Volo d`Aquila al centro d`Italia e oltre!

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Numero 85 - Anno XVI/2 - Maggio 2015
E dito in proprio da: As sociazione Nazionale A lpini - S ezione di Milano - Gruppo Milano Cent ro “ Giu lio Bedes chi”
Redazione: Via Vincenzo Monti 36 - 20123 Milano - tel. 02 48519720 - Responsabile: A lessandro Vincent i - Inviato gratis ai Soci.
S it o w eb: ww w.alpinim ilanocent ro.it E -m ail: alpindeldomm @alpinim ilanocent ro.it
Volo d’Aquila al centro d’Italia e oltre!
Cari soci,
come è ormai tradizione di questo
giornaletto del Gruppo Alpini Milano
Centro, e soprattutto di alcuni dei suoi
soci di più antica e rotonda data, Vi
segnaliamo alcune possibilità di tappa
e ristoro sulla via che mena all’adunata de L’Aquila 2015.
I Km da Milano alla città delle cento
cannelle sono ben 684,9, per cui più
imperativa si fa la necessità di sostare,
rinfrescarsi, rifocillarsi. Per non arrivare all’Adunata troppo stanchi sarà
anzi bene prendersi del tempo per la
andata, ed ancor più per il rientro, per
ritornare riposati agli usati impegni.
Non si può certamente abbandonare la
nostra bella Lombardia senza visitare
Casalpusterlengo dalla bella torre merlata. La cittadina ha per altro dato i
natali a Pietro Signorini, (1871-1916),
cavaliere del lavoro, industriale conserviero fondatore della Società Generale delle Conserve Alimentari CIRIO,
oltre che a famosi sportivi, ciclisti,
cestisti, calciatori. Sarà stata l’aria a
dare loro lo sprint? La buona alimentazione? Nel dubbio, bisogna fermarsi,
magari alla Locanda del tempo perso.
Potete provare il grana in pastella, il
dolce con il mascarpone ecc. Se poi
riuscite a rotolare fino all’uscita, e
avete chi non rischia di essere pizzicato alla prova del palloncino, potete
proseguire fino a Rubiera, alla Clinica
Gastronomica di Arnaldo, presso l’Albergo Aquila d’Oro. Ovviamente non
per la questione della clinica (ma chi
sarà mai interessato alle carni, al pane
fatto in casa?) quanto per il fatto che
l’Aquila d’Oro svetta su ogni nostro
vessillo e gagliardetto. Locale storico, stanze spaziose, arredamento
premoderno, confort moderno. Chi
invece non volesse arrivare fino a
Rubiera, può fare una deviazione nel
parmense, a Torrechiara. Nel castello
della cittadina in estate si tiene un
piccolo festival musicale, di classica
ed altro. Ma più sonori risuonano al
tocco ed al palato i prosciutti ed i
salami dell’albergo-salumeria Gardoni. Vi si trova persino la spalla cruda,
da mangiare sul posto: il trionfo del
Maiale. Col far del giorno ci si può
dirigere verso il Passo della Raticosa,
a 968 m s.l.m. sulla strada tra Bologna e Firenze: dal crinale del passo
diparte infatti verso nord la strada
provinciale che discende la valle del
torrente Sillaro, che dopo pochi chilometri si biforca, per discendere oltre al corso d'acqua sopra citato - la
valle dell'Idice. Proseguendo, invece,
lungo la ex SS65 in direzione sud si
raggiunge il vicino passo della Futa a
903 m s.l.m., posto sullo spartiacque
appenninico sulla strada realizzata
nel 1759. Alla Raticosa un piccolo
bar offre un cafferino, la Futa è più
strutturata per le nostre esigenze.
Inoltre in quei luoghi passava la Linea Gotica, di cui rimane, oltre ai
resti delle postazioni, un cimitero di
guerra. Di fatto lo sfondamento della
linea è avvenuto nel settembre 1944
nell’adiacente Giogo di Scarperia.
Continuando controcorrente rispetto
allo sfondamento, propongo di byAlpin del Domm – 1
passare Firenze, città che sforna vieppiù
ministri e sottosegretari. A meno di non
voler cercare un trippaio per la semelle
col lampredotto, possibilmente con la
salsa verde. L’olio piccante da alcuni
oggi usato per condire ‘sta trippa mi sa
tanto di pizzeria di seconda. Potete andare da Ancilli, da Nencioni, da Torrini
o, se preferite rimanere fuori Porta Romana per questioni di traffico, da Albergucci. Coloro che seguono il consiglio
di non fermarsi nella città del sindaco
d’Italia possono proseguire per Pontassieve, e fare tappa al Maccherone. Locale che offre privacy, i giusti abbinamenti
per primi, carni (siamo in Toscana!)
dolci e vini (siamo in Toscana!!!). Consiglio poi di tornarci in autunno, a Pontassieve, per funghi e altri miceti. Volge
l’ora della ricerca dell’alloggio notturno.
Montevarchi? Arezzo? Ricordiamone il
poeta, l’Aretino, che il Giovio così ricordò: Qui giace l'Aretin, poeta tosco: |
Di tutti disse mal fuorché di Cristo, |
Scusandosi col dir: non lo conosco. Per
il pernotto mi permetto di proporre Il
Pomaio, ristorantealbergo sulla montagna che sovrasta la
città, che di sera sembra una trine di
gioielli. Nella cantina
la sala da pranzo, tra
esposizioni di bottiglie e candele – che
fanno tanto ambiente.
Tovaglie che scendono al piede del tavolo, argenteria pesante
ma cucina leggera! E
soprattutto ricca dei
prodotti del luogo,
formaggi, verdure, carni, mieli, olio e
vino. Stanze ampie. La mattina, colazione internazionale e poi via, per Passignano sul Trasimeno. L’amenità del
luogo richiede una sosta prolungata.
Con tanta bellezza, perché fare le ferie
all’estero? Certo che se non ci fossero
quei capannoni a cento metri dal lago …
Comunque! Dove ci possiamo fermare?
Al Museo delle barche? Sapevate che da
Passignano è partito nel 1889 il primo
battello a benzina? Si chiamava Concordia, ma ebbe maggiore fortuna di
quell’altra arenatasi sottoCosta. Già che
siamo sul lago, fermiamoci dal Pescatore, e annaffiamo la giornata con un Grechetto dei Colli del Trasimeno. Per farci
perdonare tanti eccessi dobbiamo per
forza proseguire per Santa Maria degli
Angeli in Porziuncola di Assisi, per de-
purare il corpo col digiuno e lo spirito
con la contrizione. Dedicarsi ai distillati
dei frati sarebbe, in questo caso, controproducente. Manca poco, già si sente
l’odore de L’Aquila. Riprendendo il
mezzo di trasporto, si può arrivare alla
Cascata delle Marmore. A maggio il
rilascio dell’acqua è dalla 12.00 alle
13.00 e dalla 16.00 alle 17.00, nei feriali, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00
alle 22.00 il sabato. L’orario della domenica non ci interessa: saremo in
Abruzzo … Interessante la vicina zona
archeologica di Carsulae. Duces alpinorum ut Carsulas venere, paucos ad requiem dies sumunt, donec aquilae signaque legionum adsequerentur. Et
locus ipse castrorum placebat, late prospectans, tuto copiarum adgestu, florentissimis pone tergum municipiis.
(Tacito, Hist., III, 60). Alla taberna Antica Carsulae possiamo assaggiare la
pasta fritta con guanciale tagliato sottile.
E basta così! Bisogna infatti trovare un
altro guanciale, quello su cui poggiare il
capo per la notte.
Un balzo e si arriva
a Cittaducale, lungo la via Salaria,
strada
consolare
romana, a 10 chilometri da Rieti. Alle
sue spalle, a nord,
si innalza il Monte
Terminillo
(m.
2.216), ai suoi piedi scorre il fiume
Velino. Cittaducale
è stata abruzzese
fino al 1927! Nella
provincia del Secondo
Abruzzo
Ulteriore, con capoluogo L’Aquila. Siamo quindi praticamente arrivati! Ma, dove guancialare?
