Antonio Tarantino all`Auditorium Santa Margherita

60 — in scena
Antonio Tarantino
all’Auditorium
Santa Margherita
Un’emozionante serata
con Franco Quadri
e Maria Paiato
in scena
A
ntonio Tarantino e il suo teatro sono stati protagonisti di una magnifica serata veneziana: in un
gremito Auditorium Santa Margherita il 9 febbraio scorso il drammaturgo torinese d’adozione ha raccontato il suo personale avvicinamento alla scrittura, svelando anche i retroscena casuali che l’hanno portato a essere
uno tra i più importanti e apprezzati autori italiani. All’incontro pubblico – organizzato dalla Fondazione di Venezia nell’ambito delle Esperienze di «Giovani a Teatro» e
collegato al laboratorio di scrittura drammaturgica «Parole
in forma scenica» – ha partecipato anche Franco Quadri,
sia in qualità di critico e studioso che nella duplice veste
di editore (la sua Ubulibri ha pubblicato in tre volumi tutti i testi di Tarantino finora editi, e si prepara all’uscita del
quarto, previsto per giugno) e di presidente della giuria del
Premio Riccione per il Teatro dal 1985 al 2007 (che il Nostro si è aggiudicato per ben due volte a distanza di pochi
anni). Questo l’inizio del suo intervento: «Mi accorgo che
sono passati solo quindici anni da quando Antonio Tarantino si è rivelato. E la cosa mi sorprende, dato che è uno degli autori più rappresentati anche all’estero, dove i suoi testi
vengono tradotti, pur trattandosi spesso, soprattutto agli
inizi, di opere gergali, che utilizzano il linguaggio delle periferie cittadine e degli immigrati. Mi sembra che Antonio
ci sia sempre stato, invece arrivò per caso. Capita anche alle piccole editrici come la Ubulibri che giungano dei copioni per posta, che spesse volte, dopo averci dato un’occhiata, spariscono. Una sera di ottobre del ’93 mi era arrivato
in mano un dattiloscritto intitolato Stabat Mater. Me lo sono portato a casa, l’ho letto tutto e il giorno dopo ho telefonato al nostro autore per dirgli che mi interessava. Poco
dopo a Riccione pervenne un secondo testo, Passione secondo Giovanni: su mio consiglio Tarantino inviò al Premio anche lo Stabat e vinsero insieme. Le prime pièce – in brevissimo tempo nacque anche la terza, il Vespro della Beata Vergine – si rifacevano alla classicità, anche se restituita attraverso quella particolare lingua cui accennavo. Dopo c’è stata una svolta, e con i Materiali per una tragedia tedesca dal mito si è passati alla storia: oggetto d’indagine erano gli anni
settanta in Germania, e specificamente il gruppo terroristico Baader-Meinhof. Dopo aver vinto una seconda volta
a Riccione, nel 1997, questi Materiali andarono in scena al
Piccolo Teatro di Milano con la regia di Cherif – che aveva diretto anche i primi quattro Atti profani – e con le scene
di Arnaldo Pomodoro. Nella produzione posteriore è divenuta ancora maggiore la vicinanza a tematiche contemporanee, come ad esempio la situazione mediorientale, al
centro della Casa di Ramallah e della Pace. Voglio aggiungere che quest’anno Tarantino, con otto tra inediti e riprese, è il drammaturgo più rappresentato sulle nostre scene:
I Quattro atti profani verranno allestiti in una sola serata con
la regia di Valter Malosti e l’interpretazione di Maria Pa-
iato in uno spettacolo del Teatro Stabile di Torino, mentre al Festival di Napoli verrà messa in scena un’importante novità, di cui per il momento non si può ancora parlare…». Dopo questa calorosa introduzione, è stato lo stesso
Tarantino a prendere la parola per dare vita a un appassionante discorso, di cui qui si riporta almeno l’incipit: «Ho
cominciato a scrivere per il teatro quando avevo già superato la cinquantina e dopo aver fatto per molti anni il pittore. La via del teatro mi era stata indicata da una compagnia di amici torinesi, i Marcido Marcidorjs. Una volta mi
caricarono su una vecchia Seicento e mi portarono a Roma a vedere Carmelo Bene. Così aprii gli occhi su questa
realtà che conoscevo poco. Sta di fatto che nella primavera del ’92 avevo composto un testo che si intitolava Stabat
Mater. In realtà volevo scrivere un racconto, non avevo ancora le idee ben chiare. Ma da questa base narrativa trassi gli elementi per comporre la mia prima pièce. Quei miei
amici parlavano molto frequentemente di un certo Franco
Quadri, e questo nome mi era rimasto impresso. Quando
dunque a ottobre mi trovai a passare per Milano mi portai
dietro il dattiloscritto. E grazie all’apprezzamento di Franco presi coraggio, e scrissi nel giro di un anno, oltre a Stabat Mater, Passione secondo Giovanni e Vespro della Beata Vergine.
Ma dopo la vittoria a Riccione avevo promesso a me stesso
che avrei composto una tetralogia, che poi è stata chiamata
Un momento della serata all’Auditorium Santa Margherita
Tetralogia delle cure. E fu allora che scoprii per la prima volta le difficoltà della drammaturgia: mentre le prime opere
mi erano nate quasi di getto, passarono due anni nei quali scrivevo delle cose assurde, che non erano né teatro né
narrativa. Finché un giorno, alla stazione di Torino, incontrai un uomo con la barba che mi guardava. Sapevo di conoscerlo, quindi mi avvicinai. Lui non poteva parlare, perché era stato tracheotomizzato: era un poeta che avevo conosciuto molti anni prima. Sapevo che dopo la morte della
madre aveva cominciato a vivere per strada. Lo riconobbi,
e anche se non ci fu possibile parlare, divenne per me una
figura maieutica, che mi tirò fuori dei ricordi dimenticati,
risalenti a trent’anni prima. Da lì nacque Lustrini, che creai
piuttosto rapidamente, completando la tetralogia. E scomparsero tutte le difficoltà che avevo incontrato. Da questo
ho imparato che bisogna saper aspettare, non si può scrivere per scrivere».
Magica conclusione dell’incontro è stata infine la lettura
scenica offerta da Maria Paiato, che con enorme bravura ho
proposto brani dalla Pace e Stabat Mater, aprendo il suo intervento con il meraviglioso monologo inedito Cara Medea,
dove la moglie di Giasone diviene una delle tante donne
umiliate e calpestate dalle guerre dei nostri tempi. (l.m.) ◼
E
lena Bucci – dopo l’interpretazione, in autunno, di Curva
Santa Giovanna è diventato uno spettacolo molto musicale.
