Working for Life Il Cibo che nutre Educazione Alimentare A cura dei ragazzi del Liceo Petrarca di Trieste classi I B, I C, V A, anno scolastico 2014/2015 In collaborazione con i docenti prof. Elisabetta Zammitto, prof. Tiziano Vidoni, dott. Rita Calderini Si ringrazia l’Azienda Agricola Bastianich di Cividale del Friuli Working for Life Il Cibo che nutre Educazione Alimentare A cura dei ragazzi del Liceo Petrarca di Trieste classi I B, I C, V A, anno scolastico 2014/2015 In collaborazione con i docenti prof. Elisabetta Zammitto, prof. Tiziano Vidoni, dott. Rita Calderini Progetto “Sviluppo attività di microimprenditoria femminile” selezionato da Women for STUDIO STORICO SCIENTIFICO DELL’ALIMENTAZIONE (parte generale dott. Rita Calderini) Alimentazione e nutrizione: aspetti medico scientifici dell’alimento Dal punto di vista medico per parlare del cibo è opportuno fare una breve precisazione riguardo al valore semantico dei termini utilizzati nel lessico popolare. Distinguo, dunque, i termini: alimentazione e nutrizione. Il primo indica l’aspetto generale di rifornimento di energia per qualunque sistema (macchinario, motore, essere vivente, ecc.) che lo richieda per funzionare, il secondo, invece, ha un significato diretto alla sfera biologica. Riguarda i processi e le funzioni che permettono la digestione degli alimenti, dai quali poi si ricavano le macro e micro molecole, i nutrienti appunto, indispensabili all’assimilazione per fornire all’organismo sì l’energia, ma anche per soddisfare i suoi bisogni specifici. La nutrizione si può definire come la specificazione dell’alimentazione: il cibo contiene quello che serve e con i processi digestivi ottengo i nutrienti necessari. Lo scopo principale nell’ambito della nutrizione è lo studio dell’apporto equilibrato di nutrienti per il mantenimento in salute dell’organismo. Nel gergo comune queste diversità possono sfumare in sinonimie o fraintendimenti come accade spesso per l’uso del termine “dieta” che viene utilizzato essenzialmente per indicare un regime di privazione alimentare, piuttosto che per un regime di apporto equilibrato di sostanze in funzione del fabbisogno umano. Le diete, quindi, sono l’apporto specifico di nutrienti a seconda del fabbisogno dell’organismo in un dato momento della sua storia: per l’accrescimento neonatale, per l’età dello sviluppo, per chi pratica lo sport agonistico, per patologie specifiche. Questi vogliono essere esempi esplicativi non certo esaustivi considerata la vastità e specificità dell’argomento. Nel linguaggio medico, però, queste sottigliezze fanno la differenza, e parlare di alimenti è diverso che parlare dei nutrienti. I nutrienti si trovano negli alimenti, grazie ai processi digestivi si scindono le molecole e l’organismo li può utilizzare. Gli alimenti sono molteplici e conosciuti, quasi scontati: cereali e derivati, legumi, carne, uova, latte, frutta, verdura, olii e grassi ecc. I nutrienti sono le proteine e gli amminoacidi, le vitamine A-B-D-K, l’acqua, i minerali macro (sodio, potassio, calcio, fosforo e magnesio), oligoelementi (ferro, manganese, 5 zinco, rame, iodio, fluoro, ecc.) gli acidi grassi saturi e gli acidi grassi insaturi e gli omega3. Non esamino nel dettaglio tutte le loro funzioni e specificità biochimiche poiché esulano dagli aspetti che andrò a trattare. Mi limito a considerare, però, le loro funzioni basilari. L’apporto energetico e le sostanze nutritive per le cellule dei tessuti, le diverse reazioni che possono provocare: sia positive sia negative, quali per esempio, le risposte immunitarie favorevoli all’organismo, quindi l’aumento delle difese e la protezione alle infezioni o le allergie. Oppure le risposte immunitarie negative: intolleranze e allergie. Sono reazioni che destano notevole interesse nella società odierna perché le conoscenze a riguardo sono approfondite e hanno dato risposte a molti disturbi di cui la popolazione soffre. Si pensi per esempio alle intolleranze alimentari della celiachia, senza trascurare le allergie vere e proprie che mettono a repentaglio la vita stessa dell’uomo. La scienza medica considera un’unica vera intolleranza quella della proteina Gliadina causa dell’intolleranza al grano, il glutine, cioè questa proteina. Altre forme scientificamente rilevanti sono le allergie alimentari quali per esempio quelle alla proteina dell’uovo, del pesce, del latte, delle noci o delle nocciole, o ancora della frutta. Alcune sostanze in esse contenute scatenano nell’organismo gli IgE, anticorpi che danno diverse risposte immunitaria: per esempio reazioni cutanee o forme più gravi come lo shock anafilattico. L’attenzione all’alimentazione è, dunque, un pilastro per la medicina, con essa si può prevenire, curare e mantenere la salute del corpo. Nella nostra quotidianità siamo portati a introdurre nel nostro organismo quantità variabili di alimenti atti a soddisfare i nostri “presunti” fabbisogni. Il medico nutrizionista suggerisce che una sana alimentazione debba rispettare una proporzione precisa dei nutrienti fondamentali quali proteine, carboidrati, grassi, sali minerali, vitamine e deve essere accompagnata, sempre, dall’attività fisica. Sono note le piramidi alimentari che vedono gerarchizzati gli alimenti dal meno frequente da assumere (zucchero, dolci e grassi) nei sette giorni, a quelli invece da poter introdurre abbondantemente o con maggior frequenza (vegetali e fibre). Da osservare che ogni Paese ha la sua produzione di cibo privilegiata e di conseguenza la sua “piramide” di consumo. Ciò che permette all’organismo di mantenere la salute è l’attenzione dell’individuo a far proprio uno stile di vita sano. L’alimentazione oltre a essere un problema di carattere biologico, riveste anche l’interesse dell’economia, della politica, degli studi sociali per cui dei processi culturali. Le abitudini alimentari, infatti, vengono apprese in tenera età frutto di un insieme di interazioni familiari e sociali correlate all’ambiente di riferimento. Modalità analoga all’apprendimento del linguaggio. I nutrizionisti si interessano all’ambiente socioculturale di appartenenza per comprendere come questo sia favorevole o meno all’acquisizione di una corretta scelta 6 alimentare per il buon funzionamento dell’organismo e uno stato di salute del corpo. Quando, però, l’alimentazione conduce l’individuo a una patologia molto complessa come la bulimia e l’anoressia nervosa allora lo studio ambientale è intrinseco alla possibilità di riuscita a una adeguata terapia. Queste malattie, infatti, coinvolgono l’individuo in tutto lo spettro del suo essere, dalla fisiopatologia al benessere-malessere psico-fisico. Il mio interesse verso la nutrizione si concentra sulla natura simbolica del cibo, a ciò che rappresentano le pratiche alimentari e al valore attribuito al cibo all’interno di una cultura. Mi concentro sull’aspetto comunicativo della nutrizione, sia considerando il momento della fruizione del pasto come momento aggregante e motivo di scambio comunicativo, ma soprattutto come il cibo stesso veicoli messaggi. Un piatto ben fatto è indice sia di cura sia di attenzione, ma vado cercando un significato più profondo, un senso quasi nascosto all’apparenza, cerco tutti quegli aspetti non evidenti che caratterizzano la codifica di un messaggio. La medicina riguardo l’alimentazione è molto precisa, poiché il funzionamento dell’organismo dipende da meccanismi ed equilibri biochimici i quali possono venir alterati dall’errata introduzione di elementi nell’organismo. Si pensi agli squilibri dati dall’assunzione di sostanze eccitanti e nervine, all’alcol o alle droghe, al fumo e, quindi, a tutte le patologie correlate all’errata introduzione di cibo nel proprio corpo. Non solo, la medicina pone attenzione anche al tipo di sostanze da evitare o utili da introdurre a seconda della patologia di cui un individuo è affetto. Alcuni esempi possono essere: il diabete, l’ipertensione, le malattie cardiovascolari, le patologie psichiatriche depressive e le sofferenze renali. La cura e attenzione verso l’alimentazione è la base della salute in ogni momento della nostra esistenza, per preservarla o per migliorarla. Le medicine, comunque siano, vanno introdotte nell’organismo perché apportino beneficio e anche queste non esulano da effetti diversi da quelli attesi. Pensando al settore medico scientifico possiamo osservare quanti altri ambiti siano coinvolti: scienze dell’alimentazione, biomedicina, medicina molecolare, farmacologia, scienze agrarie per la produzione alimentare e animale. Si delinea un raggio d’interesse molto ampio che coinvolge il sistema economico nel suo complesso. Prendendo in considerazione, per esempio, l’alimentazione nello sport troviamo l’interesse scientifico abbracciare molti aspetti: la produzione degli integratori alimentari, la ricerca verso le possibili intolleranze che inibiscono l’efficacia degli sforzi fisici, la fisioterapia per uno sviluppo adeguato ed efficiente dei muscoli, la ricerca e la verifica dello stato di salute costante mediante test e analisi mirate. Trattare l’alimentazione significa trattare l’economia di un intero Paese poiché sarà necessario regolamentare tutti questi aspetti. 7 Diritto alla salute La Costituzione della Repubblica Italiana nella prima parte, Diritti e Doveri dei Cittadini, Titolo II: Rapporti Etico-Sociali all’Art. 32: “Tutela (del)la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure […]”. La salute dei cittadini, dunque, è priorità del nostro Paese. La salute viene riconosciuta sia come diritto di libertà, quindi diritto soggettivo, sia come diritto sociale da garantire, meglio definibile come “interesse della collettività”. Il “bene salute” è riconducibile a un valore primario e come tale trova la sua applicazione nel diritto all’integrità psico-fisica, diritto alla difesa da malattie che si esplica nei trattamenti sanitari obbligatori, diritto alla salute come libertà di cura, il diritto a determinate prestazioni e i suoi rapporti con le organizzazioni sanitarie e il Sistema Sanitario nazionale. Nella giurisprudenza italiana troviamo molti casi di tutela e risarcimento del danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica dell’individuo, e collegato a esso c’è anche il tema del riconoscimento e della tutela all’ambiente salubre di vita. Il comma 2 dell’art.32 stabilisce che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Addentrarsi nei particolari di questo argomento porta a toccare principi etici e morali di una vastità enorme che aprirebbe un’argomentazione troppo ampia e non esaustiva dell’importanza di questo settore. In questa sede considerare l’argomento per l’importanza che la salute dell’individuo comporta per sé stesso e per l’intera comunità di appartenenza. L’alimentazione è il primo e fondamentale mezzo per mantenere l’uomo in salute, desidero considerare e cercare di approfondire questo aspetto. Molti Stati e Nazioni adottano una politica sanitaria a garanzia e tutela dei propri cittadini. Considerando la Comunità Europea, per esempio, tra i suoi principali obiettivi c’è quello di prevenire le malattie, promuovere stili di vita più sani, promuovere il benessere, promuovere l’informazione e l’educazione in materia di salute. Sono finalità perseguite nel mondo con normative nazionali e locali specifiche per ogni territorio e nonostante ciò permane ancora l’emergenza sanitaria e alimentare. Questo è il grande paradosso della nostra epoca: esistono circa 900 milioni di persone che patiscono la malnutrizione e la fame, e circa altrettanti invece subiscono i danni di un’alimentazione eccessiva e disordinata. Se ci sono posti in cui si muore di malnutrizione, nei Paesi del benessere si lotta per ridurre i gravi problemi di salute causati dall’obesità. La FAO (FOOD AGRICULTURE ORGANIZATION) nella dichiarazione di Roma 8 del 1996, durante il Word Food Summit, ha dichiarato l’urgenza e il diritto alla “food security” ovvero alla “condizione di garanzia” per l’accesso fisico al cibo, garanzia sociale ed economica a cibo appropriato e sicuro per quantità e qualità, in modo da consentire una vita attiva e sana” per l’uomo. Possiamo farci un’idea precisa del valore del cibo come espressione giuridica osservando le linee guida adottate nel 2004 a seguito del 127 Concilio della FAO: “La disponibilità di cibo sano migliora la salute delle persone e rappresenta un diritto fondamentale umano. La ricerca della qualità del cibo costituisce un altro obiettivo fondamentale del bisogno alimentare dell’umanità. La salubrità del cibo si ottiene con un rigoroso controllo dei sistemi di produzione e con una conoscenza sempre più approfondita della relazione fra condizione umana e nutrizione”. Tra le linee guida troviamo anche sostenibilità per l’adozione di politiche nazionali specifiche verso la produzione di alimenti sani, secondo le capacità territoriali e i meccanismi di protezione della fauna locale e della limitazione all’inquinamento. La tutela delle piccole industrie agricole a usufruire di meccanismi di produzione e di ricerca atti a favorire una riduzione dell’impatto ambientale. La protezione per la salubrità del cibo e del consumatore mediante il coinvolgimento nel processo di nutrizione di tutti gli interessati, dal consumatore alla filiera di produzione e agli stessi lavoratori. Addentrandoci in tutto questo spettro possiamo capire meglio come il benessere passi attraverso l’alimentazione e in che misura notevole il mondo economico sia coinvolto nella produzione degli alimenti e di quanto l’industria e il commercio gravitino e vivano con esso. La ricerca, la tecnologia, l’educazione, le risorse agricole, i mercati, i comportamenti sono solo alcuni dei protagonisti del grande argomento “CIBO”. Molti sono, dunque, gli interessi che gravitano, ma la salute resta fondamentale, il conflitto si delinea su due fronti: malnutrizione e obesità. Identificazione di povertà e ricchezza, conflitti vetusti come il mondo e attuali. Drammaticamente attuali. La malnutrizione non riguarda solo i Paesi poveri di risorse territoriali, industriali ed economiche, questi restano i più colpiti. Oggi la malnutrizione riguarda anche le persone anziane, cittadini di Paesi colpiti da crisi economiche, che non riescono a coprire le spese mensili con le loro pensioni. Gli eccessi, invece, dilagano un po’ in tutto il mondo con casi estremi in America. L’obesità e il sovrappeso coinvolgono i sistemi sanitari per gli elevati costi assistenziali a essi correlati. L’Unione Europea ha organizzato nel 2007 un gruppo di studio per la nutrizione e l’attività fisica per trovare soluzioni in merito all’obesità, una patologia che pone le sue fondamenta nella scorretta alimentazione e nell’inattività fisica. Gli interventi promossi dall’Unione Europea in azioni rivolte all’industria e alla società civile hanno lo scopo di di9 vulgare informazioni corrette e chiare sugli alimenti e in particolare modo sul loro valore energetico, il tenore di acidi grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, sale e zucchero. Tutte queste caratteristiche fanno parte delle norme europee sull’etichettatura dei prodotti alimentari, intervento legislativo mirante a una corretta informazione per un’attività di prevenzione e riduzione della spesa pubblica. La tutela della salute coinvolge a 360 gradi i popoli e le nazioni, i sistemi produttivi, le leggi di mercato, i sistemi del Welfare, la ricerca scientifica, la politica e l’educazione. Ha carattere etico, morale e sociale. Da questa si può definire l’efficienza e il benessere psico-fisico di un intera popolazione. Il valore psicologico degli alimenti e i disturbi dell’alimentazione Mangiare è un atto istintivo, è immediato, necessario. Quando si ha fame non ci pensi, lo senti e ricerchi il cibo per rispondere a questo stimolo. Nella scelta del nutrimento siamo condizionati da molti fattori: le caratteristiche organolettiche come i colori, quindi l’attrazione visiva e il senso dell’olfatto perché certi odori sono più invitanti di altri: anche l’udito viene coinvolto, spesso, nelle scelte alimentari siamo attratti da certi alimenti proprio perché croccanti. Il gusto è personale e fondamentale. Altri fattori che coinvolgono l’alimentazione sono quelli ambientali: dove si consumano i pasti, con chi e quali abitudini si apprendono. Non si mangia, dunque, solo per vivere. Mangiare diventa l’espressione di tutto l’individuo, il benessere è psico-fisico perché la psiche è inscindibile dall’uomo. Ecco che il cibo ha una polisemia: oggetto, bisogno, attrazione, repulsione, passione, soddisfazione, piacere erotico, dono d’amore, situazione duale, motivo d’odio, desiderio, dipendenza e moto della pulsione istintuale. La fame, per il neonato, è la prima sensazione spiacevole che lo metterà in contatto con un oggetto del mondo esterno, il cibo, il quale sarà necessario per la sopravvivenza. Da qui l’incontro con l’altro, la madre, indispensabile per approvvigionare la sostanza vitale. Scopre il piacere della suzione, dell’incontro corporale dell’oggetto esterno con l’io e il godimento nell’assumerlo. La bocca, ci insegna Sigmund Freud, è il primo tratto corporeo dove il bambino sperimenta il piacere erotico. Il pianto che scaturisce dalla fame risulta un’emergenza dolorosa che richiede una risposta con l’intervento di un altro, la fame e il cibo sono quindi una prima forma di “linguaggio”. L’ingresso dell’alimento nel corpo è la risposta piacevole a un interazione duale. Ma il piacere si accompagna spesso alla colpa e nel rapporto corporale individuale la percezione, a volte, 10 può distorcere la realtà dando origine a disturbi del comportamento alimentare. Nell’adolescente le pulsioni sono molto forti e contraddittorie, sovente il giovane mescola le pietanze dolci con quelle salate, alterna forte appetito a lunghe pause quasi di digiuno. L’alimentazione diventa un indice di qualcosa che va oltre il semplice valore nutritivo. Quello che si mangia esprime condizioni materiali, ma anche elementi di affettività, di relazione e di potere. Quando una mamma vede i suoi bambini che non mangiano, si preoccupa e di conseguenza i bambini comprendono che l’alimentarsi o meno genera reazioni da parte dei genitori nei loro confronti. Il bambino, infatti, percepisce di essere amato non attraverso le manifestazioni più evolute e intellettualizzate, ma attraverso l’offerta del nutrimento. Il cibo acquisisce in questo contesto quel valore di veicolo simbolico dell’amore, che rimarrà per sempre il nucleo centrale della sua immagine. Il cibo, quindi, ha una valenza psicologica notevole sia per il piccolo che per il ragazzino. Quest’ultimo desidera esprimere indipendenza e aggregazione condividendo dei pasti nel gruppo dei pari. A volte, stare in compagnia dei propri coetanei permette all’adolescente di sentirsi svincolato da simbolismi emotivi a cui si sente radicato a livello familiare. Per essere consumato il cibo deve essere disponibile, accattivante, profumato, facilmente manipolabile, adeguato, bello da vedere perché coinvolge tutti i sensi. La vista, quindi, l’olfatto, il gusto e l’udito sono coinvolti nella fruizione del pasto. Come è stato spiegato in precedenza, molti cibi piacciono perché sono croccanti, altri perché hanno un buon odore e sapore, altri ancora sono appetibili per la cromaticità della portata. L’alimentazione è un processo totale del nostro corpo e la percezione esterna e interna si equivalgono. A volte l’uomo si percepisce diversamente da quello che appare e si condiziona le scelte alimentari compromettendo, nei casi estremi, la salute. Sono queste le situazioni in cui si possono manifestare i disturbi dell’alimentazione. L’anoressia nervosa e la bulimia sono gravi malattie psichiatriche. Nella società occidentale il benessere ha portato a rispettare meno il cibo e si è andata perdendo anche la sacralità che un tempo lo contraddistingueva. Diventa un elemento alla portata di tutti e i disagi nati da un rapporto distorto con il cibo vengono somatizzati più di un tempo. Bisogna mettere in evidenza che i disturbi alimentari non sono malattie che riguardano solo la sfera relazionale. Le relazioni sono fortemente compromesse, ma la malattia è una patologia psichiatrica che richiede l’intervento di più specialisti: lo psichiatra, lo psicologo clinico, il nutrizionista, il ginecologo, l’endocrinologo e ogni altra figura specializzata che il caso lo richieda. Le cause non sono ancora tutte note e la medicina non è in grado di dare risposte certe, quello che in questo frangente si può evidenziare è la gravità dell’anoressia nervosa e della bulimia, patologie 11 che una volta conclamate investono e destabilizzano l’intero nucleo familiare, portando sofferenza e senso di impotenza a tutti i membri che vedono patire il proprio caro. Negli anni la ricerca scientifica ha sfatato il “mito” che colpevolizzava la madre o il padre del paziente sofferente, permettendo alla società una percezione più ampia sulla gravità di queste patologie. Il corpo è l’oggetto del disturbo alimentare perché il malato si vede diverso da quello che è realmente: è troppo magro, denutrito, invece si percepisce gonfio e in sovrappeso. Il malato ha una percezione deformante dell’io e si comporta di conseguenza. Mangia poco, fa un’intensa attività fisica, se mangia pochi grammi in più si scatena il senso di colpa così forte da spingerlo a indursi il vomito per liberarsi. Altre volte, invece, il malato si lascia pervadere dal desiderio smodato di cibo e mangia, mangia quantità abnormi di alimenti ipercalorici e non soddisfatto, comunque, finisce per liberarsene. Anche l’uso di lassativi e diuretici sono pratiche consuete per i malati di anoressia e bulimia. Questi due termini sono un binomio poiché “viaggiano” insieme nella stessa malattia a periodi alterni. Quando si parla di questi disturbi alimentari la tendenza è quella di accusare il sistema dei mass media, che utilizzano modelle dai corpi sotto peso, induce i giovani all’imitazione e, quindi, all’anoressia. Il problema risulta essere più profondo, bisognerebbe domandarsi perché quei modelli estetici vengono proposti con quelle fattezze malate, e perché la nostra cultura abbia deciso di valorizzare esteticamente la morte e la malattia. Nella storia dell’umanità il rapporto viziato con le forme del corpo è sempre stato presente. Esempi dimostrano che il rapporto con il cibo è sempre stato sintomatico e non distaccato e che in ogni periodo storico si è valorizzata socialmente una certa forma corporea, anche a discapito della salute e dell’estetica. Gli antichi greci, per esempio, avevano un culto smisurato per la perfezione del corpo tanto da stabilire delle proporzioni matematiche tra le diverse parti del corpo, ogni anomalia era mal sopportata. Stabilirono un canone estetico definito “Policleto” ancor oggi apprezzato. Le numerose statue di atleti giunte fino a noi sono esempi dei loro ideali estetici. Un altro esempio lo troviamo nel Medioevo, esattamente opposto all’armonia greca, perché corpo e cibo vengono rubricati come strumenti del peccato, fortemente influenzato dal Cristianesimo e dalla sua morale, vengono esaltate le Sante ascetiche dai corpi anoressizzanti, magri fino allo scheletro e morte di stenti. Rappresentavano la distanza dai piaceri carnali e dalle tentazioni fisiche verso il piacere e per questo venivano