Incontro con Pier Paolo Bisleri di Giulia Covelli Lo scenografo Pier Paolo Bisleri Scenografo eclettico, Pier Paolo Bisleri è prima di tutto un artista. Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, si è sempre occupato di arti visive, dirigendo dal 1970 il Centro «La Cappella Underground» di Trieste interessandosi alle diverse espressioni dell'arte contemporanea e entrando in contatto con artisti quali Beuys, Reiner, Christo e Warhol. Successivamente nel 1978, cura la prima esposizione italiana sull'Azionismo Viennese, presentando artisti quali Brus, Schwarzkogler, Cibulka, Muhel e Nitsch, di cui produce l'azione n° 62. Queste esperienze nel campo delle arti visive in seguito lo porteranno, nell'attività di scenografo, ad avere una particolare attenzione per l'arte contemporanea, sempre presente nella sua ricerca artistica. Dal 1978 collabora, inoltre, con il Teatro Stabile di Prosa del Friuli Venezia Giulia in qualità di Direttore degli Allestimenti Scenici, ruolo che ricopre successivamente al Piccolo Teatro di Milano Teatro d'Europa sotto la direzione di Luca Ronconi. Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto di raccontarci le sue esperienze teatrali con un altro grande artista, il regista Federico Tiezzi, esponente di punta della neoavanguardia italiana, con il quale ha collaborato per vent’anni. Ci racconta del suo rapporto professionale con Federico Tiezzi che segue da più di vent’anni sia nella prosa che nella lirica? Ho conosciuto il teatro di Federico negli anni '70 in occasione delle prime rappresentazioni della sua compagnia (Il Carrozzone poi Magazzini Criminali). Le esperienze teatrali di quegli anni erano legate alla vita delle gallerie d’arte che permettevano una sperimentazione che nei luoghi istituzionali del teatro era impossibile. L’elemento visivo, caratteristica della prima fase del teatro di Tiezzi, ha sempre avuto per lui grande importanza e continua ad averne tutt’ora. La Compagnia iniziò il suo percorso quando i componenti - Sandro Lombardi, Marion d'Amburgo e Federico Tiezzi, appunto – erano ancora al liceo. Successivamente Federico e Sandro si sono spostati a studiare a Firenze, laureandosi in storia dell'arte. Negli stessi anni studiavo a Firenze presso l’Accademia di Belle Arti, provenendo dall’Istituto statale d’arte della mia città, dove avevo maturato un forte interesse per l’arte contemporanea. Negli anni del liceo ho diretto assieme all’amico Roberto Vidali (che avrebbe fondato da lì a poco la rivista d'arte “Juliet”) una galleria d’arte: lo spazio d’arti visive della Cappella Underground. In quegli anni ho avuto la fortuna di entrare in contatto con molti artisti, con alcuni dei quali ho anche collaborato: Javacheff Christo, Joseph Beuys, e Andy Warhol. Sono stato uno dei primi galleristi a presentare in Italia il movimento del Wiener Aktionismus (Azionismo Viennese) producendo l’azione n° 56 di Hermann Nitsch e altre mostre di Otto Mühl, Günter Brus e Rudolf Schwarzkogler. Queste esperienze mi hanno fatto guardare al teatro e alla scenografia da una personale prospettiva, mettendola in relazione con l’installazione e con l’arte concettuale: il legame tra questi due mondi, dove l’arte figurativa diventa ‘teatralizzazione dell’arte’, mi ha sempre affascinato. Hermann Nitsch, per esempio, tra i più affermati artisti visivi contemporanei, ha ispirato la sua ricerca artistica al mito della tragedia greca e al dionisiaco, utilizzando nelle sue “azioni” (performance di gruppo in cui egli è il regista) i corpi di ragazzi e ragazze che divengono attori, attivi o passivi, mescolati a carcasse di animali, sangue, acqua, vino, per dare vita alla sua idea di rappresentazione artistica come “opera d’arte totale”. Decisi di proseguire la mia strada nel teatro e quindi di iscrivermi all'Accademia di Firenze dove entrai in contatto con i primi lavori di Tiezzi. Partecipai come spettatore al primo spettacolo della compagnia “La donna stanca incontra il sole” presso la galleria Schema di via Della Vigna Nuova. Ma il primo incontro personale avvenne in occasione di Contemporanea 75 a Roma, esposizione