Un po’ per rispettare anche la storia di Brecht e del suo teatro, che ha mescolato moltissimo le parole al canto e alla
musica, in scena vengono proposte delle canzoni. Lo stesso Brecht aveva tratteggiato questo lavoro quasi in forma di
radiodramma. Se in alcuni momenti la scrittura sembra fatta per essere filmata – snodi molto difficili da rendere sulla
scena – in altri è più squisitamente teatrale, e in altri ancora
diventa poesia lirica: una frammentazione di stili tutti volti a disegnare il percorso di questa eroina contemporanea.
Ho ritenuto importante proporre lo spettacolo in forma di
ballata per rendere giustizia al tono intensamente popolare e musicale che ha il lavoro di Brecht, e anche per porre
una certa distanza affinché questi temi potessero avere la
giusta risonanza.
È possibile ravvisare un filo rosso che leghi queste due donne?
Penso di sì. E lo scorgo in una forma di idealismo che sa
di essere irrealizzabile ma non per questo è meno poten-
Sud di Antonino Varvarà all’Aurora di Marghera – tornerà in Veneto tra marzo e aprile con due spettacoli che la vedono nel doppio ruolo di attrice e regista: Juana de la Cruz o le insidie
della fede e Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht. Partiamo dal primo, chiedendole che tipo di indagine ha svolto per dar vita
al personaggio di Juana.
Se in un primo momento ho cercato di documentarmi il
più possibile, mi sono poi anche resa conto che
non avrei mai saputo fino in fondo com’era Juana e come aveva vissuto. Ho quindi deciso di
assumermi la responsabilità di trarne ispirazione e di ricrearla, sempre però tenendo fede al materiale rinvenuto. Scrittrice e pensatrice messicana nata nel 1648, Juana è stata una
donna dal forte temperamento e dalle incredibili doti intellettuali. Scelta la vita monastica,
fu progressivamente emarginata dalla struttura religiosa, che arrivò a impedirle di scrivere e
produrre testi temendone la portata rivoluzionaria per l’emancipazione delle donne. Ho potuto riflettere su cosa significhi la battaglia individuale per la libertà o perlomeno per avere
il diritto di essere il più autenticamente possibile quello che si è, percorso che Juana ha affrontato con ironia e spirito, scrivendo delle pagine
molto belle anche sotto forma di confessione
pubblica in risposta ai prelati che la accusavano.
Mi ha colpito molto il suo stile, così moderno e
immediato, dal quale trapela la speranza di fare qualcosa che rimanga nel tempo come aiuto
Elena Bucci in Santa Giovanna dei Macelli
per altri che vorranno intraprendere la medesima via. Juana ritiene che Dio abbia riservato
a ognuno un posto particolare nel quale poterte. Non è una sconfitta non riuscire a realizzare un ideale:
si esprimere esattamente come si è. Il che significa togliere
è la norma. L’ideale, proprio in quanto impossibile da readi mezzo tutto il «dover essere»: una forma di libertà molto
lizzare, deve però esistere come tensione. La vera sconfitgrande. La sua cultura, la sua scrittura, il suo pensiero la porta è non vivere pienamente la protano molto avanti, più avanti quasi di
pria vita, è credere in una forma di
quello che lei stessa ha potuto intuire.
disillusione rassegnata anche nel soLo spettacolo, grazie alle musiche oriMarghera (Ve) – Teatro Aurora
27 marzo, ore 21.00
gnare. Tutti sogniamo e tutti desiginali di Andrea Agostini, è diventato
Belluno – Teatro Comunale
deriamo la pienezza dell’esistenza a
una sorta di operina, dove la parola è
28, 29 marzo, ore 20.30
scapito del senso di vuoto, e il fatto
sempre intrecciata alla musica, al ritSanta Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht
che non la si riesca a realizzare se non
mo, al suono. Ai recitativi si alternaregia Elena Bucci
ogni tanto non significa che non si
no vere e proprie canzoni: una sorta di
produzione Le Belle Bandiere
debba lottare gioiosamente per ragballata. In questo modo mi è possibile
Teatro Metastasio Stabile della Toscana
giungerla. Juana e Santa Giovanna
prendermi delle libertà emotive molto
rappresentano anche questo aspetgrandi, portando il personaggio avanAsolo (Tv) – Chiesa di San Gottardo
to, nonostante entrambi i lavori si
ti e indietro nel tempo.
23 aprile, ore 20.30
concludano con una sconfitta stoCome hai lavorato invece sulla figura di
rassegna «Rapire l’aurora»
rica. Ma il modo di raccontare queSanta Giovanna?
Juana de la Cruz o le insidie della fede
ste due storie può far riverberare in
Forse è un po’ una fissazione di quetesto e regia Elena Bucci
chi le ascolta la voglia di cercare qualsto periodo, ma sento molto forte la
produzione Ctb – Teatro Stabile di Brescia
cosa di diverso da quello che sta vinecessità di unire voce e suono, aboin collaborazione con Ravenna Festival
vendo e che non l’accontenta. (i.p.) ◼
lendo gli steccati tra parlato e cantato.
e Le Belle Bandiere
in scena
Elena Bucci tra
«Juana de la Cruz»
e «Santa Giovanna
dei Macelli»
in scena — 61
62 — in scena
Maria Paiato
è la protagonista
dell’«Intervista»
di Natalia Ginzburg
L’attrice veneta è Ilaria,
donna istintiva
e teneramente infantile
in scena
L
a trama che Natalia Ginzburg costruisce nella sua pièce
prende le mosse nel 1978, quando Marco Rozzi (Valerio Binasco), giovane giornalista, arriva in una casa di campagna
per realizzare un’intervista a un importante studioso, Gianni Tiraboschi, oggetto della sua giovanile
ammirazione. Ma ad
accoglierlo troverà solo
Ilaria (Maria Paiato) e Stella (Azzurra
Antonacci), rispettivamente la compagna
e la sorella di Tiraboschi. Nella vana attesa del suo interlocutore, Marco si intrattiene con Ilaria, personaggio che la viva voce dell’interprete ci ha
disegnato.