Forse meglio tornare a Rieti … il centro
d’Italia, come ci ricorda la lapide in
Piazza S. Rufo. A meno che non siate
ospitati nella Caserma Verdirosi dove
aveva sede il I Battaglione NBC Etruria,
scuola specializzata sulle armi non convenzionali, potreste trovare rifugio al
Miramonti. La mattina seguente, dopo
lauta colazione, salutato l’umbilicus
italiae, salutato anche il Vespasiano,
non si può che partire per la periferia,
che per gli Alpini però è il centro
dell’anno. L’Aquila! Arriviamo! Volando! Si ripassa Cittaducale, Antrodoco,
Sella di Corno e TOMBOLA! Dove
mangiare e dove dormire, adesso, è tutto
un altro problema …
il vostro Virgilio
… quei che menava Dante
2 – Alpin del Domm
Ripris nata la guardia d'Onore al
Sacrario dei Cadu milanesi
Dal Marzo del 2014 è tornato il Pic‐
che o d'Onore al Sacrario di tu e le
guerre vicino alla bas ilica di S. Ambro‐
gio a Milano. Il Comune di Milano con l'Associazione Amici del Sacrario e amici del Tricolore e delle forze Arma te hanno s pulato una convenzione pe r ripris nare la guardia
d'Onore al Sacrario. Le diverse Ass ociaz ioni Comba en s ‐
che e d'Arma presen a Mila no hanno organizzato turni di guardia con volon‐
tari il mercoledì il sa bato e la domenica
dalle 9.00 a lle 12.00 e dalle 13.30 alle 17.00. In questo modo i ci adini milanesi potranno avere una occasione in più pe r visitare un luogo di mem oria storica e onorare e commemorare chi si è sacrifica to pe r la Patria. Il Sacrario venne inaugurato il 4 Novem‐
bre 1928 in occasione de l de cennale della fine della grande guerra, con una grande ce rimonia presie duta dal Duca d'Aosta. Gravemente danneggiato durante i bombardamen de l 1943, il Sacra rio venne ricos truito e ampliato nel 1973, con i nomi di 10.000 cadu mila nesi scolpi nel bronzo, e con un ossario dove sono tumula i res dei Cadu . All'ingresso del mausole o, su pianta o agonale, una grande statua in bronzo alta cinque metri, di S. Ambrogio che calpesta i se e vizi capitali,opera di Adolfo Wildt. il 1° Novembre 2014 la Sezione di Mila‐
no, nella parte bassa del Sacrario ha posto con una solenne cerimonia una lapide a ricordo di tu gli alpini anda
avan , in marm o di Candoglia, lo stesso del Domm di Milano. Con il Ge nerale Pennino, e il Colonne llo Arnò, hanno presenziato il Vessillo Sezionale con il Presidente Boffi, il gagliarde o del Gruppo Milano Centro, con il Capog ruppo Vincen e ven due gagliarde dei Gruppi sezionali. Anche L'Ass ociaz ione Nazionale Alpini
Sezione di Milano ha subito aderito alla Guardia d'Onore, con turni di volontari il sabato, io stesso ho avuto l'onore di fare tre turni di guardia, una esperienza sempre comm ovente e un'occasione per far conoscere ai m iei conci adini e ai turis di passaggio un luogo della memoria patria di grande importanza storica e morale. Fabrizio Balliana
libera alle mire italiane in Cirenaica e
Tripolitania e creando anche l’opportunità all’Italia di stipulare in gran segreLa pre messa
"La crisi sanguinosa del 1914, del ter- to, nel luglio dello stesso anno, per meribile e indimenticabile Luglio, scop- rito degli sforzi di Prinetti, l’accordo di
piò come folgore per le folle ignare e neutralità tra Francia e Italia. La Francia
inconsapevoli, ma non già per chi da canto suo aveva tutti gli interessi a
considerava nella sua brutale e men- salvaguardarsi il fianco italiano; nel
zognera realtà la malsicura e falsa- mentre profondeva miliardi alla Russia
mente idilliaca situazione europea." dello Zar per assicurarsi una solida e
Così cominciava Andrea Busseto, nel sicura alleanza in caso di guerra. In queprimo dopoguerra, scrivendo delle sto scenario non ci possiamo dimenticamotivazioni che portarono al conflitto. re della “furba e perfida Albione”. L’Indi Renzo Giusto
la prima volta, nel ’14, il doloroso anniversario era anche festa di liberazione e di gioia perché si celebravano le
vittorie militari serbe sui turchi e bulgari. Ai serbi, inoltre, era noto il piano
espansionistico dell’Arciduca: trasformare la duplice monarchia in triplice.
Impero d’Austria, Regno d’Ungheria,
Regno di Slavonia ed in quest’ultimo
doveva essere assorbita la Serbia.
Non dimentichiamo che i serbi avevano subito l’annessione da parte
dell’Impero della Bosnia-Erzegovina
L'Incendio europeo e L'Italia - Gli accadimenti, l'art.VII, il Governo Salandra
Era chiaro a molti, ma non al popolo,
che i governanti e le teste coronate
d'Europa sapevano perfettamente
quanto fosse fragile la situazione politica internazionale e ciò non di meno
continuarono nel loro balletto che distribuiva sorrisi e promesse da
una parte, nascondendo velenosi intrighi carichi di odio
dall’altra. Sentimenti nei quali
primeggiava l’Austria - Ungheria, che, tanto per cambiare, aveva mire egemoniche e
di conquista rivolgendo il suo
sguardo su Italia, Russia, Serbia e Montenegro. Sembrava
quasi che la guerra fosse per
gli Asburgo un modo per risanare la decadente monarchia
non considerando che i tempi erano
cambiati e che il vento della libertà e
dell’autodeterminazione dei popoli
cominciava a soffiare sul continente.
Non da meno era la Germania. Degna
compagna d’intenti oltre che di lingua
e tradizioni guerresche navigava in
questo clima infuocato mostrando i
muscoli, sostenendo un’immagine
che, comunque, mal si rapportava al
Kaiser Guglielmo II ormai vecchio e
malandato. Ma da sempre esistono "i
poteri forti”, quelli capaci di instradare
volontà e capacità di una nazione piegandole al loro tornaconto.
E l’Italia?
L’Italia era legata a Germania ed Austria dalla Triplice Alleanza, stipulata
il 20 maggio 1882, desiderosa di rompere il suo isolamento, dopo l'o ccupazione francese della Tunisia alla quale
anche Roma aspirava.
Alleanza che ebbe comunque ben 3
revisioni sostanziali: 1887, 1891 con
la revisione dell’Art. 7 (di cui ci occuperemo più avanti), 1902 che diede via
ghilterra si barcamenava tra Francia
Germania e Russia tutto promettendo e
nulla concedendo, lasciando sperare
senza mai impegnarsi sino in fondo,
preoccupata solo di proteggere il suo
predominio continentale per il quale
aveva già abbattuto Napoleone I.
In quel periodo le altre nazioni, specie
nella sempre irrequieta regione balcanica, si barcamenavano ammiccando chi
da una parte chi dall’altra, facendo sentire di continuo la loro voce in attesa
che qualcuno le autorizzasse a fare la
prima mossa.
Il brusco risve glio: Saraje vo
Così l’Europa ebbe un brusco risveglio
il 28 giugno 1914, quando saettò per i
fili del telegrafo la notizia che l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la
di lui consorte erano stati “trucidati” a
Sarajevo da irredentisti Serbi. La miccia
fu innescata dallo stesso erede al trono
d’Austria. Egli infatti scelse con brutalità teutonica, come era nel suo carattere,
per la sua visita ufficiale in terra serba
irredenta, un giorno di particolare sensibilità per i patrioti serbi: l’anniversario
di Kossovo. I serbi in tale giorno
(ancora oggi) commemorano con preghiere e feste popolari la loro più grande sconfitta: quella ad essi inflitta, cinque secoli prima dei fatti, dai turchi. Per
nel 1908 dopo l’occupazione dal 1878
in barba a convenzioni e trattati minando lo stesso equilibrio europeo.
Così in quell’infausto giorno per l’Europa l’Arciduca si presentò, in tutta la
sua pompa, accompagnato dalla sua
modesta consorte boema, che la
corte viennese mal sopportava e
l’Imperatore Francesco Giuseppe
ferocemente osteggiava.
Mentre la sua auto passava tra la
folla di doverosi bosniaci festanti, poco lontano una bomba scoppiò facendo cambiare il sorridente e compiaciuto Arciduca in una
maschera di dura collera e cieca
rabbia.
Il corteo arriva finalmente al Municipio, Così viene descritta la
scena all’epoca: “Autorità comunali,
governative e militari non sanno nascondere la loro inquietudine. L’Arciduca, terreo e tetro, investe il Borgomastro che balbetta il suo discorso
d’occasione”. La scena in quel piccolo comune di provincia è meschina,
buffa, rasenta il ridicolo. A renderla
tale contribuisce la poca serenità di
Sua Altezza, la goffaggine piccolo
borghese della sua consorte ed il servile, quanto inutile e scontato, oltre che
poco sincero, contegno delle autorità
di Sarajevo e del seguito arciducale.
Continua la cronaca: ” Il corteo esce
dal municipio e la variopinta folla
bosniaca batte forte, forte le mani.
Pallidi sorridono gli imperiali regi
consorti mentre le autorità finalmente
respirano. Bruscamente si odono due
colpi secchi di pistola: sparate con
sorprendente precisione le due pallottole raggiungono il bersaglio: la prima colpisce mortalmente all’aorta
l’Arciduca, la seconda squarcia l’addome alla nobile consorte.
Alpin del Domm – 3
Ambedue muoiono istantaneamente.”
Nessuno piangerà sinceramente questo
assassinio; non l’Imperatore, non il
Governo, non il Paese. Ne tanto meno
il cinico e bugiardo ministro degli
esteri conte Berchtold, a cui il fatto di
Sarajevo darà il pretesto tanto cercato
e desiderato di dare fuoco alle polveri
strozzando la Serbia senza dare tempo
agli altri di intervenire a tempo. Berlino acconsentiva.
Gli avvenimenti
23 luglio – 4 agosto
In quel periodo aleggiavano sentimenti di smarrimento e di terrore. Si susseguivano ore di drammaticità intensa e
di attesa spasmodica del fatto. Nel
mentre tutte le convinzioni vacillavano. Fedi, dottrine e dogmi non bastavano più ed erano destinati a scomparire se non a mutare. Popoli e razze si
dovevano ancora una volta trovare di
fronte per misurarsi, ignari fin dove li
avrebbe condotti la pugna.