di esperienze artistiche diverse presentate nel nuovo parcheggio (non ancora inaugurato) di Villa Borghese, vicino alle Mura Aureliane di via Veneto, per l’occasione “impacchettate” da Cristo aiutato da tanti giovani artisti di cui io facevo parte. In quell’occasione ci fu la presentazione di un vastissimo panorama d’arte contemporanea che attraversava molteplici ambiti (l’arte visiva, la musica, le prime video-installazioni e il teatro di ricerca). In quegli anni ho potuto seguire molti suoi spettacoli: Punto di Rottura, Ebdòmero, Crollo Nervoso, Sulla strada, Genet a Tangeri, Ritratto dell'attore da giovane, Vita immaginaria di Paolo Uccello, Perdita di Memoria presentato alla Biennale di Venezia del 1985. Nel 1991 incontrati nuovamente Tiezzi a Cividale del Friuli in occasione del Mittelfest; aveva messo in scena negli ultimi tre anni La Divina Commedia in collaborazione con tre dei massimi poeti italiani: Edoardo Sanguineti (l’Inferno), Mario Luzi (il Purgatorio) e Giovanni Giudici (il Paradiso). In quell’occasione i tre testi furono rappresentati in sequenza, in un unico spettacolo! Io ero uno dei tre direttori tecnici del Mittelfest e d’accordo con i miei due colleghi avevo deciso di seguire in prima persona il progetto della Divina Commedia dei Magazzini. Dal punto di vista tecnico ho dovuto rielaborare singolarmente i tre progetti che erano nati in spazi teatrali e pensati da altri scenografi - Manuela Casale e Pasquale Grossi - che avevano collaborato con Tiezzi. Questa Divina Commedia era soprattutto una rappresentazione en plein air. Per l’Inferno abbiamo dovuto sventrare con le ruspe il campo da calcio del Convitto “Paolo Diacono”, nel quale, dopo averlo riempito di fango e creta e successivamente inondato con gli idranti dei vigili del fuoco, sono state poste le strutture di metallo che facevano parte della scenografia originale. Per raggiungere la zona del Purgatorio gli attori, al termine dell’Inferno, scendevano da un ripido sentiero fino alla sponda sinistra del fiume Natisone, che divide in due Cividale e per mezzo di una barca, messa in sicurezza grazie a cavi d’acciaio posti sotto la superficie dell’acqua, attraversavano il fiume, come fosse lo Stige. Gli attori scendevano alla riva, colonna di disperati che andavano con le loro misere valigie incontro alla fine della loro vita; attraversato il fiume, vagavano sulla riva del Natisone dove erano stati accesi grandi falò mentre nelle strette stradine della Cividale longobarda fiaccole e ceri indicavano la strada del Purgatorio. Lungo il percorso, invaso dagli spettatori, passavano con difficoltà gli attori recitando ognuno la sua parte e fermandosi tra i capannelli di pubblico che invadevano le “stazioni” di questa Via Crucis per arrivare di fronte alla chiesetta sconsacrata di Santa Brigida dove era predisposto un campo di grano e da dove sarebbe apparsa Beatrice. L'ambientazione era molto suggestiva, il lungo percorso notturno finiva con il Paradiso rappresentato all’interno della Cattedrale di Cividale, sulla scalinata dell’altare maggiore, dove 1'altare era stato coperto con uno splendido e gigantesco drappo d’oro. Sandro Lombardi / Dante e una ventina di attori hanno recitato tutti i canti della Divina Commedia in una notte d’estate. Lo spettacolo é iniziato alle 19.00 nel campo del Collegio “Paolo Diacono” per concludersi dodici ore e mezza più tardi, alle 7.30 del mattino nella Cattedrale. All'inizio erano presenti oltre 4000 spettatori, alla fine ne erano rimasti 1200, tantissimi se si pensa ad un evento del genere. La gente, colta quasi da un sentimento estatico, alla fine ci abbracciava e ci baciava perché l'applauso non era sufficientemente catartico di fronte alla bellezza dell'evento a cui tutti insieme, attori, tecnici e pubblico avevamo partecipato. Il 1991 é anche l'anno in cui il Maestro Tiezzi ha debuttato nella lirica ... In settembre Federico ha avuto l’occasione di mettere in scena la Norma di Bellini, il Sovrintendente del Teatro Petruzzelli di Bari, dove si sarebbe rappresentata l’opera, accolse la proposta di Federico di avvalersi della