):
“Principes dei Caelum et Terra.[...]Haec duo Caelum et Terra, quod anima et
corpus. Humidum et frigidum terra, sive ut
Ova parire solet genus pennis condecoratun, Non animam, ut ait Ennius (1) et
Post indevenit divinitus pullis ipsa animam
sive, ut Zenon Citeus
Animalium semen ignis is qui anima ac mens.(2)
[...]Quibus unicti Caelum et Terra omnia ex se genuerunt, quod per hos natura
Frigori miscet calorem atque humori aritudinem.
Recte igitur Pacuius quod ait
Animam aether adiugat (3)
Et Ennius
terram corpus quae dederit,ipsam capere, neque dispendi facere hilum.(4)
Animae et corporis discessus quod natis is exitus, inde exitium, ut cum in
unum ineunt,initia. Inde omne corpus ubi nimius ardor aut humor,aut interit
aut,si maner, sterile.Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardet et spica
aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius
vere expectat.Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua.”
“Gli dèi supremi sono il Cielo e la Terra […] Questa coppia di dèi è quello che
per noi è l’anima e il corpo.La Terra rappresenta l’elemento umido e freddo,sia
che, come dice Ennio, la razza dei pennuti suole produrre le uova,non l’anima
e poi l’anima viene dopo da sé agli uccelli, sia che Zenone di Cizio: la semenza
degli esseri animati è il fuoco, quello che costituisce l’anima e la mente.[...] Con
la loro congiunzione, il Cielo e la Terra hanno creato tutti gli esseri, perché per
mezzo loro la natura mescola il caldo al freddo e il secco all’umido.Giustamente
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dunque Pacuvio dice: l’etere tiene avvinta l’anima al corpo ed Ennio afferma che
la terra si riprende il corpo che ha dato e non ne fa il minimo spreco. Poichè la
separazione dell’anima e del corpo è l’exitus (la fine) dei viventi, da qui il termine
exitium (distruzione); come quando ineunt (si uniscono) in un unico tutto ne
determinano gli initia (nascita). Perciò ogni organismo,quando il suo calore è
eccessivo o eccessiva è la sua umidità,o muore o, se rimane in vita diventa sterile.
Ne costituiscono una prova l’estate e l’inverno, perchè nella prima il clima è
in grado di lottare con la pioggia e col freddo per dar vita agli esseri ed aspetta
piuttosto la primavera. Due dunque sono gli elementi che condizionano la vita:
il fuoco e l’acqua.” (6)
De Lingua Latina, vv. 59-60-61
Di questo poeta si sa solo quello che ci dice di lui Varrone
(3)
SVF, I, fr.126
(4)
TRF, v. 94
(5)
Cfr. Ann., vv. 6-7
(6)
traduzione a cura di Antonio Traglia, da “Opere di Marco Terenzio Varrone”, classici u.t.e.t.
(1)
(2)
Di Ennio sono giunti a noi solo pochi frammenti riguardanti l’argomento
trattato. Tuttavia, come indicato nella nota 5, ci sono due versi nel proemio
degli Annales in cui il poeta dice:
“Terra<que> corpus quae dedit ipsa capit neque dispendi facit hilum”
La struttura grammaticale è leggermente diversa da quella riportata da Varrone e ad essa meglio si adatta la traduzione del Traglia.
Da sempre dunque l’uomo ha immaginato uno stretto legame tra se stesso
e la terra. Questo concetto deriva probabilmente da una serie di quesiti a cui
l’uomo in origine dovette trovare una risposta; domande circa la sua esistenza,
il motivo della sua presenza sulla Terra, il fatto di essere dotato di una coscienza e di essere diverso da qualsiasi altro animale per la capacità di ragionare e
di poter formulare questi stessi pensieri. Il primo impulso fu quello di trovare
un riscontro nell’ambiente a lui circostante. Fu proprio dall’osservazione degli
elementi che costituivano questo sistema perfettamente funzionante che l’uomo elaborò diverse teorie riguardanti la propria origine. Egli comparò la sua
natura con quella esterna stabilendo delle corrispondenze. Due erano i fattori
esterni più importanti: la terra e il cielo. Varrone infatti dice che per mezzo di
questi ultimi la natura mescola il caldo al freddo e il secco all’umido dando
origine a tutti gli esseri viventi. Il cielo essendo lontano è sempre stato visto
come qualcosa di misterioso, e si sa che ciò che non si conosce spaventa, ma
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anche come qualcosa di maestoso e degno di ammirazione. Nella maggior parte delle culture infatti il cielo è il luogo in cui risiede l’entità divina. Il fatto che
nella Genesi Dio soffi sul viso di Adamo per donargli un alito vitale è molto
significativo: ciò che consente la vita viene da Dio e quindi dal cielo. L’alito di
cui si parla potrebbe essere l’anima. Questa concezione è proprio quella che
ci descrive Varrone quando dice che il cielo e la terra sono per noi l’anima e il
corpo. La terra, come spiegato in precedenza, essendo un elemento concreto e
direttamente percepibile, rappresenta appunto la materia di cui tutti gli esseri
umani sono fatti. Varrone sempre nel De lingua Latina dice (7):
“Terra Ops,quod hic omne opus est hac opus ad vivendum, et ideo dicitur Ops
mater, quod terra mater. Haec enim
Terris gentis omnis peperit et resumit denuo,
quae
Dat cibaria,
ut ait Ennius (8), quae
Quod gerit fruges, Ceres (9);
antiquis enim quod nunc G C. Idem hi dei Caelum et Terra Iupiter et Iuno
[...]”
