60 — in scena Antonio Tarantino all’Auditorium Santa Margherita Un’emozionante serata con Franco Quadri e Maria Paiato in scena A ntonio Tarantino e il suo teatro sono stati protagonisti di una magnifica serata veneziana: in un gremito Auditorium Santa Margherita il 9 febbraio scorso il drammaturgo torinese d’adozione ha raccontato il suo personale avvicinamento alla scrittura, svelando anche i retroscena casuali che l’hanno portato a essere uno tra i più importanti e apprezzati autori italiani. All’incontro pubblico – organizzato dalla Fondazione di Venezia nell’ambito delle Esperienze di «Giovani a Teatro» e collegato al laboratorio di scrittura drammaturgica «Parole in forma scenica» – ha partecipato anche Franco Quadri, sia in qualità di critico e studioso che nella duplice veste di editore (la sua Ubulibri ha pubblicato in tre volumi tutti i testi di Tarantino finora editi, e si prepara all’uscita del quarto, previsto per giugno) e di presidente della giuria del Premio Riccione per il Teatro dal 1985 al 2007 (che il Nostro si è aggiudicato per ben due volte a distanza di pochi anni). Questo l’inizio del suo intervento: «Mi accorgo che sono passati solo quindici anni da quando Antonio Tarantino si è rivelato. E la cosa mi sorprende, dato che è uno degli autori più rappresentati anche all’estero, dove i suoi testi vengono tradotti, pur trattandosi spesso, soprattutto agli inizi, di opere gergali, che utilizzano il linguaggio delle periferie cittadine e degli immigrati. Mi sembra che Antonio ci sia sempre stato, invece arrivò per caso. Capita anche alle piccole editrici come la Ubulibri che giungano dei copioni per posta, che spesse volte, dopo averci dato un’occhiata, spariscono. Una sera di ottobre del ’93 mi era arrivato in mano un dattiloscritto intitolato Stabat Mater. Me lo sono portato a casa, l’ho letto tutto e il giorno dopo ho telefonato al nostro autore per dirgli che mi interessava. Poco dopo a Riccione pervenne un secondo testo, Passione secondo Giovanni: su mio consiglio Tarantino inviò al Premio anche lo Stabat e vinsero insieme. Le prime pièce – in brevissimo tempo nacque anche la terza, il Vespro della Beata Vergine – si rifacevano alla classicità, anche se restituita attraverso quella particolare lingua cui accennavo. Dopo c’è stata una svolta, e con i Materiali per una tragedia tedesca dal mito si è passati alla storia: oggetto d’indagine erano gli anni settanta in Germania, e specificamente il gruppo terroristico Baader-Meinhof. Dopo aver vinto una seconda volta a Riccione, nel 1997, questi Materiali andarono in scena al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Cherif – che aveva diretto anche i primi quattro Atti profani – e con le scene di Arnaldo Pomodoro. Nella produzione posteriore è divenuta ancora maggiore la vicinanza a tematiche contemporanee, come ad esempio la situazione mediorientale, al centro della Casa di Ramallah e della Pace. Voglio aggiungere che quest’anno Tarantino, con otto tra inediti e riprese, è il drammaturgo più rappresentato sulle nostre scene: I Quattro atti profani verranno allestiti in una sola serata con la regia di Valter Malosti e l’interpretazione di Maria Pa- iato in uno spettacolo del Teatro Stabile di Torino, mentre al Festival di Napoli verrà messa in scena un’importante novità, di cui per il momento non si può ancora parlare…». Dopo questa calorosa introduzione, è stato lo stesso Tarantino a prendere la parola per dare vita a un appassionante discorso, di cui qui si riporta almeno l’incipit: «Ho cominciato a scrivere per il teatro quando avevo già superato la cinquantina e dopo aver fatto per molti anni il pittore. La via del teatro mi era stata indicata da una compagnia di amici torinesi, i Marcido Marcidorjs. Una volta mi caricarono su una vecchia Seicento e mi portarono a Roma a vedere Carmelo Bene. Così aprii gli occhi su questa realtà che conoscevo poco. Sta di fatto che nella primavera del ’92 avevo composto un testo che si intitolava Stabat Mater. In realtà volevo scrivere un racconto, non avevo ancora le idee ben chiare. Ma da questa base narrativa trassi gli elementi per comporre la mia prima pièce. Quei miei amici parlavano molto frequentemente di un certo Franco Quadri, e questo nome mi era rimasto impresso. Quando dunque a ottobre mi trovai a passare per Milano mi portai dietro il dattiloscritto. E grazie all’apprezzamento di Franco presi coraggio, e scrissi nel giro di un anno, oltre a Stabat Mater, Passione secondo Giovanni e Vespro della Beata Vergine. Ma dopo la vittoria a Riccione avevo promesso a me stesso che avrei composto una tetralogia, che poi è stata chiamata Un momento della serata all’Auditorium Santa Margherita Tetralogia delle cure. E fu allora che scoprii per la prima volta le difficoltà della drammaturgia: mentre le prime opere mi erano nate quasi di getto, passarono due anni nei quali scrivevo delle cose assurde, che non erano né teatro né narrativa. Finché un giorno, alla stazione di Torino, incontrai un uomo con la barba che mi guardava. Sapevo di conoscerlo, quindi mi avvicinai. Lui non poteva parlare, perché era stato tracheotomizzato: era un poeta che avevo conosciuto molti anni prima. Sapevo che dopo la morte della madre aveva cominciato a vivere per strada. Lo riconobbi, e anche se non ci fu possibile parlare, divenne per me una figura maieutica, che mi tirò fuori dei ricordi dimenticati, risalenti a trent’anni prima. Da lì nacque Lustrini, che creai piuttosto rapidamente, completando la tetralogia. E scomparsero tutte le difficoltà che avevo incontrato. Da questo ho imparato che bisogna saper aspettare, non si può scrivere per scrivere». Magica conclusione dell’incontro è stata infine la lettura scenica offerta da Maria Paiato, che con enorme bravura ho proposto brani dalla Pace e Stabat Mater, aprendo il suo intervento con il meraviglioso monologo inedito Cara Medea, dove la moglie di Giasone diviene una delle tante donne umiliate e calpestate dalle guerre dei nostri tempi. (l.m.) ◼ E