collaborazione artistica di Mario Schifano, il maggior rappresentante della Pop Art italiana degli anni ’70. Consapevoli che sarebbe stata molto difficile la gestione del rapporto con Schifano che, da grande artista quale era, sarebbe stato inaffidabile e spesso irraggiungibile, hanno pensato di coinvolgermi nel progetto. A Cividale Federico aveva personalmente constatato le mie qualità: tecnicamente ero ben preparato ed organizzato e soprattutto, trattandosi della mia prima esperienza nella lirica, non mi sarei certamente messo in contrasto con Mario Schifano che avrei seguito come un’ombra per poter ottenere quello che era più importante cioè i suoi bozzetti per il “progetto Norma”. Ho colto subito l’occasione; man mano che il progetto si evolveva mi sono sentito sempre più coinvolto perché Schifano spesso non rispondeva o non si faceva trovare. Ho fatto più volte il giro dell’Italia per raggiungere Federico e Mario ovunque si trovassero. Schifano non mi consegnava il materiale. Un giorno, arrivato al suo studio sull'Appennino tosco-emiliano, dopo un lunghissimo viaggio, mi evitò facendomi incontrare con sua moglie. Tornato a Trieste senza materiale trovai nella segreteria telefonica un messaggio affranto e pieno di scuse. Decisi allora di ritornare al suo studio e finalmente tra mille abbracci mi riempì di bellissimo materiale. Mi ritrovai una bella collezione di suoi disegni che infine mi donò, forse sentendosi in colpa per avermi fatto impazzire correndogli appresso ovunque. Schifano era così: ti faceva impazzire ma era anche capace di questi bellissimi gesti di amicizia. Conservo ancora come un bel ricordo la registrazione sulla cassetta della segreteria telefonica. Di questi disegni Federico ed io abbiamo fatto una selezione e sono diventati i fondali di Norma. Abbiamo firmato a due mani il progetto della scenografia: lo spazio scenico - il contenitore blu con la struttura architettonica e gli elementi neoclassici bianchi - sono di mia progettazione mentre i coloratissimi fondali sono di Mario Schifano. Di questa edizione di Norma, molto apprezzata dalla critica del tempo, è rimasto solo il ricordo perchè la notte dello smontaggio, dopo l’ultima rappresentazione, il Petruzzelli, come l’intero allestimento, venne distrutto da un incendio. Norma è stata ricostruita e ripresa diciotto anni dopo al Teatro Comunale di Bologna: é la stessa di Bari, ricostruita con le modifiche necessarie dopo l’esperienza maturata assieme a Federico dopo tanti anni di collaborazione. L’allestimento è stato ripreso grazie anche ai Teatri di Trieste e Bari. Al debutto bolognese l’opera è stata trasmessa in diretta in Italia ed all’estero da Rai Trade. Lo spettacolo ha nuovamente riscosso un grande successo anche a livello internazionale ed è stato ripreso a Bilbao e a Tel Aviv. Dopo l’esperienza di Bari sono nate in seguito le prime opportunità di lavoro nella prosa e insieme a Tiezzi abbiamo realizzato Finale di partita di Beckett, Porcile di Pasolini, Edipus di Testori. La lunga collaborazione tra me e Federico, iniziata con questi primi spettacoli di prosa, ha proseguito nella lirica con Madama Butterfly e Il barbiere di Siviglia. Lei segue Tiezzi da diversi anni ma egli si è avvalso anche della collaborazione di artisti visivi, quale valore apportano queste alla ricerca del regista? Ci sono state delle occasioni, come nel caso della messa in scena di Die Walküre e di Parsifal al Teatro di San Carlo a Napoli, in cui Tiezzi, su proposta dell’allora Sovrintendente Lanza Tommasi, ha lavorato con un l’artista Giulio Paolini. Sono opportunità molto interessanti per Federico che ha questa particolare attenzione per l'arte contemporanea. Collaborando con un’artista visivo c’è comunque il rischio, secondo la mia concezione, che la scenografia diventi una specie di installazione (scenica) dove il regista si trova costretto, suo malgrado, ad utilizzare lo spazio così come lo è stato creato dall’artista nella sua totale libertà espressiva. Diventa molto complicato a questo punto chiedere delle modifiche al progetto artistico e quindi si limita la creatività del