Numero 85 - Anno XVI/2 - Maggio 2015 E dito in proprio da: As sociazione Nazionale A lpini - S ezione di Milano - Gruppo Milano Cent ro “ Giu lio Bedes chi” Redazione: Via Vincenzo Monti 36 - 20123 Milano - tel. 02 48519720 - Responsabile: A lessandro Vincent i - Inviato gratis ai Soci. S it o w eb: ww w.alpinim ilanocent ro.it E -m ail: alpindeldomm @alpinim ilanocent ro.it Volo d’Aquila al centro d’Italia e oltre! Cari soci, come è ormai tradizione di questo giornaletto del Gruppo Alpini Milano Centro, e soprattutto di alcuni dei suoi soci di più antica e rotonda data, Vi segnaliamo alcune possibilità di tappa e ristoro sulla via che mena all’adunata de L’Aquila 2015. I Km da Milano alla città delle cento cannelle sono ben 684,9, per cui più imperativa si fa la necessità di sostare, rinfrescarsi, rifocillarsi. Per non arrivare all’Adunata troppo stanchi sarà anzi bene prendersi del tempo per la andata, ed ancor più per il rientro, per ritornare riposati agli usati impegni. Non si può certamente abbandonare la nostra bella Lombardia senza visitare Casalpusterlengo dalla bella torre merlata. La cittadina ha per altro dato i natali a Pietro Signorini, (1871-1916), cavaliere del lavoro, industriale conserviero fondatore della Società Generale delle Conserve Alimentari CIRIO, oltre che a famosi sportivi, ciclisti, cestisti, calciatori. Sarà stata l’aria a dare loro lo sprint? La buona alimentazione? Nel dubbio, bisogna fermarsi, magari alla Locanda del tempo perso. Potete provare il grana in pastella, il dolce con il mascarpone ecc. Se poi riuscite a rotolare fino all’uscita, e avete chi non rischia di essere pizzicato alla prova del palloncino, potete proseguire fino a Rubiera, alla Clinica Gastronomica di Arnaldo, presso l’Albergo Aquila d’Oro. Ovviamente non per la questione della clinica (ma chi sarà mai interessato alle carni, al pane fatto in casa?) quanto per il fatto che l’Aquila d’Oro svetta su ogni nostro vessillo e gagliardetto. Locale storico, stanze spaziose, arredamento premoderno, confort moderno. Chi invece non volesse arrivare fino a Rubiera, può fare una deviazione nel parmense, a Torrechiara. Nel castello della cittadina in estate si tiene un piccolo festival musicale, di classica ed altro. Ma più sonori risuonano al tocco ed al palato i prosciutti ed i salami dell’albergo-salumeria Gardoni. Vi si trova persino la spalla cruda, da mangiare sul posto: il trionfo del Maiale. Col far del giorno ci si può dirigere verso il Passo della Raticosa, a 968 m s.l.m. sulla strada tra Bologna e Firenze: dal crinale del passo diparte infatti verso nord la strada provinciale che discende la valle del torrente Sillaro, che dopo pochi chilometri si biforca, per discendere oltre al corso d'acqua sopra citato - la valle dell'Idice. Proseguendo, invece, lungo la ex SS65 in direzione sud si raggiunge il vicino passo della Futa a 903 m s.l.m., posto sullo spartiacque appenninico sulla strada realizzata nel 1759. Alla Raticosa un piccolo bar offre un cafferino, la Futa è più strutturata per le nostre esigenze. Inoltre in quei luoghi passava la Linea Gotica, di cui rimane, oltre ai resti delle postazioni, un cimitero di guerra. Di fatto lo sfondamento della linea è avvenuto nel settembre 1944 nell’adiacente Giogo di Scarperia. Continuando controcorrente rispetto allo sfondamento, propongo di byAlpin del Domm – 1 passare Firenze, città che sforna vieppiù ministri e sottosegretari. A meno di non voler cercare un trippaio per la semelle col lampredotto, possibilmente con la salsa verde. L’olio piccante da alcuni oggi usato per condire ‘sta trippa mi sa tanto di pizzeria di seconda. Potete andare da Ancilli, da Nencioni, da Torrini o, se preferite rimanere fuori Porta Romana per questioni di traffico, da Albergucci. Coloro che seguono il consiglio di non fermarsi nella città del sindaco d’Italia possono proseguire per Pontassieve, e fare tappa al Maccherone. Locale che offre privacy, i giusti abbinamenti per primi, carni (siamo in Toscana!) dolci e vini (siamo in Toscana!!!). Consiglio poi di tornarci in autunno, a Pontassieve, per funghi e altri miceti. Volge l’ora della ricerca dell’alloggio notturno. Montevarchi? Arezzo? Ricordiamone il poeta, l’Aretino, che il Giovio così ricordò: Qui giace l'Aretin, poeta tosco: | Di tutti disse mal fuorché di Cristo, | Scusandosi col dir: non lo conosco. Per il pernotto mi permetto di proporre Il Pomaio, ristorantealbergo sulla montagna che sovrasta la città, che di sera sembra una trine di gioielli. Nella cantina la sala da pranzo, tra esposizioni di bottiglie e candele – che fanno tanto ambiente. Tovaglie che scendono al piede del tavolo, argenteria pesante ma cucina leggera! E soprattutto ricca dei prodotti del luogo, formaggi, verdure, carni, mieli, olio e vino. Stanze ampie. La mattina, colazione internazionale e poi via, per Passignano sul Trasimeno. L’amenità del luogo richiede una sosta prolungata. Con tanta bellezza, perché fare le ferie all’estero? Certo che se non ci fossero quei capannoni a cento metri dal lago … Comunque! Dove ci possiamo fermare? Al Museo delle barche? Sapevate che da Passignano è partito nel 1889 il primo battello a benzina? Si chiamava Concordia, ma ebbe maggiore fortuna di quell’altra arenatasi sottoCosta. Già che siamo sul lago, fermiamoci dal Pescatore, e annaffiamo la giornata con un Grechetto dei Colli del Trasimeno. Per farci perdonare tanti eccessi dobbiamo per forza proseguire per Santa Maria degli Angeli in Porziuncola di Assisi, per de- purare il corpo col digiuno e lo spirito con la contrizione. Dedicarsi ai distillati dei frati sarebbe, in questo caso, controproducente. Manca poco, già si sente l’odore de L’Aquila. Riprendendo il mezzo di trasporto, si può arrivare alla Cascata delle Marmore. A maggio il rilascio dell’acqua è dalla 12.00 alle 13.00 e dalla 16.00 alle 17.00, nei feriali, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 22.00 il sabato. L’orario della domenica non ci interessa: saremo in Abruzzo … Interessante la vicina zona archeologica di Carsulae. Duces alpinorum ut Carsulas venere, paucos ad requiem dies sumunt, donec aquilae signaque legionum adsequerentur. Et locus ipse castrorum placebat, late prospectans, tuto copiarum adgestu, florentissimis pone tergum municipiis. (Tacito, Hist., III, 60). Alla taberna Antica Carsulae possiamo assaggiare la pasta fritta con guanciale tagliato sottile. E basta così! Bisogna infatti trovare un altro guanciale, quello su cui poggiare il capo per la notte. Un balzo e si arriva a Cittaducale, lungo la via Salaria, strada consolare romana, a 10 chilometri da Rieti. Alle sue spalle, a nord, si innalza il Monte Terminillo (m. 2.216), ai suoi piedi scorre il fiume Velino. Cittaducale è stata abruzzese fino al 1927! Nella provincia del Secondo Abruzzo Ulteriore, con capoluogo L’Aquila. Siamo quindi praticamente arrivati! Ma, dove guancialare? Forse meglio tornare a Rieti … il centro d’Italia, come ci ricorda la lapide in Piazza S. Rufo. A meno che non siate ospitati nella Caserma Verdirosi dove aveva sede il I Battaglione NBC Etruria, scuola specializzata sulle armi non convenzionali, potreste trovare rifugio al Miramonti. La mattina seguente, dopo lauta colazione, salutato l’umbilicus italiae, salutato anche il Vespasiano, non si può che partire per la periferia, che per gli Alpini però è il centro dell’anno. L’Aquila! Arriviamo! Volando! Si ripassa Cittaducale, Antrodoco, Sella di Corno e TOMBOLA! Dove mangiare e dove dormire, adesso, è tutto un altro problema … il vostro Virgilio … quei che menava Dante 2 – Alpin del Domm Ripris nata la guardia d'Onore al Sacrario dei Cadu milanesi Dal Marzo del 2014 è tornato il Pic‐ che o d'Onore al Sacrario di tu e le guerre vicino alla bas ilica di S. Ambro‐ gio a Milano. Il Comune di Milano con l'Associazione Amici del Sacrario e amici del Tricolore e delle forze Arma te hanno s pulato una convenzione pe r ripris nare la guardia d'Onore al Sacrario. Le diverse Ass ociaz ioni Comba en s ‐ che e d'Arma presen a Mila no hanno organizzato turni di guardia con volon‐ tari il mercoledì il sa bato e la domenica dalle 9.00 a lle 12.00 e dalle 13.30 alle 17.00. In questo modo i ci adini milanesi potranno avere una occasione in più pe r visitare un luogo di mem oria storica e onorare e commemorare chi si è sacrifica to pe r la Patria. Il Sacrario