lena Bucci – dopo l’interpretazione, in autunno, di Curva Santa Giovanna è diventato uno spettacolo molto musicale. Un po’ per rispettare anche la storia di Brecht e del suo teatro, che ha mescolato moltissimo le parole al canto e alla musica, in scena vengono proposte delle canzoni. Lo stesso Brecht aveva tratteggiato questo lavoro quasi in forma di radiodramma. Se in alcuni momenti la scrittura sembra fatta per essere filmata – snodi molto difficili da rendere sulla scena – in altri è più squisitamente teatrale, e in altri ancora diventa poesia lirica: una frammentazione di stili tutti volti a disegnare il percorso di questa eroina contemporanea. Ho ritenuto importante proporre lo spettacolo in forma di ballata per rendere giustizia al tono intensamente popolare e musicale che ha il lavoro di Brecht, e anche per porre una certa distanza affinché questi temi potessero avere la giusta risonanza. È possibile ravvisare un filo rosso che leghi queste due donne? Penso di sì. E lo scorgo in una forma di idealismo che sa di essere irrealizzabile ma non per questo è meno poten- Sud di Antonino Varvarà all’Aurora di Marghera – tornerà in Veneto tra marzo e aprile con due spettacoli che la vedono nel doppio ruolo di attrice e regista: Juana de la Cruz o le insidie della fede e Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht. Partiamo dal primo, chiedendole che tipo di indagine ha svolto per dar vita al personaggio di Juana. Se in un primo momento ho cercato di documentarmi il più possibile, mi sono poi anche resa conto che non avrei mai saputo fino in fondo com’era Juana e come aveva vissuto. Ho quindi deciso di assumermi la responsabilità di trarne ispirazione e di ricrearla, sempre però tenendo fede al materiale rinvenuto. Scrittrice e pensatrice messicana nata nel 1648, Juana è stata una donna dal forte temperamento e dalle incredibili doti intellettuali. Scelta la vita monastica, fu progressivamente emarginata dalla struttura religiosa, che arrivò a impedirle di scrivere e produrre testi temendone la portata rivoluzionaria per l’emancipazione delle donne. Ho potuto riflettere su cosa significhi la battaglia individuale per la libertà o perlomeno per avere il diritto di essere il più autenticamente possibile quello che si è, percorso che Juana ha affrontato con ironia e spirito, scrivendo delle pagine molto belle anche sotto forma di confessione pubblica in risposta ai prelati che la accusavano. Mi ha colpito molto il suo stile, così moderno e immediato, dal quale trapela la speranza di fare qualcosa che rimanga nel tempo come aiuto Elena Bucci in Santa Giovanna dei Macelli per altri che vorranno intraprendere la medesima via. Juana ritiene che Dio abbia riservato a ognuno un posto particolare nel quale poterte. Non è una sconfitta non riuscire a realizzare un ideale: si esprimere esattamente come si è. Il che significa togliere è la norma. L’ideale, proprio in quanto impossibile da readi mezzo tutto il «dover essere»: una forma di libertà molto lizzare, deve però esistere come tensione. La vera sconfitgrande. La sua cultura, la sua scrittura, il suo pensiero la porta è non vivere pienamente la protano molto avanti, più avanti quasi di pria vita, è credere in una forma di quello che lei stessa ha potuto intuire. disillusione rassegnata anche nel soLo spettacolo, grazie alle musiche oriMarghera (Ve) – Teatro Aurora 27 marzo, ore 21.00 gnare. Tutti sogniamo e tutti desiginali di Andrea Agostini, è diventato Belluno – Teatro Comunale deriamo la pienezza dell’esistenza a una sorta di operina, dove la parola è 28, 29 marzo, ore 20.30 scapito del senso di vuoto, e il fatto sempre intrecciata alla musica, al ritSanta Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht che non la si riesca a realizzare se non mo, al suono. Ai recitativi si alternaregia Elena Bucci ogni tanto non significa che non si no vere e proprie canzoni: una sorta di produzione Le Belle Bandiere debba lottare gioiosamente per ragballata. In questo modo mi è possibile Teatro Metastasio Stabile della Toscana giungerla. Juana e Santa Giovanna prendermi delle libertà emotive molto rappresentano anche questo aspetgrandi, portando il personaggio avanAsolo (Tv) – Chiesa di San Gottardo to, nonostante entrambi i lavori si ti e indietro nel tempo. 23 aprile, ore 20.30 concludano con una sconfitta stoCome hai lavorato invece sulla figura di rassegna «Rapire l’aurora» rica. Ma il modo di raccontare queSanta Giovanna? Juana de la Cruz o le insidie della fede ste due storie può far riverberare in Forse è un po’ una fissazione di quetesto e regia Elena Bucci chi le ascolta la voglia di cercare qualsto periodo, ma sento molto forte la produzione Ctb – Teatro Stabile di Brescia cosa di diverso da quello che sta vinecessità di unire voce e suono, aboin collaborazione con Ravenna Festival vendo e che non l’accontenta. (i.p.) ◼ lendo gli steccati tra parlato e cantato. e Le Belle Bandiere in scena Elena Bucci tra «Juana de la Cruz» e «Santa Giovanna dei Macelli» in scena — 61 62 — in scena Maria Paiato è la protagonista dell’«Intervista» di Natalia Ginzburg L’attrice veneta è Ilaria, donna istintiva e teneramente infantile in scena L a trama che Natalia Ginzburg costruisce nella sua pièce prende le mosse nel 1978, quando Marco Rozzi (Valerio Binasco), giovane giornalista, arriva in una casa di campagna per realizzare un’intervista a un importante studioso, Gianni Tiraboschi, oggetto della sua giovanile ammirazione. Ma ad accoglierlo troverà solo Ilaria (Maria Paiato) e Stella (Azzurra Antonacci), rispettivamente la compagna e la sorella di Tiraboschi. Nella vana attesa del suo interlocutore, Marco si intrattiene con Ilaria, personaggio che la viva voce dell’interprete ci ha disegnato. Ilaria è sicuramente una donna che non si sottrae alle difficoltà che la vita le presenta. E tuttavia non è una persona che battaglia: la sua lotta è quella di resistere, di sostare in piena accettazione. Un modo di porsi, questo, quasi inconsapevole, non maturato