regista. A differenza del rapporto che si può instaurare con un artista figurativo che all’occasione diviene scenografo, io cerco di creare con il regista un dialogo continuo per affinare al meglio le mie scelte estetiche in rapporto alle sue esigenze di utilizzo e gestione dello spazio scenico. Altra cosa è la prosa, dove il lavoro sulla drammaturgia del testo e della parola diviene fondamentale e dà un impatto fortissimo, come, per esempio, nel caso del lavoro fatto su I promessi sposi alla prova. Questo spettacolo deriva da una rielaborazione dal testo di Giovanni Testori, ridotto per il teatro da Federico Tiezzi e Sandro Lombardi che lo hanno reso più fruibile ad un pubblico contemporaneo inserendo parti da I promessi sposi di Manzoni e brani da altri autori. Questi interventi di adattamento e “contaminazione” del testo originario da parte di Tiezzi sono espressione della sua ricerca creativa sul testo stesso, il Teatro di Poesia. La scenografia assume un valore aggiunto, segue parallela e intende aiutare il pubblico ad interpretare quanto è stato elaborato dalla regia nella sua ricerca. Fondamentale per il lavoro di Federico sono gli ottimi rapporti maturati in lunghi anni di collaborazione con Giovanna Buzzi per i costumi e Gianni Pollini per le luci. Come nasce l'idea dello spettacolo? Lo costruite insieme? Nel teatro di prosa spesso é il regista che, volendosi cimentare con un particolare testo a cui è interessato, lo propone ad un teatro per la produzione. Accettato il progetto Federico ci chiama, e dai nostri incontri e confronti nascono le prime idee e quindi i bozzetti e le immagini. Le idee di Federico e soprattutto le intuizioni sul sottotesto sono fortemente stimolanti e divengono fondamentali per il nostro lavoro creativo. Ci troviamo insieme, lavoriamo sui nostri appunti, disegniamo bozzetti mentre ne parliamo. Il progetto finale, per esperienza, non si discosta molto dalla prima immagine che abbiamo sviluppato. Nel Don Quichotte, per esempio, sin dal principio ho immaginato un grande capannone industriale, uno studio cinematografico con dei ballatoi praticabili tutt’intorno perché i cantanti potessero agire anche dall'alto, come se lo svolgersi dell’opera avvenisse in un set cinematografico di cui avremmo avuto la certezza solamente nella scena finale quando Don Quichotte, dialogando per l’ultima volta con Sancio, muore cantando l'ultimo emozionante pezzo dell’opera su di un semplice praticabile con l’albero su cui è appoggiato. Solo a questo punto scende a vista la grande parete di fondo dello “studio” realizzata in maniera fortemente iperrealista, con la saracinesca, l’uscita d’emergenza, gli impianti elettrici, gli estintori, … la grande scritta “defense de fumer”. La scenografia è mobile, si sposta su praticabili carrellati tipicamente teatrali. Mobile come la velocità con cui prosegue la storia. Ci sono carri che compongono un teatro, altri con grandi rocce blu e un fondale su cui si staglia un tubo al neon color fucsia che riproduce il profilo delle montagne caratterizzando la notte in cui Don Quichotte e Sancio vengono attaccati dai briganti. Per Il Trovatore il primo bozzetto era semplicemente un quadrato, che io immaginavo essere un campo di grano, con quattro linee inclinate che, per me, avrebbero rappresentato quattro grandi cipressi che si sarebbero dovuti muovere grazie ad un impianto idraulico: era 1'incrocio tra le strade di campagna dove, secondo le storie contadine, si svolgono i rituali magici, quelli di Azucena, di cui è intrisa l’opera. Quando mostrai il bozzetto a Federico, che vive in Toscana e proviene da Lucignano, lo ha capito e fatto immediatamente suo proprio perché questa idea gli ricordava quei racconti arcaici e contadini della sua terra. Nella Butterfly il progetto scenografico si è sviluppato principalmente intorno alla forma del tatami, tipico tappeto giapponese utilizzato come unità di misura nell’architettura della casa. Il tatami misura 180 x 90 cm e sul ritmo di questo elemento si è nata gran parte del nostro progetto. Nella Iris di Mascagni gli Hanamichi (passerelle utilizzate nel