venne inaugurato il 4 Novem‐ bre 1928 in occasione de l de cennale della fine della grande guerra, con una grande ce rimonia presie duta dal Duca d'Aosta. Gravemente danneggiato durante i bombardamen de l 1943, il Sacra rio venne ricos truito e ampliato nel 1973, con i nomi di 10.000 cadu mila nesi scolpi nel bronzo, e con un ossario dove sono tumula i res dei Cadu . All'ingresso del mausole o, su pianta o agonale, una grande statua in bronzo alta cinque metri, di S. Ambrogio che calpesta i se e vizi capitali,opera di Adolfo Wildt. il 1° Novembre 2014 la Sezione di Mila‐ no, nella parte bassa del Sacrario ha posto con una solenne cerimonia una lapide a ricordo di tu gli alpini anda avan , in marm o di Candoglia, lo stesso del Domm di Milano. Con il Ge nerale Pennino, e il Colonne llo Arnò, hanno presenziato il Vessillo Sezionale con il Presidente Boffi, il gagliarde o del Gruppo Milano Centro, con il Capog ruppo Vincen e ven due gagliarde dei Gruppi sezionali. Anche L'Ass ociaz ione Nazionale Alpini Sezione di Milano ha subito aderito alla Guardia d'Onore, con turni di volontari il sabato, io stesso ho avuto l'onore di fare tre turni di guardia, una esperienza sempre comm ovente e un'occasione per far conoscere ai m iei conci adini e ai turis di passaggio un luogo della memoria patria di grande importanza storica e morale. Fabrizio Balliana libera alle mire italiane in Cirenaica e Tripolitania e creando anche l’opportunità all’Italia di stipulare in gran segreLa pre messa "La crisi sanguinosa del 1914, del ter- to, nel luglio dello stesso anno, per meribile e indimenticabile Luglio, scop- rito degli sforzi di Prinetti, l’accordo di piò come folgore per le folle ignare e neutralità tra Francia e Italia. La Francia inconsapevoli, ma non già per chi da canto suo aveva tutti gli interessi a considerava nella sua brutale e men- salvaguardarsi il fianco italiano; nel zognera realtà la malsicura e falsa- mentre profondeva miliardi alla Russia mente idilliaca situazione europea." dello Zar per assicurarsi una solida e Così cominciava Andrea Busseto, nel sicura alleanza in caso di guerra. In queprimo dopoguerra, scrivendo delle sto scenario non ci possiamo dimenticamotivazioni che portarono al conflitto. re della “furba e perfida Albione”. L’Indi Renzo Giusto la prima volta, nel ’14, il doloroso anniversario era anche festa di liberazione e di gioia perché si celebravano le vittorie militari serbe sui turchi e bulgari. Ai serbi, inoltre, era noto il piano espansionistico dell’Arciduca: trasformare la duplice monarchia in triplice. Impero d’Austria, Regno d’Ungheria, Regno di Slavonia ed in quest’ultimo doveva essere assorbita la Serbia. Non dimentichiamo che i serbi avevano subito l’annessione da parte dell’Impero della Bosnia-Erzegovina L'Incendio europeo e L'Italia - Gli accadimenti, l'art.VII, il Governo Salandra Era chiaro a molti, ma non al popolo, che i governanti e le teste coronate d'Europa sapevano perfettamente quanto fosse fragile la situazione politica internazionale e ciò non di meno continuarono nel loro balletto che distribuiva sorrisi e promesse da una parte, nascondendo velenosi intrighi carichi di odio dall’altra. Sentimenti nei quali primeggiava l’Austria - Ungheria, che, tanto per cambiare, aveva mire egemoniche e di conquista rivolgendo il suo sguardo su Italia, Russia, Serbia e Montenegro. Sembrava quasi che la guerra fosse per gli Asburgo un modo per risanare la decadente monarchia non considerando che i tempi erano cambiati e che il vento della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli cominciava a soffiare sul continente. Non da meno era la Germania. Degna compagna d’intenti oltre che di lingua e tradizioni guerresche navigava in questo clima infuocato mostrando i muscoli, sostenendo un’immagine che, comunque, mal si rapportava al Kaiser Guglielmo II ormai vecchio e malandato. Ma da sempre esistono "i poteri forti”, quelli capaci di instradare volontà e capacità di una nazione piegandole al loro tornaconto. E l’Italia? L’Italia era legata a Germania ed Austria dalla Triplice Alleanza, stipulata il 20 maggio 1882, desiderosa di rompere il suo isolamento, dopo l'o ccupazione francese della Tunisia alla quale anche Roma aspirava. Alleanza che ebbe comunque ben 3 revisioni sostanziali: 1887, 1891 con la revisione dell’Art. 7 (di cui ci occuperemo più avanti), 1902 che diede via ghilterra si barcamenava tra Francia Germania e Russia tutto promettendo e nulla concedendo, lasciando sperare senza mai impegnarsi sino in fondo, preoccupata solo di proteggere il suo predominio continentale per il quale aveva già abbattuto Napoleone I. In quel periodo le altre nazioni, specie nella sempre irrequieta regione balcanica, si barcamenavano ammiccando chi da una parte chi dall’altra, facendo sentire di continuo la loro voce in attesa che qualcuno le autorizzasse a fare la prima mossa. Il brusco risve glio: Saraje vo Così l’Europa ebbe un brusco risveglio il 28 giugno 1914, quando saettò per i fili del telegrafo la notizia che l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la di lui consorte erano stati “trucidati” a Sarajevo da irredentisti Serbi. La miccia fu innescata dallo stesso erede al trono d’Austria. Egli infatti scelse con brutalità teutonica, come era nel suo carattere, per la sua visita ufficiale in terra serba irredenta, un giorno di particolare sensibilità per i patrioti serbi: l’anniversario di Kossovo. I serbi in tale giorno (ancora oggi) commemorano con preghiere e feste popolari la loro più grande sconfitta: quella ad essi inflitta, cinque secoli prima dei fatti, dai turchi. Per nel 1908 dopo l’occupazione dal 1878 in barba a convenzioni e trattati minando lo stesso equilibrio europeo. Così in quell’infausto giorno per l’Europa l’Arciduca si presentò, in tutta la sua pompa, accompagnato dalla sua modesta consorte boema, che la corte viennese mal sopportava e l’Imperatore Francesco Giuseppe ferocemente osteggiava. Mentre la sua auto passava tra la folla di doverosi bosniaci festanti, poco lontano una bomba scoppiò facendo cambiare il sorridente e compiaciuto Arciduca in una maschera di dura collera e cieca rabbia. Il corteo arriva finalmente al Municipio, Così viene descritta la scena all’epoca: “Autorità comunali, governative e militari non sanno nascondere la loro inquietudine. L’Arciduca, terreo e tetro, investe il Borgomastro che balbetta il suo discorso d’occasione”. La scena in quel piccolo comune di provincia è meschina, buffa, rasenta il ridicolo. A renderla tale contribuisce la poca serenità di Sua Altezza, la goffaggine piccolo borghese della sua consorte ed il servile, quanto inutile e scontato, oltre che poco sincero, contegno delle autorità di Sarajevo e del seguito arciducale. Continua la cronaca: ” Il corteo esce dal municipio e la variopinta folla bosniaca batte forte, forte le mani. Pallidi sorridono gli imperiali regi consorti mentre le autorità finalmente respirano. Bruscamente si odono due colpi secchi di pistola: sparate con sorprendente precisione le due pallottole raggiungono il bersaglio: la prima colpisce mortalmente all’aorta l’Arciduca, la seconda squarcia l’addome alla nobile consorte. Alpin del Domm – 3 Ambedue muoiono istantaneamente.” Nessuno piangerà sinceramente questo assassinio; non l’Imperatore, non il Governo, non il Paese. Ne tanto meno il cinico e bugiardo ministro degli esteri conte Berchtold, a cui il fatto di Sarajevo darà il pretesto tanto cercato e desiderato di dare fuoco alle polveri strozzando la Serbia senza dare tempo agli altri di intervenire a tempo. Berlino acconsentiva. Gli avvenimenti 23 luglio – 4 agosto In quel periodo aleggiavano sentimenti di smarrimento e di terrore. Si susseguivano ore di drammaticità intensa e di attesa spasmodica del fatto. Nel mentre tutte le convinzioni vacillavano. Fedi, dottrine e dogmi non bastavano più ed erano destinati a scomparire se non a mutare. Popoli e razze si dovevano ancora una volta trovare di fronte per misurarsi, ignari fin dove li avrebbe condotti la pugna. 23 luglio - ore 18 Il Ministro austriaco a Belgrado, barone Giesel von Gieslesen, consegnava, come Ultimatum al governo Serbo, la famosa “nota”. “In pratica si chiedeva alla Serbia: il suicidio ed il disonore.” 