attraverso esperienze e ragionamenti, e dettato piuttosto dalla sua indole più profonda. Questa sua saggezza, infatti, affonda le radici più profonde nel suo dna: Ilaria non potrebbe essere diversamente, almeno per come l’ho vista io, per come l’ho conosciuta anche attraverso il confronto con Valerio. Ilaria è pensata sulla scena come un fiore, che sta lì, fermo e assolutamente disposto alla vita. Sulle sue labbra è sempre aperto il sorriso, anche nei momenti di rabbia, anche quando si sente delusa e amareggiata: la sua apertura è tale che immediatamente dopo uno scatto d’ira, se di scatti d’ira si può parlare nel suo caso, di nuovo torna a essere accogliente. Con Marco, il giornalista che incontra, si viene a creare un’intimità non cercata. Di che tipo di relazione si tratta? È un rapporto di stupore e di gioia. A un certo punto della pièce la Ginzburg fa dire a Ilaria che lei annusa le paro- le degli altri, soprattutto quelle di Gianni Tiraboschi, questo eterno assente, e ciò a significare che lei ha nel rapporto con gli altri un atteggiamento istintivo, immediato, niente affatto ragionato. Il personaggio che incarno è dunque quello di una donna assolutamente istintiva, in grado di annusare i discorsi degli altri: magari non ne capisce il senso, e tuttavia percepisce se quello che una persona sta dicendo è fondato, è verità oppure menzogna. Con Marco è come se viaggiassero un pochino sulla stessa lunghezza d’onda: Ilaria riesce quindi ad annusare anche le sue parole e a capire che ha dinnanzi un «penultimo» come lei, che lui è come lei, anche se cerca con fatica, annaspando, di guadagnare posizioni. Cechovianamente, potrebbero essere la coppia ideale e non riescono a capirlo, perché lei al di là di un’intuizione non sa andare e lui nemmeno. Rimangono dunque così, eternamente separati e nella mera possibilità di un rapporto bellissimo. La relazione con Marco è così: divertente, di gioco, e di gioco anche sulle parole, perché poi è la Ginzburg a muoverne i fili. Maria Paiato in Intervista Cosa di Ilaria ti porterai addosso e cosa di tuo le hai donato? Interpretare questo personaggio mi ha senz’altro regalato la possibilità di calarmi in un mondo quasi infantile e di trattenere a lungo questa gioia data dall’essere senza filtro alcuno. Per tutta la commedia Ilaria è così: anche se poi nel tempo molte cose maturano e cambiano in lei, fondamentalmente il suo scheletro, la sua struttura è quella di essere profondamente ingenua e buona. Questo modo di essere così assolutamente gioiosi è una cosa che, se da un lato ho imparato, dall’altro credo anche sia emersa spontaneamente in quanto parte di me. Credo che se si fa qualcosa significa che in qualche misura quel qualcosa ci appartiene, vuol dire che è già scritto nella nostra storia, nel nostro modo di essere. Si tratta quindi della scoperta che ho fatto di un lato che già esisteva dentro di me, una sfaccettatura che funziona e che può essere molto giusta da proporre in teatro. (i.p.) ◼ in scena — 63 La «Commedia di Candido» di Stefano Massini poraneità, mentre in questo caso ho voluto creare qualcosa di diverso, e ho composto un divertissement che ha dichiaratamente l’impianto di una farsa dedicata all’età dei lumi. Come fonte ho attinto a Visita a Rousseau e a Voltaire, un diario del viaggiatore inglese James Boswell, che essendo abbagliato dalla fama dei due filosofi decide di andare a far loro visita, con lo stesso spirito con cui oggi un fan inseguirebbe un cantante famoso. Boswell si reca a Ginevra, dove risiedono entrambi i suoi idoli, e lascia testimonianza della sua frequentazione con loro in quetefano Massini, regista e drammaturgo di punta della scena itasto libro, mettendo bene in evidenza i lati più pronunciati dei liana (nel 2005 ha vinto il Premio Tondelli a Riccione con L’odore loro caratteri. Unendo alla testimonianza di Boswell altri maassordante del bianco) illustra La commedia di Candido, lo teriali che riguardano Diderot mi sono divertito a creare quescherzo dedicato a Voltaire che ha composto per lo spettacolo diretto da Sersta storia pretestuosa, in cui fantastico che Diderot, Roussegio Fantoni e interpretato, tra gli altri, da Ottavia Piccolo. au, la chiesa e gli eserciti inviassero i propri scagnozzi alla “cor«In realtà La commedia di Candido ruota sempre attorno all’opete” di Voltaire per cercare di intercettare notizie e indiscreziora di Voltaire senza mai parlarne direttamente. Non ho scritto ni su questo famigerato Candido in procinto di nascere. Ho coun adattamento o una riduzione, ma sono stato invece incuriostruito il personaggio di un’ex attrice ridotta in bolletta – Didesito da ciò che sta dietro questo libro. Premetto che sono un aprot, Voltaire e Rousseau nutrivano una forte e dichiarata paspassionato di «dietrismi» culturali, mi avvince andare a risalire il sione per la gente di teatro – che si adatta a lavorare in casa del fiume e vedere cosa si annida tra le motivazioni che portano alla primo dei tre pensatori e che quando sta per essere messa alla porta rivela la sua identità e accetta di porsi al servizio dell’inventore dell’Enciclopedia e andare in missione quasi segreta a casa di Voltaire per indagare. Si reca in verità anche a casa di Rousseau, perché Diderot, che viveva a Parigi, era ossessionato dall’idea che gli altri due – dopo l’odio che li aveva lungamente divisi – stringessero una qualche alleanza letteraria contro di lui e d’Alembert, arrivando a sospettare che lo stesso Rousseau stesse partecipando alla stesura del volume. Da tutto ciò nasce una struttura in tre quadri, intitolati rispettivamente “Colazione da Diderot”, “Colazione da Rousseau” e “Colazione da Voltaire”, dove i tre Commedia di Candido intellettuali compaiono insieme alle rispettive compagne. Alla fine il risultato è un divertissement cosciente di essere uno sberleffo, una satira di questi personaggi che nel nonecessità di scrivere un’opera, e in questo caso la vicenda si prestro immaginario collettivo sono così blasonati, e un pretesto sentava