23 luglio - ore 18
Il Ministro austriaco a Belgrado, barone Giesel von Gieslesen, consegnava,
come Ultimatum al governo Serbo, la
famosa “nota”.
“In pratica si chiedeva alla Serbia: il
suicidio ed il disonore.”
24 luglio
La mattina del 24 luglio gli ambasciatori austriaci in Germania, Francia,
Inghilterra, Russia, Italia e Turchia
comunicavano ai rispettivi governi i
testi della nota inviata alla Serbia.
La gravità della nota era palese e altrettanto palese era che la Serbia non
poteva sottostare alle imposizioni
(brutali) dell’Austria. Altrettanto chiaro era che la Germania appoggiava
l’operato asburgico, sino in fondo e
senza riserve. Nel frattempo il ministro degli esteri russo Sazanoff telegrafava a Vienna chiedendo di prolungare i limite di tempo di 48 ore fissato
dall’Austria alla Serbia per la risposta,
in modo che “le grandi nazioni potessero intervenire con consigli di moderazione sia da una parte che dall’altra.”
Contemporaneamente, quasi supplicando, il Principe reggente di Serbia,
Alessandro, telegrafava allo Zar pregandolo a nome del suo popolo di intervenire:” Siamo pronti ad accettare
molte condizioni proposteci dall’Austria, ma non possiamo disonorarci.
Consigliateci Voi Maestà”.
25 luglio
4 – Alpin del Domm
Il barone Macchio, primo sostituto del
Ministro degli esteri austriaco, comunicava il rifiuto della proroga.
A Belgrado nello stesso giorno alle
17,40, il primo ministro serbo Pasic,
consegnava la risposta alla nota nelle
mani del ministro austriaco.
Dopo soli 12 minuti il Ministro austriaco chiedeva i passaporti per se e per il
personale.
ERA LA GUERRA!
Di fronte a questi accadimenti la Russia
non poté restare indifferente. Era in gio-
co l’annientamento dello stato slavo. Ci
fu una mobilitazione parziale di truppe
ai confini austriaci e contemporaneamente agì per via diplomatica nel tentativo di costringere l’Austria ad un arbitrato internazionale.
La storia ci dice che fu vana illusione.
L’imperatore Guglielmo interrompe la
sua crociera nel mare del nord e rientra
a Berlino. Il presidente francese Poincarè rientra dalla Russia senza visitare
Norvegia e Danimarca come da programma. Lo zar risponde al telegramma
serbo dicendo di confidare nelle trattative ma che comunque: “in nessun caso
la Russia si disinteresserebbe della sorte della Serbia!”
Ma la guerra tra Austria e Serbia ebbe
subito inizio. La Germania entra subito
in scena ad assumere la propria parte e
l’Inghilterra caldeggia immediatamente
un confronto tra le grandi nazioni per
circoscrivere il conflitto e non far precipitare le cose tra Austria e Russia.
In questo contesto Sir Grey si incontra a
Londra con l’ambasciatore francese
Cambon e gli sottopone il suo progetto:
una mediazione pacificatrice fra Vienna
e Pietroburgo da parte di Germania,
Francia, Inghilterra ed Italia.
Sir Grey ne parla anche con l’ambasciatore germanico principe Lichnewsky e
lo prega di ottenere da Berlino una pressione presso Vienna affinché l’Austria
non precipiti l’azione militare. Ma la
Germania fin dal 24 luglio aveva mandato una nota ai Gabinetti di Parigi,
Londra e Pietrogrado nella quale pren-
deva apertamente le difese dell’Austria. La Russia, da canto suo, non accetta che l’Austria schiacci la Serbia.
Qui si svela il subdolo gioco tedesco.
La Russia vuole la pace e chiede che
l’Europa esamini e decida il conflitto
austro-serbo. La Germania vuole la
guerra e desidera che l’Austria agisca
autonomamente contro la Serbia. Nel
frattempo fa finta di tergiversare, certo
per prepararsi meglio agli eventi, e poi
dice che la Russia dovrebbe disinteressarsi della faccenda serba in quanto
Vienna dichiara di non avere mire territoriali in quella regione. (bugia!)
La proposta Inglese per la conferenza
fu accettata da tutti, tranne naturalmente la Germania. In caso contrario
la guerra sarebbe certo stata scongiurata
Tra il Kaiser e lo Zar inizia uno scambio di telegrammi dove il primo gioca
d’astuzia chiedendo la pace, il secondo fa di tutto per realizzare l’intento.
Ma Guglielmo sta solo prendendo
tempo per preparare la guerra.
29 luglio
A Berlino il cancelliere tedesco chiama l’ambasciatore inglese e gli notifica la volontà di sottoporre ad una conferenza di grandi potenze la nota inviata alla Serbia. (Ma come? Prima
no, poi si?) Infatti alla mezzanotte dello stesso giorno giungeva immediatamente a Sir Grey un dispaccio
dell’ambasciatore inglese a Berlino:
”se l’Inghilterra sarebbe rimasta neutrale in un eventuale guerra europea
qualora la Germania promettesse di
rispettare l’integrità dell’Olanda e di
non togliere alla Francia altro che le
sue colonie”.
Sicuramente a Londra capirono subito
che la Germania voleva la guerra.
30 luglio
E’ un giorno di stasi, di febbrili consultazioni interne da ambo le parti. Si
preparano le armi.
31 luglio
La Germania presenta alla Russia l’ultimatum di smobilitazione al quale
venne risposto negativamente.
1 agosto
Alle ore 17 l’ambasciatore tedesco a
Pietroburgo consegna la dichiarazione
di guerra al governo russo. Nello stesso giorno la Francia si mobilita.
2 agosto
La Germania invade il Lussemburgo
ed entra in Francia alla frontiera
dell’Est.
3 agosto
La Francia a mezzo del suo ambasciatore a Berlino protesta energicamente
per la violazione subita dalla Germania, la quale, com’era nel suo ormai
malcostume, prima nega che il fatto
sia avvenuto e poi alle 18,45 dello
stesso giorno fa recapitare dal suo ambasciatore a Parigi la dichiarazione di
guerra alla Francia. Contemporaneamente chiede sfacciatamente al Belgio
il permesso di passare sul suo territorio con le proprie truppe. Ovviamente
gli viene risposto un secco rifiuto.
4 agosto
Il Belgio si vede costretto a chiedere
aiuto a Francia, Inghilterra e Russia
contro la minaccia di un’invasione
Tedesca.
La Francia rispetterà la neutralità del
Belgio. Quando arrivarono le proteste
inglesi, lo stesso 4 agosto fu ordinato
l’attraversamento della frontiera belga
con la forza. Così in quella notte scoppio la guerra anche tra Germania ed
Inghilterra. Da ciò si evince la ferma
volontà austro-tedesca di innescare la
miccia della guerra che coinvolgerà
milioni di individui.
Ma quale fu ve ramente la causa?
La rivalità della Germania, ultima arrivata tra le nazioni industrializzate, con
la prima di tutte l’Inghilterra, per la
conquista dei grandi mercati internazionali. Oppure la paura dell’espansione dello slavismo e della Russia o ancora i sentimenti di rivincita della
Francia. Certo gli imperi centrali erano stretti in una morsa di interessi e in
quel periodo ognuno aveva da pensare
ai problemi di casa propria. Il Belgio
si crogiolava nella sua neutralità pensando solo a commerciare; la Francia
ogni tanto gridava revanche, revanche,
ma era una posa di pochi, mentre la
nazione si adagiava in un tripudio di
piacere e mondanità, figuriamoci se
aveva voglia di guerra e poi c’era il
fattaccio Caillaux che era già sufficiente a destabilizzare la società; e
nemmeno la saggia Albione che mai
prese parte a guerre di offesa sul continente, semmai prese le parti dell’aggredito, ovviamente con un occhio di
riguardo ai suoi interessi e poi doveva
pensare all’Irlanda in piena rivoluzione; nemmeno la Russia il cui sconfinato territorio già gli bastava a fargli
venire i mal di testa, a cui si aggiungevano gravissimi scioperi di carattere
rivoluzionario.
Chi dunque minacciava la Germania?
Forse la Germania approfittò del momento e per tramite dell’Austria, vedendo le altre potenze in un momento difficile convulso delle loro società tentò il
colpaccio. Ricordiamo che Francesco
Giuseppe, subito dopo il funerale del
nipote, si rivolse a Guglielmo II per un
consiglio, questi non esitò ad elargirgli
incoraggiamenti, plausi ed aiuti. Notare
che il Ministro degli esteri di Berlino,
appena tornato dal viaggio di nozze,
prese atto della nota di Vienna alla Serbia e pur vedendo il pericolo così ebbe a
dire parlando con Krupp von Bohlen:
“Io non avrei mai agito così, ma poiché
l’Imperatore ha fissato prima la sua
linea di condotta, ora non è più possibile nessun passo verso Vienna”.
Quindi è chiaro che tutto fu premeditato; prima l’attacco dell’Austria alla Serbia che scatenerà la reazione della Russia e poi a seguire il resto cercando di
far apparire la Russia come vera colpevole del conflitto.
Sicuramente in tutto ciò Nicola II, timido e debole monarca di natura veramente pacifista, non ha colpa di bellicoso. Si
adoperò sino allo spasimo per scongiurare l’irreparabile.