Ilaria è sicuramente una donna che non si sottrae alle difficoltà
che la vita le presenta. E tuttavia
non è una persona che battaglia: la
sua lotta è quella di
resistere, di sostare
in piena accettazione. Un modo di porsi, questo, quasi inconsapevole, non maturato attraverso esperienze e ragionamenti, e dettato piuttosto dalla sua indole più profonda. Questa sua saggezza, infatti, affonda le radici più profonde nel suo dna: Ilaria non potrebbe essere diversamente, almeno per come l’ho vista io, per come l’ho conosciuta
anche attraverso il confronto con Valerio. Ilaria è pensata
sulla scena come un fiore, che sta lì, fermo e assolutamente disposto alla vita. Sulle sue labbra è sempre aperto il sorriso, anche nei momenti di rabbia, anche quando si sente
delusa e amareggiata: la sua apertura è tale che immediatamente dopo uno scatto d’ira, se di scatti d’ira si può parlare
nel suo caso, di nuovo torna a essere accogliente.
Con Marco, il giornalista che incontra, si viene a creare un’intimità
non cercata. Di che tipo di relazione si tratta?
È un rapporto di stupore e di gioia. A un certo punto della pièce la Ginzburg fa dire a Ilaria che lei annusa le paro-
le degli altri, soprattutto quelle di Gianni Tiraboschi, questo eterno assente, e ciò a significare che lei ha nel rapporto
con gli altri un atteggiamento istintivo, immediato, niente affatto ragionato. Il personaggio che incarno è dunque
quello di una donna assolutamente istintiva, in grado di
annusare i discorsi degli altri: magari non ne capisce il senso, e tuttavia percepisce se quello che una persona sta dicendo è fondato, è verità oppure menzogna. Con Marco
è come se viaggiassero un pochino sulla stessa lunghezza
d’onda: Ilaria riesce quindi ad annusare anche le sue parole
e a capire che ha dinnanzi un «penultimo» come lei, che lui
è come lei, anche se cerca con fatica, annaspando, di guadagnare posizioni. Cechovianamente, potrebbero essere la
coppia ideale e non riescono a capirlo, perché lei al di là di
un’intuizione non sa andare e lui nemmeno. Rimangono
dunque così, eternamente separati e nella mera possibilità
di un rapporto bellissimo. La relazione con Marco è così:
divertente, di gioco, e di gioco anche sulle parole, perché
poi è la Ginzburg a muoverne i fili.
Maria Paiato in Intervista
Cosa di Ilaria ti porterai addosso e cosa di tuo le hai donato?
Interpretare questo personaggio mi ha senz’altro regalato la possibilità di calarmi in un mondo quasi infantile e di trattenere a lungo questa gioia data dall’essere senza filtro alcuno. Per tutta la commedia Ilaria è così: anche se poi nel tempo molte cose maturano e cambiano in
lei, fondamentalmente il suo scheletro, la sua struttura è
quella di essere profondamente ingenua e buona. Questo modo di essere così assolutamente gioiosi è una cosa che, se da un lato ho imparato, dall’altro credo anche
sia emersa spontaneamente in quanto parte di me. Credo che se si fa qualcosa significa che in qualche misura quel qualcosa ci appartiene, vuol dire che è già scritto nella nostra storia, nel nostro modo di essere. Si tratta quindi della scoperta che ho fatto di un lato che già
esisteva dentro di me, una sfaccettatura che funziona e
che può essere molto giusta da proporre in teatro. (i.p.) ◼
in scena — 63
La «Commedia
di Candido»
di Stefano Massini
poraneità, mentre in questo caso ho voluto creare qualcosa di
diverso, e ho composto un divertissement che ha dichiaratamente l’impianto di una farsa dedicata all’età dei lumi. Come fonte
ho attinto a Visita a Rousseau e a Voltaire, un diario del viaggiatore inglese James Boswell, che essendo abbagliato dalla fama dei
due filosofi decide di andare a far loro visita, con lo stesso spirito con cui oggi un fan inseguirebbe un cantante famoso. Boswell si reca a Ginevra, dove risiedono entrambi i suoi idoli, e
lascia testimonianza della sua frequentazione con loro in quetefano Massini, regista e drammaturgo di punta della scena itasto libro, mettendo bene in evidenza i lati più pronunciati dei
liana (nel 2005 ha vinto il Premio Tondelli a Riccione con L’odore
loro caratteri. Unendo alla testimonianza di Boswell altri maassordante del bianco) illustra La commedia di Candido, lo
teriali che riguardano Diderot mi sono divertito a creare quescherzo dedicato a Voltaire che ha composto per lo spettacolo diretto da Sersta storia pretestuosa, in cui fantastico che Diderot, Roussegio Fantoni e interpretato, tra gli altri, da Ottavia Piccolo.
au, la chiesa e gli eserciti inviassero i propri scagnozzi alla “cor«In realtà La commedia di Candido ruota sempre attorno all’opete” di Voltaire per cercare di intercettare notizie e indiscreziora di Voltaire senza mai parlarne direttamente. Non ho scritto
ni su questo famigerato Candido in procinto di nascere. Ho coun adattamento o una riduzione, ma sono stato invece incuriostruito il personaggio di un’ex attrice ridotta in bolletta – Didesito da ciò che sta dietro questo libro. Premetto che sono un aprot, Voltaire e Rousseau nutrivano una forte e dichiarata paspassionato di «dietrismi» culturali, mi avvince andare a risalire il
sione per la gente di teatro – che si adatta a lavorare in casa del
fiume e vedere cosa si annida tra le motivazioni che portano alla
primo dei tre pensatori e che
quando sta per essere messa
alla porta rivela la sua identità e accetta di porsi al servizio dell’inventore dell’Enciclopedia e andare in missione
quasi segreta a casa di Voltaire per indagare. Si reca in verità anche a casa di Rousseau, perché Diderot, che viveva a Parigi, era ossessionato dall’idea che gli altri due –
dopo l’odio che li aveva lungamente divisi – stringessero
una qualche alleanza letteraria contro di lui e d’Alembert,
arrivando a sospettare che lo
stesso Rousseau stesse partecipando alla stesura del volume. Da tutto ciò nasce una
struttura in tre quadri, intitolati rispettivamente “Colazione da Diderot”, “Colazione da Rousseau” e “Colazione da Voltaire”, dove i tre
Commedia di Candido
intellettuali compaiono insieme alle rispettive compagne. Alla fine il risultato è un
divertissement cosciente di essere uno sberleffo, una satira di questi personaggi che nel nonecessità di scrivere un’opera, e in questo caso la vicenda si prestro immaginario collettivo sono così blasonati, e un pretesto
sentava davvero ghiotta: prima ancora di nascere, Candido era
per raccontare quelle verità scomode che il Candido porta dengià condannato a essere censurato. Voltaire era il nume dell’Eutro e che continuano a renderlo un libro estremamente provoropa del tempo, e quando si sparse la voce che stava per scrivere
catorio a 250 anni dalla pubblicazione.