davvero ghiotta: prima ancora di nascere, Candido era per raccontare quelle verità scomode che il Candido porta dengià condannato a essere censurato. Voltaire era il nume dell’Eutro e che continuano a renderlo un libro estremamente provoropa del tempo, e quando si sparse la voce che stava per scrivere catorio a 250 anni dalla pubblicazione. questo libretto ci fu un fuggi fuggi generalizzato: non soltanto Voglio aggiungere che tutta questa vicenda alla fine ha da parte delle gerarchie ecclesiastiche, dei cancellieri e segretari però qualcosa di vero, non è del tutto inventata. Se si prendei governi e dei capi degli eserciti, tutti consapevoli che il filosode in mano il Candido, in copertina si trova scritto “Candido fo li avrebbe presi pesantemente di mira, ma anche da parte deo dell’ottimismo, tradotto dal tedesco dal manoscritto del dotgli intellettuali. E questo è un fatto che ho trovato piuttosto strator Ralph”: Voltaire, per ragioni che nessuno ha mai sapuno. Mi è sembrato molto buffo che gli altri due numi dell’epoto, pochi giorni prima di darlo alle stampe decide di pubca, Diderot e Rousseau, tremassero di paura pensando a cosa blicarlo come libro non suo. Per quanto tutti fossero a coVoltaire avrebbe potuto scrivere con la sua penna risaputamennoscenza di chi fosse in realtà l’autore, per i primi dieci ante sagace, e cercassero quindi di correre ai ripari. Qui si ferma la ni l’opera è circolata come volume anoni“cronaca”, e parte la mia fantasia. Ho immagimo. Forse Voltaire cercava semplicemennato di mettere per iscritto una sorta di ironite di evitare di tornare in carcere, dove era ca spy story su questo tema. Di solito scrivo testi Venezia – Teatro Goldoni già stato per motivi di censura » (l.m.) ◼ drammatici e legati a doppio filo alla contem15-19 aprile, ore 20.30 in scena S 64 — in scena Mestre accoglie l’«Odissea» di César Brie Spettacoli e laboratori tra Toniolo, Candiani e Teatro Momo in scena D opo aver debuttato al Teatro delle Passioni di Modena il 24 febbraio, l’Odissea di César Brie approderà il 22 aprile al Toniolo di Mestre, città dove il regista argentino sarà presente sin da marzo con un incontro pubblico e insieme al suo Teatro de los Andes condurrà tra aprile e maggio (oltre a riproporre il rodato e suggestivo Mare in tasca) due laboratori sull’arte dell’attore inseriti all’interno delle Esperienze di «Giovani a Teatro», il progetto organizzato e promosso dalla Fondazione di Venezia. A questo secondo incontro della compagnia con l’epos omerico, dopo l’applaudita Iliade di un po’ di anni fa, abbiamo già riservato un lungo e appassionante intervento dello stesso Brie (cfr. VeneziaMusica e dintorni n. 25, pp. 60-61), nel quale veniva narrata la gestazione dello spettacolo e l’elaborazione di una drammaturgia che, partendo dall’immensa opera di Omero, potesse parlare del dramma dei migranti, dell’orrore della guerra e delle tante, troppe figure di «naufraghi» che contornano il nostro vivere quotidiano. Come premessa a un approfondimento critico a firma di Fernando Marchiori, che si è in più di un’occasione occupato del Teatro de los Andes (come ad esempio nel bel volume Ubulibri César Brie e il Teatro de los Andes, Milano 2002, pp. 224), che pubblicheremo nel prossimo numero, proponiamo in queste pagine un emozionante racconto per immagini, quasi una sorta di «aperitivo» aspettando che questa attesa Odissea giunga in laguna. (l.m.) ◼ Calipso e Ulisse Penelope e le schiave Gli appuntamenti con il Teatro de los Andes Mestre – Teatro Toniolo 7 marzo, ore 12.00 Incontro con César Brie introduce Fernando Marchiori ingresso libero Penelope al telefono Mestre – Teatro Momo 10-13 aprile, ore 15-19 Laboratorio condotto da Lucas Achirico, Gonzalo Callejas e Alice Guimaraes gratuito con Card Giovani a Teatro Fossò – Palarcobaleno 20 aprile, ore 21.00 Odissea di César Brie Mestre – Teatro Toniolo 22 aprile, ore 21.00 Odissea di César Brie Mestre – Auditorium Centro Culturale Candiani 19 maggio, ore 21.00 Il mare in tasca di César Brie Mestre – Saletta Seminariale Centro Culturale Candiani Laboratorio condotto da César Brie gratuito con Card Giovani a Teatro Penelope e Calipso in scena — 65 Penelope, Calipso e Ulisse Telemaco e Atena Circe in scena Antinoo Telemaco e i Proci La danza di Penelope e Ulisse Telemaco picchiato Odissea testo, regia, luci César Brie interpreti Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Lucas Achirico, Cynthia Callejas, Gonzalo Callejas, Karen May Lisondra, Paola Oña, Ulises Palacio, Juliàn Ramacciotti, Viola Vento scenografia Gonzalo Callejas musiche Pablo Brie produzione Teatro de los Andes, Emilia Romagna Teatro, Fondazione Pontedera Teatro Telemaco e Ulisse 66 — in scena Pippo Delbono M di Maria Grazia Gregori in scena olti – a cominciare dai francesi che lo adorano – ce lo invidiano: prime pagine sui grandi giornali, una notorietà europea magari discussa ma certamente non discutibile, una capacità di rinnovarsi, di essere multiforme come del resto lo è la vita sua principale fonte d’ispirazione. Pippo Delbono – è a lui che mi riferisco – ha fatto del teatro la sua casa, il suo luogo d’elezione e della compagnia multicolore dei suoi attori, che lo accompagna Non si ferma davanti a nulla Pippo Delbono: la provocazione e la rivolta sono le sue compagne predilette insieme ai grandi interrogativi che costellano l’esistenza dei personaggi, spesso minimi, sempre emarginati, delle sue storie. Tutto finto, tutto voluto? Ci è capitato di sentire dire o di leggere questi giudizi affrettati sul suo teatro analitico, esistenziale e poetico insieme, fisico e inquieto dove ognuno di quelli che lo fanno porta qualcosa di sé a partire dai propri ricordi. Forse agli inizi queste contestazioni volute e fasulle l’avranno addolorato; oggi mi auguro che se ne infischi: senza perdere la testa, senza crolli nervosi finti o veri ma con tutto l’orgoglio di un teatrante che è riuscito a raggiungere insieme alla sua compagnia mete forse impensa- Scene da Questo buio feroce