venerate. Nei tempi passati la tensione verso una forma corporea e l’altra si sono alternate vicendevolmente: il corpo deformato per difetto si è imposto come una nuova femminilità, un modo nuovo di essere donna negli anni 80. Oggi viviamo in un momento di coercizione duale: godere e dovere. Vivere in un corpo 12 perfettamente armonico, ma godere sempre di tutti i piaceri. L’alimentazione si tratteggia come una realtà complessa: istintiva inizialmente, nutritiva, affettiva, psicologica, erotica, patologica, comunicativa e culturale. Vedremo meglio più avanti le ulteriori particolarità. La linea: stile di vita e moda nell’età contemporanea “La società contemporanea crea obesi, ma non li sopporta”. Iniziamo con questa citazione perché quanto abbiamo osservato fin’ora metta in evidenza che l’obesità è riconosciuta come una patologia dalle molteplici cause: fattori genetici, fattori ambientali e comportamentali determinanti nella sua eziologia. Gli studi e le ricerche condotte negli ultimi trent’anni presentano l’interesse sia degli epidemiologi che dei sociologi. Le leggi a tutela della salute e contro l’obesità sono all’ordine del giorno in ogni Paese, eppure l’economia, i sistemi produttivi e le filiere alimentari continuano a produrre cibi dannosi per la salute perché propongono, in porzioni ridotte, concentrazioni elevate di grassi, zuccheri e ogni altro elemento poco salutare mescolato agli altri ingredienti. Non parliamo certo di sostanze tossiche, ma pubblicizzare le patatine fritte in un Paese con il 36% di popolazione sovrappeso, il 3% di obesi e il sistema sanitario fortemente coinvolto per distribuire cure e terapie per migliorare questo status, non è certo una scelta lodevole dal punto di vista economico generale. D’altro canto, la proposta sociale estetica, contraddice l’offerta alimentare, mettendo in risalto il culto del corpo snello, muscoloso, prestante e scolpito. Nella società occidentale contemporanea, infatti, l’aspetto fisico è estremamente importante sia per l’auto percezione sia per quella altrui. In un’epoca d’incertezza, dove i corpi sono esibiti come status symbol, il controllo degli stessi viene esercitato tramite la “disciplina dietetica” e questo comprende una riduzione delle razioni e il controllo del tipo di cibo mangiato: piccole quantità, evitare i grassi in nome della “forma” e della salute, si diventa vegetariani o vegani anche per motivi etici-estetici. Un regime dietetico rigoroso non serve solo a dimostrare a chi ci osserva il nostro elevato livello di autocontrollo: da una dieta ci aspettiamo di ottenere un corpo più snello, ma ci serve come segnale di autodisciplina permanente verso tutte le persone con le quali entriamo in contatto. Un corpo in sovrappeso parla di ingordigia, mancanza di autodisciplina, edonismo, autoindulgenza, mentre un corpo magro è sinonimo di controllo elevato, di una grande capacità di trascendere i desideri della carne. Così il corpo diventa motivo di grande soddisfazione da esibire o 13 fonte di ansia e vergogna. Sembra che più acquistiamo conoscenza e informazioni sui nostri corpi più diventiamo insicuri. Nella nostra società consumistica si evidenzia l’ossessione delle diete e del controllo del corpo: ci sono persone che in un piatto fumante di pasta ben condita non vedono la possibilità di godere del cibo, scorgono un “mostro” nascosto di grassi e calorie e magari lo rifiutano pensando, altrimenti, a quanta fatica dovrebbero fare per bruciare solo un boccone d’assaggio. In nome della salute ci ammaliamo. Eppure, sovente, ci si trova a vivere questo tipo di contraddizione. La linea, dunque, non è solo indice di uno stile di vita sano ma porta con sé la moda del momento. Non è raro sentire nei luoghi d’incontro discorsi sul tipo di dieta che si sta seguendo, periodicamente escono sulle riviste le “diete” stagionali “miracolose” indicate per quel dato periodo dell’anno. Di regola seguono il ciclo stagionale e del prima festività, in modo da partecipare alle grandi abbuffate, e del dopo feste per riacquistare il controllo. Sembra nuovamente che si manifesti il rispetto della contraddizione moderna: il cibo diventa una fonte colpevole di piacere, le sue qualità sono messe in luce nonostante i divieti, e il suo consumo richiede un immediato regime restrittivo per porre rimedio ai danni dei cedimenti. Questo atteggiamento si evidenzia nel contesto socio culturale occidentalizzato: bisogna tener presente che il cibo assume significati diversi a seconda dell’aspetto considerato e di quale sia prevalente nella comunità di appartenenza. Se prendiamo in considerazione l’aspetto tecnico-economico, per esempio, possiamo osservare come la dicitura “civiltà agricole” o “civiltà pastorali” attestano la centralità dei processi produttivi degli alimenti base. La tipologia dei cibi assunti, le modalità di consumo del pasto e l’ideale di bellezza correlato all’aspetto fisico determinato dal peso corporeo, variano in relazione all’assetto storico-culturale. Il cibo e la convivialità hanno assunto, nelle diverse culture, valore economico, sociale, oggetto di prestigio, condivisione e commercio. In ogni società anche il dono del cibo assume una forma di rinforzo e significato di particolari legami fra i membri, viene scambiato come valore simbolico in relazione a determinati periodi dell’anno in cui vengono consumati, per esempio nelle festività. Inoltre, il codice culturale sotteso alle norme alimentari è basato su delle proibizioni in base all’aspetto ideologico di appartenenza. Posso concludere dicendo che la linea non si può semplificare solo a una moda o una forte tendenza della cultura occidentale. Soggiacente all’aspetto estetico possono prendere senso e significato aspetti molto più complessi e articolati rispetto alla bella presenza. L’ideologia, il credo religioso, l’aspetto psicologico e sociale sono elementi strutturanti della personalità individuale e della collettività di appartenenza. La moda caratterizza un periodo, un momento storico, il senso profondo dell’essere del singolo, la sua identità lo contraddistingue per 14 tutta la sua esistenza, può essere influenzato dai fenomeni sociali, dalla moda, ma difficilmente la moda può trasformarsi in uno stile di vita. Anoressia nervosa Matteo Balestrieri, Professore Ordinario di Psichiatria – tratto da SocialNews L’anoressia nervosa è caratterizzata da una progressiva perdita di peso dovuta ad una notevole riduzione dell’apporto calorico, da un’ostinata ricerca della magrezza, da una patologica paura di ingrassare e dalla presenza di amenorrea prolungata. Per una diagnosi di anoressia, il peso deve essere ridotto di almeno il 15% rispetto al peso ideale, oppure deve esserci un indice di massa corporea (BMI) uguale o inferiore a 17.5. È comunque importante valutare l’entità della variazione del peso e la rapidità con cui la riduzione di peso è ottenuta. L’anoressia insorge tipicamente nell’adolescenza, anche se sono sempre più numerosi i casi di insorgenza più precoce, intorno ai 10 anni. L’età giovanile è di per sé connotata dai tipici problemi dello sviluppo, dalla ricerca di un’autonomia e dell’identità personale: l’anoressia è una espressione di difficoltà in questo ambito. La necessità di conformarsi a modelli proposti dalla nostra società induce molti adolescenti ad identificarsi con i personaggi che rappresentano il successo e la sicurezza di sé. Per molte ragazze il desiderio di emulare la linea delle modelle è una spinta ad adottare comportamenti di restrizione alimentare e ad entrare in conflitto con i limiti biologici a mantenere una stabile riduzione di peso. Un aspetto rilevante della anoressia è la negazione della malattia: la paziente non riconosce il proprio comportamento come patologico. Con il termine “egosintonia” si indica che la rappresentazione che la paziente ha di se stessa è quella di una condizione normale o desiderabile, comunque non malata. Ciò contrasta con l’impressione che gli altri hanno: anche nel campo della moda, se una decisa magrezza nell’ambito della moda è tollerata ed anche ammirata, oltre determinati limiti la ragazza inizia ad essere esclusa e comunque non più all’interno di una normalità, che se pur estrema, è però condivisa. Le pazienti vivono inizialmente i propri comportamenti come un tentativo per risolvere i propri problemi. La perdita di peso è vissuta come una straordinaria conquista ottenuta con ferrea autodisciplina e l’aumento di peso come inaccettabile perdita della capacità di controllo. A causa dell’aumento della fame, la paura di ingrassare tende ad aumentare con la diminuzione di peso. 15 Molte pazienti effettuano esercizio fisico estremo e altre mettono in atto comportamenti di eliminazione come il vomito o l’abuso di lassativi. Si distinguono infatti due sottogruppi diagnostici: il tipo restrittivo, in cui la diminuzione di peso è ottenuta con la riduzione dell’apporto alimentare ed, eventualmente, con iperattività fisica, e il tipo con crisi bulimiche e/o condotte di eliminazione, in cui si presentano crisi bulimiche, vomito autoindotto, abuso di lassativi e diuretici. Le pazienti anoressiche sono spesso adolescenti perfezioniste e competitive, con una identità che si appoggia sulla considerazione che riescono a suscitare negli altri. Coscienziose e impegnate a ottenere il massimo, sono in genere molto preoccupate per il rendimento scolastico e per ogni altra prestazione che si trovano ad affrontare. L’anoressia inizia spesso in modo graduale e insidioso con una progressiva riduzione dell’introito alimentare iniziata per motivi diversi: una dieta ipocalorica per motivi estetici, generiche difficoltà digestive, malattie, interventi chirurgici; nel periodo che precede l’esordio si rilevano in molti casi significativi eventi stressanti o cambiamenti di vita. La riduzione dell’apporto calorico può essere realizzata attraverso una riduzione progressiva delle porzioni o attraverso l’eliminazione drastica dei cibi maggiormente ipercalorici. Spesso accade che i familiari si accorgano del problema soltanto dopo molto tempo, quando la ragazza è dimagrita di molti chili. Con il progredire del disturbo si manifesta una continua e ossessiva presenza del cibo al centro di ogni pensiero. Si parla di “ideazione prevalente” sul cibo: molte pazienti collezionano ricette, contano le calorie, impiegano ore a mangiare e tagliano il cibo in minuti pezzetti; alcune cucinano preparazioni molto elaborate, preoccupandosi dell’alimentazione dei familiari. Le pazienti diventano più irritabili, depresse e spesso sviluppano un’ossessione per la pulizia, per l’ordine, per gli orari. Il rapporto con i familiari diventa teso e difficile, talvolta francamente ostile. I tentativi di aumentare la spinta all’isolamento sociale. Altre volte i rapporti familiari sono rigidi, formalmente corretti e l’atmosfera familiare è carica di aggressività latente. Alcuni studi hanno osservato che l’ipercriticismo da parte dei familiari influenza negativamente il trattamento. Le pazienti che fanno ricorso al vomito autoprovocato o all’abuso di lassativi e diuretici presentano complicanze mediche più frequenti. Ad esempio, si manifestano irritazioni a carico delle mucose faringee, esofagee e buccali e carie dentarie. A volte è il dentista che si accorge per primo del problema. Anche se possono esserci alcuni casi che presentano una durata di malattia di solo alcuni mesi, l’anoressia presenta spesso un andamento cronico, talvolta con recupero di peso e successive ricadute nel corso degli anni. Una per16 centuale di pazienti superiore al 50% presenta una remissione del disturbo, mentre la cronicizzazione si rileva in un 20% dei casi. La mortalità è in media del 5%ed è dovuta alle complicanze legate alla denutrizione, agli squilibri elettrolitici e al suicidio. Bulimia nervosa Tiziana Aureli Professore straordinario, Elisabetta Bascelli – tratto da SocialNews Il comportamento alimentare è un comportamento complesso, controllato da numerosi fattori che comprendono l’appetito, la disponibilità di cibo, le abitudini familiari, culturali e generazionali, nonché, non da ultimo, la volontà. Gravi disturbi di tale comportamento portano a disordini, sia di tipo fisico come riduzioni estreme e dannose dell’apporto calorico giornaliero oppure grave sovra-alimentazione, sia psicologico come sentimenti di disagio o eccessive preoccupazioni riguardo al proprio peso o al proprio aspetto. Più precisamente, il termine disturbo dell’alimentazione fa riferimento a disordini persistenti del comportamento alimentare o dei comportamenti finalizzati al controllo del peso corporeo, che danneggiano in modo significativo la salute fisica e il funzionamento psicologico di un individuo e che non sono secondari a nessuna condizione medica o psichiatrica conosciuta. I disturbi alimentari, di cui anoressia e bulimia nervosa sono le manifestazioni più note e frequenti, sono diventati nell’ultimo ventennio una vera e propria emergenza socio-sanitaria per gli effetti devastanti che hanno sulla salute e sulla vita di adolescenti e giovani adulti. Essi appaiono frequentemente associati ad altri disturbi psichiatrici, come depressione, abuso di sostanze e disturbi d’ansia. Inoltre, le persone che ne sono affette soffrono spesso di notevoli complicazioni a livello fisico, come patologie cardiache e insufficienza renale che possono condurre alla morte, il che rafforza la necessità di riconoscere i disturbi alimentari come malattie reali e trattabili. Sono stati individuati alcuni fattori specifici che più facilmente mettono la popolazione a rischio di contrarre tali disturbi. Innanzitutto il genere: a rischio sono maggiormente le ragazze, dato che il 90-95% dei pazienti appartiene al genere femminile, mentre solo una percentuale stimata tra il 5% e il 15% delle persone con anoressia o bulimia sono maschi. In secondo luogo, l’età: in generale i disturbi alimentari si sviluppano frequentemente durante l’adolescenza e la prima età adulta; in particolare, la fascia più colpita è quella fra i 12 e i 17 25 anni, all’interno della quale il periodo d’età compresa fra i 14 e i 18 anni è soprattutto critica. Per citare un dato importante, risulta che nei paesi occidentali, inclusa l’Italia, 8-10 ragazze su 100 che hanno tra i 12 e i 25 anni soffrono di un qualche disturbo del comportamento alimentare. Una possibile ragione è facilmente rintracciabile: questa è l’età in cui il corpo si trasforma, diventando di conseguenza oggetto di particolare attenzione e, nel contempo, cominciano a essere particolarmente interessanti ed efficaci i complimenti o le critiche dei coetanei. Ancora, il rischio di sviluppo di patologie alimentari è maggiore in giovani che vivono situazioni familiari critiche (ad es., malattie croniche, disturbi psichici, relazioni familiari problematiche) o in famiglie in cui si dà particolare attenzione al peso e alle forme corporee da parte dei genitori o di fratelli/sorelle. Anche la cultura è un fattore predisponente, risultando tali disturbi tipici del sistema di vita occidentale. Infine, molti studi su famiglie e su gemelli suggeriscono un’alta percentuale di ereditarietà, per cui attualmente la ricerca è diretta a individuare i geni predisponenti i disordini alimentari, anche se si ritiene che più geni possano interagire con l’ambiente e con altri fattori individuali nell’aumentare il rischio. In considerazione di tale complessità, il nucleo patogenetico che caratterizza i disturbi alimentari (bassa autostima, depressione, sofferenza causata da una mancata corrispondenza tra peso reale e peso ideale) risulta pertanto determinato da un insieme di aspetti biologici, individuali e socio-culturali che, interagendo fra loro, costituiscono il terreno predisponente, precipitante e di mantenimento di tali disturbi (Dalle Grave, 2003). Il che permette di concludere a favore di una visione multifattoriale delle loro cause. Oltre ad anoressia e bulimia, è presente un’ampia ed eterogenea categoria di disturbi dell’alimentazione atipici, cioè disturbi clinicamente significativi ma che non soddisfano tutti i criteri diagnostici dell’anoressia e della bulimia nervosa: alcune persone, ad esempio, iniziano con una forma di anoressia ma poi, incapaci di mantenere il basso peso, scivolano verso comportamenti bulimici. Secondo l’American Psychiatric Association (A.P.A.), la metà dei pazienti anoressici finiscono con l’avere anche sintomi di bulimia e, in qualche caso, i pazienti bulimici sviluppano comportamenti anoressici. Il presente contributo si occupa in modo specifico della bulimia nervosa, concentrando l’attenzione su aspetti teorici e clinici. A lungo considerata una variante dell’anoressia o, al contrario, come una particolare forma di obesità, la bulimia nervosa è stata riconosciuta come disturbo psichiatrico autonomo a partire dalla terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (A.P.A., 1980). Il termine bulimia ha origine dalla fusione di due parole greche: bous (bue) e limos (fame), che, tradotte letteralmente, significano 18 “fame da bue”. Insieme all’anoressia, fa parte dei Disturbi dell’Alimentazione ed è pertanto caratterizzata dalla presenza sia di gravi alterazioni del comportamento alimentare che di una percezione distorta del peso e della propria immagine corporea. Le somiglianze tra l’anoressia e la bulimia comprendono la preoccupazione per la dieta, il cibo e il peso, il disagio quando si è a tavola con altri e la ricerca dell’approvazione sociale. Le differenze riguardano la negazione del problema e il peso. L’anoressica nega a sé e agli altri che esista una qualsiasi difficoltà o un comportamento alimentare anormale; la bulimica, invece, mentre nega l’esistenza del problema in pubblico, con gli altri, lo riconosce in privato, dentro di sé. L’anoressica è sempre sottopeso (almeno il 15% al di sotto del peso corporeo consigliato), mentre la bulimica può essere sottopeso, normopeso o sovrappeso. Infatti, il peso corporeo, malgrado le abbuffate alimentari, può essere mantenuto costante, o addirittura ridotto, a causa della messa in atto di comportamenti compensatori, come il vomito, l’uso di lassativi o l’esercizio fisico. La bulimia nervosa è molto più frequente dell’anoressia nervosa, come risulta da una recente indagine che rileva un’incidenza di 12 casi annui su 100.000 soggetti rispetto agli 8 casi di anoressia. La patologia è prevalentemente appannaggio del sesso femminile: una percentuale tra l’1 e il 3% delle donne soffre di bulimia nervosa nel corso della vita, mentre la percentuale è nettamente inferiore o inesistente nei maschi. L’età di esordio si situa nella tarda adolescenza o nella prima età adulta, con età media intorno a 20 anni e un range compreso tra 11 e 45 anni. Differisce pertanto sotto questo aspetto dell’anoressia nervosa, colpendo maggiormente donne adulte che si affacciano al mondo del lavoro e si distaccano dalla propria famiglia, in concomitanza cioè con due eventi critici che possono mettere a dura prova l’identità personale. I casi che insorgono prima della pubertà e prima del menarca sono più frequentemente associati a psicopatologie e hanno una prognosi psichiatrica più sfavorevole. La razza più colpita è quella bianca, di classe socio-economica medio-alta, ma sono riportati casi appartenenti a diversi gruppi razziali e a diverse classi sociali. Nei soggetti con bulimia nervosa vi è un’aumentata incidenza di sintomi depressivi (ad es., ridotta autostima) o Disturbi dell’Umore (Distimia e Depressione Maggiore) che nella maggioranza dei casi seguono la bulimia nervosa o sono concomitanti con il suo sviluppo; inoltre vi è un’aumentata frequenza di sintomi d’ansia (ad es., ansia nelle situazioni sociali) o di Disturbi d’Ansia propriamente detti. Circa un terzo degli individui con bulimia nervosa manifesta un abuso di sostanze o qualche forma di dipendenza, in particolare da alcool e da sostanze stimolanti, il cui uso di solito inizia nel tentativo di controllare 19 l’appetito e il peso. Circa la metà dei casi di bulimia nervosa inoltre rivela tratti personologici che incontrano i criteri per uno o più Disturbi di Personalità, di cui il più frequentemente diagnosticato è il Disturbo Borderline di Personalità. L’esordio della malattia è spesso associato a una dieta dimagrante: il 34,88% delle pazienti indica la comparsa della bulimia dopo un periodo di restrizione calorica, iniziato per lasciarsi alle spalle una storia di sovrappeso rispetto ai coetanei; mentre, in altri casi, vi è un vissuto di perdita o di separazione. Indipendentemente dall’inizio, comunque, la condotta bulimica sembra assumere nel tempo un’esistenza autonoma, diventando un pattern abituale nella vita della persona, fatto di abbuffate, alternate a periodi di digiuno o di rigide restrizioni, che andranno progressivamente a sostituire del tutto i pasti regolari. L’esordio avviene in concomitanza a fattori precipitanti. Un percorso tipico di sviluppo della malattia comincia con l’insoddisfazione per il peso e le forme corporee, spesso sollecitata dalle critiche di amici o da confronti perdenti con compagni di classe o colleghi di lavoro, e continua con la decisione di iniziare una dieta. Di solito, la dieta funziona molto bene e la persona comincia a ricevere rinforzi positivi dall’esterno, i quali da una parte aumentano la sua autostima, dall’altra la confermano nella convinzione che la dieta è la cosa giusta da fare. Emerge quindi un fattore perpetuante che porta alla creazione di un circolo vizioso, rendendo difficile l’interruzione della malattia. In un primo momento, è evidente che la dieta rappresenta per la persona una buona alleata e le conseguenze di un comportamento alimentare scorretto non appaiono ancora evidenti. Per questa ragione, la richiesta al medico o allo specialista arriva solitamente molto tardi, in genere dopo che sono trascorsi dai 3 ai 6 anni dall’esordio della malattia, quando il disturbo è ormai cronicizzato e complesso, e i meccanismi regolatori di fame/sazietà e della defecazione sono già alterati. Una volta che le conseguenze negative sia psicologiche che organiche si fanno sentire, la persona smette di essere euforica come nei primi mesi della dieta. Continua tuttavia nella decisione di non riprendere peso, dato che, se lo facesse, tornerebbe a sentirsi di nuovo “orribile”, inaccettabile, non adeguata. Tuttavia, non riuscendo più ad ascoltare il proprio corpo per sapere quando ha fame e quando è sazia, vive nel terrore di aver mangiato troppo, si pesa continuamente o evita di pesarsi, sempre con la paura di deludere se stessa e gli altri o di non essere così brava come prima, in sostanza avendo come unico parametro di riferimento/valutazione della propria vita il cibo e il cibo soltanto. Oltre a queste conseguenze psicologiche che alimentano la malattia, la paziente può presentare diversi disturbi di carattere medico, dovuti essenzialmente all’uso delle metodiche di eliminazione. I disturbi più frequenti e più 20 gravi sono gli squilibri idroelettrolitici presenti in circa il 50% delle pazienti, i cui sintomi sono debolezza e apatia, sete, ritenzione idrica con edemi a braccia e gambe, vertigini, spasmi, irregolarità del battito cardiaco. La stimolazione meccanica del vomito può inoltre causare ferite superficiali nella parte posteriore della gola, che a loro volta possono provocare infezioni, dolori e raucedine; così, il ripetuto contatto che l’acido cloridrico prodotto dal vomito ha con i denti porta a una erosione irreversibile dello smalto dentario. Sotto il profilo endocrino, risultano molto frequenti le irregolarità del ciclo, mentre solo poche pazienti risultano del tutto amenorroiche. Di minore entità medica, ma con una rilevante ricaduta sul piano psicologico, è l’aumento delle dimensioni delle ghiandole salivari, in special modo le parotidi, che, oltre a causare una maggiore produzione di saliva, conferisce al volto un aspetto tondo e paffuto, il che porta le pazienti a percepire la propria faccia “grassa” e a pensare che anche il resto del corpo sia così, finendo ovviamente per aumentare la loro preoccupazione per forme e peso e perpetuare il problema. Quando il cibo alimenta il sé Tiziana Aureli Professore straordinario, Elisabetta Bascelli – tratto da SocialNews In passato, la ricerca clinica aveva cercato di individuare un unico fattore come possibile responsabile dei disturbi alimentari; attualmente, si ritiene che un complesso insieme di aspetti biologici, individuali e socioculturali concorra a formare i fattori di rischio, i fattori precipitanti e di mantenimento di tali disturbi. I fattori di rischio sono condizioni antecedenti al disturbo, che aumentano la probabilità del suo sviluppo. Dalle ricerche attuali, sembra che tali condizioni vadano rintracciate nella compresenza di una predisposizione genetica e di un ampio numero di agenti ambientali. Tra questi ultimi, distinguiamo quelli generali (sesso femminile, adolescenza o prima età adulta, vivere nella società occidentale), quelli specifici (fare diete, disturbi dell’alimentazione in famiglia) e quelli generici (bassa valutazione di sé, abuso di sostanze). I fattori precipitanti sono situazioni che si verificano nell’anno che precede l’esordio del disturbo e agiscono attivando lo schema di autovalutazione disfunzionale formatosi per il concorso combinato dei fattori di rischio (cambio di città, interruzione di una relazione sentimentale, fallimenti scolastici, lavorativi). 