“ Ops (l’Abbondanza) s’identifica con la Terra, perchè sulla terra si svolge
ogni opera (opus) e di essa si ha bisogno (opus est) per vivere; per questa ragione
si dice <Ops Madre> come <Terra Madre>. Essa è infatti quella che su ogni continente fa nascere tutte le genti e di nuovo a sé le richiama, quella che fornisce gli
alimenti, come dice Ennio, quella che poiché gerit (produce) le messi è chiamata
Ceres (Cerere); per gli antichi, infatti, il segno C aveva il valore dell’attuale G.
Questi dèi, il Cielo e la Terra s’identificano con Giove e Giunone [...]”
De Lingua Latina, vv. 64-65
Varia, v. 48
(9)
Ib, v. 50
Già nell’antica tradizione religiosa greco-latina Giove (Zeus) rappresentava il Cielo e Giunone era la Terra, dalle cui sacre nozze nascono tutte
le cose.
(10) La terra umida (humus) è l’ambiente adatto alla coltivazione. Anche in
questo caso emerge un aspetto interessante che mette in relazione l’uomo e
la terra. Il verbo coltivare in latino (colo, -is, colui, cultum, colere) ha diversi
significati: esprime ovviamente l’atto del lavorare la terra ma assume anche il
senso di abitare, di onorare e, affiancato al vocabolo “vitam”, di vivere. Pertanto la coltivazione non viene intesa solo come agricoltura ma anche come
cultura dell’animo o ancora come culto religioso; del resto è intuibile la comune radice etimologica. La
parola humus potrebbe essere correlata anche al campo alimentare. Un piatto molto
antico, diffusissimo ancora oggi in Israele ed originariamente nato appunto in
Medioriente è l’hummus. Si tratta di
una sorta di salsa a base di ceci condita con sesamo, olio d’oliva, limone, paprica, cumino e prezzemolo il cui nome
antico in greco era χούμους. È possibile
che sia ricollegabile al vocabolo χοῦς,χοῦ
che significa terra, fango.
P.S. Note e traduzioni prese da: “Opere di Marco Terenzio Varrone” a cura
di Antonio Traglia, classici latini u.t.e.t.,edizione 1974.
(7)
(8)
Seguiranno tutti gli articoli di approfondimento storico-testuale e traduzione a cura dei ragazzi aderenti alla ricerca.
In un’altra sua opera, il De Re Rustica (Liber Primus, De agricultura, v.5)
riprende questo concetto:
“Primum, qui omnis fructos agri culturae caelo et terra continet, Iovem et Tellurem: itaque, quod ii parentes magni dicuntur, Iuppiter pater appellatur, Tellus
terra mater.”(10)
“Innanzi tutto invocherò Giove e la Terra, nelle cui mani sta in cielo e in
terra ogni frutto dell’agricoltura;pertanto, poiché queste due divinità si chiamano
i Grandi Genitori, Giove è chiamato il Padre, la Terra la Madre”(10)
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“HOMO SUM NIHIL HUMANI
A ME ALIENUM PUTO”
“Non posso considerare estraneo a me nulla di ciò che è umano”
(Terenzio, Il punitore di se stesso)
A cura della prof Elisabetta Zammitto
Un percorso etimologico sul diritto primario
dell’uomo: il cibo
Classe V A: ricerca di fonti relative alla storia dei principi alimentari
Sintesi dei materiali utilizzati per la trattazione degli argomenti, individuati
sia tramite ricerche su internet sia attraverso testi reperiti dagli alunni, nonché
presentazioni in power point sui principi di base dell’alimentazione e sulla storia del cibo. L attività svolta con il gruppo classe è stata strutturata con lezioni
frontali e dibattiti.
(dschola) PANE
Per diverse che fossero le usanze, in tutte le cittá greche l’alimento base
restó sempre il pane. Si trattava di pane che poteva sembrare diverso perché
diverse erano le forme nelle quali esso veniva foggiato nelle diverse regioni, ma
sempre pane era. In Grecia, dato che ogni cittá aveva le sue varietá preferite,
ne esisteva un grandissimo numero di tipi, tanto che se ne potevano contare
ben 66 varietá. Oltre al pane comune esistevano infinite forme di pagnotte
piú o meno attraenti, comprese quelle che si cuocevano per le feste religiose e
venivano offerte a particolari dei. Tra queste, tanto per fare un esempio, quelle
grandissime offerte a Demetra durante la festa della megalartia ossia dei grandi
pani, le achenas, che venivano portate alla dea salmodiando la preghiera “una
capra piena di lardo per la nostra signora addolorata.” Evidentemente si dava
la forma di tali animali a queste saporite pagnotte impastate con pezzi di lardo
e probabilmente nel sacrificio esse sostituivano la ben piú costosa capra. Vi
erano poi i pani commerciali destinati all’uso comune e quelli cucinati nelle
case private. I Greci stimavano molto i pani di orzo. Oltre il pane di orzo vi era
naturalmente il pane di frumento e ve ne erano di diversi tipi e diversi nomi. I
fornai si sbizzarrivano nel foggiare la pasta in forme attraenti e ad insaporirla in
modo stuzzicante con semi aromatici. Si passava dal pane comune, l’aghelaios,
62
per arrivare al boletinos, un pane a forma di fungo cosparso di semi di papavero. Oltre al seme di papavero per insaporire il pane si usavano anche altri semi
come il cumino, il lino ed il sesamo. Vi erano poi i panini fatti a forma di fiore
come gli apaloi ed i krinoi, questi ultimi a forma di giglio; i giganteschi sfilatini
o le trecce confezionate con l’aggiunta di latte, olio, pepe e lardo. Si parla pure
di un tipo di focaccia, la thridakisine, il cui nome deriva da quello della lattuga, probabilmente perché era una sfoglia larga e sottile. In contrapposizione
si aveva poi il cubo, simile al nostro pane a cassetta, ma insaporito con anice e
formaggio e condito con olio. Ne parla Eracleide nella sua Arte della cucina.