bili. C’è un’immagine a questo proposito che la dice lunga: ovunque, la sua famiglia. Sembra una «corte dei miracoli» Pippo e il suo gruppo nella residenza di Arafat a Ramallah quasi inventata l’ensemble di Pippo: i suoi detrattori dicotrasformata in una specie di bunker durante l’assedio israno che è abile, furbo; al contrario io penso che abbia scelto eliano con Bobò, sordomuto e analfabeta, che è stato rinamorevolmente i suoi compagni di strada (una strada assai chiuso per più di quarant’anni nel terribile manicomio di poco politicamente corretta): anoressici, barboni senza fisAversa, in prima fila, la kefiah in sa dimora, disadattati, cerebrotesta… Da questo viaggio sono lesi, down, per raccontare quel Mestre – Teatro Toniolo nati due lungometraggi Guersegmento di vita che gli interes29 aprile, ore 21.00 ra, 2003, premiato con il David sa. Che ha spesso a che fare con Questo buio feroce di Pippo Delbono di Donatello e Grido, 2006, preil dolore, la malattia, l’emargiinterpreti Pippo Delbono, Dolly Albertin, sentato al Festival del Cinema nazione, il rifiuto a cui contrapGianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò, di Venezia. porre una poesia da poveri criJulia Morawietz, Lucia Della Ferrera, La storia di Pippo comincia a sti che sgorga dal profondo, che Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Varazze, un piccolo paese delsi fa corpo e sangue, interrogaSimone Goggiano, Mario Intruglio, la riviera di Ponente che d’estate tivo, sarcasmo, feroce denuncia. Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo noti nella loro degradazione grottesca, ma vivi, presenti. si trasforma in luogo di villeggiatura: la sua è una famiglia Un teatro che si snoda fra millimetrici rituali e movimencattolica, anzi bigotta con un odio viscerale verso «i comuti ripetitivi, continua visione di spazi visivi e drammaturnisti». È una storia che si snoda secondo un mix di ironia e gici dove i corpi e le parole si incontrano per subito allondi candore crudele che gli appartiene e che fa del suo teatro tanarsi… Sempre contro l’insensatezza delle armi, la vioe anche della sua scrittura (recentemente è uscito per i tilenza, l’ingiustizia sociale e la paura, Delbono non si limipi di Garzanti un suo bellissimo libro Racconti di giugno che ta al suo ruolo di regista ma con discese provocatorie, con è stato anche uno spettacolo) qualcosa di folgorante. Che apparizioni inquietanti, è spesso in scena per raccontarci non bada a convenzioni di sorta, ma che guarda al mondo le ragioni del suo e del nostro scontento ma anche l’orgocon schiettezza quasi infantile, stipata di vita, rabbia, ricorglio della propria diversità, la malattia come forma di vita. di e soprattutto d’amore. Delbono definisce quelli come Mostrandoci come il suo teatro abbia a che fare con quella anni di costrizione stretti fra una famiglia dura e la scuola forma di poesia fangosa e totalizzante, imperfetta ed evodei preti: è stato quello il suo viatico verso un cammino di catrice che è il suo modo di rappresentare e che ha sempre libertà cercato con tutte le sue forze. C’è una dedizione assoluta nel modo in cui Pippo individua la sua strada, la sua libertà anche nell’amore, nella vita al limite con un ragazzo tossico, che morirà in un incidente. È il teatro a mostrargli la via di fuga e dunque la sua libertà vera: prima con la scuola di Teatro a Savona dove conosce l’argentino Pepe Robledo che gli sarà al fianco in ogni spettacolo e poi in Da n i ma rca con il gruppo Farfa di Iben Nagel Rasmussen, grande attrice dell’Odin Te at ret d i Eugenio Barba. Lì si trova di fronte per la prima volta un teatro che nasce dall’energia, da l cor po, da l la voce più che dalla parola in se stessa. Un teatro per certi aspetti anarchico, libertario, ma dove ogni azione è studiata al millimetro; una tensione che sarà possibile rintracciare nel suo primo spettacolo Il tempo degli assassini Pippo Delbono e Bobò in Barboni del 1987, anno per più aspetti fortunato che gli permetterà di conoscere e imparare il supremo culto del movimento e del corpo accanto a Pina Bausch. Da qui inizia il viaggio, l’odissea di Pippo dentro la scena fatto dell’impatto dei corpi uno dei cardini del suo mondo dove lui porta le sue passioni e la sua infelicità, i suoi amoespressivo. Un teatro dove sono sempre i personaggi a imri segreti, la sua storia, insomma, che racconta attraverso se porsi agli spettatori anche nel rifiuto dell’illusione teatrastesso e attraverso il suo «popolo» teatrale, i suoi compagni, le, nei cambi a vista delle scene che rilevano tutte le nervagrazie a una visionarietà non sai se più felliniana o buñueliature di una costruzione scenica allo stesso tempo rituale e na che si muove lungo le stazioni della propria angoscia. Itinecessaria. Grottesco e visionario, doloroso e inquietannerario rintracciabile in alcuni spettacoli ormai di culto: Barte, violento e infantilmente tenero, profondamente politiboni, Esodo, Gente di plastica, Urlo, Questo buio feroce, tutti mesco questo è il teatro secondo Delbono. Vedere per credesi in scena con i suoi attori atipici, da lui definiti «straordinare il suo ultimo spettacolo La menzogna: vi renderete conto ri»… La descrizione di una società del benessere o di una soche il suo è un teatro che pretende da noi un impegno emocietà proletaria – come nel recente, sconvolgente La menzotivo ma anche politico nel sengna, ispirato alle vittime del rogo so che riguarda la vita degli uodella Thyssen –, la ritroviamo in mini nel suo complesso. Un tetutto il suo teatro con il brulicaL’immagine di Barboni, firmata da Guido Harari, atro umano e viscerale, ma non re di personaggi che arrivano da è tratta da: Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, per questo meno doloroso. ◼ qualche incubo, dolorosamente Ubulibri, Milano 1999. in scena in scena — 67 68 — in scena Il «Milione» di Gianfranco De Bosio L’opera di Marco Polo rinasce in dvd G De Bosio, uno dei più importanti registi del panorama teatrale italiano, ha realizzato