questo libretto ci fu un fuggi fuggi generalizzato: non soltanto
Voglio aggiungere che tutta questa vicenda alla fine ha
da parte delle gerarchie ecclesiastiche, dei cancellieri e segretari
però qualcosa di vero, non è del tutto inventata. Se si prendei governi e dei capi degli eserciti, tutti consapevoli che il filosode in mano il Candido, in copertina si trova scritto “Candido
fo li avrebbe presi pesantemente di mira, ma anche da parte deo dell’ottimismo, tradotto dal tedesco dal manoscritto del dotgli intellettuali. E questo è un fatto che ho trovato piuttosto strator Ralph”: Voltaire, per ragioni che nessuno ha mai sapuno. Mi è sembrato molto buffo che gli altri due numi dell’epoto, pochi giorni prima di darlo alle stampe decide di pubca, Diderot e Rousseau, tremassero di paura pensando a cosa
blicarlo come libro non suo. Per quanto tutti fossero a coVoltaire avrebbe potuto scrivere con la sua penna risaputamennoscenza di chi fosse in realtà l’autore, per i primi dieci ante sagace, e cercassero quindi di correre ai ripari. Qui si ferma la
ni l’opera è circolata come volume anoni“cronaca”, e parte la mia fantasia. Ho immagimo. Forse Voltaire cercava semplicemennato di mettere per iscritto una sorta di ironite di evitare di tornare in carcere, dove era
ca spy story su questo tema. Di solito scrivo testi
Venezia – Teatro Goldoni
già stato per motivi di censura…» (l.m.) ◼
drammatici e legati a doppio filo alla contem15-19 aprile, ore 20.30
in scena
S
64 — in scena
Mestre accoglie
l’«Odissea»
di César Brie
Spettacoli e laboratori
tra Toniolo, Candiani
e Teatro Momo
in scena
D
opo aver debuttato al Teatro delle Passioni di
Modena il 24 febbraio, l’Odissea di César Brie approderà il 22 aprile al Toniolo di Mestre, città dove il regista argentino sarà presente sin da marzo con un
incontro pubblico e insieme al suo Teatro de los Andes
condurrà tra aprile e maggio (oltre a riproporre il rodato
e suggestivo Mare in tasca) due laboratori sull’arte dell’attore inseriti all’interno delle Esperienze di «Giovani a Teatro», il progetto organizzato e promosso dalla Fondazione di Venezia.
A questo secondo incontro della compagnia con l’epos
omerico, dopo l’applaudita Iliade di un po’ di anni fa, abbiamo già riservato un lungo e appassionante intervento
dello stesso Brie (cfr. VeneziaMusica e dintorni n. 25, pp.
60-61), nel quale veniva narrata la gestazione dello spettacolo e l’elaborazione di una drammaturgia che, partendo
dall’immensa opera di Omero, potesse parlare del dramma dei migranti, dell’orrore della guerra e delle tante, troppe figure di «naufraghi» che contornano il nostro vivere
quotidiano. Come premessa a un approfondimento critico
a firma di Fernando Marchiori, che si è in più di un’occasione occupato del Teatro de los Andes (come ad esempio
nel bel volume Ubulibri César Brie e il Teatro de los Andes, Milano 2002, pp. 224), che pubblicheremo nel prossimo numero, proponiamo in queste pagine un emozionante racconto per immagini, quasi una sorta di «aperitivo» aspettando che questa attesa Odissea giunga in laguna. (l.m.) ◼
Calipso e Ulisse
Penelope e le schiave
Gli appuntamenti con il Teatro de los Andes
Mestre – Teatro Toniolo
7 marzo, ore 12.00
Incontro con César Brie
introduce Fernando Marchiori
ingresso libero
Penelope al telefono
Mestre – Teatro Momo
10-13 aprile, ore 15-19
Laboratorio condotto da Lucas Achirico, Gonzalo Callejas e Alice
Guimaraes
gratuito con Card Giovani a Teatro
Fossò – Palarcobaleno
20 aprile, ore 21.00
Odissea di César Brie
Mestre – Teatro Toniolo
22 aprile, ore 21.00
Odissea di César Brie
Mestre – Auditorium Centro Culturale Candiani
19 maggio, ore 21.00
Il mare in tasca di César Brie
Mestre – Saletta Seminariale Centro Culturale Candiani
Laboratorio condotto da César Brie
gratuito con Card Giovani a Teatro
Penelope e Calipso
in scena — 65
Penelope, Calipso e Ulisse
Telemaco e Atena
Circe
in scena
Antinoo
Telemaco e i Proci
La danza di Penelope e Ulisse
Telemaco picchiato
Odissea
testo, regia, luci César Brie
interpreti Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Lucas Achirico, Cynthia
Callejas, Gonzalo Callejas, Karen May Lisondra, Paola Oña, Ulises
Palacio, Juliàn Ramacciotti, Viola Vento
scenografia Gonzalo Callejas
musiche Pablo Brie
produzione Teatro de los Andes, Emilia Romagna Teatro,
Fondazione Pontedera Teatro
Telemaco e Ulisse
66 — in scena
Pippo Delbono
M
di Maria Grazia Gregori
in scena
olti – a cominciare dai francesi che lo adorano –
ce lo invidiano: prime pagine sui grandi giornali,
una notorietà europea magari discussa ma certamente non discutibile, una capacità di rinnovarsi, di essere multiforme come del resto lo è la vita sua principale fonte d’ispirazione. Pippo Delbono – è a lui che mi riferisco –
ha fatto del teatro la sua casa, il suo luogo d’elezione e della
compagnia multicolore dei suoi attori, che lo accompagna
Non si ferma davanti a nulla Pippo Delbono: la provocazione e la rivolta sono le sue compagne predilette insieme
ai grandi interrogativi che costellano l’esistenza dei personaggi, spesso minimi, sempre emarginati, delle sue storie.