teatro kabuki – chiamate anche “il sentiero dei fiori”) sono diventati gli elementi fondamentali su cui si è sviluppata la scenografia. Nel mio lavoro tendo a fare si che ogni elemento abbia una sua profonda valenza “significante”. Molti scenografi sono attratti dalla pura estetica, io invece nelle mie scenografie, che a volte sembrano installazioni minimaliste, fornisco dei segnali interpretativi perché le immagini nascono sempre, per me, da un percorso mentale e concettuale. Se dietro ad un semplice quadro bianco, dietro ad una scena con pochi elementi, si sviluppa un’idea, un pensiero, allora anche quel quadro bianco, quella semplice scenografia raggiungono un valore artistico. Il lavoro diventa un modo etico e morale per avvicinarsi al testo, all’opera. Non pretendo che il pubblico capisca tutto ciò che sta dietro questo lavoro ma cerco di mandare dei segnali, delle indicazioni, delle proposte su cui ci si possa ragionare e confrontarsi Introduciamo Iris, uno spettacolo che ha avuto molto successo? Iris è un’opera di Mascagni considerata minore rispetto a Cavalleria Rusticana e quindi poco rappresentata. Nella nostra messa in scena ha avuto un ottimo successo, una delle eredi di Mascagni, che venne alla prima di Livorno, ne rimase entusiasta, condividendo le nostre scelte di allestimento che ne palesavano l’attualità. Lo stesso direttore, il Maestro Nello Santi, dopo aver assistito alla prima messa in scena, insistette per dirigerne la rappresentazione di Trieste. Come Butterfly e Turandot è un’opera ambientata nell’estremo oriente. Con quale sguardo Lei e Tiezzi avete affrontato Iris rispetto a Madama Butterfly che avete portato in scena dieci anni prima? Certamente sono due opere molto diverse tra loro. Butterfly è un opera molto amata da Federico. Il percorso drammaturgico che si dipana dall’incontro tra Butterfly e Pinkerton sino al suicidio della nostra protagonista suggerisce innumerevoli analisi tra il rapporto non solo uomo/donna ma anche oriente/occidente, con tutto ciò che ne comporta. L’opera diviene spunto per una profonda riflessione non solo sulla musica, che segue con grande fascino il percorso drammaturgico della storia, ma su tutto ciò che la storia stessa propone. Iris narra la storia di una donna/bambina e di tutti i tradimenti che i tre personaggi maschili che la circondano le fanno subire. È la storia della “purezza” di una ragazza che per l’onore e la sua fragilità preferisce morire all’idea del degrado morale, rinascendo in un fiore, per l’appunto l’iris dopo il pentimento di chi l’ha così profondamente tradita. Una storia adolescenziale … quasi un cartoon e allora perché non un manga? Parliamo della costruzione dello spazio scenico … L’opera ha inizio in uno spazio vuoto dove la discesa di un gigantesco sole bianco è diretta da un operaiomacchinista; altri operai popolano all’inizio la scena: sono i coristi per “L’inno al Sole”, uno dei massimi pezzi musicali di Mascagni. Nel momento in cui il coro esce in quinta Iris é addormentata vicino al suo giardino che ho allestito in maniera minimalista, con un gruppo di iris coloratissimi disposti con rigore matematico su di un quadrato di colore verde abbacinante, una panca nera e una serie di passerelle (chiaro riferimento agli Hanamici del teatro kabuki e già utilizzati per l’ingresso di Madama Butterfly). Iris non ha una bambolina, così come vuole la partitura originale, ma un pupazzo manga dalla serie di Dragon Ball. Tutta l’opera ha un’ambientazione giapponese in stile manga ed è trasposta al giorno d’oggi. Le passerelle si spostano a vista su ruote, gli operai montano una parte del palco, e dal fondo avanza il teatrino bunraku. Il carro che porta il palco del bunraku ospita due mimi che fanno l’alter-ego dei personaggi in scena. Dall’alto scendono, a comporre lo spazio scenico, il “grande pino giapponese” tipico del kabuki, qui di un blu iridescente, ed un tulle con ideogrammi giapponesi (l’editto della nascita del teatro bunraku). Iris assiste ad una rappresentazione di marionette e, distratta dallo spettacolo e colta di sorpresa, viene rapita per volere