nel 2006 la lettura integrale del Milione di Marco Polo in occasione del 750º anniversario della nascita del viaggiatore veneziano. Questa rappresentazione, prodotta dal Teatro Fondamenta Nuove, dove è andata in scena in più puntate, è ora diventata un dvd audio, che ha l’obiettivo – fortemente condiviso dalla Regione Veneto, che ha sostenuto l’iniziativa – di divulgare nel modo più ampio possibile quest’opera fondamentale della letteratura veneta e nazionale. Al maestro veronese chiediamo come è nata l’idea dello spettacolo. La lettura del Milione non è un’esperienza isolata nella mia lunga carriera. Da sempre sono stato appassionato di letteratura, e per citare soltanto i lavori più recenti, al Festival di Mantova ho curato la lettura completa del Baldus di Folengo e poco tempo dopo l’integrale delle Bucoliche di Virgilio, che rifaremo tra l’altro al Dal Verme di Milano in ottobre. Ma per quanto riguarda Marco Polo ci sono molti altri elementi che si intrecciano. In primo luogo il progetto è partito dalla mostra veneziana di Emanuele Luzzati del 2005, dove erano raccolte quaranta tavole originali dedicate alle vicende di questo famoso viaggiatore. Be’, Luzzati è stato il mio scenografo prediletto, e con lui ho lavorato moltissime volte, sia nella prosa che nella lirica. In secondo luogo, le musiche del Milione erano state affidate a Gabriella Zen, che è stata l’autrice delle melodie di molti miei Ruzante. E infine, nel cast c’erano Mario Bardella, Stefania Felicioli, Michela Martini, tutti attori che tra gli anni settanta e novanta hanno fatto pienamente parte della mia vita professionale. Quindi quest’idea aveva molte implicazioni che mi riguardavano direttamente. A tutto questo si aggiunge Il milione, che è un incanto, un gioco di fantasia documentata e inventata, perché non sono affatto sicuro che tutto quello che Marco Polo ha dettato al suo compagno di prigionia sia vero. Di certo molti fatti sono realmente accadu- in scena ianfr anco ti, per lo meno un 70-80%, ma qualcosa è stato certamente inventato, anche perché spesso lui riporta notizie che ha udito da altri, come del resto dichiara onestamente in più occasioni. Quindi siamo a metà tra la storia e la leggenda: c’è una parte di invenzione e una di documentazione, e il tutto è estremamente interessante. È un libro a metà tra storia geografica e fantasia, un piccolo capolavoro. Anche la scrittura è interessante, sia per quanto riguarda il testo in lingua italiana che quello in veneto, che è molto più tardo, e non corrisponde del tutto a quello italiano, che d’altro canto deriva a sua volta dall’originale versione francese. Nello spettacolo al Fondamenta Nuove infatti vennero letti dei brani dal francese, per ricordare che esiste ed è il prototipo. La traduzione italiana è già una variante, cui poi, successivamente, si aggiunge anche la veneta. Immagine del Milione di Emanuele Luzzati Quali sono le differenze tra lo spettacolo e il dvd che avete realizzato in seguito? In un primo tempo si era pensato a un video, ma il materiale registrato al Fondamenta Nuove non è risultato professionalmente utilizzabile, anche se rimane come documentazione storica. Allora si è deciso di creare un’incisione originale del Milione, accompagnata all’interno del dvd da alcuni interventi visivi. In quest’operazione successiva molti degli interpreti sono cambiati, e abbiamo diviso la lettura in capitoli operando dei tagli per eliminare parti ripetitive o senza curiosità narrative. Le musiche di Gabriella Zen sono state riprese integralmente dallo spettacolo, mentre per quanto riguarda la parte verbale il taglio registico è stato diverso: una cosa è recitare di fronte a un pubblico, e un’altra registrare davanti a un microfono. Perciò sono stato molto attento all’efficacia auditiva: per certi aspetti l’interpretazione deve essere anche più raffinata, perché non si può contare sul rapporto immediato che si instaura con degli spettatori in carne e ossa. Nella registrazione quello che si recita è definitivo, quindi la cura deve essere molto maggiore. (l.m.) ◼ in scena — 69 S ta invece il regista sarà Antonio Caldonazzi, che è anche coautore del testo insieme a due degli attori, Andrea Castelli e Sandro Ottoni. La vicenda inizia durante il fascismo, che nella sua ascesa pianificò l'apertura di fabbriche – e particolarmente appunto di acciaierie – nel capoluogo altoatesino. Questo piano industriale porta con sé molte logiche conseguenze, a partire dall'arrivo in quelle zone di moltissime persone da regioni vicine, come la Lombardia e il Veneto, con tutti i problemi che derivano sempre da queste operazioni politiche. Il testo compie un excursus storico che giunge fino agli anni del boom economico, oltrepassando dunque la tragedia della seconda guerra mondiale e il periodo della Resistenza. Attraverso una serie di scene concatenate tra loro si cerca di raccontare il durissimo lavoro di questi operai. In uno dei primi dialoghi ci si chiede da dove nasca l'attrazione dell'uomo per il fuoco, il perché quando impara a forgiare il metallo si senta così vicino agli dei: la realtà storica dice infatti che i lavoratori si affezionavano subito a questo tipo di mestiere, andra M angini è un'artista estremamente duttile e versatile, che alterna con grande naturalezza il mestiere di attrice a quello di interprete della canzone popolare. In passato abbiamo già avuto modo di incontrarla in questa sua duplice veste (cfr. VMeD n. 21, pp. 18-19 e VMeD 22, pp. 64-65). Le chiediamo ora di raccontarci l'esperienza della registrazione del Milione di Marco Polo sotto la guida di Gianfranco De Bosio (cfr. l’articolo a fianco). Avevo già recitato con De Bosio qualche anno fa, in una delle sue messinscene della Betia di Ruzante. Reincontrarlo in quest'occasione è stato molto bello. Il milione è un testo bellissimo, e pur essendo scritto in un linguaggio antico è assolutamente godibile. Me ne sono resa conto proprio durante le dure giornate passate a incidere l'opera in uno studio di Preganziol. Alla