Tutto finto, tutto voluto? Ci è capitato di sentire dire o di
leggere questi giudizi affrettati sul suo teatro analitico, esistenziale e poetico insieme, fisico e inquieto dove ognuno
di quelli che lo fanno porta qualcosa di sé a partire dai propri ricordi. Forse agli inizi queste contestazioni volute e fasulle l’avranno addolorato; oggi mi auguro che se ne infischi: senza perdere la testa, senza crolli nervosi finti o veri
ma con tutto l’orgoglio di un teatrante che è riuscito a raggiungere insieme alla sua compagnia mete forse impensa-
Scene da Questo buio feroce
bili. C’è un’immagine a questo proposito che la dice lunga:
ovunque, la sua famiglia. Sembra una «corte dei miracoli»
Pippo e il suo gruppo nella residenza di Arafat a Ramallah
quasi inventata l’ensemble di Pippo: i suoi detrattori dicotrasformata in una specie di bunker durante l’assedio israno che è abile, furbo; al contrario io penso che abbia scelto
eliano con Bobò, sordomuto e analfabeta, che è stato rinamorevolmente i suoi compagni di strada (una strada assai
chiuso per più di quarant’anni nel terribile manicomio di
poco politicamente corretta): anoressici, barboni senza fisAversa, in prima fila, la kefiah in
sa dimora, disadattati, cerebrotesta… Da questo viaggio sono
lesi, down, per raccontare quel
Mestre – Teatro Toniolo
nati due lungometraggi Guersegmento di vita che gli interes29 aprile, ore 21.00
ra, 2003, premiato con il David
sa. Che ha spesso a che fare con
Questo buio feroce di Pippo Delbono
di Donatello e Grido, 2006, preil dolore, la malattia, l’emargiinterpreti Pippo Delbono, Dolly Albertin,
sentato
al Festival del Cinema
nazione, il rifiuto a cui contrapGianluca Ballarè, Raffaella Banchelli, Bobò,
di
Venezia.
porre una poesia da poveri criJulia Morawietz, Lucia Della Ferrera,
La storia di Pippo comincia a
sti che sgorga dal profondo, che
Ilaria Distante, Gustavo Giacosa,
Varazze, un piccolo paese delsi fa corpo e sangue, interrogaSimone Goggiano, Mario Intruglio,
la riviera di Ponente che d’estate
tivo, sarcasmo, feroce denuncia.
Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo
noti nella loro degradazione grottesca, ma vivi, presenti.
si trasforma in luogo di villeggiatura: la sua è una famiglia
Un teatro che si snoda fra millimetrici rituali e movimencattolica, anzi bigotta con un odio viscerale verso «i comuti ripetitivi, continua visione di spazi visivi e drammaturnisti». È una storia che si snoda secondo un mix di ironia e
gici dove i corpi e le parole si incontrano per subito allondi candore crudele che gli appartiene e che fa del suo teatro
tanarsi… Sempre contro l’insensatezza delle armi, la vioe anche della sua scrittura (recentemente è uscito per i tilenza, l’ingiustizia sociale e la paura, Delbono non si limipi di Garzanti un suo bellissimo libro Racconti di giugno che
ta al suo ruolo di regista ma con discese provocatorie, con
è stato anche uno spettacolo) qualcosa di folgorante. Che
apparizioni inquietanti, è spesso in scena per raccontarci
non bada a convenzioni di sorta, ma che guarda al mondo
le ragioni del suo e del nostro scontento ma anche l’orgocon schiettezza quasi infantile, stipata di vita, rabbia, ricorglio della propria diversità, la malattia come forma di vita.
di e soprattutto d’amore. Delbono definisce quelli come
Mostrandoci come il suo teatro abbia a che fare con quella
anni di costrizione stretti fra una famiglia dura e la scuola
forma di poesia fangosa e totalizzante, imperfetta ed evodei preti: è stato quello il suo viatico verso un cammino di
catrice che è il suo modo di rappresentare e che ha sempre
libertà cercato con tutte le sue forze. C’è una dedizione assoluta nel modo in cui Pippo individua la sua strada, la sua
libertà anche nell’amore, nella vita al limite con un ragazzo
tossico, che morirà in un incidente. È il teatro a mostrargli la via di fuga e dunque la sua libertà vera: prima con la
scuola di Teatro a Savona dove conosce l’argentino Pepe
Robledo che gli sarà al fianco in ogni spettacolo e poi in
Da n i ma rca
con il gruppo Farfa di
Iben Nagel
Rasmussen,
grande attrice dell’Odin
Te at ret d i
Eugenio Barba. Lì si trova di fronte
per la prima
volta un teatro che nasce
dall’energia,
da l cor po,
da l la voce
più che dalla parola in se
stessa. Un teatro per certi
aspetti anarchico, libertario, ma dove ogni azione è studiata al millimetro; una tensione che sarà possibile
rintracciare nel suo primo spettacolo Il tempo degli assassini
Pippo Delbono e Bobò in Barboni
del 1987, anno per più aspetti fortunato che gli permetterà
di conoscere e imparare il supremo culto del movimento e
del corpo accanto a Pina Bausch.
Da qui inizia il viaggio, l’odissea di Pippo dentro la scena
fatto dell’impatto dei corpi uno dei cardini del suo mondo
dove lui porta le sue passioni e la sua infelicità, i suoi amoespressivo. Un teatro dove sono sempre i personaggi a imri segreti, la sua storia, insomma, che racconta attraverso se
porsi agli spettatori anche nel rifiuto dell’illusione teatrastesso e attraverso il suo «popolo» teatrale, i suoi compagni,
le, nei cambi a vista delle scene che rilevano tutte le nervagrazie a una visionarietà non sai se più felliniana o buñueliature di una costruzione scenica allo stesso tempo rituale e
na che si muove lungo le stazioni della propria angoscia. Itinecessaria. Grottesco e visionario, doloroso e inquietannerario rintracciabile in alcuni spettacoli ormai di culto: Barte, violento e infantilmente tenero, profondamente politiboni, Esodo, Gente di plastica, Urlo, Questo buio feroce, tutti mesco questo è il teatro secondo Delbono. Vedere per credesi in scena con i suoi attori atipici, da lui definiti «straordinare il suo ultimo spettacolo La menzogna: vi renderete conto
ri»… La descrizione di una società del benessere o di una soche il suo è un teatro che pretende da noi un impegno emocietà proletaria – come nel recente, sconvolgente La menzotivo ma anche politico nel sengna, ispirato alle vittime del rogo
so che riguarda la vita degli uodella Thyssen –, la ritroviamo in
mini nel suo complesso. Un tetutto il suo teatro con il brulicaL’immagine di Barboni, firmata da Guido Harari,
atro umano e viscerale, ma non
re di personaggi che arrivano da
è tratta da: Barboni. Il teatro di Pippo Delbono,
per questo meno doloroso. ◼
qualche incubo, dolorosamente
Ubulibri, Milano 1999.