21 I fattori di mantenimento del disturbo si distinguono in standard (schema di autovalutazione disfunzionale, preoccupazioni e pensieri sull’alimentazione, rinforzi positivi e negativi, comportamenti di controllo dell’alimentazione, vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo) e aggiuntivi (perfezionismo clinico, bassa autostima, intolleranza alle emozioni). La teoria cognitivo-comportamentale sostiene che il meccanismo centrale di mantenimento della bulimia nervosa è uno schema disfunzionale di autovalutazione e che da esso derivano le altre caratteristiche cliniche del disturbo (dieta ferrea, esercizio fisico eccessivo, vomito autoindotto). In condizioni di normalità, le persone si valutano in base alla percezione delle proprie prestazioni in una varietà di domini della propria vita; al contrario, le persone affette da disturbi dell’alimentazione giudicano il proprio valore sulla base soprattutto del grado di controllo che esercitano sull’alimentazione o sul peso o sulle forme corporee. Di seguito analizzeremo il ruolo di alcuni di questi fattori. Le persone affette da bulimia nervosa hanno caratteristici pensieri automatici su alimentazione, peso e forme corporei che non dipendono da processi di ragionamento, ma si verificano in concomitanza di esperienze capaci di attivare lo schema di autovalutazione disfunzionale. Ad es., una persona affetta da bulimia nervosa se mangia un dolce può pensare in modo automatico “Ho perso il controllo, ingrasserò come una botte” e inizia a rimuginare sul fatto che ha mangiato troppo, che deve avere più controllo e che l’unico modo per recuperare la situazione è saltare il pasto successivo. Pensieri e preoccupazioni persistenti mantengono attivo lo schema di autovalutazione disfunzionale che, a sua volta, produce pensieri e preoccupazioni, il che crea un circolo vizioso che agisce come una specie di blocco del funzionamento mentale. Ciò che mantiene lo schema di autovalutazione disfunzionale in uno stato di continua attivazione sono soprattutto i rinforzi positivi che la persona ottiene quando controlla l’alimentazione, ad esempio i commenti positivi ricevuti dagli altri se e quando riesce a perdere peso. Anche l’esercizio fisico eccessivo mantiene il disturbo bulimico, perché aumenta la preoccupazione per il peso e la forma corporei; favorisce inoltre l’isolamento sociale, perché viene eseguito in solitudine; produce euforia, sensazione di controllo e benessere psicofisico che la persona può ricercare quando sperimenta emozioni negative. Un comportamento caratteristico delle persone affette da bulimia nervosa è l’abbuffata. Anche se sembra controintuitivo, numerosi studi hanno evidenziato che la principale causa delle abbuffate è il tentativo di restringere l’alimentazione. Il controllo rigido di ciò e di quanto mangiare porta il paziente bulimico a compiere piccole trasgressioni che, se si verificano, favoriscono l’abbuffata, la quale viene perseguita senza troppe angosce con l’idea di potere tornare 22 successivamente a esercitare il controllo. Spesso, la modalità di pensiero sottostante a questo comportamento è del tipo “tutto o nulla” come: “Ormai ho rotto la dieta, tanto vale che mi abbuffi e poi potrò liberarmi di tutto il cibo con il vomito”. L’alimentazione in eccesso e il recupero del peso vengono favoriti dalle modificazioni neurormonali determinate dalla restrizione alimentare e dal decremento ponderale, che inducono entrambi un aumento della fame e una riduzione della sazietà. Dieta ferrea e decremento ponderale possono anche portare allo sviluppo di emozioni negative (depressione, ansia, irritabilità) che, a loro volta, scatenano le abbuffate, utilizzate in questo caso per modulare stati emotivi intollerabili. In alcune pazienti con bulimia nervosa si possono osservare uno o più processi di mantenimento aggiuntivi che ostacolano la guarigione: il perfezionismo clinico, la bassa autostima nucleare, l’intolleranza alle emozioni e i problemi interpersonali. Il perfezionismo clinico è la tendenza dell’individuo a giudicare se stesso in modo predominante o esclusivo rispetto al fatto di riuscire a raggiungere standard eccessivamente esigenti in almeno un dominio della vita (scuola, lavoro, sport, relazioni), nonostante le conseguenze avverse che ciò comporta. Quando il perfezionismo clinico coesiste con la bulimia nervosa, si verifica un’interazione tra le due forme di psicopatologia e gli standard perfezionistici si focalizzano sul controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporei. Come in altre espressioni del perfezionismo clinico, sono presenti la paura del fallimento (paura di ingrassare), i comportamenti di controllo della prestazione (contare le calorie) e l’autocritica se non si raggiungono gli standard autoimposti (non riuscire a seguire la dieta). La bassa autostima nucleare caratterizza quelle pazienti bulimiche che hanno una visione di sé negativa, incondizionata e pervasiva. Essa rappresenta una costituente permanente dell’identità e ostacola il cambiamento, in quanto crea senso di impotenza e sfiducia sulla possibilità di cambiare, spingendo la paziente a raggiungere il successo nel controllo dell’alimentazione, del peso e delle forme corporei piuttosto che nell’adesione al trattamento (Baruffi, Colombo e Goldwurm, 2005). L’intolleranza alle emozioni consiste nell’incapacità di gestire in modo adeguato gli stati emotivi negativi come rabbia, ansia e depressione. La persona adotta comportamenti disfunzionali di modulazione dell’umore (autolesionismo, sostanze psicoattive) che riducono la consapevolezza dello stato emotivo e dei pensieri a esso associati. Queste pazienti possono usare l’abbuffata, il vomito o l’esercizio fisico eccessivo come mezzi abituali di modulazione dell’umore, producendo un processo aggiuntivo di mantenimento del disturbo. 23 Infine, alcune pazienti affette da bulimia nervosa manifestano problematiche interpersonali: le tensioni familiari vissute da una giovane paziente bulimica possono aumentare la resistenza a riprendere un’alimentazione corretta, riflettendo un meccanismo di intensificazione della necessità di controllo che si esprime appunto nell’aumento della restrizione dietetica. Anche vivere in famiglie dove è presente un altro membro con un disturbo dell’alimentazione oppure esercitare professioni in cui è forte la pressione ad essere magri possono a loro volta accentuare la preoccupazione nei confronti dell’alimentazione, del peso e delle forme corporei, minando l’autostima e favorendo lo sviluppo di emozioni negative, che a loro volta sono meccanismi di mantenimento aggiuntivi. Nell’ambito della teoria cognitivo-comportamentale, è stato messo a punto uno specifico trattamento dei disturbi alimentari. Il modello più utilizzato nel trattamento della bulimia nervosa è quello di Fairburn, strutturato in tre fasi: nella prima, si utilizzano tecniche comportamentali per sostituire le abbuffate con un pattern regolare di alimentazione e il ricorso ad attività alternative; nella seconda, si mira a rendere stabile il comportamento alimentare attraverso la normalizzazione delle porzioni e la scelta della qualità degli alimenti, eliminando quindi la restrizione alimentare; insieme, viene implementato un intervento cognitivo per modificare le distorsioni del pensiero al riguardo; nella terza, l’enfasi è posta sul mantenimento del cambiamento. Secondo Fairburn, il disturbo alimentare è mantenuto dall’interazione autoperpetuante di bassa autostima, estrema preoccupazione per il peso e le forme corporei, dieta ferrea, abbuffate, vomito autoindotto. Nella sua visione, la scarsa valutazione di sé può portare a usare la magrezza quale parametro principale per valutare se stessi, sia per motivi sociali, dato che spesso la perdita di peso è una condotta socialmente rinforzata, sia individuali, poiché il peso e le forme corporee sono più facilmente passibili di controllo rispetto ad altri aspetti della vita. Così, con gli anni, la persona tenderà a giudicare il proprio valore prevalentemente in funzione del peso e delle forme corporee e manifesterà una continua preoccupazione a tenerli sotto controllo attraverso diversi comportamenti (dieta ferrea, vomito autoindotto, controllo del peso). A ciò si aggiunge il perfezionismo e il pensiero dicotomico. Il perfezionismo porta le pazienti bulimiche a imporsi obiettivi ambiziosi, che generano frustrazione ogni volta che non vengono raggiunti. L’alimentazione è ovviamente solo uno degli ambiti in cui esso può estrinsecarsi ma, essendo più facilmente soggetto al controllo, è probabilmente quello su cui sono riposte le aspettative maggiori. La tendenza al pensiero dicotomico si esprime sia attraverso l’estrema rigidità di giudizio su se stesse, sia riguardo alla capacità di seguire un regime alimentare con caratteristiche estremamente definite. Anche minime trasgres24 sioni rispetto al regime dietetico prefissato conducono a considerare fallimentare tutta l’impalcatura alimentare costruita e quindi a svalutare e considerare inutile ogni tentativo di rimedio all’errore di percorso. Il risultato finale di ogni perdita di controllo sul cibo è il rinforzo della bassa stima di sé e delle angosce riguardo al peso e al corpo. Obiezioni al modello di Fairburn vengono da nuove proposte di terapia cognitivo-comportamentale che pongono l’accento sui fattori emotivi. Molte pazienti con bulimia nervosa non seguono regolarmente rigide restrizioni alimentari e le abbuffate avvengono anche senza diete o pratiche compensatorie; il che chiama in causa l’intervento di fattori diversi da quelli specificamente connessi agli effetti del controllo calorico. Inoltre, molte pazienti descrivono come antecedenti delle abbuffate stress emotivi piuttosto che appetitivi. A supporto delle osservazioni cliniche circa l’importanza dei fattori emotivi nella genesi e nel mantenimento dei comportamenti di abbuffata, sono state condotte verifiche sperimentali. Meyer, Waller e Waters (1998) hanno mostrato che nelle pazienti bulimiche la fame associata a una deflessione dell’umore ha più probabilità di tradursi in un’abbuffata, mentre il livello di fame precedente all’abbuffata è in genere inferiore a quello che precede episodi di alimentazione normale. Inoltre, le ricerche hanno evidenziato come le pazienti bulimiche riportino più frequentemente stati emotivi negativi prima delle abbuffate piuttosto che prima dei pasti normali. Infine, studi di correlazione hanno evidenziato come comportamenti di tipo compensatorio e perdite di controllo con conseguenti abbuffate sono in stretto rapporto con una polarizzazione dell’attenzione incentrata su stimoli riguardanti l’autostima ed emozioni negative. Pertanto, le ricerche più recenti evidenziano l’esistenza di uno stretto rapporto tra stati emotivi negativi, inclusi i fattori legati all’autostima, e perdita di controllo sul cibo. Problemi etici nella terapia dell’anoressia nervosa Secondo Fassino, Professore Straordinario di Psichiatria Dott.ssa Nadia Delsedime - Tratto da SocialNews L’Anoressia Nervosa (AN) è un disturbo complesso, dove componenti psicologiche, psicopatologiche e organiche si intrecciano strettamente; è una malattia “esistenziale” (Bruch, 1988), poiché costituisce, in fin dei conti, una notevole ragione di vita per chi ne è affetto e il desiderio di perseguire la magrezza scalza spesso ogni altro valore o obiettivo. Questi pazienti hanno “ne25 cessità” della propria malattia ed essa diventa il loro unico modo di affrontare la vita. I sintomi – digiuno, ristrettezza, abbuffate e successive condotte di eliminazione, perfezionismo e ossessività – rappresentano in effetti tentativi, pseudorassicuranti e controproducenti per la paziente, di curare angoscia, rabbia e insicurezze inconsce che, a loro volta, aumentano il bisogno di controllo della ragazza. Il controllo riguarda gli affetti, le paure, la fame cogente e imperiosa di “amore” che coincide con quella di cibo. In ultima analisi si tratta di una malattia in cui si ha una pervicace e maligna aggressività contro di sé e contro gli altri: l’autodistruzione inconscia, che Alfred Adler nel 1914 definì “suicidio cronico”, è la più disperata e perversa, forma di richiesta di amore tramite la distruzione dei genitori. Inoltre questo disturbo non si auto-limita, ma si ingigantisce sempre più a causa sia delle distorsioni cognitive che percettive, anche dovute all’emaciazione corporea. Pertanto uno dei maggiori problemi in cui ci si imbatte quando si cerca di curare l’AN è la resistenza al trattamento, sia conscia che inconscia. La malattia si auto-mantiene perché in certa qual misura così vuole la paziente. Essa, infatti, concede sempre dei vantaggi, primari e secondari: il non dover affrontare la vita adulta, il controllo sulla famiglia, l’affetto e le cure che si ricevono, la sensazione di essere forti e onnipotenti attraverso il controllo su di sé. Vi è quindi un dilemma: la resistenza alle terapie è sostenuta da una volontà lucida o viziata dalla malattia? In altre parole, la paziente è in grado di autodeterminarsi, nonostante la denutrizione e le conseguenze cognitive di questa? Questo porta a considerare l’aspetto immediatamente successivo…il continuo dialogo con la morte che queste pazienti intrattengono. Ma sono esse in grado di comprendere che la loro malattia può condurre alla morte? Cos’è per loro la morte? Sono esse in grado di scegliere consapevolmente un rischio di vita continuo che deriva dall’ostinato rifiuto delle cure o dalla non collaborazione ad esse? E quando l’insistenza dei terapeuti, che possono ricorrere anche al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) e alla nutrizione forzata, diventa terapeutico o è ininfluente? Queste e altre domande nella sfera dell’etica medica attanagliano il terapeuta che si occupa specificamente di disturbi alimentari. Si è iniziato a parlare, soprattutto nei paesi anglosassoni, anche per l’AN di accanimento terapeutico, terapie palliative, valutazione della competence, cioè della capacità decisionale del paziente, e i dubbi etici a questo riguardo si moltiplicano. Non si deve dimenticare, infatti, che i disturbi alimentari hanno una percentuale di mortalità fra le più alte tra i disturbi psichiatrici (5-20%) e che 26 la denutrizione prevede una serie di complicanze organiche e cognitive che tolgono lucidità al paziente. Il non avere una risposta precisa a tali domande, porta il terapeuta ad uno stato di scoraggiamento, impotenza, dubbio, rabbia che modula le sue capacità terapeutiche e il rapporto con i pazienti. Un caso clinico esemplare riguarda Carol, una diciottenne affetta da AN grave che rifiuta le terapie; non vuole morire, ma preferirebbe essere morta piuttosto che aumentare di peso. L’importanza dell’essere magra supera tutti gli altri aspetti della sua vita, come le relazioni, la scuola e la vita stessa. Carol si è creata un nuovo sistema di valori che l’ha portata a decidere che la morte è preferibile al recupero ponderale (Tan, 2003). Queste patologie conducono talvolta all’esasperazione. E non solo i terapeuti che cercano di curare, ma anche e soprattutto le famiglie di questi pazienti, che si trovano “fra incudine e martello”, nel doppio ruolo di sostegno alle figlie malate e di alleati dei terapeuti. Alcune ricerche (Treasure et al, 2001; Fassino, 2002), hanno messo in luce che i familiari delle pazienti con AN mostrano elevato stress e affaticamento, al pari di quelli di pazienti schizofrenici. Molti genitori provano sensi di colpa e vedono le figlie come “inguaribili” e percepiscono le conseguenze negative della malattia sul benessere fisico, mentale e sociale delle figlie. Molti genitori sottolineano la propria frustrazione, la mancanza di aiuto, la sensazione di essere manipolati dalla malattia (la figlia diventa colei che gestisce il tempo dei genitori), sentimenti di tristezza, paura, rabbia, ostilità, deprivazione di sonno, depressione. I familiari provano sensi di colpa per aver scoperto tardi la malattia, frustrazione, difficoltà al momento dei pasti, difficoltà a comunicare con i pazienti, rabbia a causa dell’impatto economico della malattia, inadeguatezza a controllare l’impulsività dei pazienti; desidererebbero più informazioni sulla malattia, supporto e aiuto pratico, confronto con altri riguardo la propria esperienza; fondamentali quindi risultano i gruppi di supporto e di auto-aiuto per familiari, al fine di migliorare la qualità di vita nella famiglia. Le ultime linee guida dell’APA (2006) per il trattamento dei disturbi alimentari dedicano poche righe alle questioni etiche implicate; ma consigliano di “rispettare la volontà dei pazienti competenti e di intervenire rispettosamente su quei pazienti la cui capacità di giudizio è scemata a causa della malattia mentale, qualora gli interventi siano di comprovata efficacia”. L’articolo 51 del Codice di Deontologia Medica (1998), definisce il dovere da parte del medico di rispettare la volontà del paziente “sano di mente” che rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, dopo averlo debitamente informato delle possibili conseguenze. 27 Nel nuovo Codice Deontologico appena approvato, nell’art. 52 scompare la dicitura “persona sana di mente”, aprendo così nuovi scenari anche per quanto riguarda i disturbi alimentari, soprattutto in fase iniziale, quando la persona è lucida e consapevole delle proprie scelte. Contemporaneamente, in altri articoli si sottolinea l’importanza di rispettare la volontà del paziente, fino ad aprire uno spiraglio alle direttive anticipate di trattamento (art. 36). Ne consegue pertanto che i dilemmi etici per il clinico che si occupa di tali patologie si amplificano e che è necessario aprire al più presto una tavola rotonda unitamente a giuristi ed esperti di bioetica al fine di creare delle linee guida per la cura di queste patologie, che tengano conto anche di queste complesse problematiche etiche e medico-legali. L’anoressia nervosa: aspetti medici Dott. Marco Pezzani Direttore USC di Neuropsichiatria Infantile – Tratto da SocialNews I disturbi della condotta alimentare (DCA) costituiscono uno dei più importanti problemi psichiatrici dell’età adolescenziale per la loro gravità, per la particolare complessità clinico –gestionale, anche a livello familiare, per l’alto impatto sociale e per la loro crescente prevalenza nel mondo occidentale ed individualizzato. Si è assistito ad un incremento dei DCA nel dopoguerra; nella fascia d’età 12-25 anni la prevalenza dell’anoressia nervosa è oggi calcolata 3 su 1000, con rapporto maschi/femmine 1:10. Sembra che solo 1 su 3 pazienti anoressici acceda a centri specialistici. La complessità di queste malattie è soprattutto legata alla compromissione multisistemica ed all’associazione di problemi psichiatrici ed organici; ne consegue quindi anche una particolare complessità della presa in carico, che deve essere integrata e duratura. La gravità deve essere considerata sia dal punto di vista prettamente sanitario, per il rischio di vita o di cronicizzazione, sia dal punto di vista del carico assistenziale molto elevato e del relativo costo sociale ed economico. I due principali disturbi dell’alimentazione, l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa, sono entrambi caratterizzati da stereotipia clinica, prevalenza nel sesso femminile ed epoca di insorgenza caratteristica. L’anoressia nervosa, il disturbo più grave ed invalidante, è noto da maggior tempo: in una adolescente o giovane donna l’alterazione del comportamento alimentare è sempre associata a dimagramento ed amenorrea. Il nucleo 28 centrale del disturbo psicopatologico consiste nell’intensa paura di diventare obesi, unitamente a significativa ed eccessiva perdita di peso non associata ad alcun disturbo fisico primario. L’individuazione precoce dell’anoressia nervosa è fondamentale e si deve avvalere soprattutto della collaborazione dei medici di base e dei pediatri di libera scelta; è basata sui criteri diagnostici di classificazione psichiatrica secondo l’approccio categoriale descrittivo sia dell’O.M.S. che dell’Associazione Psichiatrica Americana. L’aspetto principale è il rifiuto a mantenere il peso corporeo al livello minimo normale per età e statura, con perdita di peso autoindotta o mancato aumento per i bambini, e scarto di almeno il 15% dalla normalità. L’intensa paura di ingrassare, pur essendo sottopeso, si associa da una parte alla percezione di sé come troppo grassi e dall’altra al diniego della gravità della perdita di peso. L’amenorrea, per le ragazze che hanno già avuto il menarca, deve essere di almeno tre cicli mestruali consecutivi; è dovuta al disturbo endocrino che coinvolge l’asse ipotalamo – ipofisi – gonadi. La classificazione americana considera due sottotipi: quello restrittivo e quello bulimico. Nel primo la perdita di peso è primariamente ottenuta con restrizione dietetica, digiuno e attività fisica eccessiva; nel secondo sottotipo, ora più frequente, vi possono essere frequenti episodi di abbuffate compulsive o di comportamenti di svuotamento, come vomito autoindotto ed uso improprio di lassativi e diuretici. Il profilo comportamentale e personologico delle ragazze anoressiche è ben noto: l’incredibile capacità di negare la fame e tollerare la