24 luglio La mattina del 24 luglio gli ambasciatori austriaci in Germania, Francia, Inghilterra, Russia, Italia e Turchia comunicavano ai rispettivi governi i testi della nota inviata alla Serbia. La gravità della nota era palese e altrettanto palese era che la Serbia non poteva sottostare alle imposizioni (brutali) dell’Austria. Altrettanto chiaro era che la Germania appoggiava l’operato asburgico, sino in fondo e senza riserve. Nel frattempo il ministro degli esteri russo Sazanoff telegrafava a Vienna chiedendo di prolungare i limite di tempo di 48 ore fissato dall’Austria alla Serbia per la risposta, in modo che “le grandi nazioni potessero intervenire con consigli di moderazione sia da una parte che dall’altra.” Contemporaneamente, quasi supplicando, il Principe reggente di Serbia, Alessandro, telegrafava allo Zar pregandolo a nome del suo popolo di intervenire:” Siamo pronti ad accettare molte condizioni proposteci dall’Austria, ma non possiamo disonorarci. Consigliateci Voi Maestà”. 25 luglio 4 – Alpin del Domm Il barone Macchio, primo sostituto del Ministro degli esteri austriaco, comunicava il rifiuto della proroga. A Belgrado nello stesso giorno alle 17,40, il primo ministro serbo Pasic, consegnava la risposta alla nota nelle mani del ministro austriaco. Dopo soli 12 minuti il Ministro austriaco chiedeva i passaporti per se e per il personale. ERA LA GUERRA! Di fronte a questi accadimenti la Russia non poté restare indifferente. Era in gio- co l’annientamento dello stato slavo. Ci fu una mobilitazione parziale di truppe ai confini austriaci e contemporaneamente agì per via diplomatica nel tentativo di costringere l’Austria ad un arbitrato internazionale. La storia ci dice che fu vana illusione. L’imperatore Guglielmo interrompe la sua crociera nel mare del nord e rientra a Berlino. Il presidente francese Poincarè rientra dalla Russia senza visitare Norvegia e Danimarca come da programma. Lo zar risponde al telegramma serbo dicendo di confidare nelle trattative ma che comunque: “in nessun caso la Russia si disinteresserebbe della sorte della Serbia!” Ma la guerra tra Austria e Serbia ebbe subito inizio. La Germania entra subito in scena ad assumere la propria parte e l’Inghilterra caldeggia immediatamente un confronto tra le grandi nazioni per circoscrivere il conflitto e non far precipitare le cose tra Austria e Russia. In questo contesto Sir Grey si incontra a Londra con l’ambasciatore francese Cambon e gli sottopone il suo progetto: una mediazione pacificatrice fra Vienna e Pietroburgo da parte di Germania, Francia, Inghilterra ed Italia. Sir Grey ne parla anche con l’ambasciatore germanico principe Lichnewsky e lo prega di ottenere da Berlino una pressione presso Vienna affinché l’Austria non precipiti l’azione militare. Ma la Germania fin dal 24 luglio aveva mandato una nota ai Gabinetti di Parigi, Londra e Pietrogrado nella quale pren- deva apertamente le difese dell’Austria. La Russia, da canto suo, non accetta che l’Austria schiacci la Serbia. Qui si svela il subdolo gioco tedesco. La Russia vuole la pace e chiede che l’Europa esamini e decida il conflitto austro-serbo. La Germania vuole la guerra e desidera che l’Austria agisca autonomamente contro la Serbia. Nel frattempo fa finta di tergiversare, certo per prepararsi meglio agli eventi, e poi dice che la Russia dovrebbe disinteressarsi della faccenda serba in quanto Vienna dichiara di non avere mire territoriali in quella regione. (bugia!) La proposta Inglese per la conferenza fu accettata da tutti, tranne naturalmente la Germania. In caso contrario la guerra sarebbe certo stata scongiurata Tra il Kaiser e lo Zar inizia uno scambio di telegrammi dove il primo gioca d’astuzia chiedendo la pace, il secondo fa di tutto per realizzare l’intento. Ma Guglielmo sta solo prendendo tempo per preparare la guerra. 29 luglio A Berlino il cancelliere tedesco chiama l’ambasciatore inglese e gli notifica la volontà di sottoporre ad una conferenza di grandi potenze la nota inviata alla Serbia. (Ma come? Prima no, poi si?) Infatti alla mezzanotte dello stesso giorno giungeva immediatamente a Sir Grey un dispaccio dell’ambasciatore inglese a Berlino: ”se l’Inghilterra sarebbe rimasta neutrale in un eventuale guerra europea qualora la Germania promettesse di rispettare l’integrità dell’Olanda e di non togliere alla Francia altro che le sue colonie”. Sicuramente a Londra capirono subito che la Germania voleva la guerra. 30 luglio E’ un giorno di stasi, di febbrili consultazioni interne da ambo le parti. Si preparano le armi. 31 luglio La Germania presenta alla Russia l’ultimatum di smobilitazione al quale venne risposto negativamente. 1 agosto Alle ore 17 l’ambasciatore tedesco a Pietroburgo consegna la dichiarazione di guerra al governo russo. Nello stesso giorno la Francia si mobilita. 2 agosto La Germania invade il Lussemburgo ed entra in Francia alla frontiera dell’Est. 3 agosto La Francia a mezzo del suo ambasciatore a Berlino protesta energicamente per la violazione subita dalla Germania, la quale, com’era nel suo ormai malcostume, prima nega che il fatto sia avvenuto e poi alle 18,45 dello stesso giorno fa recapitare dal suo ambasciatore a Parigi la dichiarazione di guerra alla Francia. Contemporaneamente chiede sfacciatamente al Belgio il permesso di passare sul suo territorio con le proprie truppe. Ovviamente gli viene risposto un secco rifiuto. 4 agosto Il Belgio si vede costretto a chiedere aiuto a Francia, Inghilterra e Russia contro la minaccia di un’invasione Tedesca. La Francia rispetterà la neutralità del Belgio. Quando arrivarono le proteste inglesi, lo stesso 4 agosto fu ordinato l’attraversamento della frontiera belga con la forza. Così in quella notte scoppio la guerra anche tra Germania ed Inghilterra. Da ciò si evince la ferma volontà austro-tedesca di innescare la miccia della guerra che coinvolgerà milioni di individui. Ma quale fu ve ramente la causa? La rivalità della Germania, ultima arrivata tra le nazioni industrializzate, con la prima di tutte l’Inghilterra, per la conquista dei grandi mercati internazionali. Oppure la paura dell’espansione dello slavismo e della Russia o ancora i sentimenti di rivincita della Francia. Certo gli imperi centrali erano stretti in una morsa di interessi e in quel periodo ognuno aveva da pensare ai problemi di casa propria. Il Belgio si crogiolava nella sua neutralità pensando solo a commerciare; la Francia ogni tanto gridava revanche, revanche, ma era una posa di pochi, mentre la nazione si adagiava in un tripudio di piacere e mondanità, figuriamoci se aveva voglia di guerra e poi c’era il fattaccio Caillaux che era già sufficiente a destabilizzare la società; e nemmeno la saggia Albione che mai prese parte a guerre di offesa sul continente, semmai prese le parti dell’aggredito, ovviamente con un occhio di riguardo ai suoi interessi e poi doveva pensare all’Irlanda in piena rivoluzione; nemmeno la Russia il cui sconfinato territorio già gli bastava a fargli venire i mal di testa, a cui si aggiungevano gravissimi scioperi di carattere rivoluzionario. Chi dunque minacciava la Germania? Forse la Germania approfittò del momento e per tramite dell’Austria, vedendo le altre potenze in un momento difficile convulso delle loro società tentò il colpaccio. Ricordiamo che Francesco Giuseppe, subito dopo il funerale del nipote, si rivolse a Guglielmo II per un consiglio, questi non esitò ad elargirgli incoraggiamenti, plausi ed aiuti. Notare che il Ministro degli esteri di Berlino, appena tornato dal viaggio di nozze, prese atto della nota di Vienna alla Serbia e pur vedendo il pericolo così ebbe a dire parlando con Krupp von Bohlen: “Io non avrei mai agito così, ma poiché l’Imperatore ha fissato prima la sua linea di condotta, ora non è più possibile nessun passo verso Vienna”. Quindi è chiaro che tutto fu premeditato; prima l’attacco dell’Austria alla Serbia che scatenerà la reazione della Russia e poi a seguire il resto cercando di far apparire la Russia come vera colpevole del conflitto. Sicuramente in tutto ciò Nicola II, timido e debole monarca di natura veramente pacifista, non ha colpa di bellicoso. Si adoperò sino allo spasimo per scongiurare l’irreparabile. 