31 luglio
Alle 2 del pomeriggio scrive ancora a
Guglielmo: “Comprendo che sei costretto a mobilitare; desidero però da te
la medesima garanzia che io ti diedi,
vale a dire che codeste misure non significano la guerra e che continuiamo
le trattative”.
La sera stessa il conte Pourtales, ambasciatore a Pietroburgo, consegna a Sasonow la dichiarazione di guerra.
Nella notte giunge un telegramma del
Kaiser dove, 3 ore dopo la consegna
della dichiarazione di guerra, chiede di
evitare la minima violazione di frontiera
da parte russa. Lo Zar crede che sia una
sospensione della dichiarazione e telefona a Sasonow per fermare la partenza
dell’ambasciatore tedesco.
E’ l’alba del 1 agosto quando il conte
Pourtales risponde alla chiamata. Sta
mettendosi in viaggio ed è comunque
nelle sue funzioni. Così freddamente
risponde: “Nulla posso dire intorno a
questo dispaccio; forse è precedente
alla dichiarazione di guerra. Rivolgetevi all’incaricato di affari americano
che ha assunto la tutela dei nostri interessi. Noi partiamo.” Bruscamente
interruppe la conversazione.
L’Italia
Era chiaro che la guerra era stata voluta con un atto di aggressione da parte
di Austria e Germania. Queste due si
aspettavano di averci al loro fianco,
mentre il resto della comunità internazionale si aspettava da noi una presa di
posizione contraria o almeno non belligerante.
La Triplice Alleanza era di carattere
puramente difensivo e l’attacco a Serbia e Belgio erano chiari attacchi bellici finalizzati alla soppressione ed
all’annessione. L’Italia non poteva e
non voleva macchiarsi di questi atti di
fronte all’Europa. Aveva lottato, lei
per prima, per l’indipendenza e l’unità, non poteva per prima, ammettere
certi atti.
Già nel ’13 l’Austria durante i suoi
intermittenti conflitti con la piccola
nazione slava fece chiedere a Roma se
l’Italia l’avrebbe seguita in caso di
conflitto, secondo gli obblighi del trattato di alleanza. La paura di una grande Serbia, già vittoriosa con la Romania e Grecia sulla Bulgaria, irritava e
preoccupava Vienna a tal punto, che il
9 luglio 1913, si rivolse nuovamente a
Roma che, con regolare passo diplomatico, si sentì rispondere nettamente
dal marchese di San Giuliano:
“Essendo l’azione dell’Au-stria premeditata di carattere eminentemente
offensivo, l’Italia non riconosceva il
casus foederis”. Questa volta andò
bene e Vienna desistette.
Memore degli avvenimenti del ’13,
nel ’14 l’Italia venne tenuta all’oscuro
delle trame viennesi.
Berlino invece insiste nell’appoggiare
Vienna e quando si viene a sapere che
la Serbia acconsentirebbe a smobilitare e cedere l’Albania, Guglielmo II ne
rimane desolato. Egli scrive: “Sarebbe
un vero peccato! O ora o mai. Si deve
mettere ordine una buona volta laggiù”.
Questo prova ulteriormente la volontà
di Germania ed Austria di aggredire
l’Europa. E’ chiaro inoltre che sapevaAlpin del Domm – 5
no bene che l’Italia non li avrebbe seguiti mettendosi subito sul piano del
diritto.
Questo portò alla proclamazione della neutralità italiana da parte del governo di
Antonio Salandra il 2 agosto 1914.
Dalla Neutralità all’Interve nto
A dire il vero la neutralità
italiana fu “neutralità armata”. La nazione vigilava e si preparava
anch’essa allo scontro. Conscia dei
pericoli, la sua neutralità fu legittima
moralmente e giuridicamente. Per opera degli altri due contraenti, i quali
agirono senza nemmeno interpellarla,
la trentennale alleanza, che costituiva
un baluardo di pace in Europa, venne
meno e si trasformò in una coalizione
offensiva.
Gli articoli principali della Triplice
Alleanza non danno adito a dubbi od
interpretazioni di alcun tipo.
Diceva l’articolo III: “Se una o due
potenze contraenti, senza provocazione da parte loro, sono attaccate da
due o più Potenze non firmatarie del
Trattato, e vengono coinvolte in una
guerra con esse, sorge il “casus foederis” per tutti i contraenti”.
Perché l’Italia fosse obbligata ad intervenire a fianco dei suoi alleati bisognava che questi fossero stati provocati ed attaccati da Potenze estranee alla
Triplice. Il che di certo non avvenne
nel finire del luglio 1914.
D’altro canto l’articolo IV così sancisce: “Se una Potenza che non firmò
il trattato, minacciasse la sicurezza di
uno dei suoi contraenti, e il minacciato fosse costretto a dichiararle
guerra, gli altri due contraenti si obbligano ad osservare verso l’alleato
una neutralità benevola. Ciascuno
rimane, in questo caso, libero di partecipare alla guerra per far causa
comune con l’alleato.” Questo è probante che nei pensieri di Vienna e Berlino la Potenza che minacciava la loro
sicurezza era la Russia. Ma analizzando profondamente il contenuto dell’articolo è chiara la grossolana mistificazione, specie osservando obiettivamente la realtà delle cose.
Un gioco subdolo, pianificato a dovere, nel tentativo di passare per vittima
anziché carnefice. Merito del governo
italiano fu quello di capire subito l’arcano e di scegliere la neutralità.
6 – Alpin del Domm
Ma per quanto tempo? Con che ripercussioni socio-politiche? E poi una neutralità prolungata nel tempo
avrebbe diminuito il prestigio
internazionale dell’Italia ed
avrebbe, inoltre, tradito e
negato i principi nazionali
dai quali è assurta a dignità
di nazione dopo il doloroso
travaglio del Risorgimento.
Le trattative diplomatiche
svoltesi tra Italia ed Austria
sono raccolte nel Libro Ve rde , un volume che l’on. Sonnino presentò alle camere italiane nella storica giornata del
20 maggio 1915. Il primo documento
porta la data del 9 dicembre 1914; il
Ministro degli Esteri barone Sonnino
prega l’ambasciatore italiano a Vienna
Duca D’Avarna di far noto al Governo
austriaco quanto segue:
“L’avanzata
militare
dell’AutriaUngheria in Serbia costituisce un fatto
che non può a meno di formare oggetto
di esame da parte dei Governi italiano
ed austro-ungarico sulla base delle stipulazioni contenute dell’ar-ticolo VII
della Triplice Alleanza.
L’articolo VII del Trattato dice:
«Nessuno dei due contraenti può iniziare azioni guerresche nella penisola Balcanica senza accordo e consenso
dell’alleato».
Inoltre, per occupazioni di territori,
siano pure temporanee, oltre ad ottenere il consenso dell’alleato, occorre dargli dei compensi. Nell’occasione e per
meglio far risaltare la nostra rettitudine, dobbiamo rammentare al Governo
Imperiale e Reale che esso, fondandosi
appunto sul disposto dell’art. VII, ci
impedì, durante la guerra nostra contro
la Turchia, di compiere diverse operazioni militari che
avrebbero certo abbreviato
la durata della guerra stessa.”
Il Ministro degli Esteri austriaco conte Berchtold si
premurò di rispondere al nostro ambasciatore facendo
notare che l’Austria non aveva ancora
occupato stabilmente i territori serbi e
che Belgrado e Valievo sarebbero state
presto evacuate. Asserì anche che non
vi era paragone tra l’azione contro la
Serbia e quella italiana contro la Turchia. Noi mettevamo a repentaglio l’esistenza ottomana, loro si difendevano
dalla Serbia che minacciava l’integrità
della monarchia. Concludeva così: “l’I.
R. Governo non crede sia il caso, per
ora, di addivenire ad uno scambio di
vedute in proposito col R. Governo
Italiano”.
Non mancò la ferma, chiara e lucida
risposta dell’on. Sonnino: Telegrafando al duca D’Avarna: “Dite al conte
Berchtold che la sua interpretazione è
contraria allo spirito e alla lettera
dell’articolo VII.
Pel fatto dell’avanzata delle truppe
austro-ungariche in Serbia e della
occupazione di quel territorio, essendosi nominato perfino un Governatore
militare di Belgrado, deriva da codesto Governo l’obbligo dell’accordo
coll’Italia sulla base dei compensi.
Nemmeno possiamo accettare l’argomentazione sua riguardo il precedente
della guerra libica.
Allora, l’Austria, sulla base dell’artico-lo VII, ci impedì, non solo occupazioni momentanee, ma anche semplici
operazioni di guerra, come bombardamenti.
Non vale l’argomento che durante la
guerra libica lo status quo era minacciato da noi. L’articolo VII parla
espressamente dello status quo in
Oriente e nella regione dei Balcani e
non già dell’impero Ottomano come
tale. E la spedizione dell’Austria in
Serbia ha precisamente turbato lo status quo e l’equilibrio previsti dall’articolo VII.”
Così chiudeva l’on. Sonnino:
“Voglia l’Eccellenza Vostra tener presente che consideriamo come gravemente dannosa ai nostri interessi l’eventualità di prolungate conversazioni
con Vienna circa la interpretazione di
massima dell’articolo VII, mentre maturano gli avvenimenti che ci
facciano trovare di fronte a
fatti compiuti. Nel colloquio
che ella avrà dal conte Berchtold voglia confermargli
quanto le comunicavo col
mio telegramma del 9 corrente circa le tendenze che si
constatano nel Parlamento e
nella opinione pubblica; e circa la
somma opportunità nel comune interesse, di stabilire la relazione fra i
nostri due Paesi sopra una solida e
permanente base di fiducia e costante
amicizia”.