Il pane si distingueva anche per i diversi metodi di cottura. Vi era il pane
cotto nel clibano, forno portatile di origine piuttosto antica nel quale si preparavano i cribani, panini a forma di seno. Vi era poi il pane artopticeus del quale
parla anche Plinio ed il pane di forno l’ipnite che veniva sfornato dalle panetterie senza contare il pane cotto sui carboni e quello posto sotto la cenere. Una
specialitá molto apprezzata era anche il pane di braciere, un pane piatto, molle
e spugnoso che si mangiava inzuppandolo nel vino dolce.
L’alimentazione degli atleti nell’antica Grecia
(A cura prof. Tiziano Vidoni)
L’antica Grecia, com’è noto, è la patria delle Olimpiadi, e lì agli atleti era
riservato, insieme con i poeti, il posto più elevato della società. Ma cosa mangiavano i lottatori e i corridori degli antichi Giochi Olimpici? Ne ha parlato,
in occasione della giornata di studio “Integrazione di nutrienti nello sport”
tenutasi l’8 marzo 2002 in ateneo, il professor S. Pezzella, esperto di storia
dell’alimentazione nell’antichità. Questi atleti d’altri tempi, come ha spiegato
il professore, dapprima mangiavano pane, miele, frutta secca, verdure e pesce;
solo più tardi si capì l’importanza delle proteine della carne per loro. Nell’epoca dei sontuosi banchetti dei ricchi, gli atleti avevano uno stile di vita e un’alimentazione completamente diversi, austeri, che permettevano loro di rimanere
forti.
Il retore greco Filostrato affermava che essi dormivano sulla nuda terra o
su pagliericci, si lavavano in fiumi e torrenti e si nutrivano di gallette d’orzo,
frutta varia e miele e formaggio caprino con cui preparavano una sorta di fonduta. Eppure erano rampolli delle famiglie dell’élite, dell’alta società: a loro era
infatti riservata la partecipazione alle Olimpiadi e agli altri Giochi, a causa dei
costi esorbitanti della preparazione e degli allenatori privati. L’austerità mirava
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quindi alla fortificazione del corpo e dello spirito. La dieta, come detto, in seguito si arricchì di carne di bue, di maiale o di cervo arrostita o allo spiedo con
erbe aromatiche, e poi anche di minestre di legumi, frumento, pane di farro,
orzo e riso, olio di semi, strutto. Il pesce, soprattutto trote, veniva servito in
foglie di vite o di fico, e i dolci, utili agli atleti per l’apporto energetico, erano
costituiti da focacce di ricotta, miele o mandorle. E se avevano problemi intestinali, ecco pronti i decotti di alloro o altre piante dalle virtù terapeutiche.
Ecco la dieta tipo prescritta dai medici: a colazione pane e miele, latte di
capra e un po’ di farina impastata con olio; a mezzogiorno frutta secca, fichi,
noci, crostoni di pane di farro con vegetali, olive nere, uova, formaggio caprino e vino mielato; a cena carne allo spiedo o alla griglia con erbe aromatiche,
zuppa nera con carne, formaggio, verdure cotte o crude, pesce marinato e
frutta. E c’era anche l’antidoping: gli atleti che esageravano col vino venivano
esclusi dalle gare. Gli atleti dell’antica Grecia, ha concluso Pezzella, miravano
alla bellezza, alla forza, alla determinazione e al coraggio; avevano l’ambizione
di conseguire la gloria eterna, in una perfetta sintesi di virtù fisiche e spirituali.
Dovete sapere comunque che l’alimentazione giornaliera dei Greci iniziava
con una prima colazione leggera (akràtisma), consumata molto presto all’inizio
della giornata e costituita da olive, formaggio e fichi, a cui si accompagnava
una fetta di pane intinta nel vino puro.
Il pasto principale per i Greci era il pranzo, l’Ariston, il migliore, la colazione era soltanto uno spuntino accessorio, dato che a metà giornata mangiavano
davvero di tutto! Focacce d’orzo o di grano, carni rosse o bianche, cacciagione
allo spiedo, pesce, verdure, legumi, molte cipolle, aglio e vari tipi di olive e
formaggi…diciamo che al mattino potevano davvero stare leggeri!
Ma gli atleti? Chi voleva diventare un vero campione Olimpico, doveva
seguire una “dieta” particolare, uno stile di vita e un’alimentazione completamente diversi, austeri, che permettevano loro di rimanere sani e forti. E quindi,
cosa mangiavano? Inizialmente solo pane, miele, frutta secca, verdure e pesce;
solo più tardi si aggiunsero le proteine della carne, che fornivano loro uno
stato di eccitazione ed “energia superiore”
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Giorgio Ieranò doping, inganni e morti sospette
(A cura del prof. Tiziano Vidoni)
Ecco lo sport degli antichi
di Massimo Vincenzi
CI SONO atleti disposti a tutto pur di vincere, anche ad autodistruggersi.
Ci sono atleti che si ammalano. Altri che muoiono in maniera sospetta. Ci sono
medici compiacenti che studiano il modo per migliorare al massimo le prestazioni dei loro pazienti. Ci sono allenatori e presidenti che calpestano ogni regola pur di arrivare davanti agli altri. Sembra lo sport di oggi, ma invece è quello
di tremila anni fa. Manca solo la televisione, per il resto c’è tutto. Soprattutto
c’è il lato oscuro: doping in testa.
A raccontarlo è Maurizio Zerbini nel suo libro “Alle fonti del doping” in
uscita per L’Erma nei prossimi giorni. Dottore in ricerca all’università La Sapienza di Roma, l’autore entra nella macchina del tempo e ricostruisce, appoggiandosi con scrupolo minuzioso alle fonti dell’epoca, il fenomeno del doping
nelle Olimpiadi antiche. Ed è un viaggio ricco di sorprese.