in scena
in scena — 67
68 — in scena
Il «Milione» di
Gianfranco
De Bosio
L’opera di Marco Polo
rinasce in dvd
G
De Bosio, uno dei più importanti registi
del panorama teatrale italiano, ha realizzato nel 2006 la
lettura integrale del Milione di Marco Polo in occasione
del 750º anniversario della nascita del viaggiatore veneziano. Questa
rappresentazione, prodotta dal Teatro Fondamenta Nuove, dove è andata in scena
in più puntate, è ora
diventata un dvd audio, che ha l’obiettivo
– fortemente condiviso dalla Regione Veneto, che ha sostenuto
l’iniziativa – di divulgare nel modo più ampio possibile quest’opera fondamentale della
letteratura veneta e
nazionale. Al maestro veronese chiediamo come è nata l’idea
dello spettacolo.
La lettura del Milione non è un’esperienza isolata nella
mia lunga carriera.
Da sempre sono
stato appassionato
di letteratura, e per
citare soltanto i lavori più recenti, al
Festival di Mantova ho curato la lettura completa del Baldus di Folengo e poco tempo dopo l’integrale delle Bucoliche di Virgilio, che rifaremo tra l’altro al Dal Verme di Milano in ottobre. Ma
per quanto riguarda Marco Polo ci sono molti altri elementi che si intrecciano. In primo luogo il progetto è partito
dalla mostra veneziana di Emanuele Luzzati del 2005, dove erano raccolte quaranta tavole originali dedicate alle vicende di questo famoso viaggiatore. Be’, Luzzati è stato il
mio scenografo prediletto, e con lui ho lavorato moltissime volte, sia nella prosa che nella lirica. In secondo luogo,
le musiche del Milione erano state affidate a Gabriella Zen,
che è stata l’autrice delle melodie di molti miei Ruzante. E
infine, nel cast c’erano Mario Bardella, Stefania Felicioli,
Michela Martini, tutti attori che tra gli anni settanta e novanta hanno fatto pienamente parte della mia vita professionale. Quindi quest’idea aveva molte implicazioni che
mi riguardavano direttamente. A tutto questo si aggiunge
Il milione, che è un incanto, un gioco di fantasia documentata e inventata, perché non sono affatto sicuro che tutto
quello che Marco Polo ha dettato al suo compagno di prigionia sia vero. Di certo molti fatti sono realmente accadu-
in scena
ianfr anco
ti, per lo meno un 70-80%, ma qualcosa è stato certamente inventato, anche perché spesso lui riporta notizie che ha
udito da altri, come del resto dichiara onestamente in più
occasioni. Quindi siamo a metà tra la storia e la leggenda:
c’è una parte di invenzione e una di documentazione, e il
tutto è estremamente interessante. È un libro a metà tra
storia geografica e fantasia, un piccolo capolavoro. Anche
la scrittura è interessante, sia per quanto riguarda il testo
in lingua italiana che quello in veneto, che è molto più tardo, e non corrisponde del tutto a quello italiano, che d’altro canto deriva a sua volta dall’originale versione francese. Nello spettacolo al Fondamenta Nuove infatti vennero letti dei brani dal francese, per ricordare che esiste ed è
il prototipo. La traduzione italiana è già una variante, cui
poi, successivamente, si aggiunge anche la veneta.
Immagine del Milione di Emanuele Luzzati
Quali sono le differenze tra lo spettacolo e il dvd che avete realizzato in seguito?
In un primo tempo si era pensato a un video, ma il materiale registrato al Fondamenta Nuove non è risultato professionalmente utilizzabile, anche se rimane come documentazione storica. Allora si è deciso di creare un’incisione originale del Milione, accompagnata all’interno del
dvd da alcuni interventi visivi. In quest’operazione successiva molti degli interpreti sono cambiati, e abbiamo
diviso la lettura in capitoli operando dei tagli per eliminare parti ripetitive o senza curiosità narrative. Le musiche di Gabriella Zen sono state riprese integralmente dallo spettacolo, mentre per quanto riguarda la parte verbale il taglio registico è stato diverso: una cosa è recitare di
fronte a un pubblico, e un’altra registrare davanti a un microfono. Perciò sono stato molto attento all’efficacia auditiva: per certi aspetti l’interpretazione deve essere anche più raffinata, perché non si può contare sul rapporto immediato che si instaura con degli spettatori in carne e ossa. Nella registrazione quello che si recita è definitivo, quindi la cura deve essere molto maggiore. (l.m.) ◼
in scena — 69
S
ta invece il regista sarà Antonio Caldonazzi, che è anche
coautore del testo insieme a due degli attori, Andrea Castelli e Sandro Ottoni. La vicenda inizia durante il fascismo, che nella sua ascesa pianificò l'apertura di fabbriche
– e particolarmente appunto di acciaierie – nel capoluogo
altoatesino. Questo piano industriale porta con sé molte
logiche conseguenze, a partire dall'arrivo in quelle zone
di moltissime persone da regioni vicine, come la Lombardia e il Veneto, con tutti i problemi che derivano sempre
da queste operazioni politiche. Il testo compie un excursus storico che giunge fino agli anni del boom economico, oltrepassando dunque la tragedia della seconda guerra mondiale e il periodo della Resistenza. Attraverso una
serie di scene concatenate tra loro si cerca di raccontare il
durissimo lavoro di questi operai. In uno dei primi dialoghi ci si chiede da dove nasca l'attrazione dell'uomo per il
fuoco, il perché quando impara a forgiare il metallo si senta così vicino agli dei: la realtà storica dice infatti che i lavoratori si affezionavano subito a questo tipo di mestiere,
andra M angini è un'artista estremamente duttile e versatile,
che alterna con grande naturalezza il mestiere di attrice a quello di interprete della canzone popolare. In passato abbiamo già
avuto modo di incontrarla in questa sua duplice veste (cfr. VMeD n.
21, pp. 18-19 e VMeD 22, pp. 64-65). Le chiediamo ora di raccontarci l'esperienza della registrazione del Milione di Marco Polo sotto
la guida di Gianfranco De Bosio (cfr. l’articolo a fianco).