fine sono nate quasi cinque ore di registrazione, che disvelano un mondo fantastico. Il regista ha sviluppato con noi attori un lavoro di grande precisione sulla parola, spesso facendoci ripetere varie volte lo stesso brano. Quello che ricercava, oltre all'espressività Sandra Mangini è Jenny delle Spelonche nell’Opera del malaffare, vocale e alla muadattamento dall’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht curato da Davide Schinaia (Compagnia Maan) sicalità, era anche un certo grado di immedesimazione anche se lo svolgevano in condizioni di grande pericolocon il punto di vista di chi racconta. Che Marco Polo narsità e disagio. Ma per tutti loro l'acciaieria rappresentava ri vicende che ha visto con i suoi occhi, o che invece riportutto sommato la garanzia di un posto fisso e la possibiti avvenimenti e storie che ha ascoltato nel suo lunghislità di uscire dalla miseria. Io sono l'unica donna del cast, simo viaggio, il suo sguardo è sempre pieno di stupore e e interpreto i vari ruoli femminili, divenendo di volta in di entusiasmo. Il maestro veronese puntava a questo tipo volta moglie, madre, ostessa, cameriera di emozione. Una volta compresa questa sua volontà, la Dopo questo periodo a Bolzano, tornerai a lavorare con Giovanlettura riservava una grande libertà interpretativa. È stata na Marini, con la quale ti sei già incontrata più volte in passato. un'esperienza davvero importante, anche grazie alla preSì, sono stata contattata per partecipare a uno spettacolo senza di Mario Bardella, che ha impreziosito quelle magnifrancese che si intitola Fabbrica ed è tratto dal testo di Ascafiche giornate. nio Celestini. La produzione mette insieme due importanti Il 2008 ti ha vista impegnata su vari fronti, sia sul versante teatraistituzioni d'Oltralpe: il Théâtre Vidy-Lausanne e il Théâtre le che in quello musicale, anche se, come hai tu stessa affermato, il tuo de la Manufacture – Centre Dramatique National Nancy approccio in entrambi i casi è quello proprio di un'attrice. Quali sono Lorraine. L'allestimento, che debutterà in ottobre, è curaora tuoi i prossimi appuntamenti professionali? to da Charles Tordjman, e prevede due atFra poco inizierò le prove di Acciaierie, il tori e tre cantanti, cioè appunto Giovannuovo spettacolo prodotto dal Teatro Stana Marini, Germana Mastropasqua e io. bile di Bolzano, con il quale avevo già lavorato alla Leggenda del regno dei Fanes diretta Bolzano – Teatro Comunale La musica sarà in parte popolare e in parte composta ex novo da Giovanna. (l.m.) ◼ dal veneziano Paolo Bonaldi. Questa vol7-24 maggio, ore 20.30 in scena Sandra Mangini tra «Milione» e «Acciaierie» 70 — in scena La primavera teatrale del Fondamenta Nuove S otto l’azzeccato titolo di «Movimenti – Gesti di teatro necessario» continuano le «residenze» del Teatro Fondamenta Nuove, organizzate in stretta collaborazione con l’Operaestate Festival di Bassano. Dopo il successo ottenuto da gruppi come Babilonia Teatri e Nanou, in primavera giungono in laguna altre due formazioni che negli ultimi tempi si sono distinte per il loro lavoro di ricerca. Come di consueto, alla presentazione dell’ultimo spettacolo compiuto di ciascuna compagnia fa seguito un periodo più o meno lungo durante il quale gli artisti si insediano nel piccolo e suggestivo teatro, My Arm dell’Accademia degli Artefatti in scena comeacqua di Muta Imago versity of Calicut nel 2006 e portato a compimento durante un’altra residenza creativa a Mondaino. Partendo da Quad di Samuel Beckett è nata una coreografia per quattro danzatori che indaga il concetto dello zero e mescola elementi indiani e occidentali. La prova aperta invece riguarderà un’opera in progress, che ha già girato per l’Italia nelle sue diverse «piattaforme»: WBNR. What Burns Never Returns. Platform_#7 Venezia: si tratta, come afferma la stessa compagnia, di «un progetto multidisciplinare di ricerca che indaga la relazione, interrelazione e dialogo tra diversi media quali corpo, città e codice generativo e le loro interpolazioni attraverso la coreografia, le arti visive, la geografia urbana e le nuove tecnologie. Il progetto si sviluppa attraverso la costituzione di piattaforme di lavoro in diversi luoghi del mondo: per la Platform#7_Venezia la ricerca si focalizza su un’indagine specifica della percezione del movimento amplificando le qualità propriocettive di un danzatore». Chiude la programmazione l’Accademia degli Artefatti, che torna al Fondamenta Nuove per completare il progetto Ab- Uso con My Arm di Tim Crouch, alla cui drammaturgia il gruped elaborano un percorso scenico ancora in fieri che culmina in po capitanato da Fabrizio Arcuri ha dedicato un lungo e accuuna prova aperta proposta a ingresso gratuito e coadiuvata dalrato studio: «My Arm – afferma il regista romano – è il monola presenza di un critico in forma di «mediatore» tra le diverse logo di un trentenne che ha sfidato se stesso e le proprie possipoetiche e il pubblico. bilità, la propria noia e quella univerLa prima formazione ospite è la rosale: un giorno porta un braccio sopra mana Muta Imago, che allestisce l’orila testa e prova a verificare per quanto ginale comeacqua, apprezzato gioco tempo riuscirà a tenercelo». scenico in cui due figure maschili inNutrito anche il programma musiteragiscono in uno spazio vuoto nel Venezia – Teatro Fondamenta Nuove cale di «Risonanze», la rassegna che il quale pendono sacchetti di plastica 11 marzo, ore 21.00 teatro diretto da Enrico Bettinello ripieni d’acqua. Il progetto in elaboracomeacqua di Muta imago serva alle tante musiche contemporazione invece è Madeleine, che gli stesnee. Si comincia a marzo, quando posi creatori spiegano così: «Il sogno e 18 marzo, ore 21.00 tremo ascoltare tra gli altri il trio Maula paura sono gli elementi costitutivi prova aperta di Madeleine di Muta Imago ger, composto dal sassofonista di oridel mondo di Madeleine. Insieme a due 20 marzo, ore 21.oo gine indiana Rudresh Mahanthappa e performer, un uomo e una donna, un ABQ – Mechanical