denutrizione, l’interesse ossessivo per gli aspetti calorici e nutritivi della dieta, la distorsione della percezione della propria immagine corporea, l’esagerata importanza data all’attività motoria ed una tendenza all’iperattività non solo fisica ma anche intellettiva, più spesso in assenza di alterazione dell’umore. Spesso il profitto scolastico è buono, con tendenza al perfezionismo ed all’intellettualismo; vi è rifiuto della sessualità e del corpo adulto e frequentemente si riscontrano tratti ossessivi della personalità. Altrettanto ben noto è l’aspetto fisico delle ragazze anoressiche: importante riduzione di muscoli ed adipe; aspetto molto emaciato con guance scavate, perdita delle forme femminili, cute secca e cosparsa di lanugo, capelli opachi e unghie fragili. Le complicanze somatiche interessano molteplici organi ed apparati: renale, cardiocircolatorio, endocrino-metabolico, gastrointestinale, la crasi ematica e le difese immunitarie. I disturbi endocrini possono riguardare, oltre agli ormoni sessuali, gli ormoni tiroidei, ipofisari e il cortisolo; il deficit estrogenico può provocare ipodensità ossea ed osteoporosi. L’evoluzione, e quindi la prognosi, dell’anoressia nervosa sono molto incerte; la contraddittorietà dei 29 dati di cui si dispone è dovuta soprattutto alla diversa durata con cui si seguono i pazienti nei vari studi di esito della malattia. Più è lunga la durata dello studio e più emerge l’elevata tendenza alla cronicizzazione, con le recidive anche dopo molti anni. Comunque la normalizzazione ponderale e, dopo 1 o 2 anni, del ciclo avviene molto spesso nell’arco di anni; mentre disturbi psicopatologici importanti persistono in più di metà dei pazienti, anche dopo il miglioramento fisico e della condotta alimentare e nonostante un funzionamento sociale e lavorativo abbastanza buono. Fortunatamente non mancano singoli episodi benigni che,o spontaneamente o grazie ad interventi efficaci e tempestivi, si risolvono nell’età adolescenziale. All’opposto non sono rari i casi che vengono portati all’attenzione dei clinici in uno stadio di estrema gravità, che può anche comportare il pericolo di vita: il tasso di mortalità all’anno della malattia è di 0,5%, con rischio più elevato tardivamente rispetto all’esordio. L’assoluta necessità di ricovero ospedaliero si impone in caso di abbassamento critico dei parametri della frequenza cardiaca, pressione arteriosa, glicemia, potassiemia e temperatura corporea, unitamente a rapida perdita del peso corporeo che scende al di sotto del 75% del peso normale. Anche il rifiuto totale ad alimentarsi, con necessità di alimentazione nasogastrica o parenterale, l’assenza totale di collaborazione, l’inadeguatezza del supporto familiare e la presenza di altri disturbi psichiatrici concorrono a motivare il ricovero. Ovviamente i parametri critici variano in rapporto all’età e la precocità del ricovero è necessariamente sempre maggiore con l’abbassarsi dell’età stessa. Anche il rischio di suicidio deve essere sempre considerato con grande attenzione. La sede del ricovero nell’acuzie per le minori deve essere un reparto ospedaliero di pediatria o di neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza. È indispensabile l’intervento coordinato di un’équipe multiprofessionale costituita da neuropsichiatri dell’età evolutiva o psichiatri, psicoterapeuti, pediatri o internisti o endocrinologi, dietisti e personale infermieristico preparato. Idealmente dovrebbero essere istituiti nuclei specifici per la diagnosi e cura dei disturbi alimentari; ciò vale anche per le cure ambulatoriali per i casi meno gravi e per il ricovero in strutture intermedie, possibilmente specializzate, in regime di lunga degenza o residenziale o semiresidenziale. L’anoressia nervosa è un disturbo mentale che richiede un approccio multidisciplinare, una forte alleanza terapeutica con la paziente ed una stretta collaborazione con la famiglia.Spesso è necessaria la separazione dall’ambiente famigliare attraverso ospedalizzazione o degenza post –acuta in centro terapeutico specializzato. 30 Di fondamentale importanza è la presa in carico psicoterapeutica, che di solito deve essere a lungo termine. Diversi però sono gli indirizzi teorici e tecnici, ispirati alla scuola psicoanalitica, familiare-sistemica e cognitivo –comportamentale. Come spesso accade in questo campo i criteri empirici prevalgono su quelli strettamente scientifici; sembra tuttavia che le terapie relazionali-sistemiche siano più efficaci nelle pazienti anoressiche più giovani, mentre la terapia cognitiva comportamentale appare più indicata nei disturbi bulimici. Anche quando la psicoterapia è individuale il counselling psicologico alla famiglia è indispensabile. Molto più limitato invece è l’utilizzo di psicofarmaci,di solito indicati per i sintomi depressivi ed ossessivi ma dopo la fase più acuta e complicata della malattia; in generale gli psicofarmaci vengono considerati in rapporto alla comorbilità psichiatrica. Vari fattori sono predisponenti per l’anoressia nervosa: di tipo biologico-genetico, ambientale –famigliare e psicologico, come la dipendenza, le difficoltà nel processo di separazione – individuazione, e la tendenza a fissarsi all’infanzia e la scarsa definizione dei ruoli familiari. Tra gli aspetti socioculturali di particolare attualità sono il mito del successo, la competitività e l’adesione a modelli di bellezza ispirati alla magrezza. Sono invece da considerarsi come fattori precipitanti eventi traumatici di vario tipo, la crisi puberale vissuta come minacciosa o la pratica esagerata di una dieta prescritta per sovrappeso. Talora il rifiuto del cibo si insinua subdolamente mascherato da disturbi gastroenterici: in realtà una scusa per non alimentarsi mentre si controlla rigidamente il peso. Molto deve essere ancora fatto per adeguare, dal punto di vista delle risorse e dell’organizzazione, la rete assistenziale per la prevenzione, diagnosi tempestiva, cura e riabilitazione dei disturbi del comportamento alimentare. I reparti ospedalieri di degenza di neuropsichiatria dell’infanzia ed adolescenza, per l’assistenza delle fasi acute, sono numericamente insufficienti; lo stesso vale sia per le strutture riabilitative dedicate all’intervento intensivo dei DCA, di tipo residenziale o day hospital, sia per i servizi territoriali che devono garantire la più ampia disponibilità di intervento diagnostico, terapeutico e di supporto psicologico alle famiglie. 31 Anoressia e adolescenza Laura Bellodi, Professore Straordinario di Psichiatria – tratto da SocialNews L’anoressia nervosa, tale è l’etichetta diagnostica di questo disturbo nella nosografia psichiatrica, è un problema per il quale come ricercatori siamo impegnati verso la comprensione dei fattori causali biologici e non, e come clinici sul fronte della ottimizzazione delle cure, non solo quelle della fase acuta, ma soprattutto quelle di mantenimento, dal momento che si tratta di una malattia che almeno in una percentuale rilevante dei casi, circa il 70%, ha un forte rischio di ricomparsa dei sintomi dopo l’esordio e il primo episodio, con la possibilità negli anni successivi di cambiamenti del profilo clinico che possono in modo significativo aggravare il decorso e le complicanze fisiche. La prima adolescenza è l’età in cui il rischio di ammalare per le giovani è maggiore. La maggior incidenza di esordi del disturbo si concentra nella fascia di età compresa tra i 13-18 anni, anche se va ricordato che non sono più una rarità alcuni casi di esordi ancora più precoci, prima quindi del menarca. Neppure sono una rarità i casi di anoressici al maschile, nonostante il disturbo si qualifichi ancora nell’immaginario di tutti come una “prerogativa”, pur triste, al femminile. È evidente che, proprio perché colpisce gli adolescenti, la malattia investe l’intera famiglia, soprattutto i genitori nel loro ruolo di responsabili e garanti della salute psicofisica dei figli. Spetta ai genitori avviare la ricerca di un percorso diagnostico-terapeutico, spesso estremamente faticoso, che deve essere tempestivamente intrapreso: dal riconoscimento possibilmente precoce dei sintomi, fino all’attuazione di una cura la cui necessità viene molto spesso negata, osteggiata e procrastinata dalla giovane paziente. La famiglia d’altra parte non è soltanto il “luogo” all’interno del quale si giocano intrecciandosi elementi di conflittualità generazionale, oltre che criticità educative che hanno una loro estensione nella scuola, luogo privilegiato di crescita dell’adolescente nella dimensione della socialità e della comunicazione. La famiglia è anche espressione di un elemento della eziologia della malattia e l’avanzamento delle conoscenze scientifiche attuali ci consente oggi di affermare che i fattori genetici di stampo biologico hanno un ruolo significativo nella predisposizione individuale ad ammalare. Su questa vulnerabilità di tipo genetico si iscrive successivamente poi il ruolo di fattori ambientali la cui presenza e molteplicità contribuisce a “precipitare” il quadro clinico. Non è un caso forse che, a livello mediatico, si tenda a parlare di questi ultimi molto più diffusamente ed estesamente di quanto non vengano diffusi i risultati di studi 32 di biologia molecolare e di imaging cerebrale funzionale che propongono modelli di ereditabilità e identificano aree e circuiti cerebrali malfunzionanti che non sono riconducibili al solo stato di inanizione e deperimento generalizzato dovuto al rifiuto del cibo a al dimagramento conseguente. Questi stessi studi sulla familiarità del disturbo del comportamento alimentare ci indicano che si tratta di una predisposizione non limitata a questo disturbo ma si allarga al Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) che spesso nella paziente coesiste all’anoressia ed è presente tra i membri della sua famiglia in modo significativamente maggiore che nella popolazione generale. Ciò rende ragione delle osservazioni risalenti ai primi anni ‘60 di una lunga serie di elementi di comunanza nei profili personologici e nella qualità delle relazioni interpersonali che caratterizzano le famiglie di queste pazienti. Quello che decenni or sono veniva già descritto e costituiva il substrato per un approccio terapeutico psicologico che coinvolgeva l’intera famiglia, ha oggi riscontri in batterie testali complesse che misurano profili neuropsicologici individuali e rappresentano la base per la qualità delle interazioni, dei comportamenti e delle strategie decisionali vigenti all’interno delle famiglie. In particolare, parlando di profili neuropsicologici che caratterizzano le pazienti e i loro familiari di primo grado (genitori e fratelli), l’attenzione si focalizza sulle cosiddette funzioni esecutive, ovvero quelle facoltà mentali alle quali è deputata la pianificazione strategica dei comportamenti e delle scelte, la valutazione sotto il profilo emozionale delle motivazioni che costituiscono la base di comportamenti di approccio e ricerca piuttosto che di evitamento. Si comprende bene che la malattia implica una serie di comportamenti intenzionali e volontari, pur riconosciuti dalle pazienti stesse come irrazionali, sostenuti dalla forte valenza emotiva negativa attribuita al cibo, inteso come minaccia al mantenimento di un certo ideale patologico di immagine corporea. Rispetto a tali comportamenti a volte anche aggressivi, dettati dalla patologia, la famiglia fatica ad assumere un atteggiamento appropriato, specie quando la giovanissima età della paziente suggerisce preferibilmente toni autoritari e giudicanti piuttosto che non un rapporto empatico nei confronti della figlia malata. A maggior ragione quando uno dei genitori presenta tratti di personalità tipo rigidità, freddezza e distacco emotivo e perfezionismo. Questo è il quadro attuale delle conoscenze all’interno del quale leggere il valore di iniziative anche lodevoli sul piano sociale (tipo la regolamentazione delle caratteristiche di BMI minimo per accedere alle passerelle delle sfilate di moda) volte a ridimensionare la tendenza ad attribuire un valore positivo alla magrezza estrema come espressione del controllo assoluto sugli istinti “bassi” come la fame. Ma l’ipercontrollo patologico, in realtà, è semplicemente 33 il frutto di un’attività di inibizione esagerata di alcuni componenti di circuiti cerebrali deputati all’attivazione di comportamenti ”appetitivi” appropriati, per la regolazione e il mantenimento dell’omeostasi energetica dell’individuo. Il futuro dei programmi terapeutici, soprattutto quelli ad orientamento non farmacologico si giocherà sulla possibilità di applicare programmi di neuro-riabilitazione cognitiva sulle funzioni mentali defettuali riscontrate in queste pazienti, in analogia con quanto già viene fatto per altre patologie neuropsichiatriche. IL CIBO NELLA STORIA, NELL’ARTE E NELLA RELIGIONE (a cura dott. Rita Calderini) Nozione di cultura e di identità Il dibattito sul significato di cultura pone le sue origini nel XVIII secolo. Con questo termine si voleva indicare l’azione di istruire: cioè la condizione dello spirito erudito dall’istruzione, formato dall’educazione nella conoscenza delle arti, della scienza, della letteratura e della musica. Una dicotomia concettuale rispetto al termine “natura”: possedere uno spirito naturalistico non nobilitava l’essere umano, non lo sottraeva all’ignoranza e all’irrazionalità. La cultura, invece, rappresentava la somma totale delle conoscenze accumulate e tramandate dall’umanità nel corso della sua evoluzione, e veniva considerata propria della specie umana: affinava i costumi, valorizzava la ragione e la conoscenza. Natura, dunque, contro cultura. Il movimento dell’Illuminismo favorì la diffusione del concetto di cultura considerandolo sinonimo del termine “civilizzazione”. La cultura evidenzia un legame con il progresso individuale, mentre la civilizzazione fa riferimento al progresso economico, tecnico collettivo di un’intera comunità. Per i filosofi riformisti la civilizzazione viene a rappresentare il processo che viene a sottrarre l’umanità dall’ignoranza e dall’irrazionalità, ed è considerato un processo di riforma delle istituzioni, della legislazione e dell’educazione. È proprio in questo secolo che avviene una nuova concezione desacralizzata della storia: la filosofia si stacca dalla teologia, una nuova forma di speranza può essere considerata la “cultura” e la “civilizzazione. Questa concezione universalista di cultura trova delle opposizioni in Johann Gottfried Herder per il quale ogni popolo per mezzo della sua cultura, ha un destino specifico da compiere, ogni cultura esprime un aspetto dell’umanità. Secondo questo studioso tedesco, ogni popolo possiede il suo orgoglio e a questo appartengono le conquiste artistiche, intellettuali e morali che formano il patrimonio di una nazione e ne fondano l’unità. Nel corso del XIX secolo gli autori romantici tedeschi contrappongono la cultura, espressione dell’animo profondo di un popolo, alla civilizzazione, definita ormai dal progresso materiale connesso allo sviluppo economico e tecnico. Questa concezione particolarista di cultura servirà da fondamento alla costituzione dello stato-nazione tedesco che nello specifico distinse anche l’etnia e la razza proprie degli appartenenti a un tipico 34 35 ceppo originario. Questo particolarismo diede modo di radicare negli anni a venire, purtroppo, in certi uomini, ideologie razziste che portarono drammatiche persecuzioni. In Francia non si evidenzia: “cultura” resta contraddistinto all’idea universale di unità del genere umano. Nel corso del XIX secolo l’etnologia e la sociologia vengono a definire il loro ruolo di discipline scientifiche: la prima tenterà di dare una risposta oggettiva alla questione della diversità umana poiché concepisce come postulato quello dell’unità dell’uomo e la sua difficoltà sarà concepire la diversità nell’unità. La sociologia, invece, cercherà una descrizione scientifica di come funzionano le società, di quali sono i legami tra l’aspetto espressivo e quello relazionale e quali le leggi che li regolano. Il termine cultura sarà, dunque, lo strumento di esplorazione per descrivere ciò che essa è, non come lo utilizzavano i filosofi, per dire ciò che doveva essere. Gli etnologi indagheranno gli aspetti unitari e particolaristici dando importanza alla diversità, e ciò che non è in contraddizione con l’unità fondamentale di umanità. Nel 1871 l’antropologo britannico Eduard Burnett Tylor dà una definizione etnologica di cultura: “La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più vasto, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una società”. Con questa definizione oggettiva e descrittiva l’autore mette in evidenza come la cultura sia l’espressione della totalità della vita sociale dell’uomo e di come essa si acquisisca. Il suo è un approccio universalista che considera la società in tutti i suoi aspetti: materiali, simbolici e persino corporali. Il suo metodo di analisi richiede l’adozione del confronto: le singole culture necessitano di un’analisi comparata per cogliere il movimento di progresso culturale. Mediante la formulazione di una scala rudimentale di comparazione poteva individuare lo stadio di sviluppo di una determinata società studiata. Una semplice somiglianza tra i tratti culturali, di due culture diverse, non era sufficiente a dimostrare che fossero situate sulla stessa posizione della scala di sviluppo, ipotizzava solo la diffusione o lo slittamento di una verso l’altra. Tylor è l’ideatore del concetto scientifico del termine cultura. Il primo antropologo a seguire la ricerca sul campo attraverso l’osservazione diretta dei particolarismi culturali è stato Franz Boas. Si deve a lui l’invenzione del metodo etnografico. Grazie ai suoi studi ha cercato di definire la diversità dei gruppi umani sulla base delle differenze culturali e non razziali. Per Boas non ci sono differenze di natura biologica tra primitivi e civilizzati, ma solo differenze di cultura, dunque, differenze acquisite e non innate. Con questo studioso il concetto di cultura si modifica verso lo studio delle “culture”. Ogni cultura costituisce un complesso coerente e funzionale, solo l’analisi metodica di un sistema culturale preso per se stesso 36 poteva far venire a capo di tale complessità. Un’usanza particolare non può essere spiegata se non in rapporto al contesto culturale di appartenenza. Ognuna ha uno “stile” particolare che si esprime attraverso la lingua, le credenze, i costumi, l’arte e molte altre pratiche. Tutto ciò influenza gli individui e ne influisce sui comportamenti. Il sociologo francese Emile Durkheim, contemporaneo di Boas, analizza i fenomeni sociali attribuendone una dimensione culturale in quanto fenomeni simbolici. Egli non parla di cultura, ma sviluppa la teoria della coscienza collettiva: la presenza di rappresentazioni collettive, di ideali, di valori e di sentimenti comuni a tutti gli individui appartenenti a una stessa comunità. Questa coscienza collettiva precede l’individuo, lo domina, gli è estranea e trascendente: c’è discontinuità tra coscienza collettiva e coscienza individuale, la prima è superiore alla seconda in quanto è più complessa e indeterminata, realizza l’unità e la coesione di una società. Se ci addentrassimo nello studio di autorevoli sociologi troveremmo ancora diverse definizioni di cultura, in questo contesto risulta interessante mettere in evidenza come lo stretto legame fra civiltà, comunità e processi simbolici disarticola e definisce i costituenti della cultura. Uno di questi fondamentali elementi è anche il linguaggio. Lo stretto legame tra lingua e cultura determina sia la trasmissione della cultura stessa che l’influenza che essa ha sulla lingua medesima. Il linguaggio risulta come classificatore e organizzatore dell’esperienza sensibile (ipotesi di Sapir-Whorf) seppur sia esso stesso un prodotto della cultura. L’illustre linguista Claude Lévi-Strauss considerò i rapporti fra linguaggio e cultura fra i più complessi dando la seguente definizione di cultura: “Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione. Tutti questi sistemi tendono ad esprimere taluni aspetti della realtà fisica e della realtà sociale, ancor di più, le relazioni che intercorrono tra questi due tipi di realtà e quelle che intercorrono fra gli stessi sistemi simbolici.” Nelle definizioni prese in esame i fattori universali sono: l’interazione uomo con uomo che può aver luogo grazie all’uso del linguaggio, contatto e scambi economici e sociali, le relazioni istituzionalizzate, l’arte, la scienza, la confessione religiosa. Per poterli acquisire un individuo deve riuscire a starne in contatto e farli suoi, secondo Durkheim, l’educazione è il metodo di appropriazione delle norme sociali e culturali. Il concetto di cultura, però, non va inteso rigidamente poiché gli elementi che la compongono sono distanti nel tempo e nello spazio, non sono mai totalmente integrati, si realizzano nell’incontro delle libertà degli individui e dei gruppi che la compongono. La cultura non è omogenea, presenta una struttura gerarchizzata, una com37 presenza di culture (anche sub-culture) dove i gruppi sociali sono in rapporto di dominazione o subordinazione fra loro. Ciò non annulla l’una a favore dell’altra, permane un’autonomia culturale perché si tratta di rapporti fra simboli non fra gruppi. Una cultura non può imporsi in modo assoluto come, invece, può farlo un gruppo nei confronti di uno più debole. La cultura dominata, nel proprio ambiente, nell’oblio del dominio, produce simbolizzazioni originali e in gran parte sono frutti di processi inconsci. La presa di coscienza dell’appartenenza a una cultura pone in essere il concetto di “Identità”. Il senso di identificazione definisce una relazione simbolica di inclusione-esclusione: permette all’individuo di situarsi nel sistema sociale e di essere a sua volta individuato socialmente. L’identità culturale appare come una modalità di categorizzazione della distinzione noi/loro, fondata sulla differenza culturale. Essa si costruisce attraverso delle strategie, si decostruisce, è la risultante dell’identificazione che ci si vede imporre dagli altri e che si afferma di sé. Considerando tutte le implicazioni del significato di cultura e d’identità possiamo ritenere il cibo parte integrante del sistema di pratiche proprio della cultura di riferimento. Sulle scelte alimentari, infatti, intervengono diversi fattori capaci di influire a livello inconscio anche sul gusto. Ognuno di noi è nato e cresciuto in un determinato ambiente dove sono diffuse specifiche procedure sociali che condizionano le nostre scelte. Esistono regole diverse che definiscono i confini tra gli alimenti proibiti e quelli concessi, a seconda dello stadio di sviluppo della vita, del genere sessuale, della posizione e classe sociale dell’individuo. L’atto alimentare possiede pertanto un significato che va al di là della semplice funzione nutritiva, il particolare modo in cui si apprendono le abitudini alimentari sin dall’infanzia, tramite l’educazione, nell’ambiente familiare e si trasmettono di generazione in generazione con le tradizioni culinarie, risultano essere strettamente correlata alla cultura e possono essere considerate la sua espressione, come il linguaggio. L’atto di nutrirsi diventa un mezzo di