Il cervello e la sua modificabilità

Il cervello e la sua modificabilità
Di P. Perozzo, K. Tatu - Ultimo aggiornamento Domenica 04 Marzo 2012 14:09
Fino a non molti anni fa era opinione comune credere che il cervello, in quanto macchina
straordinaria e altamente complessa, non fosse modificabile e le sue cellule, i neuroni, fossero
destinati a una progressiva ma inesorabile morte, più accentuata dopo i venticinque anni.
Finalmente, alle soglie del terzo millennio, si è confermato una volta per tutte che il sistema
nervoso è in grado di modificare la propria struttura in risposta sia agli stimoli provenienti
dall’organismo sia a quelli provenienti dall’ambiente esterno.
Introduzione
Fino a non molti anni fa era opinione comune credere che il cervello, in quanto macchina
straordinaria e altamente complessa, non fosse modificabile e le sue cellule, i neuroni, fossero
destinati a una progressiva ma inesorabile morte, più accentuata dopo i venticinque anni. A
sostegno di ciò l’impossibilità di studiare il cervello in vivo a livello microscopico e l’evidenza
clinica che dimostrava quanto fossero rare le remissioni complete dei sintomi in pazienti con
danni al sistema nervoso centrale. La conseguenza più ovvia è stata per anni la scarsa
considerazione per l’attività riabilitativa di pazienti con patologie neurologiche acquisite o
congenite.
Nel 1998, una svolta decisiva la diede lo svedese Peter S. Eriksson pubblicando sulla
prestigiosa rivista Nature Medicine uno studio (1) che dimostrava come anche le cellule nervose
potevano essere soggette al fenomeno della mitosi; i risultati, in seguito replicati in varie parti
del mondo, furono osservati soprattutto a livello dell’ippocampo e delle strutture periventricolari
dell’encefalo.
A questo punto si rese necessario rivedere alcune posizioni scientifiche sulla funzionalità
cerebrale e, in particolare, cominciò a farsi strada l’idea che la modificabilità cerebrale non
fosse poi un concetto così assurdo. Ma prima che gli scienziati cominciassero a utilizzare con
disinvoltura il termine di “plasticità cerebrale” ci vollero ancora diversi anni. Finalmente, alle
soglie del terzo millennio, si è confermato una volta per tutte che il sistema nervoso è in
grado di modificare la propria struttura in risposta sia agli stimoli provenienti
dall’organismo sia a quelli provenienti dall’ambiente esterno
.
La neuroplasticità
La plasticità cerebrale è il risultato di due fenomeni, lo sprouting e la neurogenesi. Il primo è un
termine inglese che significa gemmazione o germogliazione e si riferisce allo sviluppo di nuove
connessioni sinaptiche tra i neuroni; il secondo, invece, implica la possibilità che si possano
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formare nuove cellule nervose o che quelle silenti possano diventare attive. La scoperta più
interessante degli ultimi anni è stata sicuramente la dimostrazione che il pensiero,
l’apprendimento e le esperienze di vita in genere sono in grado di apportare delle
modifiche strutturali al cervello agendo direttamente sull’espressione genica
.
Eric Kandel fu il primo a dimostrare che quando impariamo qualcosa di nuovo i nostri neuroni
modificano la loro struttura creando nuove connessioni sinaptiche: i cambiamenti a breve
termine avverrebbero semplicemente attraverso modificazioni biochimiche temporanee a livello
delle terminazioni sinaptiche, mentre i cambiamenti a lungo termine implicherebbero un
processo decisamente più complesso in cui la protein-chinasi A dal corpo della cellula
passerebbe all’interno del nucleo favorendo l’espressione di alcuni geni; i geni attivati
produrrebbero a loro volta altre proteine che, modificando la struttura, favorirebbero la crescita
di nuove connessioni sinaptiche.
Un’altra convinzione che è venuta modificandosi nel corso degli anni è l’idea che il cervello sia
organizzato in aree anatomiche altamente specializzate da un punto di vista funzionale e che
una lesione a tale aree porti inesorabilmente alla perdita della funzione sottostante. Sebbene
sia corretto pensare al cervello come a un organo complesso in cui le diverse funzioni cognitive,
motorie e percettive hanno delle sedi anatomiche preferenziali, la teoria locazionista di Broca e
Wernicke e quella modulare di Fodor, sono state rivisitate alla luce di una ipotesi di
funzionamento cerebrale che desse maggior risalto ai collegamenti tra le diverse aree piuttosto
che al funzionamento isolato di singole regioni cerebrali e degli ipotetici moduli sottostanti.
Negli ultimi decenni, lo sviluppo di nuove tecniche di imaging cerebrale ha dato enfasi a un
filone di ricerche orientato allo studio del recupero in pazienti con esiti di stroke e in pazienti con
glioma di grado lieve (LGG; WHO glioma di II grado). Gli studi hanno confermato come, in
entrambi i casi, sia possibile un buon recupero anche quando la lesione risulti estesa e interessi
aree cerebrali definite funzionalmente importanti.