Le risposte dell’on. Sonnino furono
precise e circostanziate, ineccepibile
per forma e contenuto. Ma l’Austria
continuò ad essere sfuggente e subdo-
la. Il 20 dicembre del 1914 in un colloquio avvenuto a Vienna fra il duca
D’Avarna ed il conte Berchtold, gli austriaci si dicevano disposti a trattare i
compensi dell’Italia sulla
base dell’articolo VII.
In realtà prendevano tempo. Cambiano i giocatori: il
barone Burian succede al
conte Berchtold.
E’ chiaro che l’Austria
“trama” e ne è prova il colloquio tra D’Avarna e Burian il 18
gennaio 1915. Così risponde il secondo al nostro ambasciatore: “L’Austria
contro la Serbia fa una guerra difensiva, non essere quindi possibile parlare
della cessione dei territori; anche
l’Austria, sempre in forza all’articolo
VII, può chiedere dei compensi all’Italia per l’occupazione delle isole del
Dodecaneso e di Valona. Però studierò meglio la questione”.
Il 23 gennaio 1915 l’on. Sonnino richiese, sollecitando con forza, una
risposta conclusiva circa le pretese
dell’Italia sui compensi.
Per tutta risposta, Vienna il 28 gennaio, chiese all’Italia di avanzare le
proprie richieste. La situazione diventa
tesa e le parti si scontrano a colpi di
diplomazia con toni perentori.
L’on Sonnino incalza.
Il 7 febbraio replica affermando di
volere subito una risposta di massima
sulla
questione
dei
territori
“posseduti” dall’Austria - Ungheria.
Il 9 febbraio, duramente ma sfuggevolmente il barone Burian risponde: ”
la questione è grave, parlerò con gli
altri Ministri, col conte Sturgck e col
conte Tistza. Poi si vedrà, si parlerà,
si tratterà”.
Naturalmente non si fa aspettare la
risposta di Sonnino, che telegrafa al
duca D’Avarna il giorno 12 febbraio,
chiedendo di riferire, energicamente,
che erano ormai passati due mesi da
che furono posti i quesiti, sottolineando il palese desiderio austriaco a non
trattare. Tra l’altro rimarcava: “Di
fronte a questo contegno persistente
dilatorio a nostro riguardo, il Regio
Governo si trova costretto, a salvaguardare la propria dignità, a ritirare
ogni sua proposta o iniziativa di discussione e a trincerarsi nel semplice
disposto dell’art. VII.
Non ho bisogno di rilevare che se di
questa dichiarazione e del disposto
dell’art. VII il Governo austro-ungarico
mostrasse col fatto di non voler tenere
dovuto conto, ciò potrebbe portare a conseguenze
delle quali il Regio Governo declina si da ora
ogni responsabilità.”
La corda era palesemente
tesa, ma da Vienna il conte Burian facendo finta di
meravigliarsi della condotta del suo predecessore, tenta ancora di prendere tempo. Il 9 marzo l’Austria, messa
alle strette, acconsente alle trattative.
Hanno capito che l’Italia non scherza,
ha ferma intenzione di far valere il suo
diritto e che, allo stesso tempo, vuole
mettere allo scoperto le vere intenzioni
degli imperi centrali. L’on. Sonnino
accetta, ma pone delle condizioni:
“1 - assoluto segreto dei negoziati
2 – quando l’accordo sia concluso esso
dovrà portarsi immediatamente ad effetto.
3 – per eliminare nuove questioni ed
attriti ed il ripetersi di incidenti incresciosi, e per lasciare insieme la necessaria libertà di movimenti a codesto
Governo nella condotta della guerra,
occorre che l’accordo investa la intera
durata della guerra stessa in quanto
riguardi la possibile invocazione
dell’articolo VII”.
Ancora: “Quando codesto Governo
accetti queste basi ci dichiariamo pronti
a specificare le nostre domande restringendoci a quel minimo di compensi che
riteniamo indispensabile per raggiungere gli scopi stessi dell’accordo invocato,
cioè di eliminare durevolmente tra i due
stati le occasioni di attriti …”.
Purtroppo il 13 marzo il duca D’Avarna
avvisa l’on. Sonnino che il
Barone Burian non accetta le
tutte le condizioni, in particolare l’immediata occupazione dei territori ceduti in
caso di accordo. Bisogna
però aspettare l’8 aprile perché, finalmente, il nostro
Governo possa formulare le
proprie richieste ed inviarle a Vienna.
In undici punti furono descritte le nostre
richieste, che in realtà, erano modestissime, ma per noi importanti.
Di seguito i punti salienti:
“Art. I – L’Austria - Ungheria cede
all’Italia il Trentino coi confini che
ebbe il Regno d’Italia nel 1811.
Art. II – Si procede ad una correzione
a favore dell’Italia del suo confine
orientale, restando comprese nel territorio ceduto le città di Gradisca e
Gorizia.
Art.III – La città di Trieste col suo
territorio, che verrà esteso al nord
sino a comprendere Nabresina; al
sud compresi gli attuali distretti giudiziari di Capo d’Istria e Pirano, sarà
costituito in Stato autonomo e indipendente nei riguardi politici, internazionali, legislativi, giudiziari ed
amministrativi, rinunziando l’Austria
- Ungheria ad ogni sovranità su di
esso. Dovrà restare porto franco. Non
vi potranno entrare milizie austroungariche ne italiane.
Art. IV – L’Austria - Ungheria cede
all’Italia il gruppo delle isole Curzolari, comprendente Lissa, Lesina,
Cazza e Meleda.
Art.V – L’Italia occuperà subito i
territori cedutile. Trieste ed il suo
territorio saranno sgombrati dalle
autorità e truppe austro-ungariche.
Art.VI – L’Austria - Ungheria riconosce la piena sovranità italiana su
Valona e il suo Hinterland.
Art. VII – L’Austria - Ungheria si
disinteressa dell’Albania.
Art. VIII – L’Austria - Ungheria concederà completa amnistia e immediato rilascio a tutti i condannati politici
e militari provenienti dai territori ceduti e sgomberati.
Art. IX – Diverse obbligazioni d’indole finanziaria.
Art. X – L’Italia s’impegna a mantenere una perfetta neutralità durante
tutta la presente guerra nei riguardi
dell’Austria e della Germania.
Art. XI – Per tutta la durata della
presente guerra L’Italia rinunzia ad
ogni facoltà di invocare
ulteriormente a proprio
favore le disposizioni
dell’art. VII del Trattato della Triplice Alleanza; e la stessa rinunzia fa l’Austria Ungheria per quanto
riguardi
l’avvenuta
occupazione italiana delle isole del
Dodecaneso”.
Come dicevamo non erano richieste
importanti o di particolare rilevanza
per l’Impero. Si mirava all’accorpamento di quei territori dove da
sempre gli italiani erano stati sin dai
tempi della repubblica veneziana e
dove allora (prima dell’”epurazione
Alpin del Domm – 7
titina” nel secondo dopoguerra) si parlava normalmente italiano.
Il 13 Aprile arriva una comunicazione
telegrafica sconvolgente. Il nostro ministro Cucchi a Sofia comunica al’on.
Sonnino che “nei circoli politici di
Vienna si parla di pace con la Russia
per avere le mani libere contro l’Italia”.
Si attende comunque la risposta
dell’Austria, che giunge puntuale il 16
di aprile: “… assolutamente non accettiamo le proposte formulate agli
articoli 1, 3 e 4.
Soltanto nel Tirolo Meridionale possiamo allargarci in
concessioni.
Poi, niente occupazione immediata dei
territori da cedersi.”
Questo fu il risultato
di tre mesi di discussioni. Tra il 21 e il 25
Aprile continuarono i
contatti, che però furono sterili. Burian
non dava segnali di
distensione e tanto
meno volontà di arrivare ad un accordo. Il
25 aprile, sfinito ma tenace negli intenti, dopo ripetute pressioni andate a
vuoto, il duca D’Avarna telegrafa
all’on. Sonnino: “… un accordo con
l’Austria - Ungheria sulla base delle
proposte da noi formulate sembra
quasi irrealizzabile allo stato attuale
delle cose.”
Il 29 aprile la doccia fredda.
Arriva la prova della preclusione ad
ogni addivenire amichevole, al ricomporsi delle distanze e lo smascheramento dei veri intenti di Austria e Germania. In quella data il barone Burian
convoca al Ballplatz il nostro ambasciatore per “comunicazioni urgenti”.
Così si esprime il ministro austriaco:
“… malgrado la nostra più buona
volontà non possiamo accettare le
proposte dell’Italia perché esse toccano direttamente gli interessi dell’Austria - Ungheria.
Per Trieste l’autonomia è inutile in
quanto, date le cure paterne che Vienna ha sempre avuto per essa, quella
città gode già di una larga autonomia.
La cessione all’Italia delle isole Curzolari cozza egualmente contro difficoltà insormontabili.
Circa la cessione di territori proposta
nel Friuli, essa priverebbe l’Austria di
8 – Alpin del Domm
una frontiera indispensabile per la sua
difesa.