Avevo già recitato con De Bosio qualche anno fa, in una
delle sue messinscene della Betia di Ruzante. Reincontrarlo in quest'occasione è stato molto bello. Il milione è un testo bellissimo, e pur essendo scritto in un linguaggio antico è assolutamente
godibile. Me ne sono resa conto proprio durante le dure giornate passate a incidere l'opera in uno studio di
Preganziol. Alla fine sono nate quasi cinque ore di registrazione, che disvelano un mondo
fantastico. Il regista ha sviluppato con noi attori
un lavoro di grande precisione sulla parola, spesso
facendoci ripetere
varie volte lo stesso brano. Quello
che ricercava, oltre all'espressività
Sandra Mangini è Jenny delle Spelonche nell’Opera del malaffare,
vocale e alla muadattamento dall’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht curato da Davide Schinaia (Compagnia Maan)
sicalità, era anche
un certo grado di
immedesimazione
anche se lo svolgevano in condizioni di grande pericolocon il punto di vista di chi racconta. Che Marco Polo narsità e disagio. Ma per tutti loro l'acciaieria rappresentava
ri vicende che ha visto con i suoi occhi, o che invece riportutto sommato la garanzia di un posto fisso e la possibiti avvenimenti e storie che ha ascoltato nel suo lunghislità di uscire dalla miseria. Io sono l'unica donna del cast,
simo viaggio, il suo sguardo è sempre pieno di stupore e
e interpreto i vari ruoli femminili, divenendo di volta in
di entusiasmo. Il maestro veronese puntava a questo tipo
volta moglie, madre, ostessa, cameriera…
di emozione. Una volta compresa questa sua volontà, la
Dopo questo periodo a Bolzano, tornerai a lavorare con Giovanlettura riservava una grande libertà interpretativa. È stata
na Marini, con la quale ti sei già incontrata più volte in passato.…
un'esperienza davvero importante, anche grazie alla preSì, sono stata contattata per partecipare a uno spettacolo
senza di Mario Bardella, che ha impreziosito quelle magnifrancese che si intitola Fabbrica ed è tratto dal testo di Ascafiche giornate.
nio Celestini. La produzione mette insieme due importanti
Il 2008 ti ha vista impegnata su vari fronti, sia sul versante teatraistituzioni d'Oltralpe: il Théâtre Vidy-Lausanne e il Théâtre
le che in quello musicale, anche se, come hai tu stessa affermato, il tuo
de la Manufacture – Centre Dramatique National Nancy
approccio in entrambi i casi è quello proprio di un'attrice. Quali sono
Lorraine. L'allestimento, che debutterà in ottobre, è curaora tuoi i prossimi appuntamenti professionali?
to da Charles Tordjman, e prevede due atFra poco inizierò le prove di Acciaierie, il
tori e tre cantanti, cioè appunto Giovannuovo spettacolo prodotto dal Teatro Stana Marini, Germana Mastropasqua e io.
bile di Bolzano, con il quale avevo già lavorato alla Leggenda del regno dei Fanes diretta Bolzano – Teatro Comunale La musica sarà in parte popolare e in parte composta ex novo da Giovanna. (l.m.) ◼
dal veneziano Paolo Bonaldi. Questa vol7-24 maggio, ore 20.30
in scena
Sandra Mangini
tra «Milione»
e «Acciaierie»
70 — in scena
La primavera
teatrale del
Fondamenta Nuove
S
otto l’azzeccato titolo di «Movimenti – Gesti di teatro
necessario» continuano le «residenze» del Teatro Fondamenta Nuove, organizzate in stretta collaborazione con
l’Operaestate Festival di Bassano. Dopo il successo ottenuto
da gruppi come Babilonia Teatri e Nanou, in primavera giungono in laguna altre due formazioni che negli ultimi tempi si
sono distinte per il loro lavoro di ricerca. Come di consueto,
alla presentazione dell’ultimo spettacolo compiuto di ciascuna compagnia fa seguito un periodo più o meno lungo durante il quale gli artisti si insediano nel piccolo e suggestivo teatro,
My Arm dell’Accademia degli Artefatti
in scena
comeacqua di Muta Imago
versity of Calicut nel 2006 e portato a compimento durante
un’altra residenza creativa a Mondaino. Partendo da Quad di
Samuel Beckett è nata una coreografia per quattro danzatori che indaga il concetto dello zero e mescola elementi indiani e occidentali. La prova aperta invece riguarderà un’opera in
progress, che ha già girato per l’Italia nelle sue diverse «piattaforme»: WBNR. What Burns Never Returns. Platform_#7 Venezia: si
tratta, come afferma la stessa compagnia, di «un progetto multidisciplinare di ricerca che indaga la relazione, interrelazione
e dialogo tra diversi media quali corpo, città e codice generativo e le loro interpolazioni attraverso la coreografia, le arti visive, la geografia urbana e le nuove tecnologie. Il progetto si sviluppa attraverso la costituzione di piattaforme di lavoro in diversi luoghi del mondo: per la Platform#7_Venezia la ricerca si
focalizza su un’indagine specifica della percezione del movimento amplificando le qualità propriocettive di un danzatore».
Chiude la programmazione l’Accademia degli Artefatti, che
torna al Fondamenta Nuove per completare il progetto Ab-
Uso con My Arm di Tim Crouch, alla cui drammaturgia il gruped elaborano un percorso scenico ancora in fieri che culmina in
po capitanato da Fabrizio Arcuri ha dedicato un lungo e accuuna prova aperta proposta a ingresso gratuito e coadiuvata dalrato studio: «My Arm – afferma il regista romano – è il monola presenza di un critico in forma di «mediatore» tra le diverse
logo di un trentenne che ha sfidato se stesso e le proprie possipoetiche e il pubblico.
bilità, la propria noia e quella univerLa prima formazione ospite è la rosale: un giorno porta un braccio sopra
mana Muta Imago, che allestisce l’orila testa e prova a verificare per quanto
ginale comeacqua, apprezzato gioco
tempo riuscirà a tenercelo».
scenico in cui due figure maschili inNutrito anche il programma musiteragiscono in uno spazio vuoto nel
Venezia – Teatro Fondamenta Nuove
cale di «Risonanze», la rassegna che il
quale pendono sacchetti di plastica
11 marzo, ore 21.00
teatro diretto da Enrico Bettinello ripieni d’acqua. Il progetto in elaboracomeacqua di Muta imago
serva alle tante musiche contemporazione invece è Madeleine, che gli stesnee. Si comincia a marzo, quando posi creatori spiegano così: «Il sogno e
18 marzo, ore 21.00
tremo ascoltare tra gli altri il trio Maula paura sono gli elementi costitutivi
prova aperta di Madeleine di Muta Imago
ger, composto dal sassofonista di oridel mondo di Madeleine. Insieme a due
20 marzo, ore 21.oo
gine indiana Rudresh Mahanthappa e
performer, un uomo e una donna, un
ABQ – Mechanical extention
da due jazzisti americani come il conattore che parla con il corpo e una balin four arithmetic operations (knot version)
trabbassista Mark Dresser e il battelerina che si muove con la mente. Indi Ooffouro
rista Gerry Hemingway. Per gli apsieme a una scenografia fatta di soglie,
27 marzo, ore 21
passionati di elettronica imperdibidi proiezioni, di inganni, di trasparenWBNR: WBNR.
le lo show sospeso tra techno minize, di riflessi. Insieme alla nebbia, al
What Burns Never Returns.
male, glitch music, scenari ambient e
fumo e al vento. Tanto vento».