Studi ormai datati condotti su animali avevano dimostrato che il recupero funzionale era
migliore in lesioni cerebrali lentamente ingravescenti che non in lesioni acute (2).
Durante la fase acuta che segue immediatamente lo stroke, si verificano cambiamenti passivi
non plastici che implicano una riperfusione dell’area interessata con seguente riduzione della
deplezione di ossigeno, risoluzione dell’edema, dei processi infiammatori e del fenomeno della
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diaschisi (3). Dopo la fase acuta postischemica, si verificano invece delle compensazioni
funzionali che dipendono dall’architettura della rete lesionata. La letteratura sui deficit motori e
linguistici sembra confermare un miglior recupero quando la riorganizzazione avviene
direttamente nelle aree adiacenti la zona infartuata. Se questo non è possibile perchè la
compromissione coinvolge una regione particolarmente estesa, la compensazione può avvenire
attraverso il reclutamento di aree omologhe dell’emisfero controlaterale ma il recupero risulterà
minore (4).
La TMS può essere utile in fase sub-acuta per inibire l’iperattivazione dell’emisfero
controlesionale e permettere a quello danneggiato di recuperare gradualmente la sua
funzionalità. Chollet e coll. (5) nel 1991, attraverso l’uso della PET, avevano osservato come in
un gruppo di sei pazienti con lesione capsulare il movimento dell’arto paretico fosse associato a
una attivazione bilaterale maggiore rispetto al movimento dell’arto sano. Ciò poteva dipendere
da una serie di fattori: la presenza di movimenti mirror nell’arto sano quando il soggetto
mostrava l’intenzione di muovere quello paretico, il reclutamento di aree ipsi e controlaterali
distanti da quella lesa come possibile soluzione quando l’entità del danno è tale da non
consentire la riorganizzazione della zona perilesionale e, infine, la soppressione dell’inibizione
transcallosale.
Nei pazienti con LGG in fase prechirurgica l’esame obiettivo neurologico può risultare del tutto
normale o solo lievemente compromesso (6). Le neuroimmagini evidenziano quattro
meccanismi neuroplastici differenti che si possono verificare secondo i casi:
1) il carattere infiltrante del LGG può far sì che la funzione sottostante l’area persista grazie a
un’attività intra-tumorale ancora presente;
2) aree cerebrali topiche per alcune funzioni cognitive, es. il linguaggio, possono “ridistribuirsi”
immediatamente nelle zone limitrofe al tessuto tumorale;
3) può crearsi una rete di collegamento tra diverse aree dell’emisfero leso per vicariare funzioni
altamente selettive, es. l’attivazione della SMA, dell’area premotoria e del lobo parietale
superiore durante compiti semplici di finger tapping quando il glioma ha invaso l’area motoria
primaria;
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4) può crearsi una rete di collegamento tra aree omologhe dell’emisfero sano.
Alcuni studi (7,8) hanno dimostrato come i suddetti quattro processi di riorganizzazione plastica
del cervello conseguenti a LGG avvengano in modo gerarchico: dapprima la riorganizzazione
interesserebbe le regioni colpite e le aree perilesionali per poi, se ciò non dovesse essere
sufficiente, passare in un secondo momento al reclutamento di aree lontane ipsi e
controlesionali, esattamente come succede nello stroke.
L’uso della stimolazione elettrica diretta (DES) in fase operatoria consente ai neurochirurghi di
stabilire esattamente la quantità di tessuto tumorale e peri-tumorale che è possibile rimuovere
minimizzando le conseguenze a livello di funzionalità cognitiva, motoria e somatosensoriale.
L’uso di questa tecnica ha confermato la ridistribuzione perilesionale della funzione sottostante
l’area invasa dal tumore.
Sebbene resti sottointeso che il cervello non è fatto di zone equipollenti in grado di compensare
qualunque tipo di disfunzione, possiamo però concludere, con relativa sicurezza, che non
esistono regioni totalmente indipendenti l’una dall’altra da un punto di vista funzionale e che
lesioni estese di aree importanti possono essere compensate attraverso una riorganizzazione
neurale in aree adiacenti o anche molto distanti.