31 luglio Alle 2 del pomeriggio scrive ancora a Guglielmo: “Comprendo che sei costretto a mobilitare; desidero però da te la medesima garanzia che io ti diedi, vale a dire che codeste misure non significano la guerra e che continuiamo le trattative”. La sera stessa il conte Pourtales, ambasciatore a Pietroburgo, consegna a Sasonow la dichiarazione di guerra. Nella notte giunge un telegramma del Kaiser dove, 3 ore dopo la consegna della dichiarazione di guerra, chiede di evitare la minima violazione di frontiera da parte russa. Lo Zar crede che sia una sospensione della dichiarazione e telefona a Sasonow per fermare la partenza dell’ambasciatore tedesco. E’ l’alba del 1 agosto quando il conte Pourtales risponde alla chiamata. Sta mettendosi in viaggio ed è comunque nelle sue funzioni. Così freddamente risponde: “Nulla posso dire intorno a questo dispaccio; forse è precedente alla dichiarazione di guerra. Rivolgetevi all’incaricato di affari americano che ha assunto la tutela dei nostri interessi. Noi partiamo.” Bruscamente interruppe la conversazione. L’Italia Era chiaro che la guerra era stata voluta con un atto di aggressione da parte di Austria e Germania. Queste due si aspettavano di averci al loro fianco, mentre il resto della comunità internazionale si aspettava da noi una presa di posizione contraria o almeno non belligerante. La Triplice Alleanza era di carattere puramente difensivo e l’attacco a Serbia e Belgio erano chiari attacchi bellici finalizzati alla soppressione ed all’annessione. L’Italia non poteva e non voleva macchiarsi di questi atti di fronte all’Europa. Aveva lottato, lei per prima, per l’indipendenza e l’unità, non poteva per prima, ammettere certi atti. Già nel ’13 l’Austria durante i suoi intermittenti conflitti con la piccola nazione slava fece chiedere a Roma se l’Italia l’avrebbe seguita in caso di conflitto, secondo gli obblighi del trattato di alleanza. La paura di una grande Serbia, già vittoriosa con la Romania e Grecia sulla Bulgaria, irritava e preoccupava Vienna a tal punto, che il 9 luglio 1913, si rivolse nuovamente a Roma che, con regolare passo diplomatico, si sentì rispondere nettamente dal marchese di San Giuliano: “Essendo l’azione dell’Au-stria premeditata di carattere eminentemente offensivo, l’Italia non riconosceva il casus foederis”. Questa volta andò bene e Vienna desistette. Memore degli avvenimenti del ’13, nel ’14 l’Italia venne tenuta all’oscuro delle trame viennesi. Berlino invece insiste nell’appoggiare Vienna e quando si viene a sapere che la Serbia acconsentirebbe a smobilitare e cedere l’Albania, Guglielmo II ne rimane desolato. Egli scrive: “Sarebbe un vero peccato! O ora o mai. Si deve mettere ordine una buona volta laggiù”. Questo prova ulteriormente la volontà di Germania ed Austria di aggredire l’Europa. E’ chiaro inoltre che sapevaAlpin del Domm – 5 no bene che l’Italia non li avrebbe seguiti mettendosi subito sul piano del diritto. Questo portò alla proclamazione della neutralità italiana da parte del governo di Antonio Salandra il 2 agosto 1914. Dalla Neutralità all’Interve nto A dire il vero la neutralità italiana fu “neutralità armata”. La nazione vigilava e si preparava anch’essa allo scontro. Conscia dei pericoli, la sua neutralità fu legittima moralmente e giuridicamente. Per opera degli altri due contraenti, i quali agirono senza nemmeno interpellarla, la trentennale alleanza, che costituiva un baluardo di pace in Europa, venne meno e si trasformò in una coalizione offensiva. Gli articoli principali della Triplice Alleanza non danno adito a dubbi od interpretazioni di alcun tipo. Diceva l’articolo III: “Se una o due potenze contraenti, senza provocazione da parte loro, sono attaccate da due o più Potenze non firmatarie del Trattato, e vengono coinvolte in una guerra con esse, sorge il “casus foederis” per tutti i contraenti”. Perché l’Italia fosse obbligata ad intervenire a fianco dei suoi alleati bisognava che questi fossero stati provocati ed attaccati da Potenze estranee alla Triplice. Il che di certo non avvenne nel finire del luglio 1914. D’altro canto l’articolo IV così sancisce: “Se una Potenza che non firmò il trattato, minacciasse la sicurezza di uno dei suoi contraenti, e il minacciato fosse costretto a dichiararle guerra, gli altri due contraenti si obbligano ad osservare verso l’alleato una neutralità benevola. Ciascuno rimane, in questo caso, libero di partecipare alla guerra per far causa comune con l’alleato.” Questo è probante che nei pensieri di Vienna e Berlino la Potenza che minacciava la loro sicurezza era la Russia. Ma analizzando profondamente il contenuto dell’articolo è chiara la grossolana mistificazione, specie osservando obiettivamente la realtà delle cose. Un gioco subdolo, pianificato a dovere, nel tentativo di passare per vittima anziché carnefice. Merito del governo italiano fu quello di capire subito l’arcano e di scegliere la neutralità. 6 – Alpin del Domm Ma per quanto tempo? Con che ripercussioni socio-politiche? E poi una neutralità prolungata nel tempo avrebbe diminuito il prestigio internazionale dell’Italia ed avrebbe, inoltre, tradito e negato i principi nazionali dai quali è assurta a dignità di nazione dopo il doloroso travaglio del Risorgimento. Le trattative diplomatiche svoltesi tra Italia ed Austria sono raccolte nel Libro Ve rde , un volume che l’on. Sonnino presentò alle camere italiane nella storica giornata del 20 maggio 1915. Il primo documento porta la data del 9 dicembre 1914; il Ministro degli Esteri barone Sonnino prega l’ambasciatore italiano a Vienna Duca D’Avarna di far noto al Governo austriaco quanto segue: “L’avanzata militare dell’AutriaUngheria in Serbia costituisce un fatto che non può a meno di formare oggetto di esame da parte dei Governi italiano ed austro-ungarico sulla base delle stipulazioni contenute dell’ar-ticolo VII della Triplice Alleanza. L’articolo VII del Trattato dice: «Nessuno dei due contraenti può iniziare azioni guerresche nella penisola Balcanica senza accordo e consenso dell’alleato». Inoltre, per occupazioni di territori, siano pure temporanee, oltre ad ottenere il consenso dell’alleato, occorre dargli dei compensi. Nell’occasione e per meglio far risaltare la nostra rettitudine, dobbiamo rammentare al Governo Imperiale e Reale che esso, fondandosi appunto sul disposto dell’art. VII, ci impedì, durante la guerra nostra contro la Turchia, di compiere diverse operazioni militari che avrebbero certo abbreviato la durata della guerra stessa.” Il Ministro degli Esteri austriaco conte Berchtold si premurò di rispondere al nostro ambasciatore facendo notare che l’Austria non aveva ancora occupato stabilmente i territori serbi e che Belgrado e Valievo sarebbero state presto evacuate. Asserì anche che non vi era paragone tra l’azione contro la Serbia e quella italiana contro la Turchia. Noi mettevamo a repentaglio l’esistenza ottomana, loro si difendevano dalla Serbia che minacciava l’integrità della monarchia. Concludeva così: “l’I. R. Governo non crede sia il caso, per ora, di addivenire ad uno scambio di vedute in proposito col R. Governo Italiano”. Non mancò la ferma, chiara e lucida risposta dell’on. Sonnino: Telegrafando al duca D’Avarna: “Dite al conte Berchtold che la sua interpretazione è contraria allo spirito e alla lettera dell’articolo VII. Pel fatto dell’avanzata delle truppe austro-ungariche in Serbia e della occupazione di quel territorio, essendosi nominato perfino un Governatore militare di Belgrado, deriva da codesto Governo l’obbligo dell’accordo coll’Italia sulla base dei compensi. Nemmeno possiamo accettare l’argomentazione sua riguardo il precedente della guerra libica. Allora, l’Austria, sulla base dell’artico-lo VII, ci impedì, non solo occupazioni momentanee, ma anche semplici operazioni di guerra, come bombardamenti. Non vale l’argomento che durante la guerra libica lo status quo era minacciato da noi. L’articolo VII parla espressamente dello status quo in Oriente e nella regione dei Balcani e non già dell’impero Ottomano come tale. E la spedizione dell’Austria in Serbia ha precisamente turbato lo status quo e l’equilibrio previsti dall’articolo VII.” Così chiudeva l’on. Sonnino: “Voglia l’Eccellenza Vostra tener presente che consideriamo come gravemente dannosa ai nostri interessi l’eventualità di prolungate conversazioni con Vienna circa la interpretazione di massima dell’articolo VII, mentre maturano gli avvenimenti che ci facciano trovare di fronte a fatti compiuti. Nel colloquio che ella avrà dal conte Berchtold voglia confermargli quanto le comunicavo col mio telegramma