Primo equivoco da sgomberare: scordatevi pentoloni in stile pozione di
Asterix o intrugli tossici come - per esempio - le foglie di coca per i popoli
andini. Il doping in Grecia è un affare serio, razionale, programmato con scrupolo, affidato a gente esperta, ben istruita. Doping che gli atleti subiscono,
incapaci di ribellarsi, anzi contenti di sottoporsi a queste “cure particolari”,
che sono talmente simili a riti iniziatici tanto da confondersi con essi. E quando qualcuno di loro ha qualche dubbio, ci pensano le legnate e le frustate dei
tecnici a convincerlo.
Tutti felici e incoscienti anche perché, come spiega Zerbini, “nello sport
della Grecia antica manca completamente il concetto di illeicità”: per vincere
vale tutto e tutto è consentito. Doping certo, ma anche inganni, scorrettezze in
pista, tentativi di corruzione. Altro che barone De Coubertain, tanto che poi finite le competizioni - è d’obbligo una visita al tempio per purificarsi.
La prima Olimpiade è del 776 a.c. e ci sono subito le prime tracce di doping. “Alimentazione differenziata”, scrive Zerbini, che non è proprio la stessa
cosa, ma ci assomiglia parecchio. Gli atleti designati a partecipare alle gare
vengono sottoposti - un mese prima del via - ad una rigorosissima dieta a base
di latticini. È un tentativo iniziale, empirico, di aumentare le prestazioni dei
campioni olimpici. Il salto di qualità arriva nel quarto e quinto secolo: chi ha i
soldi ingaggia medici disposti a curare passo dopo passo la preparazione fisica
di chi gareggia. E da qui in avanti “si sperimenta davvero di tutto”. Una corsa
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dentro la corsa, con le più brillanti menti della polis impegnate a spostare il
limite sempre un passo più in là. Tra i più appassionati alla ricerca c’è il matematico Pitagora, che evidentemente non si diletta solo con i numeri.
Anche in questa fase però l’azione è tutta incentrata sulla dieta. “Una dieta forzata, esagerata, che fa assomigliare i campioni dell’epoca più a ingordi
mangioni che ad atleti”. L’arma segreta è la carne, di tutti i tipi, ma soprattutto
quella di maiale che diventa l’alimento base. Scorpacciate da ripetere tre o
quattro volte al giorno e poi cacciagione, carne di bue, di agnello, di capra.
Piatti che sulle tavole delle persone normali arrivano solo in occasione delle
grandi feste, vengono somministrati con notevole frequenza agli atleti. E il doping si limita a questo “solo perché i medici del tempo non avevano le nostre
conoscenze tecnologiche”, scrive Zerbini, “altrimenti non si sarebbero fermati
davanti a niente”. La cura funziona: gli atleti vincono. Solo che poi, molti di
loro, si ammalano e muoiono. Ippocrate è il primo ad accorgersene, ma anche
Galeno studia il fenomeno: “L’atleta per diventare forte, non può vivere a lungo”, è la loro conclusione.
A conferma della propria tesi Ippocrate ricostruisce la dieta di uno dei
beniamini di allora: Biante. Che si mangia quantità enormi di formaggi, carne
di maiale poco cotta, montagne di meloni, frutta, uova. Il tutto innaffiato da
dosi massicce di vino (proibito invece agli spettatori) e latte. E allora si capisce
bene Galeno che descrive gli atleti come “maiali all’ingrasso”. “Uomini con
poco cervello” destinati a morire presto. Uomini manipolati dagli allenatori e
dai medici, che costruiscono su di loro i propri trionfi. Sembrano atleti di oggi,
invece sono di tremila anni fa.
Nell’antica Grecia
I Greci preparavano già il primo precursore della pasta, il “laganon”, un
foglio grande e piatto di pasta, agliato e tagliato a strisce. Da “laganon” deriva
il “laganum” latino, che Cicerone cita nei suoi scritti. “Lagane” e sfoglie di
pasta conquistarono l’Impero e, come spesso accade, ogni popolo adattò la
novità alle proprie esperienze.
Allenamento Spartano Cenni di Storia
l’allenamento fisico nell’antichità
La pratica dell’attività fisica come strumento per migliorare la performance affonda le proprie radici nei tempi antichi. Poco prima della
battaglia delle Termopili (480 A.C.) Re Serse incaricò i suoi esploratori di re66
carsi di nascosto nell’accampamento degli spartani al fine di spiarne le mosse.
Gli esploratori riferirono al sovrano come gli spartani fossero quotidianamente impegnati ad allenare il proprio corpo con esercizi callistenici. Solo
dopo che, nel corso della battaglia, i 300 spartani riuscirono a tenere testa agli
oltre 120.000 soldati di Serse, fino all’arrivo delle altre forze greche, il sovrano
comprese a proprie spese la ragione per cui il popolo greco desse una tale importanza all’esercizio fisico.
Gli spartani, che sono da sempre considerati i più possenti guerrieri mai
esistiti, basavano il loro allenamento quasi interamente su esercizi dove il peso
corporeo fungeva da sovraccarico. Nell’antica Grecia gli atleti olimpici si allenavano per la forza utilizzando come sovraccarico quanto era a loro disposizione, in primis il peso del proprio corpo.
La massima espressione del fisico “ideale” fa ancora oggi riferimento alle
statue greche, scolpite utilizzando come modelli gli atleti olimpici, che dovevano il loro incredibile sviluppo muscolare all’allenamento, che accresceva il loro
fisico fino ai massimi potenziali naturalmente acquisibili.
Gli atleti greci si distinguevano, oltre che per le loro imponenti masse muscolari e la bassissima percentuale di grasso corporeo, soprattutto per la potenza muscolare, che si sposava con un’incredibile agilità ed una rimarchevole
grazia nei movimenti e bellezza delle forme fisiche. Agli antichi greci dobbiamo il principio che recita come per accrescere la propria forza sia necessario
manipolare il sovraccarico, incrementandolo progressivamente.
