“N”, inserto culturale del “CLARIN” (quotidiano di Buenos Aires) 22 dicembre 2007 ULTIMO RIFUGIO PER L’ULTIMO DEI PAGANI L’orientalista e induista Alain Danielou, del quale ricorre il centenario dalla nascita, trovò nel lontano Zagarolo (vicino Roma) l’ultimo grido del paganesimo occidentale. Lì costruì una casa labirintica provando a unire le tradizioni religiose dell’India e dell’antica Europa. Questa cronaca percorre il luogo e l’intesa vita di Danielou Non deve essere stato facile per il pittore Edward Mac Avoy dipingere il ritratto di Alain Danielou, il musicologo, ricercatore, scrittore e viaggiatore francese, divenuto negli anni uno dei più eminenti orientalisti contemporanei, del quale nel 2007 si è celebrato il centenario dalla nascita. La vita di questo studioso e filosofo del XX secolo amante del pensiero libero da ogni convenzione ha attraversato numerose fasi entrando in contatto con diverse culture, religioni, discipline artistiche e modi di affrontare il destino. Nato a Losanna in una famiglia borghese e cattolica si è sentito subito a disagio a contatto con una madre molto religiosa e protettiva, un padre Ministro anticlericale e un fratello destinato a diventare Cardinale, al punto da vivere un’infanzia malaticcia e sentirsi dire dai medici che non avrebbe vissuto a lungo. L’esistenza di Alain Danielou, invece, si rivelerà lunga, intensa e caratterizzata da diverse fasi. A differenza di quello che pensavano i dottori francesi, questo artista poliedrico che un giorno decide di fare tabula rasa della sua cultura di origine, vive ben 87 anni godendo sempre di ottima salute, conducendo una vita in perenne movimento ed essendo particolarmente produttivo a livello intellettuale e artistico. E’ stato sicuramente un compito arduo per Mac Avoy sintetizzare in un'unica immagine le tante sfumature della vita di quest’uomo capace di liberarsi dalla zavorra di una cultura che non sentiva propria, di convertirsi all’induismo acquisendo una nuova identità, quella di Shiva Sharan (il protetto di Shiva) e di adempiere al compito assegnatogli dal Destino, quello che di fare da ponte tra due civiltà, l’Occidentale e l’Orientale. Oggi questo enorme dipinto che scrutò la sua anima, grande 2x2 metri, è appeso, riempiendo un’intera parete, nella sua casa di Zagarolo, piccolo centro in provincia di Roma, in Italia, dove lo studioso morì nel 1994. “Mac Avoy mi rappresentò come una strana figura che guarda all’Occidente con sottile ironia. Ornò il ritratto di un simbolismo orientale che aggiungeva ancora più rilievo alla canzonatura segreta del viso” scrive Danielou nella sua autobiografia “La via del Labirinto. Ricordi di Oriente e Occidente” il cui titolo fa riferimento proprio alla sua residenza italiana che sorge su un Colle chiamato Labirinto, concetto e simbolo della vita terrena al quale lo studioso era molto legato. Per Danielou il Labirinto è “uno di quei luoghi dove aleggia lo spirito e regna la pace”. Dopo aver viaggiato per mari e montagne, aver fatto il giro del mondo in roulotte nel 1936 e aver vissuto in India per oltre trent’anni, dove fu allievo e assistente del poeta Rabindranath Tagore, ha trovato il luogo per svelare il suo Labirinto a Zagarolo. Ad attiralo verso la campagna romana sono state la sacralità e l’arcaicità evocata dai suoi spazi e i suoi colori. “Zagarolo – spiegava - è uno di quei luoghi magici dove si incontrano gli influssi celesti e quelli terrestri e si avverte la presenza degli dei”. Dopo numerosi viaggi in Italia, da Taranto a Napoli, da Venezia ad Amalfi, scopre Zagarolo negli Anni ’60 grazie a un amico e collaboratore svizzero, il fotografo Raymond Burnier, che aveva comprato un pezzo di terreno nella zona per costruirvi una casa. Danielou va a trovarlo e si sente subito a suo agio in questa terra che custodisce segreti. Rimane folgorato dal misticismo emanato dalle colline, i vicoli stretti e i sentieri alberati e decide di edificare una villa per trascorrervi i periodi di vacanze. Il silenzio della campagna di Zagarolo - che gli porta alla mente il dio Zag, l’antico Zeus cretese, e che gli ispira il libro “I racconti del Labirinto” - lo aiuta inoltre nella concentrazione per la meditazione, la lettura e la scrittura. Durante