del 9 corrente circa le tendenze che si constatano nel Parlamento e nella opinione pubblica; e circa la somma opportunità nel comune interesse, di stabilire la relazione fra i nostri due Paesi sopra una solida e permanente base di fiducia e costante amicizia”. Le risposte dell’on. Sonnino furono precise e circostanziate, ineccepibile per forma e contenuto. Ma l’Austria continuò ad essere sfuggente e subdo- la. Il 20 dicembre del 1914 in un colloquio avvenuto a Vienna fra il duca D’Avarna ed il conte Berchtold, gli austriaci si dicevano disposti a trattare i compensi dell’Italia sulla base dell’articolo VII. In realtà prendevano tempo. Cambiano i giocatori: il barone Burian succede al conte Berchtold. E’ chiaro che l’Austria “trama” e ne è prova il colloquio tra D’Avarna e Burian il 18 gennaio 1915. Così risponde il secondo al nostro ambasciatore: “L’Austria contro la Serbia fa una guerra difensiva, non essere quindi possibile parlare della cessione dei territori; anche l’Austria, sempre in forza all’articolo VII, può chiedere dei compensi all’Italia per l’occupazione delle isole del Dodecaneso e di Valona. Però studierò meglio la questione”. Il 23 gennaio 1915 l’on. Sonnino richiese, sollecitando con forza, una risposta conclusiva circa le pretese dell’Italia sui compensi. Per tutta risposta, Vienna il 28 gennaio, chiese all’Italia di avanzare le proprie richieste. La situazione diventa tesa e le parti si scontrano a colpi di diplomazia con toni perentori. L’on Sonnino incalza. Il 7 febbraio replica affermando di volere subito una risposta di massima sulla questione dei territori “posseduti” dall’Austria - Ungheria. Il 9 febbraio, duramente ma sfuggevolmente il barone Burian risponde: ” la questione è grave, parlerò con gli altri Ministri, col conte Sturgck e col conte Tistza. Poi si vedrà, si parlerà, si tratterà”. Naturalmente non si fa aspettare la risposta di Sonnino, che telegrafa al duca D’Avarna il giorno 12 febbraio, chiedendo di riferire, energicamente, che erano ormai passati due mesi da che furono posti i quesiti, sottolineando il palese desiderio austriaco a non trattare. Tra l’altro rimarcava: “Di fronte a questo contegno persistente dilatorio a nostro riguardo, il Regio Governo si trova costretto, a salvaguardare la propria dignità, a ritirare ogni sua proposta o iniziativa di discussione e a trincerarsi nel semplice disposto dell’art. VII. Non ho bisogno di rilevare che se di questa dichiarazione e del disposto dell’art. VII il Governo austro-ungarico mostrasse col fatto di non voler tenere dovuto conto, ciò potrebbe portare a conseguenze delle quali il Regio Governo declina si da ora ogni responsabilità.” La corda era palesemente tesa, ma da Vienna il conte Burian facendo finta di meravigliarsi della condotta del suo predecessore, tenta ancora di prendere tempo. Il 9 marzo l’Austria, messa alle strette, acconsente alle trattative. Hanno capito che l’Italia non scherza, ha ferma intenzione di far valere il suo diritto e che, allo stesso tempo, vuole mettere allo scoperto le vere intenzioni degli imperi centrali. L’on. Sonnino accetta, ma pone delle condizioni: “1 - assoluto segreto dei negoziati 2 – quando l’accordo sia concluso esso dovrà portarsi immediatamente ad effetto. 3 – per eliminare nuove questioni ed attriti ed il ripetersi di incidenti incresciosi, e per lasciare insieme la necessaria libertà di movimenti a codesto Governo nella condotta della guerra, occorre che l’accordo investa la intera durata della guerra stessa in quanto riguardi la possibile invocazione dell’articolo VII”. Ancora: “Quando codesto Governo accetti queste basi ci dichiariamo pronti a specificare le nostre domande restringendoci a quel minimo di compensi che riteniamo indispensabile per raggiungere gli scopi stessi dell’accordo invocato, cioè di eliminare durevolmente tra i due stati le occasioni di attriti …”. Purtroppo il 13 marzo il duca D’Avarna avvisa l’on. Sonnino che il Barone Burian non accetta le tutte le condizioni, in particolare l’immediata occupazione dei territori ceduti in caso di accordo. Bisogna però aspettare l’8 aprile perché, finalmente, il nostro Governo possa formulare le proprie richieste ed inviarle a Vienna. In undici punti furono descritte le nostre richieste, che in realtà, erano modestissime, ma per noi importanti. Di seguito i punti salienti: “Art. I – L’Austria - Ungheria cede all’Italia il Trentino coi confini che ebbe il Regno d’Italia nel 1811. Art. II – Si procede ad una correzione a favore dell’Italia del suo confine orientale, restando comprese nel territorio ceduto le città di Gradisca e Gorizia. Art.III – La città di Trieste col suo territorio, che verrà esteso al nord sino a comprendere Nabresina; al sud compresi gli attuali distretti giudiziari di Capo d’Istria e Pirano, sarà costituito in Stato autonomo e indipendente nei riguardi politici, internazionali, legislativi, giudiziari ed amministrativi, rinunziando l’Austria - Ungheria ad ogni sovranità su di esso. Dovrà restare porto franco. Non vi potranno entrare milizie austroungariche ne italiane. Art. IV – L’Austria - Ungheria cede all’Italia il gruppo delle isole Curzolari, comprendente Lissa, Lesina, Cazza e Meleda. Art.V – L’Italia occuperà subito i territori cedutile. Trieste ed il suo territorio saranno sgombrati dalle autorità e truppe austro-ungariche. Art.VI – L’Austria - Ungheria riconosce la piena sovranità italiana su Valona e il suo Hinterland. Art. VII – L’Austria - Ungheria si disinteressa dell’Albania. Art. VIII – L’Austria - Ungheria concederà completa amnistia e immediato rilascio a tutti i condannati politici e militari provenienti dai territori ceduti e sgomberati. Art. IX – Diverse obbligazioni d’indole finanziaria. Art. X – L’Italia s’impegna a mantenere una perfetta neutralità durante tutta la presente guerra nei riguardi dell’Austria e della Germania. Art. XI – Per tutta la durata della presente guerra L’Italia rinunzia ad ogni facoltà di invocare ulteriormente a proprio favore le disposizioni dell’art. VII del Trattato della Triplice Alleanza; e la stessa rinunzia fa l’Austria Ungheria per quanto riguardi l’avvenuta occupazione italiana delle isole del Dodecaneso”. Come dicevamo non erano richieste importanti o di particolare rilevanza per l’Impero. Si mirava all’accorpamento di quei territori dove da sempre gli italiani erano stati sin dai tempi della repubblica veneziana e dove allora (prima dell’”epurazione Alpin del Domm – 7 titina” nel secondo dopoguerra) si parlava normalmente italiano. Il 13 Aprile arriva una comunicazione telegrafica sconvolgente. Il nostro ministro Cucchi a Sofia comunica al’on. Sonnino che “nei circoli politici di Vienna si parla di pace con la Russia per avere le mani libere contro l’Italia”. Si attende comunque la risposta dell’Austria, che giunge puntuale il 16 di aprile: “… assolutamente non accettiamo le proposte formulate agli articoli 1, 3 e 4. Soltanto nel Tirolo Meridionale possiamo allargarci in concessioni. Poi, niente occupazione immediata dei territori da cedersi.” Questo fu il risultato di tre mesi di discussioni. Tra il 21 e il 25 Aprile continuarono i contatti, che però furono sterili. Burian non dava segnali di distensione e tanto meno volontà di arrivare ad un accordo. Il 25 aprile, sfinito ma tenace negli intenti, dopo ripetute pressioni andate a vuoto, il duca D’Avarna telegrafa all’on. Sonnino: “… un accordo con l’Austria - Ungheria sulla base delle proposte da noi formulate sembra quasi irrealizzabile allo stato attuale delle cose.” Il 29 aprile la doccia fredda. Arriva la prova della preclusione ad ogni addivenire amichevole, al ricomporsi delle distanze e lo smascheramento dei veri intenti di Austria e Germania. In quella data il barone Burian convoca al Ballplatz il nostro ambasciatore per “comunicazioni urgenti”. Così si esprime il ministro austriaco: “… malgrado la nostra più buona volontà non possiamo accettare le proposte dell’Italia perché esse toccano direttamente gli interessi dell’Austria - Ungheria. Per Trieste l’autonomia è inutile in quanto, date le cure paterne che Vienna ha sempre avuto per essa, quella città gode già di una larga autonomia. La cessione all’Italia delle isole Curzolari cozza egualmente contro difficoltà insormontabili. Circa la cessione di territori proposta nel Friuli, essa priverebbe l’Austria di 8 – Alpin