Si narra che Milone di Crotone, il più celebre lottatore greco antico, in
gioventù, per allenare la propria forza, solesse portare quotidianamente sulle
spalle un vitello. Giorno dopo giorno il vitello cresceva e pesava sempre più,
e il giovane Milone incrementava così la dimensione e la forza dei propri muscoli, costretti ad adattarsi a sollevare un carico progressivamente crescente.
Pentathlon Antico
a cura di Paolo Tassinari
Quando l’agonistica e la ginnastica giunsero al loro massimo sviluppo, i
Greci inventarono il Pentathlon che comprendeva cinque esercizi scelti tra i
più duri e i meno faticosi, in modo che le cinque gare potessero eseguirsi facilmente l’una dopo l’altra. Il pentathlon fu come la sintesi della ginnastica greca
e il trionfo degli esercizi migliori per lo sviluppo armonico delle forme, della
forza e della sveltezza del corpo umano.
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Il reperto storico più significativo al riguardo è il grande mosaico scoperto
nelle Terme di Caracalla e che ora si trova nel Laterano, nel quale si possono
ammirare delle rappresentazioni fedeli delle cinque gare che costituiscono il
pentathlon o quinquerzio.
L’antica agonistica greca – le 5 prove
L’educazione ginnico/sportiva dei Greci si basava soprattutto sulla pratica
del pentathlon (corsa – salto – lotta – disco – giavellotto) a cui si aggiunsero poi
il pugilato e il pancrazio. Il pentathlon non è che l’antica agonistica omerica.
Veniva prima la corsa, come esercizio base, diretta a fortificare le gambe.
Il secondo esercizio era il salto, che fu introdotto nella 18° Olimpiade effettuato con una specie di manubri detti Haltheres o halteri.
Salto ricreativo era quello celebrato in onore di Bacco, consistente nel saltare sopra un’otre pieno e unto di olio, rimanendo in equilibrio sopra un solo
piede.
Il terzo esercizio era il lancio del giavellotto, esercizio educativo di vigore e
destrezza per i giovani e di preparazione alla guerra per i soldati.
Il giavellotto era un bastone non molto lungo, fatto “a punta” all’estremità.
Spesso veniva lanciato col sussidio di una correggia “ad ansa” entro la quale
i lanciatori passavano l’indice e il medio. Veniva portato dal lanciatore fino al
livello dell’orecchio e poi lanciato con un rapido passo in avanti, alla maggior
distanza possibile.
Il quarto esercizio era il lancio del disco, già ricordato nell’agonistica omerica. Il lancio del disco, imprimeva sviluppo ai muscoli delle spalle e delle braccia nonché alla forza della mano. Riuscivano vincitori quelli che lanciavano il
disco alla maggior distanza o altezza.
Il quinto esercizio era la lotta, entrata probabilmente nelle gare della 15°
Olimpiade. Suoi scopi erano il vigore fisico, la destrezza, l’agilità, la prontezza
di spirito.
Pentathlon alle olimpiadi
Il pentathlon venne introdotto per la prima volta in Olimpia ne 708 a.C.
– Che questa data sia più o meno esatta e relativamente sicuro: Omero infatti
non conosce il pentathlon come tale, ma quando veniva composto il XXIII
dell’Iliade (Giochi Funebri di Patroclo) esso era in formazione perché in quei
giochi sono comprese, sia pure separatamente quattro delle cinque gare che lo
costituiscono (disco, giavellotto, corsa, lotta); lo stesso dicasi per l’VIII della
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Odissea (Giochi dei Feaci) ove il pentathlon non è nominato ma qua e là vengono ricordate tutte le gare.
È noto che nel pentathlon, ove uno dei concorrenti avesse vinto tre delle
cinque gare, si procedeva senz’altro a proclamarlo vincitore senza perdere ulteriore tempo nello svolgimento de gare ormai divenute superflue. Se invece
due atleti vincevano due gare per ciascuno, gli altri concorrenti erano eliminati
e l’ultima prova, la lotta, decideva a quali dei rimasti in lizza toccasse la corona:
questo si verificò nel 480, quando Ieronimo D’Andro, vincitore nei due lanci,
superò, come era prevedibile nella lotta il più veloce ma meno solido Tisameno
che aveva vinto le gare di corsa e di salto.
Pentathlon: le prove
Affidandoci alla testimonianza delle fonti, l’ordine delle prove nel pentathlon è: corsa, salto, disco, giavellotto, lotta.
Per quanto riguarda l’ordine con cui si succedevano le gare, si premette che
non è certo che tale ordine fosse fisso e che non variasse a seconda dei tempi e
dei luoghi. L’unica cosa che sappiamo di sicuro è che la lotta era l’ultima gara.
Bachilide la descrive chiaramente come ultima e la sua testimonianza è
confermata da Erodoto e da Senofonte. Descrivendo l’attacco ad Olimpia da
parte degli Elei nella 104° Olimpiade, dopo che gli Arcadi avevano usurpato la
presidenza dei Giochi. Senofonte dice: “Era già terminata la corsa a cavallo, le
gare di pentathlon si erano già svolte nel dromos e i lottatori non erano più nel
dromos ma gareggiavano fra il dromos e l’altare”. Ad ogni modo appare chiaro
dalla parole di Senofonte che la lotta veniva per ultima.
Nessun concorrente avrebbe comunque potuto ben figurare in un’altra
gara dopo parecchie e faticose riprese di lotta.
La vecchia ipotesi che fosse necessaria la vittoria in tutte e cinque le gare,
può essere messa da parte perché la vittoria nel pentathlon sarebbe stata estremamente difficile in quanto raramente poteva accadere che un atleta vincesse
tutte e cinque le gare. Quello che possiamo con una certa sicurezza dedurre è
che era sufficiente la vittoria in tre gare su cinque. È stato anche detto che la
vittoria in tre gare su cinque non solo era sufficiente ma era necessaria. Possiamo ricordare che Polluce afferma che il termine usato per la vittoria nel
pentathlon era “vincere tre volte”. Ma l’ipotesi che fosse necessario vincere almeno tre gare non offre sufficiente garanzia, cosicché possiamo rigettare tutte
le ipotesi basate su questa affermazione.