Lesioni lentamente ingravescenti come nel caso del LGG o di altre malattie neurodegenerative
progressive, sembrano determinare conseguenze minori rispetto a lesioni a insorgenza acuta
come nello stroke. I malati di Parkinson, ad esempio, possono avere un periodo preclinico
asintomatico della durata di diversi anni fin quando non viene raggiunta una perdita di circa
l’80% delle cellule dopamimergiche della pars compacta della substantia nigra. Il fattore tempo,
oltre all’estensione della lesione, sembra giocare un ruolo cruciale nel determinare la capacità
del cervello di utilizzare la plasticità di cui è dotato: fenomeni degenerativi lenti e progressivi
sembrano favorire una migliore riorganizzazione neurale. L’ipotesi avanzata da alcuni è che
probabilmente le aree lesionate potrebbero avere il tempo sufficiente per “insegnare” nuove
competenze ad altre aree attraverso una fitta rete di circuiti diretti e indiretti (9).
Lo stesso processo di compensazione sembra verificarsi nell’invecchiamento normale: gli
anziani, infatti, per mantenere una certa efficienza a fronte dei processi degenerativi legati
all’età, devono reclutare reti neurali sempre più estese con coinvolgimento di entrambi gli
emisferi cerebrali (10).
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Implicazione per la riabilitazione
Da quanto suddetto possiamo dedurre che la plasticità cerebrale è un meccanismo evolutivo in
grado di bypassare le limitazioni imposte dal genoma permettendo l’adattamento alle pressioni
ambientali, ai cambiamenti fisiologici e alle esperienze in genere. Ma, se la plasticità è il
meccanismo alla base dello sviluppo e dell’apprendimento, purtroppo lo è anche per la
patologia. Ad esempio, uno studio condotto su un gruppo di chitarristi affetti da distonia della
mano sviluppata in seguito alla pratica professionale ha evidenziato come, rispetto ai controlli, i
pazienti mostrassero una maggiore attivazione della corteccia somatosensoriale primaria
controlaterale e una ipoattivazione bilaterale delle aree premotorie suggerendo un reclutamento
anomalo di aree corticali per il controllo dei movimenti volontari (11).
L’uso della Stimolazione Magnetica Transcranica ripetuta (rTMS) associato alla terapia
fisica sta dando buoni risultati nel trattamento di pazienti emiparetici post-stroke (12). In fase
acuta, l’ipereccitabilità dell’emisfero sano a discapito di quello leso ha come obiettivo ridurre la
richiesta di ossigeno e glucosio nella zona perilesionale nel tentativo di limitare l’estensione
della lesione. Terminata la fase acuta, l’outcome motorio migliore si verifica in presenza di uno
shift nell’interazione tra i due emisferi con il ripristino di una condizione di eccitabilità
nell’emisfero lesionato quando l’arto paretico viene mobilizzato; spesso però questa condizione
non si verifica limitando alquanto le possibilità di recupero funzionale. Diversi studi hanno ormai
confermato l’efficacia della rTMS in pazienti emiparetici se somministrata in fase
immediatamente post-acuta (1-2 mesi dopo lo stroke) (13).
Terapie fisiche come la Constraint - Induced Movement Therapy (CIMT) sono ugualmente in
grado di bilanciare l’eccitabilità neuronale tra i due emisferi favorendo un buon recupero motorio
(14). La tecnica consiste nell’immobilizzare l’arto sano con uno splint o un grosso guanto in
modo da obbligare il paziente a utilizzare al meglio delle sue possibilità l’arto paretico. È
sufficiente un trattamento giornaliero di 3 ore per due settimane per avere risultati significativi
rispetto al trattamento fisioterapico classico. Le sedute consistono in esercizi banali come
infilare dei pioli in dei buchi, spostare barattoli da uno scaffale all’altro, scoppiare delle bolle di
sapone ecc. con un incremento graduale della difficoltà. All’Università di Jena in Germania
hanno dimostrato che in seguito a un ictus, la mappa cerebrale dell’area motoria corrispondente
all’arto leso si restringe di circa la metà. Il trattamento con la CIMT è in grado di riportare a
dimensioni soddisfacenti l’area cerebrale colpita facendo perno sul meccanismo della
neuroplasticità: il tessuto adiacente perilesionale può assumere il controllo dell’area
compromessa con crescita di nuove sinapsi dando origine a una riorganizzazione cerebrale che
talvolta può arrivare a coinvolgere ampie regioni in modo trasversale.
L’uso costretto dell’arto malato impedisce che si verifichi il fenomeno del learned non use in
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base al quale ripetuti insuccessi nel muovere l’arto paretico in fase acuta e sub-acuta portano il
paziente a sviluppare schemi motori compensatori con l’arto sano perdendo progressivamente
la possibilità di recupero funzionale di quello paretico. Nonostante il “ricablaggio” cerebrale non
sia perfetto, soprattutto dopo lesioni estese, e i neuroni vicarianti siano meno efficaci degli
originali, i risultati ottenuti possono essere comunque molto incoraggianti anche in pazienti in
fase cronica da diversi anni.