comunicazione e di identificazione sociale assumendo di volta in volta valori simbolici differenti in relazione alle ispirazioni nazionali, ideologiche, culturali, religiose degli individui. Il percorso storico degli alimenti Nelle diverse epoche storiche cambia il valore e il significato che viene dato al cibo. Partendo dall’epoca Paleolitica cioè ben oltre 10.000 anni a.C. il cibo era pura sopravvivenza, gli ominidi andavano a caccia con strumenti di pietra, 38 raccoglievano radici e si nutrivano di carcasse. Nel Mesolitico iniziò l’uso del fuoco per affumicare e arrostire i cibi: la cottura avveniva dentro fosse scavate nel terreno, riempite di bore ardenti, depositate dentro le carni e, quindi, arrostite. I cacciatori cominciarono a praticare anche la bollitura utilizzando sacche ricavate da pelli di animali. La raccolta di bacche, frutti, vegetali proseguiva, si aggiunse alla raccolta sistematica di animali di piccola taglia e di qualsiasi specie, dai roditori ai volatili, e poi si pratica la pesca e si utilizza l’acqua anche per rendere commestibili cibi prima non edibili. Nell’epoca Neolitica l’alimentazione viene integrata dai cereali grazie alla scoperta dell’agricoltura e con quella dell’allevamento l’uomo può nutrirsi anche di prodotti derivanti dalla fermentazione del latte degli animali. Il sale viene utilizzato per la conservazione della carne e le tecniche di immagazzinamento permisero la conservazione di cereali e legumi. Gli antichi Egizi, nel lontano 1000 a.C. utilizzavano le farine per produrre il pane, usavano l’olio ricavato da semi e olive sia come alimento sia come unguento, mentre dalla fermentazione dell’orzo ricavavano la birra che assieme ai succhi di frutta e all’acqua erano le bevande in uso presso la civiltà. La birra, assieme al pane e alle carni, aveva un valore rituale per l’offerta ai defunti e alle divinità. Rilevante fu il ritrovamento di giare di vino nella tomba di Tutankhamon come testimonianza d’uso e importanza della bevanda già a quel tempo. Interessante è l’uso della bollitura che il popolo babilonese faceva per tutti gli alimenti: questa veniva praticata aromatizzando l’acqua con vegetali (porro, cipolla, sesamo) e arricchita persino col sangue. Anche i popoli della Mesopotamia bevevano la birra e la aromatizzavano con i datteri. Il suo consumo era quotidiano e serviva anche da ricostituente. Dal 1000 a.C. il popolo ebreo assume notevole rilevanza rispetto al consumo di certi alimenti, e vista la particolarità e l’importanza della religione ebraica mi riserbo un paragrafo a parte per esplicitarla. Nell’antica Grecia dell’età classica, i cibi assumono una valenza medica importante. Da Ippocrate si credeva nelle virtù medicinali dei cibi e una convinzione era quella che bisognava combattere la malattia attraverso le qualità intrinseche degli alimenti opponendogli punto per punto agli squilibri da essa provocati. Si consumavano, comunque, molti cereali e pane preparato con diverse farine e persino farcito con olive e condito con salse di pesce. Ricordo i Fenici per le zuppe di legumi e gli Etruschi per una bevanda rinfrescante fatta di latte fermentato. Nella Roma dell’età imperiale il cibo seppur vario, lo ricordo per una forte connotazione di ordine sociale: l’alimentazione serviva come “linguaggio” per distinguere e collocare nel tempo e nello spazio le persone nobili, dal popolo; gli eventi socializzanti da quelli culturali. I risvolti sociologici sono prevalenti rispetto a quelli di ordine strettamente 39 alimentare. Le leggi disciplinavano i banchetti, l’onore di un nobile dipendeva dalla sua magnificenza o dalla sua frugalità, a seconda di quale norma doveva attenersi. Nel Medioevo l’importanza era direttamente collegata all’aspetto del cibo e alla sua cromaticità: sui ricettari medioevali essa rifletteva lo statuto culturale attribuito a ciascun colore. Si usavano molto le spezie per insaporire sia gli alimenti che le bevande. Con la scoperta dell’America e della conseguente importazione del mais, del pomodoro, dei carciofi, della patata e del riso si delinea la cucina come “arte culinaria”. Nel Rinascimento il cibo va ricordato anche per il trattato di Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V, dedicato alla professione e al ruolo sociale del cuoco, scritto utilizzando un linguaggio tecnico e specializzato, il cuoco doveva possedere anche doti morali atte a mantenere il segreto e la confidenza, nonché era considerato un depositario di segrete verità gastronomiche. Nel XIX secolo l’applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche applicate anche al settore agricolo e alimentare cambiano profondamente anche il modo di alimentarsi nei vari paesi. Per esempio le teorie della fermentazione di Pasteur migliorano la produzione del vino e vengono applicate alla produzione casearia. A seguito dei due conflitti mondiali l’alimentazione è cambiata significativamente, oggi viviamo nella società dei consumi, dove tutto abbonda e viene prodotto industrialmente, è difficile persino rendere coscienti gli individui che gli alimenti provengono da determinate specie di animali allevati appositamente per la nutrizione umana. Esistono norme sull’etichettatura che devono espressamente segnalare l’origine del prodotto e la provenienza ma non sono sufficiente per la presa di coscienza di molti, la carne non esce da un’industria per essere porzionata, impacchettata e deposta sui banconi per la vendita. A monte ci sta l’animale, i suoi bisogni e il rispetto di questo. Purtroppo gli allevatori stanno pensando al profitto e quantificando tutto il sistema della produzione. Oggi contano i numeri che producono altri numeri. Molte sono le lamentele sulla povertà di nutrienti contenuti negli alimenti dovuta alla produzione intensiva, o la presenza nelle carni di sostanze chimiche dovuti agli antibiotici somministrati agli animali rinchiusi dentro i capannoni per l’allevamento. Le farine risultano troppo finemente macinate e raffinate, nascono “nuovi bisogni” per “integrare” il troppo benessere bisogna produrre altre sostanze: gli integratori alimentari. Abbiamo così le industrie del benessere che producono alimenti “dietetici”, integratori alimentari per far fronte alle nuove difficoltà sociali legate alla sovralimentazione. Il consumismo produce nuove malattie e molti sprechi. Si conta che con questi, se fossero equamente distribuiti, non ci sarebbero problemi di denutrizione nel mondo. Non è infrequente, per noi appartenenti alla società dell’abbondanza, tro40 vare persone che mangiano barrette alimentari sostitutive dei pasti principali per dimagrire o bevono soluzioni ricche di qualche nutriente speciale per “regolarizzare” il metabolismo. Viviamo circondati da manifesti che sponsorizzano pietanze, mangiamo il più fugacemente possibile e abbiamo cambiato i connotati del “pasto”, di quello che potrebbe ancora essere un momento rituale della vita di ognuno di noi. Passano i tempi, si formano le mode, poi scompaiono, ma l’identità e la cultura dovrebbero sopravvivere al tempo che scorre inesorabile per dare senso profondo all’esistenza umana. Il cibo nell’arte e nella letteratura Come testimonianza del valore culturale e simbolico del cibo posso fare una breve osservazione di come la pittura e le arti in generale lo abbiano rappresentato da sempre. Le pitture rupestri del periodo Paleolitico già fanno intravedere la duplice funzione simbolica del cibo. Attraverso la pratica della caccia, l’animale ucciso veniva esposto al sacrificio per favorire la benevolenza delle divinità, e tramite la rappresentazione, un significato pedagogico, per indicare la modalità corretta dell’uccisione dell’animale a scopo di sussistenza. Osservando i periodi artistici in senso stretto, i più produttivi, in epoca greca esaltavano la bellezza della natura umana e il cibo serviva da completamento all’opera. La mela, per esempio, era un simbolo importante per la mitologia poiché era un attributo di Venere e delle tre grazie. La natura morta viene ben esaltata in epoca romana dove si possono veder affreschi, dipinti in terracotta e su legno. Gli alimenti fanno parte anche dei corredi funebri, usati per rappresentare il passaggio nell’aldilà. Si ritrovano, infatti, persino oggetti riprodotti con vari materiali a simboleggiare uova, uva, melograni e quant’altro poteva essere ritenuto utile nella vita successiva. L’osservazione più evidente è la simbologia del cibo nella pittura religiosa. Prendendo in considerazione la religione Cristiana si evincono i significati che certi cibi detengono, prendiamo ad esempio i più salienti: l’uovo, il pane, il vino, l’uva, il pesce, l’acqua e la mela. La forma specifica dell’uovo rimanda alla ciclicità cosmica della natura che si rinnova, cristianamente identifica Cristo che risorge. Il pane o meglio dire l’ostia, simbolicamente è la carne di Cristo così come il vino e l’uva indicano il suo sangue. Questi alimenti sono i più raffigurati sia nell’arte sacra sia laica. Diversi pittori hanno riprodotto “L’ultima Cena. Il cenacolo è simbolo che unisce l’alimentazione, quindi la vita terrena, alla morale religiosa: il tradimento di Giuda che porta alla morte di Gesù e la fede cristiana della resur41 rezione dopo la morte. Numerose sono, dunque, le ispirazioni artistiche che ritroviamo, si pensi a Leonardo da Vinci, Tintoretto, Giotto, Rubens, nell’arte pop Andy Wahrol Altre simbologie le troviamo nelle raffigurazioni della pesca e dell’acqua. I pesci sono un antico simbolo del Battesimo, mentre l’acqua, oltre a ricordare la fonte battesimale, simboleggia lo Spirito Santo. Il cibo e l’atto del mangiare detengono una funzione che va oltre la semplice e scontata nutrizione. Considerando alcuni di questi alimenti anche nella pittura laica osserviamo come il vino e l’uva, per esempio, sono allegorie del Dio Bacco, rappresentazione dell’ebrezza e dell’eccesso. Non si può, quindi, confinare la simbologia degli alimenti al ruolo rappresentativo solo religioso, filosofico e morale che investe la sfera completa dell’uomo nella sua dimensione sociale. In ambiti letterario, inoltre, l’interesse si estende non solo al settore culinario per la compilazione di numerosi ricettari di ogni epoca, popolo e nazione. Troviamo, infatti, ampio spazio dedicato al cibo nella produzione letteraria ad litteram. A titolo esplicativo consideriamo Dante Alighieri: nella sua opera letteraria “Divina Commedia” i riferimenti al cibo sono molteplici. Il VI canto dell’Inferno è dedicato ai dannati per il vizio della “Gola”. Questo si ha quando l’uomo, spinto dagli stimoli della soddisfazione dell’appetito, eccede la giusta misura nell’assumere alimenti e bevande fino ad avere la mente confusa. Chi si trova nel terzo girone, infatti, è colui che mangiando e bevendo smodatamente non ha le facoltà intellettive lucide, ha cioè lasciato prevalere il suo lato “bestiale”. La condanna eterna che Dante prevede che sarà afflitta loro consisterà proprio nel vivere per l’eternità in uno stato mentale offuscato, privi di intelletto e avvolti da odori sgradevoli e precipitazioni atmosferiche simili al fango. In una rilettura dell’intera opera si può osservare come Dante abbia riservato a diversi condannati la somministrazione di “intrugli” sgradevoli. Nel Purgatorio si possono trovare i “golosi pentiti”, coloro i quali hanno chiesto il perdono delle loro colpe prima di morire, quindi, potranno espiare il loro peccato e raggiungere, poi, il Paradiso. Nel canto XXIV del Purgatorio 23-24, per esempio, troviamo il Papa Martino IV che “purga per digiuno/ l’anguilla di Bolsena” Questo era un modo di cucinare l’anguilla di cui questo Papa ne andava assai goloso; si racconta che lo facesse preparare per i giorni di magro prescritti dalla liturgia, per non soffrire il digiuno stabilito. L’alimentazione fa ruotare intorno a sé molteplici significati e valori in qualsiasi epoca ci si voglia soffermare ed è frequente l’uso del cibo per comunicare stati particolari dell’esistenza umana. Nel mondo fiabesco possiamo suscitare la fantasia dei piccoli con ricette “incantate”, si trovano, infatti, anche in questi racconti simbolismi con il cibo. Nella tradizione siciliana c’è la fiaba “La serpe Pippina” che descrive il rito per fatare un bimbo appena nato 42 offrendo un dolcetto preparato con cura. Anche in questo contesto gli ingredienti definiscono il significato di un rito propiziatorio, che, se non adeguati causano effetti negativi. Il cibo nelle favole assume connotazioni diverse: rappresenta il nutrimento, ma anche il raggiungimento di un certo obiettivo come diventare re o regina. In genere i racconti del cibo sono associati a stadi sociali di ricchezza o povertà e permettono di evincere la connotazione antropo-sociologica osservando le descrizioni che vengono fatte delle tavole imbandite. Nelle case dei ricchi i banchetti sono sontuosi, le tavole apparecchiate finemente con posate preziose, le pietanze sono di ogni qualità: selvaggina, carne, pesce, pane farcito, frutti e bevande aromatizzate. La tavola dei poveri, invece, presenta pezzi di pane raffermo, qualche zuppa di legumi o di verza, sulle migliori si trova un pezzo di formaggio e una bottiglia di vino. In altre fiabe il significato del cibo esprime delle difficoltà materiali. In “Pollicino”, per esempio, l’abbandono dei figli da parte dei genitori indica proprio l’impossibilità di dare loro da mangiare, d’altronde, le molliche di pane che Pollicino fa cadere per ritrovare il sentiero sono il simbolo della semplicità e dell’unione familiare. Le descrizioni nelle fiabe sono dedicate anche a interi paesaggi fatti di cibi: “la casetta di marzapane” in Hansel e Gretel, il “Paese della Cuccagna” dove tutto è fatto interamente di alimenti. Ogni popolo e paese è condizionato anche nella narrazione a “parlare” di cibo o tramite questo per esprimere il senso profondo dell’animo umano: sia un conflitto o l’amore, sia piacere o dolore, sia libertà o costrizione. Il codice culturale sotteso dalle norme di appartenenza è basato sovente su dei tabù alimentari che nascono nel momento in cui si attribuisce un significato particolare ad alcuni cibi, quando esistono regole mentali, morali e sociali per cui un alimento non deve essere consumato. Il valore religioso del cibo Prendere in esame questo aspetto così delicato e impegnativo del cibo all’interno della professione della fede richiede molta attenzione e rispetto per ogni individuo e gruppo di credenti. Ci tengo a precisare che non è mia intenzione far emergere nessun giudizio sull’argomento, mi scuso anticipatamente se non riuscirò a trattare in maniera esauriente ogni religione. L’animo umano è delicato e sensibile e la dimensione religiosa di ognuno ancora più intima e ancestrale. Fin dalle sue più antiche origini l’uomo venerava gli Dei, la percezione di essere sovrastato da un’energia superiore lo spingeva a credere nelle forze della natura: nel sole, nell’acqua, nella terra e nel cielo. 43 Anche i frutti della natura potevano in qualche modo interferire o portare senso alla vita. I cinesi, per esempio, dal lontano 500 a.C. credono alla legge del Tao, cioè al “non essere” ovvero “ordine cosmico” da cui provengono e a cui debbono aspirare di tornare per raggiungere l’immortalità. Loro osservano pratiche igieniche e dietetiche che mirano a portare il corpo al suo stato iniziale di “soffio vitale”. Il taoista per poter restituire al proprio corpo questa purezza originaria non mangia cereali. Crede che il cibarsi di questi favoriscano la crescita, all’interno del corpo, di tre vermi (San-ch’ung) chiamati anche tre cadaveri (San-shih) perché portatori di malattie e causa di invecchiamento precoce, quindi di morte. Inoltre questi tre vermi hanno il potere di uscire dal corpo per andare in cielo a denunciare agli Dei i peccati commessi dall’uomo. Il peccato stesso accorcia la vita. La longevità, invece, è indice di possibile conquista di immortalità già sulla terra. Il loro tipo di nutrizione, dunque, risulta funzionale al loro ideale ascetico d’immortalità. Altre pratiche a questa finalizzata sono le tecniche respiratorie e il ripristino di energie mentali se fuoriuscite dall’organismo. Il liquido seminale è considerato proprio energia mentale liquefatta che necessita per forza un reintegro una volta sparsa all’esterno del proprio corpo. Per riparare a ciò il taoista si deve alimentare con cibi idonei quali le pinne di pescecane o nidi di rondine. I seguaci di questo credo, dunque, sono rigidi vegetariani. Parlare di credenze o quasi superstizioni legate al cibo mi sembra davvero ridurre questo ambito a una posizione poco degna della grandezza che, invece, riveste oggi nel mondo. Le religioni a cui dedicherò una breve, seppur più approfondita trattazione, sono il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Induismo e l’Islamismo. Cristianesimo La religione cristiana, monoteista e diffusa in tutto il mondo, non ha tabù alimentari particolari. Vigono delle astensioni al consumo di carne e di non bere alcolici solo in particolari giorni di specifici periodi dell’anno. La Quaresima è uno di questi perché ricorda i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni e dove fu indotto in tentazione dal demonio per tre volte, resistette, e dopo di che Gesù incominciò il suo ministero. È un periodo liturgico molto importante, centrale per la religione poiché culmina con la Pasqua di Resurrezione. Durante la Quaresima è suggerito di astenersi dal cibarsi della carne il venerdì, e durante tutto il periodo si richiede di compiere dei “fioretti”, cioè piccole rinunce, anche alimentari, per fuggire le tentazioni carnali e far prevalere lo spirito (in questo caso specifico la forza di volontà). La simbologia cristiana come già detto sopra (cfr. 2.3) utilizza il pane, il vino, l’olio e l’acqua come segni sensibili della Grazia di Dio. I 44 Sacramenti uniscono e rinnovano la fede dell’uomo in Gesù Cristo: mediante lo Spirito Santo, Dio si è incarnato nel ventre della Vergine Maria, si è fatto uomo in Gesù, fu crocifisso, morì e fu sepolto, il terzo giorno resuscitò, salì al Cielo per indicare la via della salvezza riservataci da Dio stesso. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”. L’incarnazione è il mistero che unisce “il vero Dio” al “vero uomo”. Nella celebrazione dell’Eucaristia i segni del pane e del vino sono centrali, per mezzo dello Spirito Santo diventano rispettivamente “Corpo” e “Sangue” di Cristo. I segni del pane e del vino vogliono significare anche la bontà della Creazione per cui all’Offertorio si ringrazia per “il frutto della terra” e per “il frutto del lavoro dell’uomo” equivale a ringraziare per il pane e per il vino. L’Eucarestia unisce a Cristo e per tale effetto allontana dai peccati, come il cibo fortifica il corpo e lo rinvigorisce, la comunione fortifica la Carità. Non cancella i peccati (per questo c’è il sacramento della Riconciliazione) ma consente di far sempre più parte del Corpo di Cristo. L’Eucarestia fa la Chiesa, con il Battesimo siamo stati chiamati a far parte di un solo corpo, quello che Cristo unisce. La “comunione” è il sacramento di coloro che sono nella piena “unità del corpo mistico”. Ricevere questo sacramento significa essere in intima unione con Cristo Gesù. Il Signore dice infatti “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui” “Come il Padre che ha la vita, ha mandato me, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. Il significato attribuito al pane e al vino racchiudono il mistero della Fede e il rendere grazie alla Gloria di Dio per tutto ciò che ha fatto di buono, di bello e di giusto. Cristo si definisce come il pane di vita disceso dal cielo. Il “Regno di Dio” viene spesso identificato come un campo di grano, il seme del grano rappresenta la “Parola” di Dio e Gesù stesso affermò di essere il “Verbo” (la Parola) di Dio. Nel linguaggio biblico il pane caratterizza diverse situazioni della vita “un pane di lacrime”, “un pane di gioia”. L’Eucarestia assunta in prossimità degli ultimi giorni di vita dell’uomo assume un nome particolare “Viatico” in segno di accompagnare l’uomo nel passaggio verso la vita eterna. Anche nelle parabole è presente il pane, un miracolo attribuito alla moltiplicazione “dei pani e dei pesci” proprio a sottolineare l’importanza dello stesso. Non solo, nell’Antica Alleanza il pane e il vino sono offerti in sacrificio tra le primizie della terra in segno di riconoscenza al Creatore. I “Pani Azzimi” (senza lievitazione), che Israele mangia ogni anno a Pasqua, nel contesto dell’Esodo, commemorano la fretta della partenza liberatrice dall’Egitto; il ricordo della Manna del deserto richiamerà sempre a Israele che egli “vive del pane” della Parola di Dio. Possiamo considere questa breve e non esaustiva panora45 mica come un profondo significato attribuito al nutrimento che, partendo dal sostentamento, penetra così nel profondo dell’essere umano tanto da poter, per mezzo dello Spirito Santo, edificare l’anima. Nella simbologia cristiana l’acqua e l’olio, sempre per intercessione della “Divina Grazia”, diventano Sacramenti: “l’acqua battesimale” e “il Sacro Crisma”. L’acqua nel Battesimo indica “Nuova Creazione” poiché si libera dal peccato originale e si “nasce a nuova vita”. Nel Vangelo di Giovanni l’acqua ha un significato messianico, l’acqua non è più acqua, diventa vino che non solo è più abbondante, ma anche più buono. L’olio non è rilevante come alimento in questo ambito della simbologia lo ricordo perché usato come “sigillo indelebile” fonte di luce, balsamo, segno dell’Amore di Dio. Mi soffermo a questi brevi esempi poiché la vastità e sacralità della trattazione esulano dal mio percorso di studi. Ritengo, comunque, che sia indispensabile considerare gli aspetti religiosi dell’alimentazione per nobilitare il cibo sempre più. Ebraismo Parlare di regime alimentare all’interno di una confessione religiosa implica definire un confine fra lecito e illecito, poiché trattasi di regole che vietano di mangiare o bere alcune cose e ne prescrivono altre. Queste norme alimentari fanno parte integrante della normativa ebraica chiamata “Halachah” che si occupa prevalentemente degli aspetti ritualistici, legali e comportamentali, molto meno di questioni spirituali. La “Halachah” si occupa di quello che è “permesso” e quello è “proibito”. Queste regole, quindi, servono a imprimere nei credenti un atteggiamento di “disciplina spirituale” nel momento della vita terrena, proprio quando si sta compiendo, apparentemente, un atto così materiale come il cibarsi. Il cibo assume un valore di memoria. Gli osservanti dell’ebraismo si alimentano osservando le leggi e i precetti ricevuti da Mosè sul monte Sinai: “la Torah”, e osservando antiche norme igieniche e dietetiche. La cucina ebraica è “kasher” cioè idonea al consumo, pura, e la “Kascheruth” è l’insieme delle norme giuridiche che certificano il controllo e danno garanzia al fedele dell’idoneità di un determinato cibo di poter essere ingerito. La carne può provenire solo da certi tipi di animali, sono escluse, infatti, le carni del maiale, del coniglio e del cavallo. “Ogni quadrupede dallo zoccolo spaccato, dall’unghia divisa e che è ruminante potete mangiarlo”. Anche il pesce ha delle indicazioni per essere consumato: è lecito mangiare solo specie con pinne e squame, quindi, sono esclusi i crostacei e i