del Domm una frontiera indispensabile per la sua difesa. Nel Tirolo, soltanto, possiamo mantenere le concessioni fatte”. Il 3 maggio l’on. Sonnino rispose fermo e risoluto denunziando il trattato della Triplice e che avrebbe tratto le inevitabili conclusioni. Fu chiaro che Vienna tentava di tenere buona Roma con qualche regalia e negando ad essa l’aspirazione di concludere il suo percorso di riunificazione delle genti italiane. Nei quattro mesi di trattative la situazione in Italia era pesante. Le fazioni erano trincerate ognuna sui propri ideali ed intendimenti. Si misuravano sulle pagine dei quotidiani, nelle piazze, nei circoli neutralisti, irridenti, interventisti, socialisti “tedescofili” e si mescolavano in quel turbine che è il confronto politico che nasconde però anche l’interesse economico. In quel periodo si udirono forti le voci di alcuni protagonisti degli eventi a venire. A Milano Benito Mussolini dalle colonne de “Il Popolo d’Italia” chiamava a raccolta “l’operosa Italia” per chiedere al Governo l’atto definitivo, la guerra. Grandi nomi si schierarono: Filippo Corridoni, eroe della Trincea delle Frasche ed intellettuali legati al Risorgimento del calibro di D’Annunzio e Marinetti. Dalle terre irredenti giungono e si fanno sentire due futuri martiri: Cesare Battisti e Nazario Sauro. Il fronte interno si spacca, in un certo senso la nazione vacilla, tentenna. Si tenta di sostituire il Governo interventista di Salandra con uno neutralista di Giolitti, ma non è più tempo del “buon governo”. Già il 5 maggio, a Quarto, l’indomabile e vulcanico D’Annunzio proclamava idealmente la guerra, scaldando gli animi ed accendendo un sentimento di unità, primo ed unico, che attraversò tutto il Paese. Giuseppe Mazzini disse: ”Scrivendo una negazione sulla propria bandiera, un popolo non evita la morte, ma v’accoppia il disonore”. L’entrata in guerra dell’Italia fu allora visto come atto dovuto per finire quello che i padri risorgimentali avevano iniziato, per dare la libertà alle genti italiane. Voluta dal popolo, per il popolo. Il 17 maggio, alla sera, il “Poeta della guerra” rivolgeva un vibrante appello agli Italiani dall’alto del Campidoglio: “Guerra, Guerra!” Commosso chiese ai romani presenti: “Sonate la campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il popolo se ne fece padrone, or è otto secoli, e v’istituì il parlamento. O Romani, è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana!” Dopo la storica seduta parlamentare del 20 maggio, nel pomeriggio del 22 l'on. Sonnino aveva fatto telegrafare all'ambasciatore italiano a Vienna il testo della dichiarazione di guerra all'Austria - Ungheria, con preghiera di recapitarlo immediatamente al barone Burian. Si accertò che le linee telegrafiche fra l'Italia e l'Austria non funzionavano e che la dichiarazione non era stata recapitata. Di conseguenza la mattina del 23, l’on. Sonnino consegnava all'ambasciatore austriaco a Roma la dichiarazione di guerra insieme con i passaporti. Fu a tarda sera del 23 che l’on. Sonnino ricevette dal duca d'Avara il telegramma con cui gli annunciava di aver consegnato al ministro Burian la dichiarazione. Il testo era il seguente: Secondo le istruzioni ricevute da S. " M. il Re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l'onore di partecipare a S. E. il ministro degli Esteri d'Austria - Ungheria la seguente dichiarazione: già il 4 del mese di maggio furono comunicati al Governo Imperiale e Reale i motivi per i quali l'Italia, fiduciosa del suo buon diritto, ha considerato, decaduto il Trattato d'Alleanza con l'Austria - Ungheria, che fu violato dal Governo Imperiale e Reale, lo ha dichiarato per l'avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso la sua libertà d'azione. Il Governo del Re, fermamente deciso di assicurare con tutti i mezzi a sua disposizione la difesa dei diritti e degli interessi italiani, non trascurerà il suo dovere di prendere contro qualunque minaccia presente e futura quelle misure che siano imposte dagli avvenimenti per realizzare le aspirazioni nazionali. S. M. il Re dichiara che 1' Italia si considera in stato di guerra con l'Austria - Ungheria da domani. Il sottoscritto ha l'onore di comunicare nello stesso tempo a S. E. il ministro degli Esteri austro-ungarico che i passaporti sono oggi consegnati all'ambasciatore im- periale e Reale a Roma. Sarà grato se vorrà provvedere fargli consegnare i suoi. Duca d'Avarna" . Il 23 maggio, alla sera, partivano da Roma per il Quartier generale Italiano il generale Cadorna e il generale Porro, salutati alla stazione da S. E. Salandra. Al momento della partenza il presidente del Consiglio e il generale si abbracciarono e si baciarono mentre la folla gridava commossa: Viva l'Italia! Viva l' Esercito! Viva Cadorna! Viva Salandra! Nello stesso giorno il barone Macchio, ambasciatore austriaco presso il Quirinale e il principe Giovanni SchönburgHartenstein, ambasciatore austriaco presso il Vaticano, ricevettero i passaporti; il barone Macchio affidò all'ambasciatore Spagnolo don Ramon Pina Millet la protezione dei sudditi austro-ungarici residenti in Italia e prese congedo, quello stesso giorno, dal ministro Sonnino. Anche al principe di Bulow, dietro sua richiesta, gli furono consegnati i passaporti. Il barone Macchio e il principe di Schönburg-Hartenstein partirono il giorno 24 alle ore 20, alle 21.30 partì il principe di Bulow; alle 21.45 partirono il barone De Taun, ministro di Baviera presso il Quirinale, e il barone De Ritter, ministro di Baviera presso la Santa Sede. La sera stessa del 24 partiva da Vienna il duca d'Avarna e qualche giorno dopo lasciava Berlino l'ambasciatore italiano Bolatti. IL PROCLAMA DI VITTO RIO EMANUELE III ALL' ES ERCITO E ALLA MARINA Soldati di terra e di mare ! L'ora solen" ne delle rivendicazioni nazionali ó sonata. Seguendo l'esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamentî dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomabile slancio saprà di certo superarla. Soldati ! A voi la gloria di piantare il tricolore d' Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri" . L’ITALIA ERA IN GUERRA! Tratto da “La guerra italiana” 4 luglio 1915 n° 6, pag. 118 Alpin del Domm – 9 È FINITA! SI TORNA A BAITA! Questa storia ha inizio nel 1943 quando, il 25 luglio, con la caduta del fascismo ed il fulmineo dissolvimento del regime, mi trovai, repentinamente, del tutto impreparato, orfano del mondo nel quale ero cresciuto e mi vidi crollare addosso l’universo intero. Eravamo, allora, all’oscuro di tutto: campi di sterminio, eccidi di innocenti, forni crematori, fucilazioni di chi disertava, persecuzione di ebrei e di oppositori del regime, gulag sovietici, cui si sarebbero aggiunti poi il movimento partigiano e le foibe. Cresciuto, come tutti i ragazzi della mia generazione, nelle organizzazioni giovanili del regime, ne avevo percorso tutti i livelli: figlio della lupa, balilla moschettiere, avanguardista, cadetto, giovane fascista, universitario fascista, indottrinato a dovere dalla cultura del “libro e moschetto, fascista perfetto”. Al punto che, arruolato “d’autorità” (cioè a seguito di sollecitazione del partito) a 18 anni, nei battaglioni dei giovani volontari fascisti che si sarebbero fatti onore a Bir el Gobi e poi congedato, sempre “d’autorità”, per ultimare gli studi, presentai quattro successive domande - tutte regolarmente respinte - di arruolamento volontario in reparti destinati al fronte. Andò poi a finire che - risultato idoneo, alla visita di leva, per le truppe alpine venni invece assegnato, nel maggio 1943, quando mi arrivò la “cartolina rosa”, al XVII battaglione Allievi Uffi ciali di Complemento dei Granatieri, che raggiunsi a Forlì. Ma di lì a poco, profilandosi lo sbarco degli alleati, tutti i battaglioni A.U.C. della mia classe di leva, 1922, vennero caricati sulle tradotte e spediti in tutta fretta, per essere impiegati con compiti anti10 – Alpin del Domm paracadutisti, nelle Puglie, dove ci colse il comunicato di Badoglio lasciandoci nello sconcerto più disastroso. E se la guerra 1940-45 ebbe aspetti e conseguenze pesantissime per i giovani di tutte le nazioni che vi parteciparono, per gli italiani l’ingloriosa resa dell’ 8 settembre 1943 fu una catastrofe immane che impose, a chi venne colto all’estero o nell’Italia del Nord, delle tragiche scelte obbligate, scelte che