La sola conclusione che sia possibile dedurre dalle parole è che solo quelli che
si erano qualificati nelle prime quattro gare erano ammessi a gareggiare nella lotta.
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Pertanto si può dire che la vittoria in tre gare era sufficiente ma non necessaria.
Il pentathlon cominciava con la corsa. La distanza era di uno stadio. La
corsa poteva essere fatta a batterie, se necessario. La linea di partenza ad Olimpia poteva accogliere venti concorrenti.
La gara di salto, lancio del disco e del giavellotto si eseguivano come ai
giorni nostri: tutti gareggiavano contro tutti.
Le gare di lotta si svolgevano su gironi. Era ammessa solo la lotta in piedi
ed era necessario far cadere l’avversario tre volte per poter vincere.
Pentathlon alle olimpiadi – iv giorno
Il quarto giorno dei Giochi era consacrato al pentathlon, ammesso nel
programma olimpico dopo la 17° Olimpiade.
“Gli uomini più belli sono pentatleti: essi sono agili e potenti” dirà più
tardi Aristotele.
“Cinque sono le prove del pentathlon: Il salto, il lancio del disco e del
giavellotto, la corsa, la lotta. Bisogna vincere tre di queste gare per essere riconosciuto olimpionico.
I saltatori misurano la rincorsa e sono convinti di aumentare la loro potenza appesantendosi di piccoli halteri (nota pesavano da 1 a 4 kg) di ferro, di
pietra o di piombo, che essi muovono verso l’alto durante il salto. Ma gli artisti
hanno occhi solo per i lanciatori il cui gesto armonioso ed elegante mette in
evidenza la potenza muscolare.
I Giochi Olimpici si chiudono con il pentathlon, poiché la corsa in armatura è la chiusura dei Giochi, è una parata più che una gara.
Vestiti in armatura completa da combattimento, riuniti tra i pali della pista
in cui si sono svolte le prime prove di corsa, gli atleti si lanciano per correre lo
“stadio”. Essi hanno lo scudo e brandiscono le lance. Correndo lasciano cadere ad una ad una le loro armi, poi le armature e finiscono interamente nudi”.
Pentathlon: chi l’ha inventato
Chi per primo abbia avuto l’idea di articolare in un’unica disciplina atletica
i quattro sport omerici, più il salto si ignora. Il pentathlon appare nel catalogo
delle Olimpiadi nel corso della 18° Olimpiade (708 a.C.). Siamo nel pieno periodo della potenza spartana. Nello spazio di dodici anni (720 al 708), tre alteti
spartani vinceranno il dolico, il pentathlon e la lotta inserita per la prima volta
nel programma delle Olimpiadi. È dunque uno spartano Lampidem l’atleta
che apre il libro d’oro dei pentatleti. Un altro spartano Filombroto vincerà il
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pentathlon per tre olimpiadi consecutive (676, 672, 668 a.C.).
Ancora uno spartano Acmantida vincerà il pentathlon quasi due secoli
dopo (70° Olimpiade – 500 a.C.)
Pentathlon: Pausania – Callippo
Le gare si svolgevano nei due massimi Stadi, quello di Olimpia (45.000
spettatori) e quello di Efeso (75.000 spettatori).
L’Olimpiade era retta da un regolamento redatto dagli Elei, giudici imparziali ed intransigenti. Narra Pausania che un tale di nome Callippo, ateniese,
fu il primo severamente punito, per aver “comprato” dai suoi competitori il
premio del pentathlon. Gli Ateniesi rimasero esclusi per ben tre Olimpiadi
finché non pagarono la grossa ammenda per la mancanza del loro atleta.
Pentathlon: Aristotele
Aristotele che aveva una concezione vivente sugli atleti greci dell’epoca
classica diceva: “I pentatleti sono gli uomini più belli, perché sono fatti sia per
le prove di forza che per quelle di velocità; sono certamente specialisti, velocisti, fondisti, lottatori, pugili e pancrazisti – ma è pentatleta colui che è capace
di risultati apprezzabili in tutte le specialità (Retorica I. 5).
Si trova soltanto una traccia di pentathlon per adolescenti (628 a.C. 38°
Olimpiade); probabilmente si pensava che fosse troppo faticoso per loro e lo
si abolì.
Secondo Pausania e Filostrato fu la gelosia per la vittoria dello spartano
Eutelidas che fece decidere gli Elleni di radiare questo pentatlon per adolescenti dal programma.
L’inserimento del pentathlon nel programma dei Giochi greci, significa
l’apprezzamento di questa competizione.
Ci sono poche notizie riguardanti l’allenamento dei pentatleti. Icco di Taranto vincitore del pentathlon nel 476 a.C. ad Olimpia, seguendo i principi
fondamentali di una dietetica razionale atletica con una alimentazione dosata
con astinenza e con una moderazione di vita. Pausania ci dice che nel campo
dell’allenamento ad Elis ci si allenava sotto il sole di mezzogiorno per assuefarsi alle gare di Olimpia. Inoltre Filostrato diceva che ogni concorrente doveva
essere allenato secondo un piano individuale.
La longevità di questa competizione durò per un periodo di oltre mille
anni.
Numerosi nomi di vincitori del pentathlon figurano nella lista dei vincitori
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effettuata da Ippia ed altri. Per esempio Pindaro ricorda 52 nomi di vincitori:
27 nei Giochi Olimpici, 4 nei Giochi Pitici, 7 nei Giochi Nemei, 2 nei Giochi
Istmici, 5 nei Giochi Panateniesi.