molluschi. Si trovano 46 limitazioni anche per la cottura delle carni, il capretto per esempio, non può essere cotto nel latte di sua madre. A tal riguardo va considerato che il consumo di carne e latte è ammesso solo separatamente. Ci sono regole molto precise che indicano il loro utilizzo: non possono essere mescolati e neppure conservati vicini, le stoviglie devono essere dedicate a quello specifico alimento e non possono essere confuse, persino gli utensili per la loro preparazione (padelle, mestoli, dosatori) devono essere specifici per uno solo dei prodotti. Il consumo di uno dei due esclude l’altro e la successiva ingestione dell’altro alimento deve rispettare la distanza dalle tre alle sei ore. Regole ferree sono osservate soprattutto per la macellazione degli animali destinati al consumo “Shechitah”: il “macellatore” deve essere “autorizzato” cioè idoneo a eseguire la manovra che renda la carne “adeguata” al consumo “kasher”. La morte dell’animale deve avvenire per sgozzatura recidendo la vena giugulare, reclinato l’animale affinché raggiunga subito lo stato d’incoscienza, procedere nella recisione dell’arteria carotidea, l’esofago e la faringe. Questa manovra deve avvenire con un unico taglio preciso e continuo senza interruzioni. Il mancato funzionamento di una sola parte della procedura rende immangiabile la carne. Non solo, ci sono comunque parti dell’animale che vanno escluse dal consumo pur essendo macellato adeguatamente: certi tipi di grasso, il nervo sciatico e le parti dirette col sangue dell’animale. Il sangue è proibito e la carne deve essere salata a crudo per eliminarne i residui, poi adeguatamente sciacquata per essere idonea al consumo. Le bevande concesse sono anche alcoliche, ma tutti i prodotti destinati al consumo alimentari devono essere autorizzati dalle autorità rabbiniche per assicurare il rispetto di tutte le regole stabilite. Anche il raccolto dei prodotti della terra ha importanti procedure da rispettare e modalità di consumo. A titolo di esempio porto il “pane”: durante le festività di “Pesah”, festa molto antica celebrata per il raccolto dell’orzo, “in ricordo della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto”, bisogna ripulire tutte la madie e cesti dalle briciole del pane che abbia subito lievitazione e anche gli ambienti che fossero venuti a contatto da residui di prodotti lievitati. Per sette giorni mangiano pane frutto della farina del nuovo raccolto prodotto senza lievito. Ancora possiamo trovare delle prescrizione sui tipi di grassi da poter consumare, quelli concessi sono l’olio, “il burro, grassi animali provenienti da bestiame macellato ritualmente e certificato (a esempio il grasso del pollo)”. Non è semplice la nutrizione per un credente di questa religione, ma è fondamentale per testimoniare il loro credo, quindi, è parte integrante della loro dimensione religiosa. Il cibo, dunque, unisce esercitando sull’uomo un gran senso di appartenenza, conferisce senso di unità attraverso i gesti quotidiani visibili del 47 nutrirsi e allo stesso tempo nel sottoporsi alla Dieta di Dio. Segna un confine rispetto all’ambiente ed educa attraverso il gusto. Induismo L’india dispone del numero maggiore al mondo di bovini, infatti, è l’animale sacro per eccellenza. Nessun induista può cibarsi di questo animale, la sua venerazione e protezione fa parte integrante dell’induismo. La “vacca” è protetta perché simboleggia la protezione verso la maternità, è considerata la loro “madre” perché fornisce il latte da cui si può ricavare il burro, partorisce il vitello, maschio, con cui si può arare la terra per coltivarla. Possedere una mucca e allevarla rappresenta un piacere spirituale che nessuno dovrebbe esserne privato. L’animale è lasciato vagare liberamente in India tanto da detenere il diritto di precedenza lungo le strade. Ogni popolo, ogni cultura e ideologia diversa con la professione della propria fede include ed esclude, definisce ciò che è e ciò che non è, con la nutrizione rende visibile questi confini. Islam La religione islamica vieta l’assunzione della carne di maiale, il quale è considerato secondo la legge del Corano, animale impuro e il consumo di carne di animali morti naturalmente, il sangue e l’assunzione involontaria di cibo proibito, poiché Dio è indulgente e dispensatore di misericordia. Le norme dietetiche sono meno articolate complesse di quelle ebraiche, ma delineano il confine entrambe con la proibizione della carne del maiale. La macellazione riveste un momento rituale anche per i credenti islamici, ma si differenzia dalle regole ebraiche. L’animale per essere ucciso deve essere rivolto con il muso in direzione della Mecca, luogo sacro e di culto per eccellenza, bisogna che il sangue fuoriesca totalmente dall’animale prima di differenziare i tagli della carne. Una probabile contaminazione del sangue con la carne non la renderebbe idonea al consumo. La carne deve essere “halal”, lecita di contro ciò che non lo è viene definito “haram”. Un periodo distintivo per i credenti mussulmani è il mese del “Ramadan”: in tutti i giorni che lo compongono nelle ore prescritte di luce si devono astenere dal cibo e dal bere, nelle ore notturne, invece, è concesso il pasto, ricco e nutriente, tale da permettere di sopportare le privazioni diurne. Il pasto inizia con la celebrazione di un’invocazione e si conclude con una preghiera di ringraziamento a Dio. Il cibo per l’islam è un dono di Dio che va consumato con moderazione e condiviso con chi ne ha bisogno. 48 Come mangiavano i Greci (A cura prof. Tiziano Vidoni) Alimentazione dei Greci Ricette cucina antica in Grecia Banchetto nell’antichità! Alimentazione banchetto funebre Grecia classica Dopo l’improvvisa scomparsa della civiltà micenea nel tredicesimo secolo a.C., forse causata dall’ondata migratoria dei Dori, vi fu un periodo di decadenza (Medioevo ellenico). A partire dall’ottavo secolo a.C. ebbe inizio una lenta ripresa in tutta la Grecia, che portò ad un progressivo aumento della popolazione. In seguito alla rivoluzione agricola, che permise l’incremento demografico, sorsero città-stato politicamente autonome chiamate «poleis». La scarsità di terra da coltivare indusse molti centri, come Corinto ed Eritrea, a inviare gruppi di cittadini in zone lontane dell’Asia Minore dell’Italia meridionale e della Sicilia. La Sicilia era abitata in quel periodo, lungo le coste ioniche, dai Siculi ed in quelle tirreniche dai Sicani e dagli Elimi. Dall’incontro tra la civiltà greca e quella sicula si affermò il gusto di una cucina più raffinata. I suoi segreti ci furono tramandati da alcuni scrittori come Archestrato di Gela (IV secolo a.C.). Quest’ultimo, che era anche un noto filosofo, avendo visitato molte terre, as- 49 serì che in Sicilia aveva scoperto il piacere della buona cucina. Fu autore di un poemetto eroicomico sull’arte culinaria, “Hedypatheia”, cioè “Le delizie”, imitato dal latino Ennio in “Hedyphagetica”. I Greci furono i primi a occuparsi dello studio dell’alimentazione. Padre della dietetica attuale fu infatti Ippocrate, grandissimo medico greco che considerava ogni alimento fattore di salute o causa di malattie. Dimostrò, con le sue teorie, che molti cibi sono dannosi per le vie biliari (formaggi invecchiati, vini densi, carne troppo salata) e che altri hanno un effetto benefico sull’organismo (la carota e il sedano sono diuretici, alcune verdure sono rinfrescanti, il vino rosso è astringente, l’idromele fa bene alla gola). Un altro medico che s’interessò di dietetica fu Galeno, vissuto nel secondo secolo: egli consigliava un’alimentazione ricca di vegetali, pesce ed olio come condimento, perché salutari per l’organismo. Tra gli alimenti maggiormente consumati nell’antica Grecia c’era il pane. Ateneo nei suoi scritti cita 72 nomi di pani: allo zafferano, al finocchio, al rosmarino, all’oliva, all’anice, ai capperi, alla cipolla ecc. Insieme col pane, il pesce costituiva l’alimento maggiormente consumato. A noi sono giunte solo poche ricette tra cui quella del pesce al cartoccio (cuocere dei filetti di sarda avvolti in foglie fico). La pesca era per i Greci un vero e proprio mestiere di cui Platone esalta il piacere. Il vino non veniva bevuto puro (ácratos), ma allungato con acqua fino a formare una miscela più o meno alcolica in grandi vasi chiamati crateri, a cui attingevano i servi usando dei lunghi mestoli. Il vino veniva bevuto soprattutto durante i banchetti. L’olio d’oliva, alimento principe di Creta, è tuttora parte vitale dell’alimentazione nel Mediterraneo. Come frutta, si consumavano mele, pere, uva, melegrane, fichi, datteri e noci. Le bevande (vino, the a base di erbe, idromele): molto gradito dai contadini greci era il kykeón (consisteva in una mistura di farina d’orzo ed acqua, aromatizzata con la menta o il timo). L’idromele era una miscela di acqua e miele. La carne veniva consumata soprattutto dai ricchi. Il pane Ad accompagnare il cibo quotidiano del greco antico era il pane, che, talvolta, sotto forma di galletta, fungeva anche da piatto. Alimento-icona della dieta mediterranea, esso era preparato in numerose varianti. L’informatissimo Ateneo ne elenca un centinaio di tipi. Quello più diffuso era la “maza”, una galletta di farina d’orzo, consumata, soprattutto, dai meno abbienti. Il pane di farina di frumento, più pregiato, era riservato ai giorni di festa. Quello venduto nell’Agorà di Atene, detto “agoraios”, era il più rinomato tra i pani dell’Attica. 50 Ma anche quelli della Beozia e della Tessaglia erano ritenuti di buona qualità. Per Ippocrate, il migliore era l’”obelites”, cotto allo spiedo. I fantasiosi greci producevano perfino un pane a forma di fungo, detto “boletos”. Numerosi erano anche i pani cerimoniali offerti sugli altari alle varie divinità. Su di un sarcofago rinvenuto ad Haghìa Triada (Creta) compare, in bassorilievo, un sacerdote nell’atto di offrire un cesto colmo di pani. La Creta minoica già conosceva, dunque, i segreti della panificazione. Vi erano poi anche dei pani speciali, preparati per varie ricorrenze (matrimoni, funerali, battesimi ecc.). Il “gamelio”, impastato con miele e sesamo, era consumato nel banchetto nuziale; mentre, la “koliva” di semi e frutta secca, impastati con miele, era immancabile nei funerali. Un’usanza, questa, giunta fino ai nostri giorni. Le olive Un altro prodotto immancabile sulle mense greche erano le olive, consumate fresche o in salamoia. Archestrato raccomandava di “servirle rugose e mature e che tutti mettano sempre il finocchio in quelle in salamoia”. Secondo Ippocrate, queste sarebbero state molto nutritive, tanto che un uomo poteva sopravvivere con otto olive al giorno. Anche Platone era un grande estimatore del sacro frutto dell’ulivo, tanto che, nei simposi era capace di mangiare soltanto olive. Quelle preferite dal filosofo erano le olive lasciate maturare sull’albero, dette “druppae”. Ve ne erano di moltissime qualità: la bianca, la nera, la georgerina, la pitryde e la iscadi erano le più diffuse. Le verdure Tra le verdure, consumate crude e cotte soprattutto dalla plebe rurale, ricordiamo le cosiddette “portulacee”, diverse specie di cavolo e di cicoria, vari tipi di bieta, di spinaci e di lattuga. Quest’ultima, in particolare, aveva fama di spegnere il desiderio sessuale e, perciò, tenuta in gran considerazione dal morigerato Pitagora che la chiamava “eunuco”. Per Diocle di Carysto, la migliore lattuga era quella nera, ma ve ne erano molte altre specie (rossa, verde, bianca, “a cappuccio”). La più saporita, secondo il botanico Teofrasto, giungeva nei mercati greci da Cipro. Al contrario della lattuga, erano ritenuti afrodisiaci i porri, le cipolle, l’aglio, la menta. In particolare, quest’ultima era ritenuta un’erba sacra, dal potere eccitante e corroborante, nata dal corpo smembrato della ninfa Mintha, amante del dio degli Inferi, Ade. Anticamente, essa era usata nei riti funebri per profumare i cadaveri. 51 Il vino Oltre all’acqua e all’idromele, che si bevevano soprattutto in estate, era senza dubbio il vino la bevanda per eccellenza degli antichi greci. Intorno a questa bevanda si sviluppò tutta una liturgia ricollegata della socialità simposiale. “Nettare degli dei”, “sangue di Dioniso”, “ambrosia dell’Olimpo” erano alcuni degli appellativi con i quali i greci definivano il vino. L’immaginario primitivo credeva che nella bevanda vi fosse una componente di fuoco. E ciò perché il vino greco antico vantava una altissima gradazione alcolica, dovuta alla vendemmia tardiva (la raccolta si effettuava quando le foglie erano già cadute, ndr.).Diversi erano i vini di buona qualità. Archestrato di Gela pone ai primi posti il “biblino profumato” proveniente da Biblo (Libano) ed il “lesbio”, prodotto sull’isola di Lesbo. “Gloria d’ambrosia, bevanda che circola sulle mense dell’Olimpo” declama il gastronomo siciliano. Mentre, sulle tavole degli eroi omerici, oltre all’Ismaro, compariva il vino Pramnio (prodotto ad Ikaria), considerato il primo vino d.o.c della storia. Nell’Iliade, Nestore offrirà al medico Macaone “vino pramnio, mescolato con formaggio grattugiato e bianca farina”. Inoltre, è documentato come tutti i vini greci, a prescindere dalla qualità e dalla gradazione, avessero in comune un retrogusto resinato, dovuto alla resina di pino che sigillava le anfore. Per conservarlo più a lungo, lo si aromatizzava con miele, timo e altre spezie. Non di rado lo si miscelava con acqua di mare, una mistura che, come riferisce l’informatissimo Ateneo “aveva il profumo delle viole”. Leggi news tavola antichi Greci Come allenare il corpo per le attività sportive? Che dieta scegliere e quali esercizi praticare? Per i greci, il popolo che ha inventato le Olimpiadi, tali questioni erano di grande importanza e suscitavano dibattiti molto accesi. Già intorno al 440 a. C. un ex campione di pentathlon, Icco di Taranto, scrisse un manuale al riguardo, in cui raccomandava tra l’altro l’astinenza sessuale prima delle gare, come si usa ancora oggi nei raduni pre-partita dei calciatori. Tuttavia non sempre allenatori e medici erano in sintonia. In origine, gli sportivi antichi si attenevano a un regime alimentare a base di cereali, fichi secchi e formaggi freschi. Poi si affermò invece la dottrina secondo cui dovevano consumare grandi quantità di carne. Gli allenatori erano convinti della bontà di questa dieta, specie per i lottatori la cui vittoria era sovente determinata dal peso corporeo, ma i medici condannavano severamente il carattere smodato di un simile regime alimentare. Al tempo degli imperatori romani, il clinico Galeno scrisse una dura requisitoria contro lo stile di vita degli atleti, i quali non fanno altro che «bere, dormire, e mangiare come porci» e sono tutti sovrappeso e flaccidi «come 52 sacchi di farina». In effetti, gli eccessi non mancavano. La dieta seguita da Milone di Crotone, uno dei più grandi lottatori di tutti i tempi, prevedeva otto chili di carne e cinque litri di vino al giorno. Con quella dieta Milone vinse alle Olimpiadi ben 31 volte: possiamo considerarlo il primo caso di doping della storia. Il cibo diventa cultura (A cura dott. Rita Calderini) Le tre più diffuse religioni monoteistiche esaminate qui sopra, Cristianesimo, Ebraismo e Islam pongono dei cibi limiti alla nutrizione nel loro credo, ma sono accomunati dall’Agnello. In tutte e tre non è casuale, infatti, che le principali feste religiose celebrino l’agnello come simbolo di cui cibarsi: la Pasqua, il Pesah e l’Id Adha (festa del sacrificio del montone). Agnello come simbolo mistico della Fede. Sulle nostre scelte alimentari intervengono diversi fattori, quelli derivanti dall’insieme delle nostre pratiche sociali influenzano a livello inconscio anche sul gusto. Questo, quindi, non sempre può essere considerato il frutto di una libera scelta, piuttosto il condizionamento imposto dal sistema di credenze d’appartenenza. A influire, dunque, sulla definizione di cosa sia buono da mangiare concorrono molti fattori. Abbiamo potuto considerare sommariamente come l’alimentazione sia indicativa di molte funzioni: nutritiva biologica, religioso ideologica, simbolico relazionale. Il pane e il vino sono alimenti comuni in ogni società, prodotti frutto della conoscenza delle pratiche di macinatura e elaborazione delle farine poi cotte; il vino frutto della fermentazione dell’uva. Alimenti “culturali”, perché non si trovano direttamente in natura, sono investiti di cariche simboliche religiose che uniscono conoscenze “umane” al trascendente, mediante l’osservazione di accurate leggi l’ascesa al Divino è garantita già vivendo. Il cibo, dunque, riassume proprietà intrinseche nutritive a simbologie ultraterrene, unisce e separa, indica la via della salvezza o “si trasforma” in sacramento per nutrire l’anima. Il nutrirsi osservando determinate regole e non altre identifica l’appartenenza a una comunità, è identità e cultura (si prepara secondo una metodologia e non l’altra). L’alimentazione non può essere confinata a semplice consumo per la sussistenza, diventa la risultante di processi fenomenici, psicologici, procedurali, è sacralità e misticismo, nutrimento per la vita terrena e tempra per 53 lo spirito diretto verso la vita eterna. Se pensiamo all’uomo come capace di dominare i suoi desideri istintivi verso il cibo, allora diamo valore al concetto di Kantiana memoria che definisce la cultura come strumento di superamento dei vincoli naturali per trascendere la natura stessa (istinto di sopravvivenza) e di creare significati. Se facciamo prevalere l’idea che la cultura è un costrutto della realtà, e non un dato, allora gli individui che la interpretano costantemente, la generano dando senso e identità in ciò che producono e il cibo rientra in una loro attività diventando cultura esso stesso. Se noi viviamo in un ambiente già trasformato dagli esseri umani che ci hanno preceduti e siamo capaci di adottare i sistemi creati precedentemente per orientarci nel mondo circostante, significa che siamo capaci di servirci di “mezzi” per raggiungere i nostri scopi (artefatti). Tali possono essere considerate, per cui, anche le ricette poiché adottano una serie di accorgimenti tali da rendere il cibo da crudo a cotto, arricchito di spezie o privato di alcune parti, da non commestibile a edibile; mediano la natura della materia prima naturale e la rendono sì nutritiva ma culturale. Mi piace ricordare Marschall McLuhan che nei suoi studi sugli effetti dei mezzi di comunicazione sosteneva che il “medium è il messaggio”, seppure lui parlasse dei mezzi tecnologici, è interessante poter pensare al cibo proprio in questi termini. 54 RICERCA FILOLOGICA E LETTERARIA (A cura della prof. Elisabetta Zammitto) Le lingue antiche attestano che fin dalle origini il “mangiare” è considerato elemento indissolubile dal concetto di esistere per l’uomo. Greco: brotòs (la cui radice è riconducibile al verbo bibròsco- mangio) che identifica il mortale e che fin dall’Odissea è utilizzato in contrapposizione a ciò che è immortale (faesimbròtou, Odissea, libro X, v137 = che dà luce ai mortali), mentre per esprimere il concetto di uomo come cittadino-eroe si ricorre al termine anèr, mentre il concetto di genere umano è identificato con il termine ànthropos. Latino: mangiare in latino si dice edo, verbo che però è attestato in alcune sue forme come est, esse, vale a dire che tali forme verbali coincidono esattamente con le corrispondenti forme del verbo essere (egli è-egli mangia, essere-mangiare). Tale verbo deriverebbe (cfr Dizionario Etimologico Comparato delle Lingue Classiche Indoeuropee) dalla radice sanscrita *ad che, unita al suffisso –nus, sarebbe l’origine del vocabolo anno, nonché annona, il “complesso delle norme e delle attività con cui i governi provvedono alle necessità dell’alimentazione pubblica”. Victum è inoltre il supino del verbo vivere ed ha lasciato ancora oggi traccia nell’Italiano “vitto”, nella sua accezione di “nutrimento necessario al vivere”. Quali erano allora quegli alimenti che, nell’immaginario degli antichi, avevano la capacità di “alimentare” la mortalità o l’immortalità? Di certo non la quantità di cibo ingerito. Particolarmente a Roma, in epoca imperiale, le attestazioni di rifiuto dell’eccesso e del consumismo si sprecano: basti leggere alcuni passi del Satyricon di Petronio o della Consolatio ad Helviam matrem di Seneca. Esagerazioni ed eccessi che portano Quintiliano ad affermare nell’Institutio oratoria (IX, 3, 81) : Non ut edam vivo, sed ut vivam edo”(Non vivo per mangiare ma mangio per vivere). Ciò che però conferisce l’immortalità agli dei, o meglio, ciò che consente agli dei di mantenere la propria immortalità è anche un alimento che presenta antichissime attestazioni. Partendo sempre dalla lingua greca, l’attestazione linguisticamente più fre55 quente è individuabile nel termine ambrosìa, sulla cui etimologia si discute, in quanto esistono tesi diverse, che ne riportano ad esempio la radice antica ad un *mr (forza vitale), ma che contestualmente attesta sempre questa radice *bro, che, preceduta da alfa, andrebbe suggestivamente a rinforzare il concetto di cibo-non-cibo che conferisce l’immortalità agli dei. In che cosa consistesse l’ambrosia però non è dato fornire certezze, in quanto le fonti sono numerose e di vario genere. Ambrosia è termine che risulta ad esempio essere utilizzato ai piedi della statua del dio Anubi (“mangio ambrosia e bevo sangue”), iscrizione che lascerebbe intendere che l’ambrosia presso gli Egizi non fosse considerata una bevanda. L’ambrosia viene però messa spesso in correlazione con l’idromele, usato nell’Egeo come enteogeno prima del vino e che era per i Norreni la bevanda degli dei. Per i Greci poi l’ambrosia era nascosta nel giardino delle Esperidi, elemento questo che non può non richiamare alla memoria l’albero della Vita che si trovava nel giardino dell’Eden (Giovanni 4.14). In Europa l’ambra color miele era un dono tombale già nel Neolitico ed era indossata nel VII secolo a.C. come talismano. Altre fonti definiscono l’ambrosia come un “liquido dorato”, peculiarità che trova conferma in altre culture nella definizione di oro liquido del Sura 18 e dei Nag Hammadi, nello Zoroastrismo, secondo il quale il deva Idra e il dio Agni bevono un liquido speciale, chiamato Soma (Rig Veda 8.48.3). Ambrosia presenta inoltre una consonanza rapportabile al termine hindu “amrita”, anch’essa bevanda che dona immortalità. Per i Sumeri la bevanda degli dei era prodotta dalla dea della fertilità Ninhursag (dea mucca), che presenta quindi piccole somiglianze con la capra Amaltea. L’ambrosia era dunque il nutrimento delle divinità, degli immortali. Agli uomini era vietato nutrirsi di ambrosia, in quanto sarebbero diventati a loro volta immortali. Una delle empietà di Tantalo, infatti, fu l’offerta ai propri ospiti dell’ambrosia (furto simile a quello forse più noto di Prometeo): essendo stata portata da colombe, potrebbe essere pensata come un’esalazione della Terra. Secondo alcuni studiosi l’ambrosia sarebbe però identificabile con dei tipi di miele. In questo caso il suo potere di conferire l’immortalità sarebbe da ricollegare al supposto potere curativo del miele. Collegato all’ambrosia è anche l’elisir della vita, che nel Medioevo prese il nome di Pietra Filosofale. Quest’ultima, oltre a donare immortalità, avrebbe avuto anche il potere di creare la vita. Anche in religioni e credenze moderne possiamo trovare cibi o bevan56 de che conferiscono immortalità. Nella religione cinese troviamo le “pesche dell’immortalità”; nella mitologia giapponese per raggiungere l’immortalità basterebbe nutrirsi di una ningyo (ossia una sirena); nel taoismo l’elisir è donato dall’Huadan (cioè solfuro di mercurio) e infine nella religione Cristiana l’immortalità può essere raggiunta attraverso il Sacro Graal. Cibo o bevanda che sia, dunque, l’ambrosia è “riservata” ai non-uomini, o comunque gli uomini aspirano a nutrirsi di essa per diventare non-uomini. Ma cosa mangiavano invece gli uomini? Nel mondo latino il termine homo viene messo in relazione etimologica già dagli antichi con humus, terra, offrendo dunque ampio spazio alle ovvie deduzioni che ne comportano il legame indissolubile con essa. Saranno dunque i prodotti della terra quelli che ne consentono la naturale sussistenza, in quanto “siamo ciò che mangiamo” (Feuerbach). L’argomento è anche a questo proposito estremamente ricco di fonti ed impossibile da sviscerare nella sua interezza. Interessante però può risultare la disamina di alcuni alimenti ricorrenti ed indispensabili nella dieta degli uomini greci e latini, tra i quali risultano imprescindibili dalla dieta il sale, l’olio, il vino ed i cereali. Questi erano infatti gli elementi di base per la preparazione anche di quella sorta di “zuppe” che costituivano il nutrimento degli atleti e dei soldati, quelle categorie cioè che necessitavano di offrire prestazioni particolari e continuative (ciceone, garum), ma anche la puls (polenta), che era alimento base dei Romani, definiti dallo stesso Plauto “ mangiatori di polenta”. Alcuni di tali elementi erano ritenuti inoltre conferire poteri “speciali” e non solo tramite l’assunzione. L’olio ad esempio veniva spalmato sul corpo degli atleti o dei defunti per rendere gli uni imbattibili e gli altri eterni nella loro vita ultraterrena. Il vino poi presenta quelle particolari caratteristiche che lo portano ad essere definito a tutt’oggi “nettare degli dei”, quindi ambrosia. L’opportunità di tale definizione presenta risvolti interessanti e degni di un approfondimento a parte. 