coinvolsero, con minori rischi, anche coloro i quali si trovavano nell’Italia del Sud. Per quel che mi riguarda personalmente, ad evitare di ess ere preso in carico dagli alleati nei reparti dei “prigionieri liberi” (uniforme di seconda mano ritinteggiata in marrone scuro) destinati a lavori di fatica, scarico navi nei porti etc., o di disertare con il rischio di finire nel carcere militare di Gaeta, preferii ripresentarmi ai centri di raccolta dell’ Esercito Italiano che, in qualche modo, stava tentando di riorganizzarsi e dove agli sbandati una gavetta di brodaglia veniva distribuita ed un letto a castello infestato di cimici c’era per tutti. La prima cosa che ci dissero, quando nella zona di Oria riprendemmo il corso ufficiali, fu che - dopo tre anni di lotta, da parte del regime fascista, contro la “perfida Albione” e la minaccia del “mostro sovietico”, con l’aggravante della resa senza condizioni - la guerra non era finita perché, a seguito della dichiarazione di guerra del governo Badoglio, datata 15 ottobre 1943, all’ex-alleato, il nemico era cambiato e dovevamo riprendere il fucile per riscattare l’onore della Patria, schierandoci a fianco degli alleati. Intanto l’addestramento in qualche modo continuava. Mal conciati, divisa a brandelli, pezze da piedi negli scarponi tenuti assieme da filo di ferro, affamati (un mestolo di brodo con sette, contati uno ad uno, maccheroni, una scatola di corneed beef ogni quattro di noi e un po’ di pane a mezzogiorno; un cucchi aio di ceci ed un cucchiaino di marmellata con una razione di galletta la sera) si tirava avanti. Fino a che, circa due mesi dopo, avendo appreso che a Bari era in costituzione un reparto di alpini, chiesi di esservi assegnato come soldato semplice, rinunciando a proseguire il corso ufficiali. La domanda venne accolta, ma con la “bassa di passaggio” arrivò, inattesa, anche la nomina a Sergente A.U.C. E quando, con i gradi nuovi fiammanti sul braccio ed il filetto d’oro cucito sul bavero della giacca grigio-verde, mi presentai al battaglione, i sottufficiali anziani mi accolsero con un ironico “Ti tses un vuluntari? Ti tses ‘na ciula! E se non vuoi ess ere il primo a morire quando andremo in linea, togliti subito quel filetto”. Mi guardai bene dal replicare, anche perché cominciavo ad intuire che avevano ragione loro (ne avrei avuta la conferma qualche mese più tardi, quando un Gebirgsjäger mi scaricò addosso, per fortuna senza colpirmi, mezzo caricatore della loro mitragliatrice) ma il filetto dorato lo tolsi solo dopo cinque mesi ininterrotti di prima linea, quando mi arrivò la promozione a Sottotenente ed il trasferimento, per il servizio di prima nomina, al Btg. Alpini “Monte Granero” che, mentre il Btg. Alpini “Piemonte”andava a riposo, sarebbe rimasto al fronte per un altro mese. E quando il “Monte Granero”, il battaglione dei “grigi” (classi 1907-1908-19091910) venne inviato in servizio d’ordine pubblico in Sicilia - un po’ per tener testa all’ E.V.I.S., Esercito Volontario Indipendenza Siciliana, che per buona sorte non si mosse dalle Madonie, montagne della Sicilia centrale, un po’ per dare supporto ai Carabinieri nella caccia al bandito Giuliano - ne seguii il destino, memore di una delle regole non scritte dei “najoni”: “Tenent e, se Lei mi comanda, La seguo, ma volontario mai! E se poi mi ammazzano, alla mia mamma lo va a raccont are Lei”. Sciolto, con la fine della guerra, il ”Monte Granero” ed inviati in congedo tutti gli alpini, dopo aver consegnato il materiale rimasto, incombenza affidatami perché ero il più giovane ufficiale del battaglione, venne anche il mio turno. Ci vollero, per risalire l’Italia, due o tre giorni: automotrice da Palermo a Catani a, traghetto fino a Reggio Calabria, vagone viaggiatori con sedili di legno vecchio tipo da Reggio a Roma Termini. tradotta “cavalli 8 – uomini 40 da Roma Tiburtina a Bologna, autobus di fortuna da Bologna a Mestre, filovia da Mestre a Treviso e, per finire, autostop sulla statale pontebbana fino a quando un mezzo dell’Esercito, vistomi in divisa, si fermò e mi diede un passaggio da Treviso a Pordenone dove a mia madre, che mi aspettava vestito di stracci, venne quasi un accidente quando mi vide arrivare invece con la divisa di Ufficiale degli Alpini. Memorabile poi la cena per festeggiare il ritorno degli alpini del mio paese, sopravvissuti alla guerra: polenta e baccalà, reduci 40, fiaschi di vino 80, una incredibile media di quattro litri a testa. Fu l’ultima sbornia perché, se fino a pochi mesi prima il nostro problema maggiore era stato quello di sopravvivere … “chi è morto, oggi, a chi toccherà domani?” era già iniziata, per tutti noi, una seconda guerra, per taluni aspetti più dura della precedente, quella per la pagnotta. Perché, mentre negli anni del servizio militare c’era mamma naja che pensava a tutto, vitto, vestiario, alloggiamento o almeno una tenda ove trovar riparo, quand’era possibile, dalle intemperie, adesso bisognava rimboccarsi le maniche per ricostruire l’Italia, far quadrare il pranzo con la cena, procurarsi un alloggio per poter sposare la “morosa” e farsi una famiglia. L’automobile era un oggetto del desiderio, riservato a pochi privilegiati. L’acquisto di una casetta o anche solo di un piccolo alloggio una chimera. Ma c’era anche, dopo anni di autarchia e di isolamento culturale, il bisogno di allargare le proprie conos cenze, di studiare, confrontarsi con le altre scuole. Di qui la ricerca, quasi spasmodica, nelle bancarelle dove i libri di seconda mano si potevano acquistare con pochi soldi, dei testi pubblicati da Autori stranieri. La televisione, in quegli anni, stava ancora muovendo i primi passi. Computer, stampanti, fax, con tutta la tecnologia di cui oggi disponiamo, non erano ancora nati. Ma non ce ne preoccupavamo molto, perché, per noi, la miglior tecnologia di quei tempi consisteva nei contatti umani, nei confronti con altri coetanei usciti dalla bolgia infernale della guerra indenni nel fisico, ma segnati a vita nell’animo. Non dimenticherò mai, infatti, l’incontro, all’ostello della gioventù di Vienna, con sei ragazzi di altrettante diverse nazionalità: un americano, un inglese, un francese, un tedes co, un austriaco, un australiano. Uno scambio continuo di piccole, banali cortesi e, nella camerat a che ci ospitava, nella mensa, durante le visite alla città ... “hai un po’ di sapone? … mi passi, per cortesia, un panino? … hai dell’ago e del filo? … funziona bene il tuo rasoio” … ma anche di ricordi … “dove hai combattuto? … in quale specialità?”… Rammento, in particolare, l’incontro, a Ferlach, in Carinzia, dov’ero stato invitato ad una festa nuziale, con un simpatico ragazzo austriaco che, ad un certo momento, mi chiede: “Hai preso part e all’ultima guerra?” … “Si – gli rispondo con un battaglione di alpini. E tu?” ….. “Con i Gebirgsjäger della Edelweiss, fronte di Cassino” …”Mi trovavo là anch’io, a pochi chilometri, sulle vicine montagne. E tu?” … “Ero a Monte Mare” …” Io a Monte Marrone, di fronte a voi” … Un attimo di silenzio, poi lui, guardandomi con un certo imbarazzo, mi chiede “E adesso, cosa facciamo?” … “La guerra è finita – replico subito, tendendogli la mano – e ci beviamo sopra.” Finì così, con un brindisi, anche all’ostello, dove sette ragazzi che il destino, qualche anno prima, aveva messo gli uni contro gli altri, avevano subito simpatizzato, confidandosi i fatti più salienti nei quali erano stati coinvolti. Ma quello che si chiedevano più spesso era che senso avesse avuto affront are in combattimento, a vent’anni, altri ventenni che vestivano una divisa diversa dalla loro solo perché nati 50-100 km. più a nord o a sud del paese che aveva dato loro i natali. Ci chiedevamo quale senso avess e avuto essere mandati contro altri giovani di etnia, tradizioni, religione a volte simili alle nostre, ma a volte molto diverse solo perché la cicogna, per loro, aveva deciso di ferm arsi altrove. Ci chiedevamo perché molti nostri coetanei erano stati mandati a morire poco più che adolescenti (e in qualche caso, come stabilivano allora le leggi in Italia, quando non avevano ancora nemmeno il diritto di voto), nel nome di ideologie contrapposte provocate, per sete di potere, dalla follia di dittatori sanguinari o giustificate dalla necessità di doversi difendere da aggressioni immotivate e pretestuose. Quanto a noi italiani, ci avevano