Nel Tirolo, soltanto, possiamo mantenere le concessioni fatte”.
Il 3 maggio l’on. Sonnino rispose fermo
e risoluto denunziando il trattato della
Triplice e che avrebbe tratto le inevitabili conclusioni. Fu chiaro che Vienna
tentava di tenere buona Roma con qualche regalia e negando ad essa l’aspirazione di concludere il suo percorso di
riunificazione delle genti italiane. Nei
quattro mesi di trattative la situazione in
Italia era pesante. Le fazioni erano trincerate ognuna sui propri ideali ed intendimenti. Si misuravano
sulle pagine dei quotidiani, nelle piazze, nei
circoli neutralisti, irridenti, interventisti, socialisti “tedescofili” e
si mescolavano in quel
turbine che è il confronto politico che nasconde però anche l’interesse economico. In
quel periodo si udirono
forti le voci di alcuni
protagonisti degli eventi a venire. A Milano
Benito Mussolini dalle colonne de “Il
Popolo d’Italia” chiamava a raccolta
“l’operosa Italia” per chiedere al Governo l’atto definitivo, la guerra. Grandi
nomi si schierarono: Filippo Corridoni,
eroe della Trincea delle Frasche ed intellettuali legati al Risorgimento del
calibro di D’Annunzio e Marinetti. Dalle terre irredenti giungono e si fanno
sentire due futuri martiri: Cesare Battisti
e Nazario Sauro. Il fronte interno si
spacca, in un certo senso la nazione vacilla, tentenna. Si tenta di sostituire il
Governo interventista di Salandra con
uno neutralista di Giolitti, ma non è più
tempo del “buon governo”. Già il 5
maggio, a Quarto, l’indomabile e vulcanico D’Annunzio proclamava idealmente la guerra, scaldando gli animi ed accendendo un sentimento di unità, primo
ed unico, che attraversò tutto il Paese.
Giuseppe Mazzini disse: ”Scrivendo
una negazione sulla propria bandiera,
un popolo non evita la morte, ma v’accoppia il disonore”.
L’entrata in guerra dell’Italia fu allora
visto come atto dovuto per finire quello
che i padri risorgimentali avevano iniziato, per dare la libertà alle genti italiane. Voluta dal popolo, per il popolo. Il
17 maggio, alla sera, il “Poeta della
guerra” rivolgeva un vibrante appello
agli Italiani dall’alto del Campidoglio:
“Guerra, Guerra!”
Commosso chiese ai romani presenti:
“Sonate la campana a stormo! Oggi il
Campidoglio è vostro come quando il
popolo se ne fece padrone, or è otto
secoli, e v’istituì il parlamento.
O Romani, è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana!”
Dopo la storica seduta parlamentare
del 20 maggio, nel pomeriggio del 22
l'on. Sonnino aveva fatto telegrafare
all'ambasciatore italiano a Vienna il
testo della dichiarazione di guerra
all'Austria - Ungheria, con preghiera
di recapitarlo immediatamente al barone Burian. Si accertò che le linee telegrafiche fra l'Italia e l'Austria non funzionavano e che la dichiarazione non
era stata recapitata. Di conseguenza la
mattina del 23, l’on. Sonnino consegnava all'ambasciatore austriaco a Roma la dichiarazione di guerra insieme
con i passaporti. Fu a tarda sera del
23 che l’on. Sonnino ricevette dal duca d'Avara il telegramma con cui gli
annunciava di aver consegnato al ministro Burian la dichiarazione. Il testo
era il seguente:
Secondo le istruzioni ricevute da S.
"
M. il Re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l'onore di partecipare a
S. E. il ministro degli Esteri d'Austria
- Ungheria la seguente dichiarazione: già il 4 del mese di maggio furono comunicati al Governo Imperiale
e Reale i motivi per i quali l'Italia,
fiduciosa del suo buon diritto, ha
considerato, decaduto il Trattato
d'Alleanza con l'Austria - Ungheria,
che fu violato dal Governo Imperiale
e Reale, lo ha dichiarato per l'avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso
la sua libertà d'azione. Il Governo del
Re, fermamente deciso di assicurare
con tutti i mezzi a sua disposizione la
difesa dei diritti e degli interessi italiani, non trascurerà il suo dovere di
prendere contro qualunque minaccia
presente e futura quelle misure che
siano imposte dagli avvenimenti per
realizzare le aspirazioni nazionali. S.
M. il Re dichiara che 1' Italia si considera in stato di guerra con l'Austria
- Ungheria da domani. Il sottoscritto
ha l'onore di comunicare nello stesso
tempo a S. E. il ministro degli Esteri
austro-ungarico che i passaporti sono
oggi consegnati all'ambasciatore im-
periale e Reale a Roma. Sarà grato se
vorrà provvedere fargli consegnare i
suoi. Duca d'Avarna"
.
Il 23 maggio, alla sera, partivano da Roma per il Quartier generale Italiano il
generale Cadorna e il generale Porro,
salutati alla stazione da S. E. Salandra.
Al momento della partenza il presidente
del Consiglio e il generale si abbracciarono e si baciarono mentre la folla gridava commossa: Viva l'Italia! Viva l' Esercito! Viva Cadorna! Viva Salandra!
Nello stesso giorno il barone Macchio,
ambasciatore austriaco presso il Quirinale e il principe Giovanni SchönburgHartenstein, ambasciatore austriaco presso il Vaticano, ricevettero i passaporti; il
barone Macchio affidò all'ambasciatore
Spagnolo don Ramon Pina Millet la protezione dei sudditi austro-ungarici residenti in Italia e prese congedo, quello
stesso giorno, dal ministro Sonnino. Anche al principe di Bulow, dietro sua richiesta, gli furono consegnati i passaporti.
Il barone Macchio e il principe di Schönburg-Hartenstein partirono il giorno 24
alle ore 20, alle 21.30 partì il principe di
Bulow; alle 21.45 partirono il barone De
Taun, ministro di Baviera presso il Quirinale, e il barone De Ritter, ministro
di Baviera presso la Santa Sede. La
sera stessa del 24 partiva da Vienna il
duca d'Avarna e qualche giorno dopo
lasciava Berlino l'ambasciatore italiano
Bolatti.
IL PROCLAMA DI VITTO RIO
EMANUELE III ALL' ES ERCITO E
ALLA MARINA
Soldati di terra e di mare ! L'ora solen"
ne delle rivendicazioni nazionali ó sonata. Seguendo l'esempio del mio
Grande Avo, assumo oggi il comando
supremo delle forze di terra e di mare
con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la
vostra disciplina sapranno conseguire.
Il nemico che vi accingete a combattere
è agguerrito e degno di voi. Favorito
dal terreno e dai sapienti apprestamentî
dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomabile slancio saprà di certo superarla. Soldati ! A voi la
gloria di piantare il tricolore d' Italia
sui termini sacri che la natura pose ai
confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con
tanto eroismo iniziata dai nostri padri"
.
L’ITALIA ERA IN GUERRA!
Tratto da “La guerra italiana”
4 luglio 1915 n° 6, pag. 118
Alpin del Domm – 9
È FINITA! SI TORNA A BAITA!
Questa storia ha inizio nel 1943 quando, il
25 luglio, con la caduta del fascismo ed il
fulmineo dissolvimento del regime, mi
trovai, repentinamente, del tutto impreparato, orfano del mondo nel quale ero cresciuto e mi vidi crollare addosso l’universo intero.
Eravamo, allora, all’oscuro di tutto: campi
di sterminio, eccidi di innocenti, forni
crematori, fucilazioni di chi disertava,
persecuzione di ebrei e di oppositori del
regime, gulag sovietici, cui si sarebbero
aggiunti poi il movimento partigiano e le
foibe.
Cresciuto, come tutti i ragazzi della mia
generazione, nelle organizzazioni giovanili del regime, ne avevo percorso tutti i
livelli: figlio della lupa, balilla moschettiere, avanguardista, cadetto, giovane fascista, universitario fascista, indottrinato a
dovere dalla cultura del “libro e moschetto, fascista perfetto”.
Al punto che, arruolato “d’autorità” (cioè
a seguito di sollecitazione del partito) a 18
anni, nei battaglioni dei giovani volontari
fascisti che si sarebbero fatti onore a Bir el
Gobi
e
poi
congedato,
sempre
“d’autorità”, per ultimare gli studi, presentai quattro successive domande - tutte regolarmente respinte - di arruolamento
volontario in reparti destinati al fronte.
Andò poi a finire che - risultato idoneo,
alla visita di leva, per le truppe alpine venni invece assegnato, nel maggio 1943,
quando mi arrivò la “cartolina rosa”, al
XVII battaglione Allievi Uffi ciali di Complemento dei Granatieri, che raggiunsi a
Forlì. Ma di lì a poco, profilandosi lo sbarco degli alleati, tutti i battaglioni A.U.C.
della mia classe di leva, 1922, vennero
caricati sulle tradotte e spediti in tutta fretta, per essere impiegati con compiti anti10 – Alpin del Domm
paracadutisti, nelle Puglie, dove ci colse il
comunicato di Badoglio lasciandoci nello
sconcerto più disastroso.