57 L’uomo e la terra (homo- humus) Francesca Muscia - 1C Liceo Classico F. Petrarca La parola “uomo” deriva dal vocabolo latino “homo,-inis”, strettamente legato al termine “humus,-i”che significa “terra”; in particolare terra umida, acquosa (da humor o umor,-oris) quindi coltivabile. Anche nell’ebraico è possibile trovare un parallelismo nella parola “adamah”(terra) con il termine “adam” (uomo). È chiaro il richiamo alla descrizione della creazione dell’uomo contenuta nella Genesi, secondo cui il primo uomo (Adamo) fu creato da Dio dalla terra: “Dio allora plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita. E l’uomo divenne un essere vivente.” Questa relazione tra uomo e terra viene trattata da importanti autori latini quali Varrone ed Ennio. Varrone infatti dice (1): “Principes dei Caelum et Terra.[...]Haec duo Caelum et Terra, quod anima et corpus. Humidum et frigidum terra, sive ut Ova parire solet genus pennis condecoratun, Non animam, ut ait Ennius (1) et Post indevenit divinitus pullis ipsa animam sive, ut Zenon Citeus Animalium semen ignis is qui anima ac mens.(2) [...]Quibus unicti Caelum et Terra omnia ex se genuerunt, quod per hos natura Frigori miscet calorem atque humori aritudinem. Recte igitur Pacuius quod ait Animam aether adiugat (3) Et Ennius terram corpus quae dederit,ipsam capere, neque dispendi facere hilum.(4) Animae et corporis discessus quod natis is exitus, inde exitium, ut cum in unum ineunt,initia. Inde omne corpus ubi nimius ardor aut humor,aut interit aut,si maner, sterile.Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardet et spica aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius vere expectat.Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua.” “Gli dèi supremi sono il Cielo e la Terra […] Questa coppia di dèi è quello che per noi è l’anima e il corpo.La Terra rappresenta l’elemento umido e freddo,sia che, come dice Ennio, la razza dei pennuti suole produrre le uova,non l’anima e poi l’anima viene dopo da sé agli uccelli, sia che Zenone di Cizio: la semenza degli esseri animati è il fuoco, quello che costituisce l’anima e la mente.[...] Con la loro congiunzione, il Cielo e la Terra hanno creato tutti gli esseri, perché per mezzo loro la natura mescola il caldo al freddo e il secco all’umido.Giustamente 58 dunque Pacuvio dice: l’etere tiene avvinta l’anima al corpo ed Ennio afferma che la terra si riprende il corpo che ha dato e non ne fa il minimo spreco. Poichè la separazione dell’anima e del corpo è l’exitus (la fine) dei viventi, da qui il termine exitium (distruzione); come quando ineunt (si uniscono) in un unico tutto ne determinano gli initia (nascita). Perciò ogni organismo,quando il suo calore è eccessivo o eccessiva è la sua umidità,o muore o, se rimane in vita diventa sterile. Ne costituiscono una prova l’estate e l’inverno, perchè nella prima il clima è in grado di lottare con la pioggia e col freddo per dar vita agli esseri ed aspetta piuttosto la primavera. Due dunque sono gli elementi che condizionano la vita: il fuoco e l’acqua.” (6) De Lingua Latina, vv. 59-60-61 Di questo poeta si sa solo quello che ci dice di lui Varrone (3) SVF, I, fr.126 (4) TRF, v. 94 (5) Cfr. Ann., vv. 6-7 (6) traduzione a cura di Antonio Traglia, da “Opere di Marco Terenzio Varrone”, classici u.t.e.t. (1) (2) Di Ennio sono giunti a noi solo pochi frammenti riguardanti l’argomento trattato. Tuttavia, come indicato nella nota 5, ci sono due versi nel proemio degli Annales in cui il poeta dice: “Terra<que> corpus quae dedit ipsa capit neque dispendi facit hilum” La struttura grammaticale è leggermente diversa da quella riportata da Varrone e ad essa meglio si adatta la traduzione del Traglia. Da sempre dunque l’uomo ha immaginato uno stretto legame tra se stesso e la terra. Questo concetto deriva probabilmente da una serie di quesiti a cui l’uomo in origine dovette trovare una risposta; domande circa la sua esistenza, il motivo della sua presenza sulla Terra, il fatto di essere dotato di una coscienza e di essere diverso da qualsiasi altro animale per la capacità di ragionare e di poter formulare questi stessi pensieri. Il primo impulso fu quello di trovare un riscontro nell’ambiente a lui circostante. Fu proprio dall’osservazione degli elementi che costituivano questo sistema perfettamente funzionante che l’uomo elaborò diverse teorie riguardanti la propria origine. Egli comparò la sua natura con quella esterna stabilendo delle corrispondenze. Due erano i fattori esterni più importanti: la terra e il cielo. Varrone infatti dice che per mezzo di questi ultimi la natura mescola il caldo al freddo e il secco all’umido dando origine a tutti gli esseri viventi. Il cielo essendo lontano è sempre stato visto come qualcosa di misterioso, e si sa che ciò che non si conosce spaventa, ma 59 anche come qualcosa di maestoso e degno di ammirazione. Nella maggior parte delle culture infatti il cielo è il luogo in cui risiede l’entità divina. Il fatto che nella Genesi Dio soffi sul viso di Adamo per donargli un alito vitale è molto significativo: ciò che consente la vita viene da Dio e quindi dal cielo. L’alito di cui si parla potrebbe essere l’anima. Questa concezione è proprio quella che ci descrive Varrone quando dice che il cielo e la terra sono per noi l’anima e il corpo. La terra, come spiegato in precedenza, essendo un elemento concreto e direttamente percepibile, rappresenta appunto la materia di cui tutti gli esseri umani sono fatti. Varrone sempre nel De lingua Latina dice (7): “Terra Ops,quod hic omne opus est hac opus ad vivendum, et ideo dicitur Ops mater, quod terra mater. Haec enim Terris gentis omnis peperit et resumit denuo, quae Dat cibaria, ut ait Ennius (8), quae Quod gerit fruges, Ceres (9); antiquis enim quod nunc G C. Idem hi dei Caelum et Terra Iupiter et Iuno [...]” “ Ops (l’Abbondanza) s’identifica con la Terra, perchè sulla terra si svolge ogni opera (opus) e di essa si ha bisogno (opus est) per vivere; per questa ragione si dice <Ops Madre> come <Terra Madre>. Essa è infatti quella che su ogni continente fa nascere tutte le genti e di nuovo a sé le richiama, quella che fornisce gli alimenti, come dice Ennio, quella che poiché gerit (produce) le messi è chiamata Ceres (Cerere); per gli antichi, infatti, il segno C aveva il valore dell’attuale G. Questi dèi, il Cielo e la Terra s’identificano con Giove e Giunone [...]” De Lingua Latina, vv. 64-65 Varia, v. 48 (9) Ib, v. 50 Già nell’antica tradizione religiosa greco-latina Giove (Zeus) rappresentava il Cielo e Giunone era la Terra, dalle cui sacre nozze nascono tutte le cose. (10) La terra umida (humus) è l’ambiente adatto alla coltivazione. Anche in questo caso emerge un aspetto interessante che mette in relazione l’uomo e la terra. Il verbo coltivare in latino (colo, -is, colui, cultum, colere) ha diversi significati: esprime ovviamente l’atto del lavorare la terra ma assume anche il senso di abitare, di onorare e, affiancato al vocabolo “vitam”, di vivere. Pertanto la coltivazione non viene intesa solo come agricoltura ma anche come cultura dell’animo o ancora come culto religioso; del resto è intuibile la comune radice etimologica. La parola humus potrebbe essere correlata anche al campo alimentare. Un piatto molto antico, diffusissimo ancora oggi in Israele ed originariamente nato appunto in Medioriente è l’hummus. Si tratta di una sorta di salsa a base di ceci condita con sesamo, olio d’oliva, limone, paprica, cumino e prezzemolo il cui nome antico in greco era χούμους. È possibile che sia ricollegabile al vocabolo χοῦς,χοῦ che significa terra, fango. P.S. Note e traduzioni prese da: “Opere di Marco Terenzio Varrone” a cura di Antonio Traglia, classici latini u.t.e.t.,edizione 1974. (7) (8) Seguiranno tutti gli articoli di approfondimento storico-testuale e traduzione a cura dei ragazzi aderenti alla ricerca. In un’altra sua opera, il De Re Rustica (Liber Primus, De agricultura, v.5) riprende questo concetto: “Primum, qui omnis fructos agri culturae caelo et terra continet, Iovem et Tellurem: itaque, quod ii parentes magni dicuntur, Iuppiter pater appellatur, Tellus terra mater.”(10) “Innanzi tutto invocherò Giove e la Terra, nelle cui mani sta in cielo e in terra ogni frutto dell’agricoltura;pertanto, poiché queste due divinità si chiamano i Grandi Genitori, Giove è chiamato il Padre, la Terra la Madre”(10) 60 61 “HOMO SUM NIHIL HUMANI A ME ALIENUM PUTO” “Non posso considerare estraneo a me nulla di ciò che è umano” (Terenzio, Il punitore di se stesso) A cura della prof Elisabetta Zammitto Un percorso etimologico sul diritto primario dell’uomo: il cibo Classe V A: ricerca di fonti relative alla storia dei principi alimentari Sintesi dei materiali utilizzati per la trattazione degli argomenti, individuati sia tramite ricerche su internet sia attraverso testi reperiti dagli alunni, nonché presentazioni in power point sui principi di base dell’alimentazione e sulla storia del cibo. L attività svolta con il gruppo classe è stata strutturata con lezioni frontali e dibattiti. (dschola) PANE Per diverse che fossero le usanze, in tutte le cittá greche l’alimento base restó sempre il pane. Si trattava di pane che poteva sembrare diverso perché diverse erano le forme nelle quali esso veniva foggiato nelle diverse regioni, ma sempre pane era. In Grecia, dato che ogni cittá aveva le sue varietá preferite, ne esisteva un grandissimo numero di tipi, tanto che se ne potevano contare ben 66 varietá. Oltre al pane comune esistevano infinite forme di pagnotte piú o meno attraenti, comprese quelle che si cuocevano per le feste religiose e venivano offerte a particolari dei. Tra queste, tanto per fare un esempio, quelle grandissime offerte a Demetra durante la festa della megalartia ossia dei grandi pani, le achenas, che venivano portate alla dea salmodiando la preghiera “una capra piena di lardo per la nostra signora addolorata.” Evidentemente si dava la forma di tali animali a queste saporite pagnotte impastate con pezzi di lardo e probabilmente nel sacrificio esse sostituivano la ben piú costosa capra. Vi erano poi i pani commerciali destinati all’uso comune e quelli cucinati nelle case private. I Greci stimavano molto i pani di orzo. Oltre il pane di orzo vi era naturalmente il pane di frumento e ve ne erano di diversi tipi e diversi nomi. I fornai si sbizzarrivano nel foggiare la pasta in forme attraenti e ad insaporirla in modo stuzzicante con semi aromatici. Si passava dal pane comune, l’aghelaios, 62 per arrivare al boletinos, un pane a forma di fungo cosparso di semi di papavero. Oltre al seme di papavero per insaporire il pane si usavano anche altri semi come il cumino, il lino ed il sesamo. Vi erano poi i panini fatti a forma di fiore come gli apaloi ed i krinoi, questi ultimi a forma di giglio; i giganteschi sfilatini o le trecce confezionate con l’aggiunta di latte, olio, pepe e lardo. Si parla pure di un tipo di focaccia, la thridakisine, il cui nome deriva da quello della lattuga, probabilmente perché era una sfoglia larga e sottile. In contrapposizione si aveva poi il cubo, simile al nostro pane a cassetta, ma insaporito con anice e formaggio e condito con olio. Ne parla Eracleide nella sua Arte della cucina. Il pane si distingueva anche per i diversi metodi di cottura. Vi era il pane cotto nel clibano, forno portatile di origine piuttosto antica nel quale si preparavano i cribani, panini a forma di seno. Vi era poi il pane artopticeus del quale parla anche Plinio ed il pane di forno l’ipnite che veniva sfornato dalle panetterie senza contare il pane cotto sui carboni e quello posto sotto la cenere. Una specialitá molto apprezzata era anche il pane di braciere, un pane piatto, molle e spugnoso che si mangiava inzuppandolo nel vino dolce. L’alimentazione degli atleti nell’antica Grecia (A cura prof. Tiziano Vidoni) L’antica Grecia, com’è noto, è la patria delle Olimpiadi, e lì agli atleti era riservato, insieme con i poeti, il posto più elevato della società. Ma cosa mangiavano i lottatori e i corridori degli antichi Giochi Olimpici? Ne ha parlato, in occasione della giornata di studio “Integrazione di nutrienti nello sport” tenutasi l’8 marzo 2002 in ateneo, il professor S. Pezzella, esperto di storia dell’alimentazione nell’antichità. Questi atleti d’altri tempi, come ha spiegato il professore, dapprima mangiavano pane, miele, frutta secca, verdure e pesce; solo più tardi si capì l’importanza delle proteine della carne per loro. Nell’epoca dei sontuosi banchetti dei ricchi, gli atleti avevano uno stile di vita e un’alimentazione completamente diversi, austeri, che permettevano loro di rimanere forti. Il retore greco Filostrato affermava che essi dormivano sulla nuda terra o su pagliericci, si lavavano in fiumi e torrenti e si nutrivano di gallette d’orzo, frutta varia e miele e formaggio caprino con cui preparavano una sorta di fonduta. Eppure erano rampolli delle famiglie dell’élite, dell’alta società: a loro era infatti riservata la partecipazione alle Olimpiadi e agli altri Giochi, a causa dei costi esorbitanti della preparazione e degli allenatori privati. L’austerità mirava 63 quindi alla fortificazione del corpo e dello spirito. La dieta, come detto, in seguito si arricchì di carne di bue, di maiale o di cervo arrostita o allo spiedo con erbe aromatiche, e poi anche di minestre di legumi, frumento, pane di farro, orzo e riso, olio di semi, strutto. Il pesce, soprattutto trote, veniva servito in foglie di vite o di fico, e i dolci, utili agli atleti per l’apporto energetico, erano costituiti da focacce di ricotta, miele o mandorle. E se avevano problemi intestinali, ecco pronti i decotti di alloro o altre piante dalle virtù terapeutiche. Ecco la dieta tipo prescritta dai medici: a colazione pane e miele, latte di capra e un po’ di farina impastata con olio; a mezzogiorno frutta secca, fichi, noci, crostoni di pane di farro con vegetali, olive nere, uova, formaggio caprino e vino mielato; a cena carne allo spiedo o alla griglia con erbe aromatiche, zuppa nera con carne, formaggio, verdure cotte o crude, pesce marinato e frutta. E c’era anche l’antidoping: gli atleti che esageravano col vino venivano esclusi dalle gare. Gli atleti dell’antica Grecia, ha concluso Pezzella, miravano alla bellezza, alla forza, alla determinazione e al coraggio; avevano l’ambizione di conseguire la gloria eterna, in una perfetta sintesi di virtù fisiche e spirituali. Dovete sapere comunque che l’alimentazione giornaliera dei Greci iniziava con una prima colazione leggera (akràtisma), consumata molto presto all’inizio della giornata e costituita da olive, formaggio e fichi, a cui si accompagnava una fetta di pane intinta nel vino puro. Il pasto principale per i Greci era il pranzo, l’Ariston, il migliore, la colazione era soltanto uno spuntino accessorio, dato che a metà giornata mangiavano davvero di tutto! Focacce d’orzo o di grano, carni rosse o bianche, cacciagione allo spiedo, pesce, verdure, legumi, molte cipolle, aglio e vari tipi di olive e formaggi…diciamo che al mattino potevano davvero stare leggeri! Ma gli atleti? Chi voleva diventare un vero campione Olimpico, doveva seguire una “dieta” particolare, uno stile di vita e un’alimentazione completamente diversi, austeri, che permettevano loro di rimanere sani e forti. E quindi, cosa mangiavano? Inizialmente solo pane, miele, frutta secca, verdure e pesce; solo più tardi si aggiunsero le proteine della carne, che fornivano loro uno stato di eccitazione ed “energia superiore” 64 Giorgio Ieranò doping, inganni e morti sospette (A cura del prof. Tiziano Vidoni) Ecco lo sport degli antichi di Massimo Vincenzi CI SONO atleti disposti a tutto pur di vincere, anche ad autodistruggersi. Ci sono atleti che si ammalano. Altri che muoiono in maniera sospetta. Ci sono medici compiacenti che studiano il modo per migliorare al massimo le prestazioni dei loro pazienti. Ci sono allenatori e presidenti che calpestano ogni regola pur di arrivare davanti agli altri. Sembra lo sport di oggi, ma invece è quello di tremila anni fa. Manca solo la televisione, per il resto c’è tutto. Soprattutto c’è il lato oscuro: doping in testa. A raccontarlo è Maurizio Zerbini nel suo libro “Alle fonti del doping” in uscita per L’Erma nei prossimi giorni. Dottore in ricerca all’università La Sapienza di Roma, l’autore entra nella macchina del tempo e ricostruisce, appoggiandosi con scrupolo minuzioso alle fonti dell’epoca, il fenomeno del doping nelle Olimpiadi antiche. Ed è un viaggio ricco di sorprese. Primo equivoco da sgomberare: scordatevi pentoloni in stile pozione di Asterix o intrugli tossici come - per esempio - le foglie di coca per i popoli andini. Il doping in Grecia è un affare serio, razionale, programmato con scrupolo, affidato a gente esperta, ben istruita. Doping che gli atleti subiscono, incapaci di ribellarsi, anzi contenti di sottoporsi a queste “cure particolari”, che sono talmente simili a riti iniziatici tanto da confondersi con essi. E quando qualcuno di loro ha qualche dubbio, ci pensano le legnate e le frustate dei tecnici a convincerlo. Tutti felici e incoscienti anche perché, come spiega Zerbini, “nello sport della Grecia antica manca completamente il concetto di illeicità”: per vincere vale tutto e tutto è consentito. Doping certo, ma anche inganni, scorrettezze in pista, tentativi di corruzione. Altro che barone De Coubertain, tanto che poi finite le competizioni - è d’obbligo una visita al tempio per purificarsi. La prima Olimpiade è del 776 a.c. e ci sono subito le prime tracce di doping. “Alimentazione differenziata”, scrive Zerbini, che non è proprio la stessa cosa, ma ci assomiglia parecchio. Gli atleti designati a partecipare alle gare vengono sottoposti - un mese prima del via - ad una rigorosissima dieta a base di latticini. È un tentativo iniziale, empirico, di aumentare le prestazioni dei campioni olimpici. Il salto di qualità arriva nel quarto e quinto secolo: chi ha i soldi ingaggia medici disposti a curare passo dopo passo la preparazione fisica di chi gareggia. E da qui in avanti “si sperimenta davvero di tutto”. Una corsa 65 dentro la corsa, con le più brillanti menti della polis impegnate a spostare il limite sempre un passo più in là. Tra i più appassionati alla ricerca c’è il matematico Pitagora, che evidentemente non si diletta solo con i numeri. Anche in questa fase però l’azione è tutta incentrata sulla dieta. “Una dieta forzata, esagerata, che fa assomigliare i campioni dell’epoca più a ingordi mangioni che ad atleti”. L’arma segreta è la carne, di tutti i tipi, ma soprattutto quella di maiale che diventa l’alimento base. Scorpacciate da ripetere tre o quattro volte al giorno e poi cacciagione, carne di bue, di agnello, di capra. Piatti che sulle tavole delle persone normali arrivano solo in occasione delle grandi feste, vengono somministrati con notevole frequenza agli atleti. E il doping si limita a questo “solo perché i medici del tempo non avevano le nostre conoscenze tecnologiche”, scrive Zerbini, “altrimenti non si sarebbero fermati davanti a niente”. La cura funziona: gli atleti vincono. Solo che poi, molti di loro, si ammalano e muoiono. Ippocrate è il primo ad accorgersene, ma anche Galeno studia il fenomeno: “L’atleta per diventare forte, non può vivere a lungo”, è la loro conclusione. A conferma della propria tesi Ippocrate ricostruisce la dieta di uno dei beniamini di allora: Biante. Che si mangia quantità enormi di formaggi, carne di maiale poco cotta, montagne di meloni, frutta, uova. Il tutto innaffiato da dosi massicce di vino (proibito invece agli spettatori) e latte. E allora si capisce bene Galeno che descrive gli atleti come “maiali all’ingrasso”. “Uomini con poco cervello” destinati a morire presto. Uomini manipolati dagli allenatori e dai medici, che costruiscono su di loro i propri trionfi. Sembrano atleti di oggi, invece sono di tremila anni fa. Nell’antica Grecia I Greci preparavano già il primo precursore della pasta, il “laganon”, un foglio grande e piatto di pasta, agliato e tagliato a strisce. Da “laganon” deriva il “laganum” latino, che Cicerone cita nei suoi scritti. “Lagane” e sfoglie di pasta conquistarono l’Impero e, come spesso accade, ogni popolo adattò la novità alle proprie esperienze. Allenamento Spartano Cenni di Storia l’allenamento fisico nell’antichità La pratica dell’attività fisica come strumento per migliorare la performance affonda le proprie radici nei tempi antichi. Poco prima della battaglia delle Termopili (480 A.C.) Re Serse incaricò i suoi esploratori di re66 carsi di nascosto nell’accampamento degli spartani al fine di spiarne le mosse. Gli esploratori riferirono al sovrano come gli spartani fossero quotidianamente impegnati ad allenare il proprio corpo con esercizi callistenici. Solo dopo che, nel corso della battaglia, i 300 spartani riuscirono a tenere testa agli oltre 120.000 soldati di Serse, fino all’arrivo delle altre forze greche, il sovrano comprese a proprie spese la ragione per cui il popolo greco desse una tale importanza all’esercizio fisico. Gli spartani, che sono da sempre considerati i più possenti guerrieri mai esistiti, basavano il loro allenamento quasi interamente su esercizi dove il peso corporeo fungeva da sovraccarico. Nell’antica Grecia gli atleti olimpici si allenavano per la forza utilizzando come sovraccarico quanto era a loro disposizione, in primis il peso del proprio corpo. La massima espressione del fisico “ideale” fa ancora oggi riferimento alle statue greche, scolpite utilizzando come modelli gli atleti olimpici, che dovevano il loro incredibile sviluppo muscolare all’allenamento, che accresceva il loro fisico fino ai massimi potenziali naturalmente acquisibili. Gli atleti greci si distinguevano, oltre che per le loro imponenti masse muscolari e la bassissima percentuale di grasso corporeo, soprattutto per la potenza muscolare, che si sposava con un’incredibile agilità ed una rimarchevole grazia nei movimenti e bellezza delle forme fisiche. Agli antichi greci dobbiamo il principio che recita come per accrescere la propria forza sia necessario manipolare il sovraccarico, incrementandolo progressivamente. Si narra che Milone di Crotone, il più celebre lottatore greco antico, in gioventù, per allenare la propria forza, solesse portare quotidianamente sulle spalle un vitello. Giorno dopo giorno il vitello cresceva e pesava sempre più, e il giovane Milone incrementava così la dimensione e la forza dei propri muscoli, costretti ad adattarsi a sollevare un carico progressivamente crescente. Pentathlon Antico a cura di Paolo Tassinari Quando l’agonistica e la ginnastica giunsero al loro massimo sviluppo, i Greci inventarono il Pentathlon che comprendeva cinque esercizi scelti tra i più duri e i meno faticosi, in modo che le cinque gare potessero eseguirsi facilmente l’una dopo l’altra. Il pentathlon fu come la sintesi della ginnastica greca e il trionfo degli esercizi migliori per lo sviluppo armonico delle forme, della forza e della sveltezza del corpo umano. 