raccontato che dovevamo combattere per la libertà, per liberarci da una tirannia i cui sostenitori, nel ventennio, erano rappresentati da folle far- neticanti che a Piazza Venezi a applaudivano i bellicosi e trionfalistici discorsi di Mussolini, mentre gli oppositori del regime – che alla caduta del fascismo sarebbero diventati milioni – si facevano vivi solo il I maggio di ogni anno, quando immancabilmente, sulla cima di qualche campanile, vedevamo sventolare la loro bandiera. Ci avevano detto che combattere per la libertà significava soprattutto libertà di espressione e di pensiero mentre, a conti fatti, ci è solo consentito di pensarla come ci pare, ma non di esprimere il nostro pensiero, se non è allineato a quello dei go- vernativi di turno al potere, per non correre il rischio d’essere accusati di razzismo. Ci avevano detto che ci battevamo per una Italia migliore, ma ci siamo trovati poi in una nazione allo sbando, dove la delinquenza dilaga, dove violenza e ruberie non lasciano molto spazio alle persone oneste, dove invece di persegui re i farabutti vengono colpevolizzati la polizia e chi osa difendersi, dove le donne sono libere di esibire la loro epidermide, ma non di uscire da sole di sera senza correre il rischio di essere aggredite, dove la pen a di morte è stata abolita solo formalmente, perché ogni giorno ci sono degli assassini che la infliggono quasi impunemente ai malcapitati di turno. Tutte cose che nei regimi dittatoriali, come quello del ventennio, venivano represse con durezza e, nel paradiso sovietico, spedendo avversari e fuorilegge a svernare in Siberia. E ancora oggi, mi sorprendo spesso a chiedermi se è per questa libertà che ho combattuto, rischiando la vita. Per lascia- re ai nostri figli e nipoti una Patria allo sfascio ed un futuro privo di valori e di certezze, pieno soltanto di incognite? Sergio Pivetta Grazie Sergio per averci raccontato il tuo dopoguerra a settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale Alpin del Domm – 11 L'OROLOGIO TORNA INDIETRO DI UN SECOLO CON GLI ALPINI E LA GRANDE GUERRA 2015 1919 ECCE HOMO! Il coraggio dell’Uomo, vero, determinato, che ha sfidato il rischio e il pericolo, dimostrando ai più che si può sfidare e vincere contro un mondo senza regole. La foto dell’Uomo è prima stat a pubblicata sul web e poi sui giornali il giorno dopo: la didascalia più appropriata avrebbe dovuto essere castigat ridendo mores … (conoscendolo, l’Uomo avrebbe certamente apprezzato, magari di fronte a un piatto con delle uova!) La foto e l’Uomo insegnano molto: il gesto è storico, equiparabile a quello avvenuto il 4 novembre 1919 per la Bandiera italiana esposta fuori dalla sede dell’ANA nella Galleria a Milano. La città - come molte altre italiane – era percors a da bande di facinorosi che chiedevano il ritiro di tutte le bandiere esposte. Le autorità suggerirono agli Alpini di ritirare la Bandiera, vista come “provocazione”. Ma gli Alpini, tutt’altro che disposti a subire l’intimidazione, chiarirono ai dimostranti che avrebbero difeso la Bandiera con tutti i mezzi e a tutti i costi (soprattutto sacrificando l’unica macchina da scrivere presente in sede e già nelle mani del corpulento cappellano militare, pronto a imitare il gesto del Valsecchi in Libia). I teppisti batterono in ritirata e la sola Bandiera rimasta esposta in quel giorno in Milano fu quella della neonata Associazione Nazionale Alpini. Se quell’episodio è ancora oggi ricordato, ebbene, il gesto del nostro Uomo Parazzini deve essere a maggior ragione esaminato dal punto di vista morale: il coraggio delle azioni e il saper agire! Il coraggio di agire per il bene comune è quello che oggi sembra mancare soprattutto alle giovani generazioni: l’Uomo Parazzini ha avuto il coraggio della propria azione difendendo i suoi valori più cari, dimostrando che anche con gesto pacifico, ma fastidiosissimo per i bèceri, si può fare! E ai delinquenti delle cronache attuali, ancora una volta vestiti di nero come un tempo, non possiamo altro che ricordare che la servitù è male volontario dei popoli ed è colpa dei servi più che dei padroni. Abbì 12 – Alpin del Domm Una complessa impresa rievocativa permetterà di seguire passo passo tutto quanto accadde nelle trincee innevate e nelle retrovie durante il primo conflitto mondiale, che all'Italia costò lutti, sacrifici e una nuova coscienza identitaria. Può la celebrazione di un evento durare quanto l'evento stesso? Sembra una bizzarra domanda dalla riposta dubbiosa e non immediata. Ma se l'evento in questione è la prima guerra mondiale che, per l'Italia, durò quattro anni, verrebbe naturale rispondere "no" senza esitazioni. E sbaglieremmo in modo clamoroso e imprevedibile. Ci hanno pensato gli alpini del gruppo Milano Centro "Giulio Bedeschi", con infinita pazienza, grande capacità organizzativa, nonché rigore e passione per vicende storiche e radici da non abbandonare all'oblio, a mettere in piedi la più massiccia e ben strutturata campagna di ricordi, evocazione e partecipazione emotiva a quella tragica epopea di un secolo fa che fu la Grande Guerra. Solo degli alpini, abituati a percorsi lunghi, silenziosi e tenaci, potevano riuscire in simile impresa che, alla vigilia del suo incipit, si annuncia come un racconto complesso e controverso, vissuto da un'intera nazione, divisa fra retorica della guerra e sacrificio consumato fra monti del Nord Est, trincee, neve e reticolati d'alta quota. Chi entrasse nel sito del Gruppo Milano Centro www.alpinimilanocentro.it, in questi giorni troverebbe l'indicazione che "in questa data la Guerra non è ancora stata dichiarata", ma già a partire dal giorno 20 maggio potrà leggere una pagina dedicata alla seduta del Parlamento It aliano che decretò la nostra entrata in guerra. Il giorno 21 sarà ricordato con una frase celebre di Mazzini e con i versi del Carducci inneggianti a Trento e Trieste libere. Il 22 verrà pubblicato il discorso di Quarto da parte di D’annunzio (riprodotto in pdf). Il 23 comparirà il proclama regio di S.M. il Re d’Italia, ultimo Bollettino Ufficiale del Ministero della Guerra e considerato primo Bollettino di Guerra per rispetto al Re. Il 24 ci sarà la dichi arazione di guerra con la lista dei belligeranti, come da documento storico. Dal 25 comparirà il primo Bollettino di Guerra, numerato 2 per i motivi sopra descritti. Questo bollettino riferirà ovviamente le operazioni del giorno prima. E così per tutti i 4 anni a seguire, giorno dopo giorno; con accompagnamento di approfondimenti e curiosità legati al momento bellico, ma con un occhio di riguar- do a quanto succedeva nel frattempo nelle retrovie, e in special modo a Milano. Al momento gli alpini milanesi del gruppo Bedeschi, grazie al lavoro certosino del Comitato per il Centenario (presidente Alessandro Vincenti; soci sottoscrittori Silvio Anselmi, Andrea Bianchi, Luca Geronutti, Renzo Giusto, Gianluca Marchesi e Paul Wilcke), hanno già predisposto 3.303 file per più di 2 GB di contenuti con riferimento al solo anno 1915: raro esempio civico e storico, fulcro di studio, riflessione e aggiornamento per molti, oltre che punto di riferimento per studenti e insegnanti di ogni livello. Ma anche per ogni singolo cittadino che voglia ripercorrere, giorno dopo giorno, quanto i nostri bis-nonni e nonni hanno dovuto fare e patire, compiendo il loro dovere, per portare a compimento l’Unità d’Italia e liberare le terre irredente. Ma questo è solo un primo gradino, importante ma pur sempre un solo primo appuntamento. È già pronta infatti una seconda iniziativa, un Congresso dal titolo “Mangiar si deve”, che il prossimo 17 giugno a Milano in Palazzo Cusani, prestigiosa sede del Comando Militare Esercito Lombardia e del NATO Rapid Deployable Corps Italy, riunirà esperti e cultori di alimentazione per parlare e dibattere di cibo consumato al fronte. E si discuterà degli scaldarancio (per avere pasti sempre caldi in trincea), di razioni K, di approvvigionamenti, di trasferimenti in quota di acqua potabile, di come il caffè entrò nella prima col azione degli italiani e il riso, invece, fu rifiutato dai soldati del Sud. E così via, spigolando fra rel azioni scientifiche e curiosità di quei tempi. Perché, guerra o non guerra, mangiar si doveva. Renzo Giusto - Silvano Guidi Seguite i nostri progetti e gli approfondimenti sul sito del Gruppo: www.alpinimilanocentro.it