E se la guerra 1940-45 ebbe aspetti e conseguenze pesantissime per i giovani di tutte le
nazioni che vi parteciparono, per gli italiani
l’ingloriosa resa dell’ 8 settembre 1943 fu
una catastrofe immane che impose, a chi
venne colto all’estero o nell’Italia del Nord,
delle tragiche scelte obbligate, scelte che
coinvolsero, con minori rischi, anche coloro
i quali si trovavano nell’Italia del Sud.
Per quel che mi riguarda personalmente, ad
evitare di ess ere preso in carico dagli alleati
nei reparti dei “prigionieri liberi” (uniforme
di seconda mano ritinteggiata in marrone
scuro) destinati a lavori di fatica, scarico
navi nei porti etc., o di disertare con il rischio di finire nel carcere militare di Gaeta,
preferii ripresentarmi ai centri di raccolta
dell’ Esercito Italiano che, in qualche modo,
stava tentando di riorganizzarsi e dove agli
sbandati una gavetta di brodaglia veniva
distribuita ed un letto a castello infestato di
cimici c’era per tutti.
La prima cosa che ci dissero, quando nella
zona di Oria riprendemmo il corso ufficiali,
fu che - dopo tre anni di lotta, da parte del
regime fascista, contro la “perfida Albione”
e la minaccia del “mostro sovietico”, con
l’aggravante della resa senza condizioni - la
guerra non era finita perché, a seguito della
dichiarazione di guerra del governo Badoglio, datata 15 ottobre 1943, all’ex-alleato, il
nemico era cambiato e dovevamo riprendere
il fucile per riscattare l’onore della Patria,
schierandoci a fianco degli alleati.
Intanto l’addestramento in qualche modo
continuava. Mal conciati, divisa a brandelli,
pezze da piedi negli scarponi tenuti assieme
da filo di ferro, affamati (un mestolo di brodo con sette, contati uno ad uno, maccheroni, una scatola di corneed beef ogni quattro
di noi e un po’ di pane a mezzogiorno; un
cucchi aio di ceci ed un cucchiaino di marmellata con una razione di galletta la sera) si
tirava avanti.
Fino a che, circa due mesi dopo, avendo
appreso che a Bari era in costituzione un
reparto di alpini, chiesi di esservi assegnato
come soldato semplice, rinunciando a proseguire il corso ufficiali. La
domanda venne accolta, ma
con la “bassa di passaggio”
arrivò, inattesa, anche la
nomina a Sergente A.U.C. E
quando, con i gradi nuovi
fiammanti sul braccio ed il
filetto d’oro cucito sul bavero della giacca grigio-verde,
mi presentai al battaglione, i
sottufficiali anziani mi accolsero con un ironico “Ti tses
un vuluntari? Ti tses ‘na
ciula! E se non vuoi ess ere il primo a morire quando andremo in linea, togliti subito
quel filetto”.
Mi guardai bene dal replicare, anche perché cominciavo ad intuire che avevano
ragione loro (ne avrei avuta la conferma
qualche mese più tardi, quando un Gebirgsjäger mi scaricò addosso, per fortuna
senza colpirmi, mezzo caricatore della
loro mitragliatrice) ma il filetto dorato lo
tolsi solo dopo cinque mesi ininterrotti di
prima linea, quando mi arrivò la promozione a Sottotenente ed il trasferimento,
per il servizio di prima nomina, al Btg.
Alpini “Monte Granero” che, mentre il
Btg. Alpini “Piemonte”andava a riposo,
sarebbe rimasto al fronte per un altro mese. E quando il “Monte Granero”, il battaglione dei “grigi” (classi 1907-1908-19091910) venne inviato in servizio d’ordine
pubblico in Sicilia - un po’ per tener testa
all’ E.V.I.S., Esercito Volontario Indipendenza Siciliana, che per buona sorte non si
mosse dalle Madonie, montagne della
Sicilia centrale, un po’ per dare supporto
ai Carabinieri nella caccia al bandito Giuliano - ne seguii il destino, memore di una
delle regole non scritte dei “najoni”:
“Tenent e, se Lei mi comanda, La seguo,
ma volontario mai! E se poi mi ammazzano, alla mia mamma lo va a raccont are
Lei”.
Sciolto, con la fine della guerra, il ”Monte
Granero” ed inviati in congedo tutti gli
alpini, dopo aver consegnato il materiale
rimasto, incombenza affidatami perché ero
il più giovane ufficiale del battaglione,
venne anche il mio turno. Ci vollero, per
risalire l’Italia, due o tre giorni: automotrice da Palermo a Catani a, traghetto fino a
Reggio Calabria, vagone viaggiatori con
sedili di legno vecchio tipo da Reggio a
Roma Termini. tradotta “cavalli 8 – uomini 40 da Roma Tiburtina a Bologna, autobus di fortuna da Bologna a Mestre, filovia da Mestre a Treviso e, per finire, autostop sulla statale pontebbana fino a quando un mezzo dell’Esercito, vistomi in divisa, si fermò e mi diede un passaggio da
Treviso a Pordenone dove a mia madre,
che mi aspettava vestito di stracci, venne
quasi un accidente quando mi vide arrivare invece con la divisa di Ufficiale degli
Alpini.
Memorabile poi la cena per festeggiare il
ritorno degli alpini del mio paese, sopravvissuti alla guerra: polenta e baccalà, reduci 40, fiaschi di vino 80, una incredibile
media di quattro litri a testa. Fu l’ultima
sbornia perché, se fino a pochi mesi prima
il nostro problema maggiore era stato
quello di sopravvivere … “chi è morto,
oggi, a chi toccherà domani?” era già iniziata, per tutti noi, una seconda guerra, per
taluni aspetti più dura della precedente,
quella per la pagnotta. Perché, mentre
negli anni del servizio militare c’era mamma naja che pensava a tutto, vitto, vestiario, alloggiamento o almeno una tenda ove
trovar riparo, quand’era possibile, dalle
intemperie, adesso bisognava rimboccarsi
le maniche per ricostruire l’Italia, far quadrare il pranzo con la cena, procurarsi un
alloggio per poter sposare la “morosa” e
farsi una famiglia.
L’automobile era un oggetto del desiderio,
riservato a pochi privilegiati. L’acquisto di
una casetta o anche solo di un piccolo
alloggio una chimera.
Ma c’era anche, dopo anni di autarchia e
di isolamento culturale, il bisogno di allargare le proprie conos cenze, di studiare,
confrontarsi con le altre scuole. Di qui la
ricerca, quasi spasmodica, nelle bancarelle
dove i libri di seconda mano si potevano
acquistare con pochi soldi, dei testi pubblicati da Autori stranieri.
La televisione, in quegli anni, stava ancora
muovendo i primi passi. Computer, stampanti, fax, con tutta la tecnologia di cui
oggi disponiamo, non erano ancora nati.
Ma non ce ne preoccupavamo molto, perché, per noi, la miglior tecnologia di quei
tempi consisteva nei contatti umani, nei
confronti con altri coetanei usciti dalla
bolgia infernale della guerra indenni nel
fisico, ma segnati a vita nell’animo.
Non dimenticherò mai, infatti, l’incontro,
all’ostello della gioventù di Vienna, con
sei ragazzi di altrettante
diverse nazionalità: un
americano, un inglese, un
francese, un tedes co, un
austriaco, un australiano.
Uno scambio continuo di
piccole, banali cortesi e,
nella camerat a che ci ospitava, nella mensa, durante
le visite alla città ... “hai
un po’ di sapone? … mi
passi, per cortesia, un panino? … hai dell’ago e del
filo? … funziona bene il
tuo rasoio” … ma anche di
ricordi … “dove hai combattuto? … in quale specialità?”…
Rammento, in particolare,
l’incontro, a Ferlach, in Carinzia, dov’ero
stato invitato ad una festa nuziale, con un
simpatico ragazzo austriaco che, ad un certo
momento, mi chiede: “Hai preso part e
all’ultima guerra?” … “Si – gli rispondo con un battaglione di alpini. E tu?” …..
“Con i Gebirgsjäger della Edelweiss, fronte
di Cassino” …”Mi trovavo là anch’io, a
pochi chilometri, sulle vicine montagne. E
tu?” … “Ero a Monte Mare” …” Io a Monte
Marrone, di fronte a voi” … Un attimo di
silenzio, poi lui, guardandomi con un certo
imbarazzo, mi chiede “E adesso, cosa facciamo?” … “La guerra è finita – replico
subito, tendendogli la mano – e ci beviamo
sopra.”
Finì così, con un brindisi, anche all’ostello,
dove sette ragazzi che il destino, qualche
anno prima, aveva messo gli uni contro gli
altri, avevano subito simpatizzato, confidandosi i fatti più salienti nei quali erano stati
coinvolti.
Ma quello che si chiedevano più spesso era
che senso avesse avuto affront are in combattimento, a vent’anni, altri ventenni che
vestivano una divisa diversa dalla loro solo
perché nati 50-100 km. più a nord o a sud
del paese che aveva dato loro i natali.
Ci chiedevamo quale senso avess e avuto
essere mandati contro altri giovani di etnia,
tradizioni, religione a volte simili alle nostre, ma a volte molto diverse solo perché la
cicogna, per loro, aveva deciso di ferm arsi
altrove.
Ci chiedevamo perché molti nostri coetanei
erano stati mandati a morire poco più che
adolescenti (e in qualche caso, come stabilivano allora le leggi in Italia, quando non
avevano ancora nemmeno il diritto di voto),
nel nome di ideologie contrapposte provocate, per sete di potere, dalla follia di dittatori
sanguinari o giustificate dalla necessità di
doversi difendere da aggressioni immotivate
e pretestuose.