di Osaka e di Kyoto. Al rapimento concorre la chiusura di un sipario kabuki a strisce bianche e blu. Il padre cieco cerca la figlia e, accorgendosi di essere rimasto solo, cade nella disperazione. Il secondo atto si apre all’interno di uno yoshiwara, il bordello giapponese: Iris non si è concessa al ricco Osaka ed egli la vende a Kyoto perché diventi una prostituta. Iris viene istruita alla musica e alla pittura, arti caratteristiche delle geishe. Nel secondo atto Iris dà voce ad un incubo che la tormenta: un polipo con i suoi tentacoli s’impossessa di lei fino a farla soffocare. Su questo “abbraccio” di morte e di piacere mi sono interrogato a lungo e feci una scoperta che, a mio avviso, sarebbe diventata molto significativa: negli anni in cui Mascagni scriveva Iris a Livorno, a Genova fu presentata una mostra di stampe giapponesi erotiche. Fu probabilmente esposta in quell’occasione una stampa di cui recuperai l’immagine che rappresenta un polipo che stringe con i suoi tentacoli una donna il cui viso esprime puro godimento sessuale. Non ho certezze ma credo che Mascagni abbia visto quella stampa e che, rimastone suggestionato, l’abbia descritta in questo incubo di amplesso erotico, cantato, tra l’altro, nella scena dello yoshiwara. Abbiamo pensato di descrivere questo sogno attraverso un cartone animato di stile manga (come in Kill Bill I di Quentin Tarantino quando la violenza del ricordo dell’uccisione del padre è rivissuto dalla bambina attraverso un cartoon). Le tavole grafiche, una volta realizzate, furono trasformate in un cartone animato stile anni ’50 insieme al video-maker Antonio Giacomin. Iris viene preparata perché si esibisca nella vetrina dello yoshiwara: si spalancano due ampie pareti con delle rose coloratissime dal gusto volutamente kitch e dal fondo avanza un carro illuminato da tubi al neon sul quale due ballerine danzano la lap dance. Iris viene forzata ad esibirsi sul bancone. Il padre giunge e maledice la figlia che, presa dalla disperazione, si uccide lanciandosi nel vuoto. Nel terzo atto il corpo di Iris si trova in una discarica dove gli ambulanti stanno cercando qualcosa da poter vendere. Al muoversi della giovane, questi scappano. Prima di morire la fanciulla vede le immagini dei tre uomini (il Padre, Osaka e Kyoto) responsabili della sua fine, rappresentati come maschere del teatro kabuki. Attraverso il pentimento di questi tre personaggi il mito narra che ella si sia trasformata in fiore. Nell’atmosfera candida della scena seguente quattro scultorei alberi di pesco dominano il palco: mi sono tornati alla mente i finali di due film: The cell diretto da Tarsem Singh e L’ultimo samurai (The Last Samurai) di Edward Zwick. Due personaggi bizzarri piantano a terra degli iris. La giovane, vestita con un kimono dai colori del fiore cade morta, ma risorgerà nei fiori che ora portano il suo nome. Nella scena finale dell’opera, come in Madama Butterfly, il grande palco bianco s’inclina verso il pubblico mettendo in evidenza il corpo di Iris mentre dall’alto scende un tulle bianco con la raffigurazione manga di Iris bambina. Nelle diverse riprese ci sono stati dei cambiamenti significativi? No, abbiamo solo modificato in parte lo spazio per metterlo in rapporto alle dimensioni dei vari palcoscenici e alla visibilità del pubblico in sala. Quali materiali sono stati utilizzati? Ispirandomi al cartoon ho voluto utilizzare colori molto decisi, il bianco ed il nero. Questi ultimi sono il colore del lutto nella cultura occidentale (nero) e in quella orientale (bianco). Gli Hanamici nero opaco scorrono su un pavimento nero ma lucidissimo, realizzato con bilaminato plastico, su cui giocano continuamente i riflessi degli elementi che vengono spostati sulla scena. Quinte e fondali sono in PVC grigio chiaro in modo da assorbire e riflettere luci e colori. Chiudono la sequenza fondali in tulle gobelin, tela dipinta ed oggetti fortemente colorati (il pino blu, il verde dello Yoshiwara e gli alberi di pesco fucsia) che convivono con i colori dell’iris – viola, giallo, verde – che si riscontrano in ogni scena della rappresentazione.