l’edificazione della casa scopre anche dei resti archeologici, frammenti di colonne di marmo rosa, architravi e una vasca di tufo che gli confermano l’idea che quel posto che trasuda sacralità un tempo era l’ingresso per un Santuario o un Tempio. La scoperta del nome del colle dove era sorta la sua casa poi gli conferma ulteriormente di trovarsi in un luogo magico. Questo colle suggestivo per gli zagarolesi simboleggia la strada di avvicinamento all’Aldilà perché costeggia il cimitero della cittadina costruito nel 1870. Per un perfetto gioco del destino quella strada, oggi intitolata a Danielou, lo condurrà alla morte. Il musicologo trascorre a Zagarolo i suoi ultimi anni di vita, nella “pace” che aveva cercato in giro per il mondo e che aveva trovato solo a in questa cittadina da lui considerata, “insieme a Preneste, l’attuale Palestrina (dove si trova il Tempio della Dea Fortuna), il luogo più sacro del mondo antico”, situato a 6 km da Zagarolo. “Per Danielou la società zagarolese era la più pagana d’Europa, libera da qualsiasi ideologia” racconta Jacques Cloarec, suo assistente dal 1964. “Quando Alain, nel 1958 – aggiunge - tornò in Europa dopo trent’anni di India si sentì uno straniero in terra natia e si trovò di fronte a un Paese malato, un Occidente “nemico della natura e della creazione e ostile verso la sessualità”, e il disprezzo del colonialismo, l’imperialismo, il comunismo e le religioni monoteiste si amplificarono. Pur essendosi convertito all’ortodossia indù, ha sempre rispettato ogni ideologia e ogni religione e non ha mai tollerato nessuna forma di costrizione. Non si sentiva un guru, né un profeta, ma desiderava insegnare il diritto alla diversità. Solo in Italia (a Venezia aveva anche fondato l’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati) e in particolare a Zagarolo riuscì a trovare conforto e pace”. La sua casa sul Colle Labirinto è l’espressione di questo modo di essere libero e aperto. Soffrendo di claustrofobia e avendo paura del buio costruì la villa con numerose porte e finestre e dotò ogni stanza di uscite di sicurezza. “Abbiamo aggiunto parti della casa di anno in anno e solo a un certo punto ci siamo accorti di aver creato un Labirinto di 800 mq fatto di stanze dalla forma irregolare, balconi e terrazze e molti corridoi e scalette interne” dice Jacques che ancora vive nella villa oggi suddivisa in varie parti e abitata di diversi nuclei familiari. “Il percorso labirintico può simboleggiare la ricerca di un senso alla propria vita. Per molti rappresenta trovare una via d’uscita, che molto spesso diventa una fuga. Per Danielou era il contrario. Penso che non si ponesse il problema di uscire dal groviglio, ma di entrarvi per arrivare all’inconoscibile, all’ignoto, alla vera essenza della vita e, forse, inconsciamente fu attratto da Zagarolo perché è un luogo mistico, sacro e libero come lui desiderava fosse il mondo. ”. Non è un caso che in questa piccola cittadina della campagna romana negli ultimi anni siano confluite diverse comunità religiose che convivono nell’assoluta tolleranza, dagli Are Krishna ai Padri Recostruttori, dai Testimoni di Genoa alla corrente di preti che segue Milingo, dai Francescani alle Suore Canossiane, dai Padri Rogassionisti alle Suore del Santassimo Salvatore, al Centro Maria di Betania. L’immagine di comunità legate da diversi Credo che coabitano lo stesso luogo rispettandosi rappresenta il sogno di Danielou: poter vivere in un mondo governato da “una giustizia sociale basata sul riconoscimento dell’ineguaglianza degli individui e della diversità dei loro ruoli”. Per lo studioso francese “ogni razza ha la sua ragion d’essere, le sue qualità, la sua bellezza, le sue capacità”, pertanto “l’egualitarismo diventa assassino”. “Si pretende di rendere eguali tutti i popoli, ma unicamente secondo il modello dell’europeo medio, pseudocristiano. – diceva - Nessuno si sogna di mettersi sullo stesso livello dei pigmei, dei Santal d’India o delle tribù indie dell’Amazzonia. La tradizione indù sostiene che esistono quattro ceppi iniziali, e quattro razze distinte comparse successivamente, ciascuna delle quali ha un ruolo essenziale per l’armonia del mondo”. Poco dopo il suo primo viaggio in