Un altro esempio di plasticità cerebrale è offerto da una serie di studi condotti sui non vedenti
dalla nascita. Sadato e coll. (15) nel 1998 hanno dimostrato l’attivazione non solo della
corteccia motoria primaria durante la lettura Braille ma soprattutto di quella occipitale mediale
bilateralmente (aree 17) e delle regioni extrastriate. Hamilton e coll. (16) nel 2000 riferiscono il
caso di una paziente cieca che in seguito a uno stroke occipitale bilaterale non era più in grado
di leggere il Braille nonostante avesse mantenuto la capacità di discriminare al tatto gli stimoli:
semplicemente, i punti utilizzati per il Braille avevano perduto per lei ogni significato.
Pascual-Leone e coll. (17) nel 2001 hanno condotto un elegante studio su soggetti sani privati
totalmente della vista per 5 giorni. Al termine, tutti i soggetti sono stati sottoposti a mappatura
cerebrale con la TMS scoprendo che la loro corteccia visiva aveva già cominciato a elaborare
stimoli tattili e acustici in un così breve periodo di tempo. La rapidità nell’elaborare stimoli per i
quali la corteccia visiva non dovrebbe essere geneticamente predisposta, ha portato gli autori a
ipotizzare che, in condizione di deprivazione sensoriale, la riorganizzazione cerebrale possa
avvenire secondo i seguenti steps:
1) smascheramento di circuiti preesistenti che tendono a tornare immediatamente silenti nel
caso in cui si ripristini una condizione di normalità sensoriale;
2) sviluppo di nuovi percorsi che implicano la crescita di nuove sinapsi e di nuove connessioni
neurali in situazioni ambientali di cambiamento più prolungati nel tempo e più stabili.
Ruolo degli psicofarmaci e della psicoterapia sulla neuroplasticità
Recentemente è stato dimostrato l’effetto indotto dalla somministrazione cronica di alcuni
psicofarmaci sui fattori neurotrofici e sulla neurogenesi.
Tra i fattori neurotrofici particolare interesse è stato rivolto al Brain Derived Neurotrophic
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Factor (BDNF) presente soprattutto a livello dell’ippocampo e della corteccia frontale e implicato
nei processi di apprendimento e memoria e nei meccanismi di controllo del comportamento.
Tale fattore risulta ridotto in patologie quali la schizofrenia e il disturbo bipolare con perdita di
spine dendritiche e aumento della vulnerabilità neuronale. Il trattamento cronico con
antipsicotici di seconda generazione come la clozapina, olanzapina e la quetiapina si è
dimostrato in grado di normalizzare i livelli di BDNF in modelli animali (18). Questi e atri farmaci
come gli antidepressivi a base di fluoxetina e gli stabilizzatori dell’umore come il litio e l’acido
valproico sembrerebbero stimolare la neurogenesi e correggere le alterazioni morfofunzionali
osservate nell’ippocampo e nella corteccia frontale di pazienti con gravi patologie psichiatriche,
aumentando l’espressione dei fattori neurotrofici come il BDNF (19,20).
Ma la neuroplasticità può essere indotta anche dalla psicoterapia. A questo proposito,
dobbiamo ricordare che fu proprio Freud, grande neurofisiologo, il primo a suggerire che
l’apprendimento modifica le “barriere di contatto” tra le cellule nervose anticipando a quei tempi
i concetti di sinapsi, di neuroplasticità e il principio conosciuto come “legge di Hebb” secondo
cui i neuroni che si attivano contemporaneamente tendono a formare una rete che in futuro avrà
maggiori probabilità di attivarsi nuovamente in toto.
Nel 1998 Eric Kandel disse “la modificabilità dell’espressione genica dovuta all’apprendimento è
particolarmente efficace, tanto che ha portato a un nuovo tipo di evoluzione: l’evoluzione
culturale…” e ancora “la specie umana è molto più soggetta a mutamenti innescati
dall’evoluzione culturale che non da quella biologica…”. Sulla scia di queste affermazioni, la
psicoterapia, intesa come l’influenza esercitata dall’ambiente sul comportamento è a pieno titolo
una forma di apprendimento che, in quanto tale, è in grado di produrre modificabilità cerebrale.
Studi di follow-up effettuati soprattutto su soggetti affetti da depressione, DOC, fobie e disturbo
borderline di personalità sottoposti a psicoterapia cognitivo-comportamentale o dinamica hanno
evidenziato la normalizzazione di aree quali il talamo e le regioni frontali anche in assenza di
supporto farmacologico (21).
La psichiatra Susan Vaughan ha definito uno psicoterapeuta efficace come una sorta di
“microchirurgo della mente che agisce parlando ai neuroni e modificandone le connessioni” nel
tempo, in modo che stili di vita e di pensiero disfunzionali diventino più adattivi.
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Paola Perozzo
Casa di Cura “Madonna dei Boschi”, Buttigliera Alta (TO)
Centro Armonia, Alpignano (TO)
K. Tatu
Istituto “A. Adler”, Torino
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