extention da due jazzisti americani come il conattore che parla con il corpo e una balin four arithmetic operations (knot version) trabbassista Mark Dresser e il battelerina che si muove con la mente. Indi Ooffouro rista Gerry Hemingway. Per gli apsieme a una scenografia fatta di soglie, 27 marzo, ore 21 passionati di elettronica imperdibidi proiezioni, di inganni, di trasparenWBNR: WBNR. le lo show sospeso tra techno minize, di riflessi. Insieme alla nebbia, al What Burns Never Returns. male, glitch music, scenari ambient e fumo e al vento. Tanto vento». Platform_#7 Venezia di Ooffouro nuove tecnologie del finlandese VlaSi procede poi con i sardi Ooffouro, dislav Delay. Ancora grande jazz infiimpegnati nel rodato ABQ – Mechani29-30 aprile, ore 21.00 ne con gli inglesi Steve Beresford, Joe cal Extentions in Four Arithmetic OperaMy Arm di Tim Crouch Williamson e Roger Turner. (l.m.) ◼ tions, lavoro nato all’interno dell’Uniuno spettacolo dell’Accademia degli Artefatti Un occhio vede e un occhio sente Riflessioni sparse sull’arte dello spettatore O di Gianni De Luigi ggi, nella cosiddetta «società dello spettacolo», il bambino è spettatore fin dalla nascita: uno spettatore sottoposto a un flusso ininterrotto di immagini e informazioni che annullano ogni differenza fra realtà e finzione. Un tempo il luogo della finzione era il teatro. Ora i media elettronici come internet producono finzioni a ritmo incessante, generando «corpi assenti». In sostanza traducono la realtà in finzione e la finzione in realtà, alterando così i campi percettivi del fruitore. Ianni De Luigi e i suoi piccoli allievi Il bambino, immerso fin dalla nascita in questo magma, diventerà presto uno spettatore indotto a una fruizione superficiale, distratta, dispersiva e, quel che è peggio, passiva dalla quantità e dalla qualità d’emissione delle immagini e dall’apparente facilità di comprensione e decodificazione; infatti più l’occhio e il cervello vengono bombardati, tanto più le capacità di memorizzazione e valutazione si attenuano. Oggi dunque, per formare il bambino spettatore – non solo di teatro – bisognerebbe affidarsi a un’azione educativa intesa come alfabetizzazione verso tutte le arti e iniziazione al comportamento estetico, in grado di percepire «l’arte»: l’arte dello spettatore. Per mettere in pratica tale disciplina è necessario premettere l’arte come esperienza, capendo pertanto che le capacità di entrare in rapporto con l’arte non sono innate ma sono il risultato di una «ginnastica della mente»; l’esperienza dello spettatore bambino deve essere analizzata nell’ambito delle emozioni e della memoria, nell’analisi dei segni e dei miti. Il guardare con senso estetico cosciente prevede un grande sforzo per poter diventare un’operazione creatrice; occorre dunque preparare l’interlocutore alla capacità critica e di scelta per elevare l’arte dello spettatore adulto quale consumatore estetico. È vero che l’opera d’arte parla da sola se ha con chi farlo, ma la videocultura sta velocemente annientando questa possibilità. Probabilmente solo la scuola può svolgere la citata opera di alfabetizzazione e offrire l’opportunità di un approccio all’esperienza artistica a tutti i bambini, prescindendo dalle loro caratteristiche socioculturali ed economiche, ma per farlo bisognerebbe procedere a una rialfabetizzazione preliminare degli stessi insegnanti. Questo perché essi siano in grado di proporre una nuova educazione dello spettatore che preveda uno smontaggio del fittizio mondo televisivo in favore di un riavvicinamento al luogo del teatro quale arte di esaltazione di tutte le risonanze profonde dell’esperienza di visione e ascolto. Ma il «tempo festivo del teatro», inteso da Gadamer come «quieta sospensione del tempo», quale ritualità, risulta difficile da percepire nel contesto attuale della società dello spettacolo, in cui il tempo risulta appiattito in una ferialità costante. Per riuscire nella grande impresa della creazione di un’arte dello spettatore bambino è necessario uno studio profondo, fondato sul concetto archetipale «un occhio vede e uno sente», ovvero «il vedere tende all’identificazione delle forme». Come accade ad esempio nella scrittura di Antonio Tarantino – incontrato dall’Istituto della Commedia dell’Arte Internazionale in occasione della lettura di alcuni suoi testi per il percorso/laboratorio di scrittura drammaturgica «Parole in forma scenica» promosso dalla Fondazione di Venezia. L’essere stato pittore in Tarantino permane, mi sembra, anche nella scrittura. Le impressioni pittoriche regalano alla parola detta e vissuta nel suo passaggio attraverso il corpo degli attori tutta la sua immediata e carnale vitalità sonora. Nella stessa maniera l’autore di teatro dovrebbe vivere come una necessità lo sperimentare la propria scrittura prima di tutto nella sua stessa corporeità. In genere nell’ambito educativo e nella nostra cultura si contrappone l’emozione all’elaborazione logico/concettuale, svalutando la prima in favore della seconda, e generando così una specie di analfabetismo nell’esperienza emozionale e nelle sue modalità di comunicazione. Si ritiene a torto che l’impatto emotivo sia totalizzante ed esclusivo, ma le ultime ricerche nel campo delle neuroscienze hanno messo in evidenza che i processi cognitivi e quelli emozionali viaggiano sugli stessi circuiti neuronali e sono inseparabili: sarebbe dunque un errore per l’umano separare il cognitivo dall’emotivo. Nell’avvicinare all’arte bisogna sempre tenere presente che il bambino è portatore di una cultura diversa da quella dell’adulto e che l’interpretazione precostituita di quest’ultimo non deve analizzare o interferire con la sua spontanea visione del mondo e dell’arte. Date queste premesse l’educazione estetica del bambino in ambito scolastico risulta complessa e deve essere necessariamente supportata da scienze umane quali in primo luogo il teatro come «rappresentante di tutte le arti» in grado di dare una formazione estetica. ◼ in scena in scena — 71