Lo Spartano Filombroto è indicato tre volte come vincitore del pentathlon.
Aristotele che apprezzava il pentathlon così scrisse: “Colui che sa portare
velocemente i suoi piedi in avanti è un corridore; Colui che sa dominare il suo
rivale con fermezza e con forza e che da a sua volta resistere alla pressione
dell’altro è un lottatore; Colui che sa difendersi a forza di pugni dal suo rivale
è un pugile; Colui che sa nello stesso tempo lottare e boxare è un pancrazista,
Ma colui che sa fare tutto è un pentatleta.
Possiamo ammettere che Mirone per il suo Discobolo e Policleto per il
suo Dorifo, avevano come modelli dei pentatleti, essendo scontato che queste
specialità non erano eseguite che nel pentathlon.
PROGETTO CIBO E MICROIMPRESA
Sviluppo di attività di micro-imprenditoria femminile,
Batticaloa
Il progetto di microcredito di @uxilia si concentra su attività di formazione
e di promozione di attività generatrici di reddito, rivolgendosi alle fasce più
vulnerabili, rappresentate dalle donne, vedove o ex-bambine soldato delle comunità di etnia tamil presenti nel Nord-Est dello Sri Lanka.
Il progetto si inserisce in un contesto caratterizzato da una povertà sempre
più diffusa, soprattutto nelle zone rurali, con forti ripercussioni sulle fasce più
vulnerabili della popolazione, tra cui le donne, evidenziando il forte intreccio
tra tematiche di genere e povertà.
Il progetto prevede l’attivazione di corsi di formazione mirati al rafforzamento delle capacità e competenze professionali, organizzative e gestionali
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delle donne e il successivo avvio di piccole attività di micro-imprenditoria.
I laboratori tecnici, che si realizzeranno all’interno di strutture presenti sul
territorio, riguardano tecniche di tintura e lavorazione di tessuti e sartoria,
tecniche di trasformazione, preparazione e conservazione di frutta, verdura e
alimenti cucinati, tecniche di micro-giardinaggio e tecniche di costruzione e
manutenzione delle reti da pesca.
Le donne vengono così arricchite di un know-how che permette loro di
gestire al meglio le proprie attività e di potenziarne l’operato.
Una volta terminata la formazione teorico-pratica, le donne selezionate hanno potuto formare a loro volta altre donne, membri delle comunità di
appartenenza delle stesse, moltiplicando così le possibilità di diffusione delle
tecniche apprese.
Conclusa la fase di formazione e di moltiplicazione della formazione, il progetto ha previsto la costituzione all’interno delle strutture di @uxilia di un
Servizio per gestire il fondo monetario di micro-credito, con la supervisione di
un referente dell’Associazione @uxilia, volto a sostenere piccole idee imprenditoriali delle donne formate dal progetto stesso.
Il fondo di micro-credito ha quindi lo scopo di favorire l’ideazione e la realizzazione di piccole idee imprenditoriali, basate sulle tecniche approfondite
con la formazione, per avviare o sviluppare progetti di auto-impiego. Stabilita
la durata di concessione del finanziamento, le piccole imprese femminili nascenti dovranno restituire il credito ricevuto, il quale andrà a finanziare nuovi
progetti selezionati.
Grande rilevanza viene data al coinvolgimento delle donne per il fondamentale ruolo di favorire un avvicinamento delle istituzioni ai problemi
dell’esclusione sociale ed economica che le riguarda e delle ripercussioni nella
società cingalese in generale. Tutte le attività sono state programmate partendo dalla rilevazione delle necessità delle donne legate ad esigenze, obblighi
ed impegni familiari. Inoltre la costituzione di un fondo di micro-credito de-
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stinato alla creazione di progetti di imprenditoria femminile, costituisce un
apporto fondamentale all’approccio di genere, mirando al totale auto-impiego
delle donne coinvolte, che deciderebbero il loro futuro sin dalla fase della progettazione. Dopo una formazione teorica e tecnica, le donne possono infatti
accedere al micro-credito formulando dei micro-progetti imprenditoriali che
realizzeranno con l’aiuto di un contributo finanziario. Una volta avviata l’attività, restituiranno la somma ricevuta la quale andrà a finanziare nuovi progetti
imprenditoriali di altre donne.
I risultati del progetto saranno divulgati dall’Associazione Auxilia e Koinonia nel territorio locale in una serie di eventi e iniziative che possano far
conoscere e promuovere i servizi offerti oltre ai prodotti e alle attività svolte e
moltiplicare le possibilità di commercio dei prodotti stessi e dall’Associazione
Auxilia Onlus attraverso pubblicazioni e conferenze con l’obiettivo di sensibilizzare le comunità ai temi della cooperazione allo sviluppo e del microcredito
come possibilità di auto-impiego.
Le attività di realizzazione del progetto prevedono l’attivazione e l’organizzazione della struttura operativa di coordinamento e amministrazione per
l’implementazione di tutte le azioni previste al raggiungimento degli obiettivi
e risultati finali (accordi con i partners locali; organizzazione della didattica
e disegno del corso; iscrizione e selezione degli iscritti); si svilupperanno tutte quelle attività che consentiranno l’allestimento della aule di formazione, la
realizzazione dei corsi di formazione, l’apertura dello sportello per l’imprenditoria (acquisto attrezzature, formazione professionale teorico-pratica, moltiplicazione della formazione ai restanti membri delle comunità dei villaggi,
creazione di uno Sportello per l’imprenditoria per il territorio del nord-est
dello Sri Lanka, accordi con il partner locale, organizzazione logistica dello
Sportello, selezione e contrattazione del personale); fondamentale la fase di
sensibilizzazione e divulgazione delle azioni realizzate nel corso dell’intera
durata del progetto, attraverso la creazione di una rete destinata a diventare
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punto di riferimento per la condivisione e lo scambio di informazioni, risorse,
strumenti e best practices per gli attori coinvolti nella rete, l’organizzazione
di conferenze e meeting per la sensibilizzazione comunitaria sulle tematiche
della cooperazione allo sviluppo, divulgazione dei risultati e pubblicazioni.