Platform_#7 Venezia
di Ooffouro
nuove tecnologie del finlandese VlaSi procede poi con i sardi Ooffouro,
dislav Delay. Ancora grande jazz infiimpegnati nel rodato ABQ – Mechani29-30 aprile, ore 21.00
ne con gli inglesi Steve Beresford, Joe
cal Extentions in Four Arithmetic OperaMy Arm di Tim Crouch
Williamson e Roger Turner. (l.m.) ◼
tions, lavoro nato all’interno dell’Uniuno spettacolo dell’Accademia degli Artefatti
Un occhio vede
e un occhio sente
Riflessioni sparse
sull’arte dello spettatore
O
di Gianni De Luigi
ggi, nella cosiddetta «società dello spettacolo»,
il bambino è spettatore fin dalla nascita: uno spettatore sottoposto a un flusso ininterrotto di immagini e informazioni che annullano ogni differenza fra realtà e finzione.
Un tempo il luogo della finzione era il teatro. Ora i media
elettronici come internet producono finzioni a ritmo incessante, generando «corpi assenti». In sostanza traducono la
realtà in finzione e la finzione in realtà, alterando così i campi percettivi del fruitore.
Ianni De Luigi e i suoi piccoli allievi
Il bambino, immerso fin dalla nascita in questo magma, diventerà presto uno spettatore indotto a una fruizione superficiale, distratta, dispersiva e, quel che è peggio, passiva dalla
quantità e dalla qualità d’emissione delle immagini e dall’apparente facilità di comprensione e decodificazione; infatti
più l’occhio e il cervello vengono bombardati, tanto più le
capacità di memorizzazione e valutazione si attenuano.
Oggi dunque, per formare il bambino spettatore – non solo di teatro – bisognerebbe affidarsi a un’azione educativa intesa come alfabetizzazione verso tutte le arti e iniziazione al
comportamento estetico, in grado di percepire «l’arte»: l’arte dello spettatore.
Per mettere in pratica tale disciplina è necessario premettere l’arte come esperienza, capendo pertanto che le capacità di entrare in rapporto con l’arte non sono innate ma sono
il risultato di una «ginnastica della mente»; l’esperienza dello
spettatore bambino deve essere analizzata nell’ambito delle emozioni e della memoria, nell’analisi dei segni e dei miti.
Il guardare con senso estetico cosciente prevede un grande sforzo per poter diventare un’operazione creatrice; occorre dunque preparare l’interlocutore alla capacità critica e
di scelta per elevare l’arte dello spettatore adulto quale consumatore estetico. È vero che l’opera d’arte parla da sola se
ha con chi farlo, ma la videocultura sta velocemente annientando questa possibilità. Probabilmente solo la scuola può svolgere la citata opera di alfabetizzazione e offrire
l’opportunità di un approccio all’esperienza artistica a tutti i bambini, prescindendo dalle loro caratteristiche socioculturali ed economiche, ma per farlo bisognerebbe procedere a una rialfabetizzazione preliminare degli stessi insegnanti. Questo perché essi siano in grado di proporre una
nuova educazione dello spettatore che preveda uno smontaggio del fittizio mondo televisivo in favore di un riavvicinamento al luogo del teatro quale arte di esaltazione di tutte le risonanze profonde dell’esperienza di visione e ascolto. Ma il «tempo festivo del teatro», inteso da Gadamer come «quieta sospensione del tempo», quale ritualità, risulta
difficile da percepire nel contesto attuale della società dello spettacolo, in cui il tempo risulta appiattito in una ferialità costante.
Per riuscire nella grande impresa della creazione di un’arte dello spettatore bambino è necessario uno studio profondo, fondato sul concetto archetipale «un occhio vede e uno sente», ovvero «il vedere tende all’identificazione delle forme». Come accade ad esempio nella scrittura di Antonio Tarantino – incontrato dall’Istituto della Commedia dell’Arte Internazionale in occasione della lettura
di alcuni suoi testi per il percorso/laboratorio di scrittura drammaturgica «Parole in forma scenica» promosso dalla Fondazione di Venezia. L’essere stato pittore in Tarantino permane, mi sembra, anche nella scrittura.
Le impressioni pittoriche regalano alla parola detta e vissuta nel suo passaggio attraverso il corpo degli attori
tutta la sua immediata e carnale vitalità sonora. Nella stessa maniera l’autore di teatro dovrebbe vivere come
una necessità lo sperimentare la propria scrittura prima di tutto nella sua
stessa corporeità.
In genere nell’ambito educativo e nella nostra cultura si
contrappone l’emozione all’elaborazione logico/concettuale, svalutando la prima in favore della seconda, e generando
così una specie di analfabetismo nell’esperienza emozionale e nelle sue modalità di comunicazione.
Si ritiene a torto che l’impatto emotivo sia totalizzante
ed esclusivo, ma le ultime ricerche nel campo delle neuroscienze hanno messo in evidenza che i processi cognitivi e
quelli emozionali viaggiano sugli stessi circuiti neuronali e
sono inseparabili: sarebbe dunque un errore per l’umano
separare il cognitivo dall’emotivo.
Nell’avvicinare all’arte bisogna sempre tenere presente
che il bambino è portatore di una cultura diversa da quella
dell’adulto e che l’interpretazione precostituita di quest’ultimo non deve analizzare o interferire con la sua spontanea
visione del mondo e dell’arte.
Date queste premesse l’educazione estetica del bambino in ambito scolastico risulta complessa e deve essere necessariamente supportata da scienze umane quali in primo luogo il teatro come «rappresentante di tutte le arti» in grado di dare una formazione estetica. ◼
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