Quanto a noi italiani, ci avevano raccontato
che dovevamo combattere per la libertà, per
liberarci da una tirannia i cui sostenitori, nel
ventennio, erano rappresentati da folle far-
neticanti che a Piazza Venezi a applaudivano i bellicosi e trionfalistici discorsi di
Mussolini, mentre gli oppositori del regime – che alla caduta del fascismo sarebbero diventati milioni – si facevano vivi solo
il I maggio di ogni anno, quando immancabilmente, sulla cima di qualche campanile, vedevamo sventolare la loro bandiera.
Ci avevano detto che combattere per la
libertà significava soprattutto libertà di
espressione e di pensiero mentre, a conti
fatti, ci è solo consentito di pensarla come
ci pare, ma non di esprimere il nostro pensiero, se non è allineato a quello dei go-
vernativi di turno al potere, per non correre il rischio d’essere accusati di razzismo.
Ci avevano detto che ci battevamo per una
Italia migliore, ma ci siamo trovati poi in
una nazione allo sbando, dove la delinquenza dilaga, dove violenza e ruberie non
lasciano molto spazio alle persone oneste,
dove invece di persegui re i farabutti vengono colpevolizzati la polizia e chi osa
difendersi, dove le donne sono libere di
esibire la loro epidermide, ma non di uscire da sole di sera senza correre il rischio di
essere aggredite, dove la pen a di morte è
stata abolita solo formalmente, perché
ogni giorno ci sono degli assassini che la
infliggono quasi impunemente ai malcapitati di turno.
Tutte cose che nei regimi dittatoriali, come quello del ventennio, venivano represse con durezza e, nel paradiso sovietico,
spedendo avversari e fuorilegge a svernare
in Siberia.
E ancora oggi, mi sorprendo spesso a
chiedermi se è per questa libertà che ho
combattuto, rischiando la vita. Per lascia-
re ai nostri figli e nipoti una Patria allo
sfascio ed un futuro privo di valori e di
certezze, pieno soltanto di incognite?
Sergio Pivetta
Grazie Sergio per averci raccontato il tuo dopoguerra a settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale
Alpin del Domm – 11
L'OROLOGIO TORNA INDIETRO DI UN SECOLO
CON GLI ALPINI E LA GRANDE GUERRA
2015
1919
ECCE HOMO!
Il coraggio dell’Uomo, vero, determinato,
che ha sfidato il rischio e il pericolo, dimostrando ai più che si può sfidare e vincere contro un mondo senza regole.
La foto dell’Uomo è prima stat a pubblicata sul web e poi sui giornali il giorno dopo: la didascalia più appropriata avrebbe
dovuto essere castigat ridendo mores …
(conoscendolo, l’Uomo avrebbe certamente apprezzato, magari di fronte a un piatto
con delle uova!)
La foto e l’Uomo insegnano molto: il gesto è storico, equiparabile a quello avvenuto il 4 novembre 1919 per la Bandiera
italiana esposta fuori dalla sede dell’ANA
nella Galleria a Milano. La città - come
molte altre italiane – era percors a da bande di facinorosi che chiedevano il ritiro di
tutte le bandiere esposte. Le autorità suggerirono agli Alpini di ritirare la Bandiera,
vista come “provocazione”. Ma gli Alpini,
tutt’altro che disposti a subire l’intimidazione, chiarirono ai dimostranti che avrebbero difeso la Bandiera con tutti i mezzi e
a tutti i costi (soprattutto sacrificando l’unica macchina da scrivere presente in sede
e già nelle mani del corpulento cappellano
militare, pronto a imitare il gesto del Valsecchi in Libia). I teppisti batterono in
ritirata e la sola Bandiera rimasta esposta
in quel giorno in Milano fu quella della
neonata Associazione Nazionale Alpini.
Se quell’episodio è ancora oggi ricordato,
ebbene, il gesto del nostro Uomo Parazzini deve essere a maggior ragione esaminato dal punto di vista morale: il coraggio
delle azioni e il saper agire!
Il coraggio di agire per il bene comune è
quello che oggi sembra mancare soprattutto alle giovani generazioni: l’Uomo Parazzini ha avuto il coraggio della propria
azione difendendo i suoi valori più cari,
dimostrando che anche con gesto pacifico,
ma fastidiosissimo per i bèceri, si può
fare!
E ai delinquenti delle cronache attuali,
ancora una volta vestiti di nero come un
tempo, non possiamo altro che ricordare
che la servitù è male volontario dei popoli
ed è colpa dei servi più che dei padroni.
Abbì
12 – Alpin del Domm
Una complessa impresa rievocativa permetterà di seguire passo passo tutto quanto accadde nelle trincee innevate e nelle
retrovie durante il primo conflitto mondiale, che all'Italia costò lutti, sacrifici e
una nuova coscienza identitaria.
Può la celebrazione di un evento durare
quanto l'evento stesso? Sembra una bizzarra domanda dalla riposta dubbiosa e
non immediata. Ma se l'evento in questione è la prima guerra mondiale che, per
l'Italia, durò quattro anni, verrebbe naturale rispondere "no" senza esitazioni. E sbaglieremmo in modo clamoroso e imprevedibile. Ci hanno pensato gli alpini del
gruppo Milano Centro "Giulio Bedeschi",
con infinita pazienza, grande capacità organizzativa, nonché rigore e passione per
vicende storiche e radici da non abbandonare all'oblio, a mettere in piedi la più
massiccia e ben strutturata campagna di
ricordi, evocazione e partecipazione emotiva a quella tragica epopea di un secolo fa
che fu la Grande Guerra. Solo degli alpini,
abituati a percorsi lunghi, silenziosi e tenaci, potevano riuscire in simile impresa
che, alla vigilia del suo incipit, si annuncia
come un racconto complesso e controverso, vissuto da un'intera nazione, divisa fra
retorica della guerra e sacrificio consumato fra monti del Nord Est, trincee, neve e
reticolati d'alta quota.
Chi entrasse nel sito del Gruppo Milano
Centro www.alpinimilanocentro.it, in questi giorni troverebbe l'indicazione che "in
questa data la Guerra non è ancora stata
dichiarata", ma già a partire dal giorno 20
maggio potrà leggere una pagina dedicata
alla seduta del Parlamento It aliano che
decretò la nostra entrata in guerra.
Il giorno 21 sarà ricordato con una frase
celebre di Mazzini e con i versi del Carducci inneggianti a Trento e Trieste libere.
Il 22 verrà pubblicato il discorso di Quarto
da parte di D’annunzio (riprodotto in pdf).
Il 23 comparirà il proclama regio di S.M.
il Re d’Italia, ultimo Bollettino Ufficiale
del Ministero della Guerra e considerato
primo Bollettino di Guerra per rispetto al
Re.
Il 24 ci sarà la dichi arazione di guerra con
la lista dei belligeranti, come da documento storico.
Dal 25 comparirà il primo Bollettino di
Guerra, numerato 2 per i motivi sopra
descritti. Questo bollettino riferirà ovviamente le operazioni del giorno prima.
E così per tutti i 4 anni a seguire, giorno
dopo giorno; con accompagnamento di
approfondimenti e curiosità legati al momento bellico, ma con un occhio di riguar-
do a quanto succedeva nel frattempo nelle
retrovie, e in special modo a Milano.
Al momento gli alpini milanesi del gruppo
Bedeschi, grazie al lavoro certosino del
Comitato per il Centenario (presidente
Alessandro Vincenti; soci sottoscrittori
Silvio Anselmi, Andrea Bianchi, Luca
Geronutti, Renzo Giusto, Gianluca Marchesi e Paul Wilcke), hanno già predisposto 3.303 file per più di 2 GB di contenuti
con riferimento al solo anno 1915: raro
esempio civico e storico, fulcro di studio,
riflessione e aggiornamento per molti,
oltre che punto di riferimento per studenti
e insegnanti di ogni livello. Ma anche per
ogni singolo cittadino che voglia ripercorrere, giorno dopo giorno, quanto i nostri
bis-nonni e nonni hanno dovuto fare e
patire, compiendo il loro dovere, per portare a compimento l’Unità d’Italia e liberare le terre irredente. Ma questo è solo un
primo gradino, importante ma pur sempre
un solo primo appuntamento. È già pronta
infatti una seconda iniziativa, un Congresso dal titolo “Mangiar si deve”, che il
prossimo 17 giugno a Milano in Palazzo
Cusani, prestigiosa sede del Comando
Militare Esercito Lombardia e del NATO
Rapid Deployable Corps Italy, riunirà
esperti e cultori di alimentazione per parlare e dibattere di cibo consumato al fronte. E si discuterà degli scaldarancio (per
avere pasti sempre caldi in trincea), di
razioni K, di approvvigionamenti, di trasferimenti in quota di acqua potabile, di
come il caffè entrò nella prima col azione
degli italiani e il riso, invece, fu rifiutato
dai soldati del Sud. E così via, spigolando
fra rel azioni scientifiche e curiosità di quei
tempi. Perché, guerra o non guerra, mangiar si doveva.
Renzo Giusto - Silvano Guidi
Seguite i nostri progetti e gli approfondimenti sul sito del Gruppo:
www.alpinimilanocentro.it
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