Il presente progetto mira a contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di
Sviluppo del Millennio per l’anno 2015 in riferimento all’obiettivo 3 che si prefigge di “Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne”.Il progetto
si inserisce in un contesto caratterizzato da una povertà sempre più diffusa,
soprattutto nelle zone rurali, con forti ripercussioni sulle fasce più vulnerabili
della popolazione, tra cui le donne, evidenziando il forte intreccio tra tematiche di genere e povertà. Nonostante gli interventi umanitari e di cooperazione
da parte di molte associazioni, i risultati sono stati spesso limitati dalla debolezza delle attività proposte, scarsamente efficaci e a sostenibilità limitata, non
in grado di risolvere in modo adeguato i reali bisogni, relegando i beneficiari
nel circolo vizioso della povertà.
Descrizione pratica del progetto:
il progetto ha previsto l’attivazione di corsi di formazione mirati al rafforzamento delle capacità e competenze professionali, organizzative e gestionali delle donne e il successivo avvio di piccole attività di micro-imprenditoria. Sono
state selezionate 30 donne che, divise in sottogruppi, parteciperanno a diversi
moduli di formazione teorico-pratica riguardante lo sviluppo di competenze
tecniche in attività generatrici di reddito, al fine di favorire le possibilità di inserimento lavorativo per le donne coinvolte. La formazione in attività generatrici
di reddito si è costituita in un modulo teorico volto a sviluppare conoscenze
tecniche nei settori dell’imprenditoria, della qualità dei prodotti, della gestione
delle vendite, ed un modulo tecnico che fornirà la possibilità di imparare e/o
approfondire alcune tecniche lavorative fondamentali nell’economia cingalese.
I laboratori tecnici, che si sono realizzati all’interno di strutture presenti sul
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territorio, implementate dalle associazioni Auxilia e Koinonia e hanno riguardato: tecniche di tintura e lavorazione di tessuti e sartoria, tecniche di trasformazione, preparazione e conservazione di frutta, verdura e alimenti cucinati,
tecniche di micro-giardinaggio e tecniche di costruzione e manutenzione delle
reti da pesca. Le donne saranno così arricchite di un know-how che permetterà
loro di gestire al meglio le proprie attività e di potenziarne l’operato. Una volta
terminata la formazione teorico-pratica, le donne selezionate hanno formato
a loro volta altre donne, membri delle comunità di appartenenza delle stesse, moltiplicando così le possibilità di diffusione delle tecniche apprese. Conclusa la fase di formazione e di moltiplicazione della formazione, il progetto
ha previsto la costituzione all’interno delle strutture di Auxilia e Koinonia, di
un Servizio per l’imprenditoria che potrà essere gestito da alcune delle donne
precedentemente formate ed individuate dall’Associazione locale, e che potrà
fornire supporto e informazioni riguardo l’impiego, le modalità di progettazione e realizzazione di iniziative imprenditoriali. Il Servizio per l’imprenditoria
ha inoltre l’importante compito di gestire, a progetto formativo terminato, un
fondo monetario di micro-credito, con la supervisione di un referente dell’Associazione locale, volto a sostenere piccole idee imprenditoriali delle donne
formate dal progetto stesso. Il fondo di micro-credito ha quindi lo scopo di favorire l’ideazione e la realizzazione di piccole idee imprenditoriali, basate sulle
tecniche approfondite con la formazione, per avviare o sviluppare progetti di
auto-impiego. Stabilita la durata di concessione del finanziamento, le piccole imprese femminili nascenti dovranno restituire il credito ricevuto, il quale
andrà a finanziare nuovi progetti selezionati. Il rafforzamento della rete tra le
donne coinvolte nel percorso formativo teorico-pratico, anche al termine della
formazione, mira inoltre ad aumentare il coinvolgimento istituzionale e rendere l’intera comunità cosciente delle opportunità sul territorio. La fase di analisi
del contesto e dei problemi è stata realizzata rivolgendo la totale attenzione
alla situazione della donna in Sri Lanka, con particolare riferimento alle risorse
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destinate alle attività di empowerment femminile sia a livello sociale che economico, a favore di una fascia ancora più soggetta all’esclusione rappresentata
dalle vedove e dalle ex-bambine soldato di etnia tamil. Grande rilevanza viene
data al coinvolgimento delle donne per il fondamentale ruolo di favorire un avvicinamento delle istituzioni ai problemi dell’esclusione sociale ed economica
che le riguarda e delle ripercussioni nella società cingalese in generale. Tutte le
attività sono state programmate partendo dalla rilevazione delle necessità delle
donne legate ad esigenze, obblighi ed impegni familiari. Inoltre la costituzione
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di un fondo di micro-credito destinato alla creazione di progetti di imprenditoria femminile, costituisce un apporto fondamentale all’approccio di genere,
mirando al totale auto-impiego delle donne coinvolte, che deciderebbero il
loro futuro sin dalla fase della progettazione. Dopo una formazione teorica
e tecnica, le donne possono infatti accedere al micro-credito formulando dei
micro-progetti imprenditoriali che realizzeranno con l’aiuto di un contributo
finanziario. Una volta avviata l’attività, restituiranno la somma ricevuta la quale
andrà a finanziare nuovi progetti imprenditoriali di altre donne.
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Progetto
“Sviluppo attività di microimprenditoria femminile”
selezionato da Women for
Si ringrazia l’Azienda Agricola Bastianich di Cividale del Friuli
Progetto
“Sviluppo attività di microimprenditoria femminile”
selezionato da Women for