67 Il reperto storico più significativo al riguardo è il grande mosaico scoperto nelle Terme di Caracalla e che ora si trova nel Laterano, nel quale si possono ammirare delle rappresentazioni fedeli delle cinque gare che costituiscono il pentathlon o quinquerzio. L’antica agonistica greca – le 5 prove L’educazione ginnico/sportiva dei Greci si basava soprattutto sulla pratica del pentathlon (corsa – salto – lotta – disco – giavellotto) a cui si aggiunsero poi il pugilato e il pancrazio. Il pentathlon non è che l’antica agonistica omerica. Veniva prima la corsa, come esercizio base, diretta a fortificare le gambe. Il secondo esercizio era il salto, che fu introdotto nella 18° Olimpiade effettuato con una specie di manubri detti Haltheres o halteri. Salto ricreativo era quello celebrato in onore di Bacco, consistente nel saltare sopra un’otre pieno e unto di olio, rimanendo in equilibrio sopra un solo piede. Il terzo esercizio era il lancio del giavellotto, esercizio educativo di vigore e destrezza per i giovani e di preparazione alla guerra per i soldati. Il giavellotto era un bastone non molto lungo, fatto “a punta” all’estremità. Spesso veniva lanciato col sussidio di una correggia “ad ansa” entro la quale i lanciatori passavano l’indice e il medio. Veniva portato dal lanciatore fino al livello dell’orecchio e poi lanciato con un rapido passo in avanti, alla maggior distanza possibile. Il quarto esercizio era il lancio del disco, già ricordato nell’agonistica omerica. Il lancio del disco, imprimeva sviluppo ai muscoli delle spalle e delle braccia nonché alla forza della mano. Riuscivano vincitori quelli che lanciavano il disco alla maggior distanza o altezza. Il quinto esercizio era la lotta, entrata probabilmente nelle gare della 15° Olimpiade. Suoi scopi erano il vigore fisico, la destrezza, l’agilità, la prontezza di spirito. Pentathlon alle olimpiadi Il pentathlon venne introdotto per la prima volta in Olimpia ne 708 a.C. – Che questa data sia più o meno esatta e relativamente sicuro: Omero infatti non conosce il pentathlon come tale, ma quando veniva composto il XXIII dell’Iliade (Giochi Funebri di Patroclo) esso era in formazione perché in quei giochi sono comprese, sia pure separatamente quattro delle cinque gare che lo costituiscono (disco, giavellotto, corsa, lotta); lo stesso dicasi per l’VIII della 68 Odissea (Giochi dei Feaci) ove il pentathlon non è nominato ma qua e là vengono ricordate tutte le gare. È noto che nel pentathlon, ove uno dei concorrenti avesse vinto tre delle cinque gare, si procedeva senz’altro a proclamarlo vincitore senza perdere ulteriore tempo nello svolgimento de gare ormai divenute superflue. Se invece due atleti vincevano due gare per ciascuno, gli altri concorrenti erano eliminati e l’ultima prova, la lotta, decideva a quali dei rimasti in lizza toccasse la corona: questo si verificò nel 480, quando Ieronimo D’Andro, vincitore nei due lanci, superò, come era prevedibile nella lotta il più veloce ma meno solido Tisameno che aveva vinto le gare di corsa e di salto. Pentathlon: le prove Affidandoci alla testimonianza delle fonti, l’ordine delle prove nel pentathlon è: corsa, salto, disco, giavellotto, lotta. Per quanto riguarda l’ordine con cui si succedevano le gare, si premette che non è certo che tale ordine fosse fisso e che non variasse a seconda dei tempi e dei luoghi. L’unica cosa che sappiamo di sicuro è che la lotta era l’ultima gara. Bachilide la descrive chiaramente come ultima e la sua testimonianza è confermata da Erodoto e da Senofonte. Descrivendo l’attacco ad Olimpia da parte degli Elei nella 104° Olimpiade, dopo che gli Arcadi avevano usurpato la presidenza dei Giochi. Senofonte dice: “Era già terminata la corsa a cavallo, le gare di pentathlon si erano già svolte nel dromos e i lottatori non erano più nel dromos ma gareggiavano fra il dromos e l’altare”. Ad ogni modo appare chiaro dalla parole di Senofonte che la lotta veniva per ultima. Nessun concorrente avrebbe comunque potuto ben figurare in un’altra gara dopo parecchie e faticose riprese di lotta. La vecchia ipotesi che fosse necessaria la vittoria in tutte e cinque le gare, può essere messa da parte perché la vittoria nel pentathlon sarebbe stata estremamente difficile in quanto raramente poteva accadere che un atleta vincesse tutte e cinque le gare. Quello che possiamo con una certa sicurezza dedurre è che era sufficiente la vittoria in tre gare su cinque. È stato anche detto che la vittoria in tre gare su cinque non solo era sufficiente ma era necessaria. Possiamo ricordare che Polluce afferma che il termine usato per la vittoria nel pentathlon era “vincere tre volte”. Ma l’ipotesi che fosse necessario vincere almeno tre gare non offre sufficiente garanzia, cosicché possiamo rigettare tutte le ipotesi basate su questa affermazione. La sola conclusione che sia possibile dedurre dalle parole è che solo quelli che si erano qualificati nelle prime quattro gare erano ammessi a gareggiare nella lotta. 69 Pertanto si può dire che la vittoria in tre gare era sufficiente ma non necessaria. Il pentathlon cominciava con la corsa. La distanza era di uno stadio. La corsa poteva essere fatta a batterie, se necessario. La linea di partenza ad Olimpia poteva accogliere venti concorrenti. La gara di salto, lancio del disco e del giavellotto si eseguivano come ai giorni nostri: tutti gareggiavano contro tutti. Le gare di lotta si svolgevano su gironi. Era ammessa solo la lotta in piedi ed era necessario far cadere l’avversario tre volte per poter vincere. Pentathlon alle olimpiadi – iv giorno Il quarto giorno dei Giochi era consacrato al pentathlon, ammesso nel programma olimpico dopo la 17° Olimpiade. “Gli uomini più belli sono pentatleti: essi sono agili e potenti” dirà più tardi Aristotele. “Cinque sono le prove del pentathlon: Il salto, il lancio del disco e del giavellotto, la corsa, la lotta. Bisogna vincere tre di queste gare per essere riconosciuto olimpionico. I saltatori misurano la rincorsa e sono convinti di aumentare la loro potenza appesantendosi di piccoli halteri (nota pesavano da 1 a 4 kg) di ferro, di pietra o di piombo, che essi muovono verso l’alto durante il salto. Ma gli artisti hanno occhi solo per i lanciatori il cui gesto armonioso ed elegante mette in evidenza la potenza muscolare. I Giochi Olimpici si chiudono con il pentathlon, poiché la corsa in armatura è la chiusura dei Giochi, è una parata più che una gara. Vestiti in armatura completa da combattimento, riuniti tra i pali della pista in cui si sono svolte le prime prove di corsa, gli atleti si lanciano per correre lo “stadio”. Essi hanno lo scudo e brandiscono le lance. Correndo lasciano cadere ad una ad una le loro armi, poi le armature e finiscono interamente nudi”. Pentathlon: chi l’ha inventato Chi per primo abbia avuto l’idea di articolare in un’unica disciplina atletica i quattro sport omerici, più il salto si ignora. Il pentathlon appare nel catalogo delle Olimpiadi nel corso della 18° Olimpiade (708 a.C.). Siamo nel pieno periodo della potenza spartana. Nello spazio di dodici anni (720 al 708), tre alteti spartani vinceranno il dolico, il pentathlon e la lotta inserita per la prima volta nel programma delle Olimpiadi. È dunque uno spartano Lampidem l’atleta che apre il libro d’oro dei pentatleti. Un altro spartano Filombroto vincerà il 70 pentathlon per tre olimpiadi consecutive (676, 672, 668 a.C.). Ancora uno spartano Acmantida vincerà il pentathlon quasi due secoli dopo (70° Olimpiade – 500 a.C.) Pentathlon: Pausania – Callippo Le gare si svolgevano nei due massimi Stadi, quello di Olimpia (45.000 spettatori) e quello di Efeso (75.000 spettatori). L’Olimpiade era retta da un regolamento redatto dagli Elei, giudici imparziali ed intransigenti. Narra Pausania che un tale di nome Callippo, ateniese, fu il primo severamente punito, per aver “comprato” dai suoi competitori il premio del pentathlon. Gli Ateniesi rimasero esclusi per ben tre Olimpiadi finché non pagarono la grossa ammenda per la mancanza del loro atleta. Pentathlon: Aristotele Aristotele che aveva una concezione vivente sugli atleti greci dell’epoca classica diceva: “I pentatleti sono gli uomini più belli, perché sono fatti sia per le prove di forza che per quelle di velocità; sono certamente specialisti, velocisti, fondisti, lottatori, pugili e pancrazisti – ma è pentatleta colui che è capace di risultati apprezzabili in tutte le specialità (Retorica I. 5). Si trova soltanto una traccia di pentathlon per adolescenti (628 a.C. 38° Olimpiade); probabilmente si pensava che fosse troppo faticoso per loro e lo si abolì. Secondo Pausania e Filostrato fu la gelosia per la vittoria dello spartano Eutelidas che fece decidere gli Elleni di radiare questo pentatlon per adolescenti dal programma. L’inserimento del pentathlon nel programma dei Giochi greci, significa l’apprezzamento di questa competizione. Ci sono poche notizie riguardanti l’allenamento dei pentatleti. Icco di Taranto vincitore del pentathlon nel 476 a.C. ad Olimpia, seguendo i principi fondamentali di una dietetica razionale atletica con una alimentazione dosata con astinenza e con una moderazione di vita. Pausania ci dice che nel campo dell’allenamento ad Elis ci si allenava sotto il sole di mezzogiorno per assuefarsi alle gare di Olimpia. Inoltre Filostrato diceva che ogni concorrente doveva essere allenato secondo un piano individuale. La longevità di questa competizione durò per un periodo di oltre mille anni. Numerosi nomi di vincitori del pentathlon figurano nella lista dei vincitori 71 effettuata da Ippia ed altri. Per esempio Pindaro ricorda 52 nomi di vincitori: 27 nei Giochi Olimpici, 4 nei Giochi Pitici, 7 nei Giochi Nemei, 2 nei Giochi Istmici, 5 nei Giochi Panateniesi. Lo Spartano Filombroto è indicato tre volte come vincitore del pentathlon. Aristotele che apprezzava il pentathlon così scrisse: “Colui che sa portare velocemente i suoi piedi in avanti è un corridore; Colui che sa dominare il suo rivale con fermezza e con forza e che da a sua volta resistere alla pressione dell’altro è un lottatore; Colui che sa difendersi a forza di pugni dal suo rivale è un pugile; Colui che sa nello stesso tempo lottare e boxare è un pancrazista, Ma colui che sa fare tutto è un pentatleta. Possiamo ammettere che Mirone per il suo Discobolo e Policleto per il suo Dorifo, avevano come modelli dei pentatleti, essendo scontato che queste specialità non erano eseguite che nel pentathlon. PROGETTO CIBO E MICROIMPRESA Sviluppo di attività di micro-imprenditoria femminile, Batticaloa Il progetto di microcredito di @uxilia si concentra su attività di formazione e di promozione di attività generatrici di reddito, rivolgendosi alle fasce più vulnerabili, rappresentate dalle donne, vedove o ex-bambine soldato delle comunità di etnia tamil presenti nel Nord-Est dello Sri Lanka. Il progetto si inserisce in un contesto caratterizzato da una povertà sempre più diffusa, soprattutto nelle zone rurali, con forti ripercussioni sulle fasce più vulnerabili della popolazione, tra cui le donne, evidenziando il forte intreccio tra tematiche di genere e povertà. Il progetto prevede l’attivazione di corsi di formazione mirati al rafforzamento delle capacità e competenze professionali, organizzative e gestionali 72 73 delle donne e il successivo avvio di piccole attività di micro-imprenditoria. I laboratori tecnici, che si realizzeranno all’interno di strutture presenti sul territorio, riguardano tecniche di tintura e lavorazione di tessuti e sartoria, tecniche di trasformazione, preparazione e conservazione di frutta, verdura e alimenti cucinati, tecniche di micro-giardinaggio e tecniche di costruzione e manutenzione delle reti da pesca. Le donne vengono così arricchite di un know-how che permette loro di gestire al meglio le proprie attività e di potenziarne l’operato. Una volta terminata la formazione teorico-pratica, le donne selezionate hanno potuto formare a loro volta altre donne, membri delle comunità di appartenenza delle stesse, moltiplicando così le possibilità di diffusione delle tecniche apprese. Conclusa la fase di formazione e di moltiplicazione della formazione, il progetto ha previsto la costituzione all’interno delle strutture di @uxilia di un Servizio per gestire il fondo monetario di micro-credito, con la supervisione di un referente dell’Associazione @uxilia, volto a sostenere piccole idee imprenditoriali delle donne formate dal progetto stesso. Il fondo di micro-credito ha quindi lo scopo di favorire l’ideazione e la realizzazione di piccole idee imprenditoriali, basate sulle tecniche approfondite con la formazione, per avviare o sviluppare progetti di auto-impiego. Stabilita la durata di concessione del finanziamento, le piccole imprese femminili nascenti dovranno restituire il credito ricevuto, il quale andrà a finanziare nuovi progetti selezionati. Grande rilevanza viene data al coinvolgimento delle donne per il fondamentale ruolo di favorire un avvicinamento delle istituzioni ai problemi dell’esclusione sociale ed economica che le riguarda e delle ripercussioni nella società cingalese in generale. Tutte le attività sono state programmate partendo dalla rilevazione delle necessità delle donne legate ad esigenze, obblighi ed impegni familiari. Inoltre la costituzione di un fondo di micro-credito de- 74 stinato alla creazione di progetti di imprenditoria femminile, costituisce un apporto fondamentale all’approccio di genere, mirando al totale auto-impiego delle donne coinvolte, che deciderebbero il loro futuro sin dalla fase della progettazione. Dopo una formazione teorica e tecnica, le donne possono infatti accedere al micro-credito formulando dei micro-progetti imprenditoriali che realizzeranno con l’aiuto di un contributo finanziario. Una volta avviata l’attività, restituiranno la somma ricevuta la quale andrà a finanziare nuovi progetti imprenditoriali di altre donne. I risultati del progetto saranno divulgati dall’Associazione Auxilia e Koinonia nel territorio locale in una serie di eventi e iniziative che possano far conoscere e promuovere i servizi offerti oltre ai prodotti e alle attività svolte e moltiplicare le possibilità di commercio dei prodotti stessi e dall’Associazione Auxilia Onlus attraverso pubblicazioni e conferenze con l’obiettivo di sensibilizzare le comunità ai temi della cooperazione allo sviluppo e del microcredito come possibilità di auto-impiego. Le attività di realizzazione del progetto prevedono l’attivazione e l’organizzazione della struttura operativa di coordinamento e amministrazione per l’implementazione di tutte le azioni previste al raggiungimento degli obiettivi e risultati finali (accordi con i partners locali; organizzazione della didattica e disegno del corso; iscrizione e selezione degli iscritti); si svilupperanno tutte quelle attività che consentiranno l’allestimento della aule di formazione, la realizzazione dei corsi di formazione, l’apertura dello sportello per l’imprenditoria (acquisto attrezzature, formazione professionale teorico-pratica, moltiplicazione della formazione ai restanti membri delle comunità dei villaggi, creazione di uno Sportello per l’imprenditoria per il territorio del nord-est dello Sri Lanka, accordi con il partner locale, organizzazione logistica dello Sportello, selezione e contrattazione del personale); fondamentale la fase di sensibilizzazione e divulgazione delle azioni realizzate nel corso dell’intera durata del progetto, attraverso la creazione di una rete destinata a diventare 75 punto di riferimento per la condivisione e lo scambio di informazioni, risorse, strumenti e best practices per gli attori coinvolti nella rete, l’organizzazione di conferenze e meeting per la sensibilizzazione comunitaria sulle tematiche della cooperazione allo sviluppo, divulgazione dei risultati e pubblicazioni. Il presente progetto mira a contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per l’anno 2015 in riferimento all’obiettivo 3 che si prefigge di “Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne”.Il progetto si inserisce in un contesto caratterizzato da una povertà sempre più diffusa, soprattutto nelle zone rurali, con forti ripercussioni sulle fasce più vulnerabili della popolazione, tra cui le donne, evidenziando il forte intreccio tra tematiche di genere e povertà. Nonostante gli interventi umanitari e di cooperazione da parte di molte associazioni, i risultati sono stati spesso limitati dalla debolezza delle attività proposte, scarsamente efficaci e a sostenibilità limitata, non in grado di risolvere in modo adeguato i reali bisogni, relegando i beneficiari nel circolo vizioso della povertà. Descrizione pratica del progetto: il progetto ha previsto l’attivazione di corsi di formazione mirati al rafforzamento delle capacità e competenze professionali, organizzative e gestionali delle donne e il successivo avvio di piccole attività di micro-imprenditoria. Sono state selezionate 30 donne che, divise in sottogruppi, parteciperanno a diversi moduli di formazione teorico-pratica riguardante lo sviluppo di competenze tecniche in attività generatrici di reddito, al fine di favorire le possibilità di inserimento lavorativo per le donne coinvolte. La formazione in attività generatrici di reddito si è costituita in un modulo teorico volto a sviluppare conoscenze tecniche nei settori dell’imprenditoria, della qualità dei prodotti, della gestione delle vendite, ed un modulo tecnico che fornirà la possibilità di imparare e/o approfondire alcune tecniche lavorative fondamentali nell’economia cingalese. I laboratori tecnici, che si sono realizzati all’interno di strutture presenti sul 76 territorio, implementate dalle associazioni Auxilia e Koinonia e hanno riguardato: tecniche di tintura e lavorazione di tessuti e sartoria, tecniche di trasformazione, preparazione e conservazione di frutta, verdura e alimenti cucinati, tecniche di micro-giardinaggio e tecniche di costruzione e manutenzione delle reti da pesca. Le donne saranno così arricchite di un know-how che permetterà loro di gestire al meglio le proprie attività e di potenziarne l’operato. Una volta terminata la formazione teorico-pratica, le donne selezionate hanno formato a loro volta altre donne, membri delle comunità di appartenenza delle stesse, moltiplicando così le possibilità di diffusione delle tecniche apprese. Conclusa la fase di formazione e di moltiplicazione della formazione, il progetto ha previsto la costituzione all’interno delle strutture di Auxilia e Koinonia, di un Servizio per l’imprenditoria che potrà essere gestito da alcune delle donne precedentemente formate ed individuate dall’Associazione locale, e che potrà fornire supporto e informazioni riguardo l’impiego, le modalità di progettazione e realizzazione di iniziative imprenditoriali. Il Servizio per l’imprenditoria ha inoltre l’importante compito di gestire, a progetto formativo terminato, un fondo monetario di micro-credito, con la supervisione di un referente dell’Associazione locale, volto a sostenere piccole idee imprenditoriali delle donne formate dal progetto stesso. Il fondo di micro-credito ha quindi lo scopo di favorire l’ideazione e la realizzazione di piccole idee imprenditoriali, basate sulle tecniche approfondite con la formazione, per avviare o sviluppare progetti di auto-impiego. Stabilita la durata di concessione del finanziamento, le piccole imprese femminili nascenti dovranno restituire il credito ricevuto, il quale andrà a finanziare nuovi progetti selezionati. Il rafforzamento della rete tra le donne coinvolte nel percorso formativo teorico-pratico, anche al termine della formazione, mira inoltre ad aumentare il coinvolgimento istituzionale e rendere l’intera comunità cosciente delle opportunità sul territorio. La fase di analisi del contesto e dei problemi è stata realizzata rivolgendo la totale attenzione alla situazione della donna in Sri Lanka, con particolare riferimento alle risorse 77 destinate alle attività di empowerment femminile sia a livello sociale che economico, a favore di una fascia ancora più soggetta all’esclusione rappresentata dalle vedove e dalle ex-bambine soldato di etnia tamil. Grande rilevanza viene data al coinvolgimento delle donne per il fondamentale ruolo di favorire un avvicinamento delle istituzioni ai problemi dell’esclusione sociale ed economica che le riguarda e delle ripercussioni nella società cingalese in generale. Tutte le attività sono state programmate partendo dalla rilevazione delle necessità delle donne legate ad esigenze, obblighi ed impegni familiari. Inoltre la costituzione 78 di un fondo di micro-credito destinato alla creazione di progetti di imprenditoria femminile, costituisce un apporto fondamentale all’approccio di genere, mirando al totale auto-impiego delle donne coinvolte, che deciderebbero il loro futuro sin dalla fase della progettazione. Dopo una formazione teorica e tecnica, le donne possono infatti accedere al micro-credito formulando dei micro-progetti imprenditoriali che realizzeranno con l’aiuto di un contributo finanziario. Una volta avviata l’attività, restituiranno la somma ricevuta la quale andrà a finanziare nuovi progetti imprenditoriali di altre donne. 79 Progetto “Sviluppo attività di microimprenditoria femminile” selezionato da Women for Si ringrazia l’Azienda Agricola Bastianich di Cividale del Friuli Progetto “Sviluppo attività di microimprenditoria femminile” selezionato da Women for