India negli Anni ’30 Danielou afferma di non essere più un francese, ma “un indiano convertito all’induismo”. La distanza presa della cultura occidentale, dal cristianesimo e dal modo di vivere della sua famiglia sono quasi immediati dopo la scoperta dell’India. La cultura induista in particolare ha su quel ragazzo, che da bambino parlava con gli alberi e gli animali e inventava riti per gli dei della foresta, un impatto molto forte e gli permette di trovare l’equilibrio che stava cercando sin da piccolo. Quando riceve la Prima Comunione, scrive nella sua biografia: “già sentivo che la religione degli uomini non ha niente a che vedere con la realtà divina del mondo […]. Avevo l’oscura sensazione di essere stato scelto per un destino speciale e dovevo promettere di compierlo senza fare domande”. Danielou, infatti, sin da giovane non si pone interrogativi, ma va dritto per la sua strada, con coraggio, studiando con rigore e coscienza il pensiero di filosofi e letterati di diverse culture, nonché l’hindi, il sanscrito e il tamil, le antiche lingue indiane, per capirne profondamente il messaggio. Senza nessuna inibizione vive la sua omosessualità. Scopre il piacere del sesso a Saint John, in America, dove si reca per una borsa di studio nel 1926. E’ lì che incontra il dio dell’amore che ha le sembianze di un giocatore di baseball, “un colosso di vent’anni alto più di due metri”. “Venne una sera in camera mia – racconta nel libro – mi prese fra le sue braccia e non chiese il mio parere. Di colpo tutto si illuminò, una incredibile voluttà pervase interamente il mio corpo. Mi dissi: “C’è dunque un dio perché tanta felicità sia possibile””. Danielou ebbe continue occasioni per viaggiare sin da adolescente, dall’Afghanistan all’Algeria, ma il vero grande viaggio fu quello che intraprese nel 1936 con Raymond Burnier in giro per il mondo, dal Giappone alla Cina, da New York a Los Angeles, fino in India in roulotte (“era la prima che si vedeva lì”). “L’arte di viaggiare sta nel lasciare a casa le proprie abitudini” diceva e infatti Danielou segue questa regola alla perfezione, anche in India dove si trasferisce poco dopo. E’ Benares, città santa sul fiume Gange, a farlo sentire a casa. A Santiniketan incontra Tagore del quale apprezza subito lo sguardo ironico sulla vita (“quando lo vidi sembrava il Sultano di Baghdad in un racconto delle “Mille e una notte””). Lavora con lui nella sua scuola di musica e, nel 1947, al momento dell’Indipendenza dell’India, il poeta gli chiede di orchestrare due sue canzoni, “Jana Gana Mana” e “Bandè Mataram”. La prima diventerà inno nazionale e la seconda canto nazionale dell’India. La musica, come la pittura, la danza e il canto, hanno avuto un ruolo centrale nella vita di Danielou – inventa anche uno strumento musicale, il Semantic (una tastiera con 36 tasti) - , ma a rendere speciale il suo destino è l’essersi integrato con gli indiani ed esser riuscito a farsi accettare come uno di loro. Dell’India amava la libertà. “Alain era contro i menu fissi, come al ristorante, e diceva sempre: “In India ognuno fa la sua scelta” racconta Jaques. Danielou disprezzava gli intellettuali europei perchè, a differenza di quelli indù che filtravano la spiegazione di ogni sapere con sei metodi (cosmologia, yoga, riti, metafisica, scienza e logica), cercavano di imporre la loro Bibbia, i loro tabù e le loro verità con approssimazione. “Sono rimasto sorpreso dalla loro incoerenza nei concetti, dell’ingenuità delle convinzioni e della mancanza di rigore dei ragionamenti” scrive sottolineando che in Europa “quello che si chiama Ideologia si trasforma in una cieca credenza” e attacca in particolare i francesi che “amano discutere, ma temono le conclusioni”. Del mondo indù amava anche il rispetto per il sapere “considerato come un’eredità che si riceve e si ha il dovere di trasmettere aggiungendovi, se si è capaci, eventuali elementi di sviluppo e aggiornamento”. Il ruolo di Danielou è stato anche questo: far arrivare a noi un sapere, e un profondo sguardo critico su di esso, in un momento storico in cui entrare in contatto con mondi e culture lontane non era semplice e immediato come oggi, ma un’esperienza da sognare, costruire, sudare. Francesca Bellino